3.Vivere in una società dei consumi

Decenni di crescita relativamente stabile in Europa hanno trasformato il nostro modo di vivere. Produciamo e consumiamo una quantità maggiore di beni e servizi. Viaggiamo di più e viviamo più a lungo. Tuttavia, l’impatto ambientale delle attività economiche, sia nel proprio paese che all’estero, è cresciuto e si è fatto più visibile. La normativa in materia di ambiente, se attuata integralmente, porta a risultati concreti. Eppure, visti i cambiamenti degli ultimi vent’anni, possiamo dire che stiamo facendo del nostro meglio? Quando Carlos Sánchez è nato, nel 1989, nell’area metropolitana di Madrid vivevano quasi 5 milioni di persone. La sua famiglia abitava in un appartamento con due camere da letto nel centro della città; non avevano l’automobile, ma possedevano una televisione. All’epoca non erano gli unici spagnoli a non avere l’auto. Nel 1992, sei anni dopo l’adesione all’Unione europea, nel paese c’erano 332 auto ogni 1.000 abitanti. Quasi due decenni dopo, nel 2009, 480 spagnoli su 1.000 possedevano un’autovettura, appena sopra la media dell’Unione europea. Quando Carlos aveva cinque anni, la famiglia Sánchez acquistò l’appartamento adiacente al proprio e lo unì al primo. Quando ne aveva otto, i suoi acquistarono la prima automobile, ma si trattava di una macchina usata.4

Società che invecchiano

Non sono solo i mezzi di trasporto a essere cambiati. Anche le nostre società sono diverse. Tranne poche eccezioni, il numero di figli per donna non è cambiato in modo significativo nei paesi dell’UE negli ultimi 20 anni. Nel 1992 le donne spagnole partorivano in media 1,32 figli e nel 2010 il dato era leggermente aumentato, arrivando a 1,39, ben al di sotto della soglia di sostituzione generalmente accettata di 2,1 figli per donna. Il tasso di fertilità complessivo nell’UE a 27 era intorno a 1,5 nel 2009. Eppure, la popolazione dell’Unione europea è in crescita, soprattutto per via dell’immigrazione. Inoltre, viviamo più a lungo e meglio. Nel 2006 l’aspettativa di vita alla nascita nell’UE era di 76 anni per gli uomini e di 82 per le donne. Alla fine di ottobre 2011, la popolazione mondiale ha raggiunto quota 7 miliardi. Malgrado il calo dei tassi di fertilità registrato negli ultimi due decenni, secondo le stime la popolazione mondiale continuerà a crescere fino a stabilizzarsi intorno ai 10 miliardi di abitanti nel 2100. Una tendenza al rialzo si riscontra anche nei tassi di urbanizzazione. Oltre la metà della popolazione mondiale vive oggi nelle aree urbane. Nell’UE, circa i tre quarti delle persone abitano in aree urbane. Gli effetti si vedono in molte città europee, inclusa Madrid. La popolazione dell’area metropolitana di Madrid ha raggiunto i 6,3 milioni nel 2011.

Tutto cresce

Negli ultimi due decenni, la Spagna, come molti altri paesi europei, ha conosciuto una crescita economica costante, un aumento dei redditi e, fino a poco tempo fa, quella che sembrava essere la soluzione reale al problema della disoccupazione nel paese. L’espansione economica è stata alimentata da prestiti prontamente disponibili, pubblici e privati, dall’abbondanza di materie prime e dall’afflusso di migranti dall’America centrale e meridionale e dall’Africa. Quando è nato Carlos, ad eccezione di qualche rete informatica interconnessa, Internet, così come lo conosciamo oggi, non esisteva. I telefoni cellulari erano poco diffusi, ingombranti da portare con sé e troppo costosi per la maggior parte delle persone. Nessuno aveva mai sentito parlare di comunità virtuali e social network. Per molte comunità nel mondo, «tecnologia» era sinonimo di approvvigionamento di energia elettrica sicuro. Il telefono era caro e non sempre accessibile. Le vacanze all’estero erano riservate a pochi privilegiati. Nonostante alcune fasi di rallentamento economico registrate negli ultimi 20 anni, l’Unione europea è cresciuta del 40%, con medie leggermente superiori nei paesi che hanno aderito nel 2004 e nel 2007. Nel caso della Spagna, lo sviluppo dell’edilizia legata al turismo ha costituito un motore di crescita particolarmente importante. In altri paesi europei, la crescita economica è stata innescata anche da altri settori, fra cui quello dei servizi e l’industria manifatturiera. Oggi, Carlos vive ancora nello stesso appartamento insieme ai genitori. Possiedono un’auto e un cellulare a testa. Lo stile di vita della famiglia Sánchez non è insolito per gli standard europei.

Un’impronta ecologica mondiale più elevata

L’impatto dell’Europa sull’ambiente è cresciuto di pari passo con la crescita economica in Europa e nel mondo. Il commercio ha svolto un ruolo fondamentale nel favorire la prosperità in Europa e nei paesi in via di sviluppo, così come nel diffondere l’impatto ambientale delle attività che svolgiamo. Nel 2008, in termini di peso, l’Unione europea importava sei volte più di quanto esportasse. La differenza è quasi interamente dovuta al volume elevato delle importazioni di carburante e prodotti minerari.5

 «Per produrre gli alimenti di cui ci nutriamo ricorriamo a concimi e pesticidi derivati dal petrolio; quasi tutti i materiali da costruzione che usiamo — cemento, plastiche eccetera — sono derivati dai combustibili fossili, così come la stragrande maggioranza dei farmaci con cui ci curiamo; gli abiti che indossiamo sono, in massima parte, realizzati con fibre sintetiche petrolchimiche; trasporti, riscaldamento, energia elettrica e illuminazione dipendono quasi totalmente dai combustibili fossili. Abbiamo costruito un’intera civiltà sulla riesumazione dei depositi del periodo carbonifero. […] Le future generazioni, quelle  che vivranno fra cinquantamila anni, […] probabilmente ci battezzeranno “popolo dei combustibili fossili” e chiameranno la nostra epoca Età del carbonio, così come noi ci riferiamo a epoche passate come all’Età del ferro o all’Età del bronzo».

Jeremy Rifkin, presidente di Fondazione sulle Tendenze Economiche e consulente dell’Unione europea. Estratto dal libro «La terza rivoluzione industriale».

La politica funziona, quando è ben studiata e ben attuata

La crescente consapevolezza globale della necessità urgente di affrontare le questioni ambientali è nata assai prima del vertice della terra di Rio del 1992. La normativa dell’UE in materia di ambiente risale ai primi anni settanta e l’esperienza maturata da allora dimostra che, attuate in modo appropriato, le norme ambientali ripagano gli sforzi. Ad esempio, la direttiva uccelli (1979) e la direttiva habitat (1992) dell’UE forniscono un quadro giuridico per le aree protette dell’Europa. L’Unione europea include oggi nella rete di protezione della natura denominata «Natura 2000» più del 17% della sua superficie sulla terraferma e un’area marina di oltre 160.000 km2. Benché molte specie e molti habitat europei siano ancora minacciati, «Natura 2000» rappresenta un passo fondamentale nella giusta direzione. Anche altre politiche ambientali hanno avuto un impatto positivo sull’ambiente europeo. La qualità dell’aria ambiente è generalmente migliorata nel corso degli ultimi due decenni. Tuttavia, l’inquinamento atmosferico a grande distanza e alcuni inquinanti atmosferici emessi su scala locale continuano a danneggiare la nostra salute. Anche la qualità delle acque europee è migliorata in maniera significativa grazie alla normativa UE, ma la maggior parte degli inquinanti emessi nell’aria, nell’acqua e nel terreno non svanisce facilmente. Al contrario, si accumulano. L’Unione europea ha inoltre iniziato a tagliare il filo che unisce la crescita economica alle emissioni di gas a effetto serra. Le emissioni globali, tuttavia, continuano a crescere, contribuendo alla concentrazione di biossido di carbonio nell’atmosfera e negli oceani. Una tendenza analoga si riscontra nell’uso dei materiali. L’economia europea produce di più con meno risorse. Eppure, continuiamo comunque a utilizzare molte più risorse di quante la massa terrestre e i mari europei non possano fornirci. L’UE continua a generare ingenti quantità di rifiuti ma la quota avviata al riciclaggio e al reimpiego è in aumento. Purtroppo, quando si tenta di affrontare una problematica ambientale, ci si rende conto che in questo settore i problemi non possono essere considerati separatamente e uno per volta. Devono essere integrati all’interno delle politiche economiche, della pianificazione urbana, della politica della pesca e di quella agricola e così via. L’estrazione dell’acqua, ad esempio, compromette la qualità e la quantità dell’acqua alla fonte e a valle. Poiché la quantità d’acqua alla fonte diminuisce a causa di una maggiore estrazione, gli inquinanti emessi nell’acqua risultano meno diluiti e producono un impatto negativo più ampio sulle specie dipendenti da quel corpo idrico. Per pianificare e ottenere un miglioramento significativo della qualità delle risorse idriche, tanto per cominciare dobbiamo chiederci per quale ragione preleviamo l’acqua. 6

Cambiare passo dopo passo

Malgrado le nostre lacune conoscitive, le tendenze ambientali oggi in atto sollecitano un intervento immediato e decisivo  che chiami in causa responsabili politici, imprese e cittadini. In assenza di cambiamenti, la deforestazione globale  continuerà a un ritmo serrato e la temperatura media potrebbe aumentare di ben 6,4 °C a livello mondiale entro la fine del secolo. Nelle isole dai fondali bassi e lungo le zone costiere, l’innalzamento del livello del mare metterà a rischio una delle nostre risorse più preziose, la terra. I negoziati internazionali spesso durano anni prima di concludersi e di giungere

ad attuazione. Quando viene attuata integralmente, una normativa nazionale ben studiata funziona ma è limitata dai confini geopolitici. Molte questioni ambientali non sono circoscritte entro i confini nazionali. In ultima analisi, potremmo tutti percepire l’impatto della deforestazione, dell’inquinamento atmosferico o dello sversamento dei rifiuti in mare. Le tendenze e i comportamenti possono cambiare, un passo alla volta. Abbiamo una buona conoscenza di ciò che eravamo

20 anni fa e di ciò a cui siamo arrivati oggi. Possiamo non avere un’unica soluzione miracolosa che consenta di risolvere

tutti i problemi ambientali all’istante, ma abbiamo un’idea, anzi una serie di idee, di strumenti e di politiche, in grado di aiutarci a trasformare la nostra economia in un’economia verde. L’opportunità di costruire un futuro sostenibile nei prossimi 20 anni è pronta per essere colta.7

Cogliere l’opportunità

Cogliere o non cogliere l’opportunità che abbiamo davanti dipende dalla nostra consapevolezza comune. Possiamo imprimere lo slancio necessario a trasformare il nostro modo di vivere solo se capiamo qual è la posta in gioco. La consapevolezza cresce, ma non sempre basta. L’insicurezza economica, la paura della disoccupazione e le preoccupazioni per la salute sembrano dominare i nostri pensieri nel quotidiano. La situazione non è diversa per Carlos o per i suoi amici, soprattutto se consideriamo le turbolenze economiche in Europa. Fra le preoccupazioni per i suoi studi in biologia e le sue prospettive di carriera, Carlos non sa dire quanto la sua generazione sia consapevole dei problemi ambientali dell’Europa e del mondo. Tuttavia, abitando in città, riconosce che la generazione di suo padre e di sua madre

aveva un legame più stretto con la natura, perché nella maggior parte delle famiglie almeno uno dei genitori era cresciuto in campagna. Anche dopo essersi trasferiti in città per lavorare, conservavano una relazione più intima con la natura. Forse Carlos non avrà mai un simile legame con la natura, ma è felice di poter fare qualcosa: raggiungere l’università in bicicletta. Ha persino convinto suo padre a fare lo stesso per andare al lavoro. La verità è che l’insicurezza economica, la salute, la qualità della vita e persino la lotta alla disoccupazione dipendono tutte dal fatto di avere un pianeta sano. Il rapido esaurimento delle nostre risorse naturali e la distruzione di ecosistemi che tanto ci offrono difficilmente garantiranno a Carlos o alla sua generazione un futuro sicuro e sano. Un’economia verde e a basse emissioni di carbonio resta l’opzione migliore e più praticabile per garantire la prosperità economica e sociale a lungo termine.

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

 

2. Il cammino verso la sostenibilità globale

È stata la conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano, tenutasi a Stoccolma nel 1972, a fornire alla comunità internazionale la prima occasione di incontro, con l’obiettivo di considerare come un tutt’uno le esigenze globali in materia di ambiente e di sviluppo. Il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), che nel 2012 celebrerà il suo 40º anniversario, è stato istituito alla conclusione di tale conferenza, al cui termine sono stati introdotti per la prima volta anche i ministeri dell’Ambiente di molti paesi del mondo. Lo sviluppo sostenibile assume svariati significati per le diverse persone. Tuttavia, a segnare una svolta è una definizione del 1987, secondo cui lo sviluppo sostenibile è «uno sviluppo che risponde alle esigenze del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie» (relazione della commissione Brundtland intitolata «Il nostro futuro comune»). Tali «esigenze» non comprendono soltanto gli interessi economici, ma anche i fondamenti ambientali e sociali su cui poggia la prosperità globale. Nel giugno 1992, i responsabili politici di 172 paesi si sono riuniti a Rio de Janeiro in occasione della conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo. Il loro messaggio era chiaro: «modificare i nostri atteggiamenti e i nostri comportamenti è l’unico modo per realizzare i cambiamenti necessari». Il vertice del 1992 è stato decisivo nel proiettare stabilmente sulla scena pubblica i problemi dell’ambiente e dello sviluppo. Il vertice della terra ha gettato le basi per numerosi e importanti accordi internazionali in materia di ambiente:

• l’Agenda 21, un piano d’azione per lo sviluppo sostenibile,

• la dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo,

• la dichiarazione sui principi concernenti le foreste,

• la convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico,

• la convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica,

• la convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione.

A vent’anni esatti dallo storico vertice di Rio, il mondo torna ancora una volta a confrontarsi e a decidere su come procedere. Quello del 2012 sarà il quarto vertice della terra e rappresenterà un’altra pietra miliare negli sforzi messi in campo dalla comunità internazionale per la realizzazione dello sviluppo sostenibile. L’economia verde e la governance globale in materia di ambiente sono in cima all’agenda.1

«Parlo per più della metà della popolazione mondiale. Siamo la maggioranza silenziosa. Ci avete dato un posto a sedere in questa sala, ma i nostri interessi non sono sul tavolo. Cosa si deve fare per poter partecipare a questo gioco? Bisogna appartenere a una lobby? Essere un’azienda potente? Avere denaro? È da quando sono nata che non fate altro che negoziare. Per tutto questo tempo, avete disatteso gli impegni, avete mancato gli obiettivi e avete infranto le vostre promesse».

Anjali Appadurai, studentessa presso il College of the Atlantic, parla a nome delle organizzazioni non governative giovanili il 9 dicembre 2011 a Durban (Sud Africa)

Giornata conclusiva della conferenza delle Nazioni Unite sul clima2

Non esiste una via facile e veloce per raggiungere la sostenibilità. La transizione richiede uno sforzo collettivo da parte dei responsabili politici, delle aziende e dei cittadini. In alcuni casi, i responsabili politici devono fornire incentivi per promuovere l’innovazione oppure offrire un sostegno alle aziende che rispettano l’ambiente. Altre volte, i consumatori possono essere chiamati a sostenere costi aggiuntivi derivanti da processi produttivi più sostenibili. Potrebbero persino dover diventare più esigenti nei confronti dei produttori dei loro marchi preferiti oppure scegliere prodotti più sostenibili. Le aziende potrebbero dover sviluppare processi produttivi puliti ed esportarli in tutto il mondo.

A problemi complessi, soluzioni complesse

La complessità delle nostre strutture decisionali globali rispecchia la complessità che si riscontra nell’ambiente. Trovare il

giusto equilibrio tra le leggi, le iniziative del settore privato e le scelte dei consumatori è un’impresa ardua. Altrettanto lo è

individuare il «giusto livello» su cui puntare, tra quello locale e quello globale. La politica ambientale diventa più efficace

se viene definita e attuata su diverse scale e il «giusto livello» varia a seconda del problema. Consideriamo la gestione

del patrimonio idrico. L’acqua dolce è una risorsa locale esposta a pressioni globali. Nei Paesi Bassi, ad esempio, la gestione delle risorse idriche è affidata agli enti locali ma è soggetta alla normativa nazionale ed europea. La gestione delle risorse idriche nei Paesi Bassi non deve solo affrontare le problematiche locali e guardare a quanto accade nei paesi a monte. Secondo le previsioni, il surriscaldamento del pianeta provocherà l’innalzamento del livello dei mari, il che

significa che gli enti responsabili della gestione delle risorse idriche nei Paesi Bassi devono iniziare a pianificare in base

ad esse. Le politiche e le istituzioni mondiali esistenti, incluso l’UNEP, sono nate, nella maggior parte dei casi, perché le soluzioni individuate a livello locale o nazionale non erano in grado di far fronte ai problemi e da un coordinamento globale o internazionale si attendevano risultati migliori. L’UNEP è stato istituito a seguito della conferenza di Stoccolma perché i partecipanti erano concordi nel ritenere che alcune tematiche ambientali avrebbero trovato una risposta migliore a livello globale. 3

Estratto della dichiarazione di Rio sull’Ambiente e lo Sviluppo

Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo, 3–14 giugno 1992, Rio de Janeiro, Brasile

Principio 1

Gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto a una vita sana e produttiva in armonia con la natura.

Principio 2

Conformemente alla Carta delle Nazioni Unite e ai principi del diritto internazionale, gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le proprie risorse secondo le loro politiche ambientali e di sviluppo e hanno il dovere di assicurare che le attività sottoposte alla loro giurisdizione o al loro controllo non causino danni all’ambiente di altri Stati o di zone situate oltre i limiti della giurisdizione nazionale.

Principio 3

Il diritto allo sviluppo deve essere realizzato in modo da soddisfare equamente le esigenze relative allo sviluppo e ambientali delle generazioni presenti e future.

Principio 4

Al fine di pervenire a uno sviluppo sostenibile, la tutela dell’ambiente costituirà parte integrante del processo di sviluppo e non potrà essere considerata separatamente da questo.

Principio 5

Tutti gli Stati e le persone coopereranno al compito essenziale di eliminare la povertà, come requisito indispensabile per lo sviluppo sostenibile, al fine di ridurre le disparità tra i tenori di vita e soddisfare meglio i bisogni della maggioranza delle popolazioni del mondo.

 

Impegno rinnovato cercasi

Oggi il commercio globale fa sì che molti di noi possano mangiare pomodori e banane tutto l’anno e usufruire di prodotti che riuniscono insieme componenti provenienti da tutto il mondo. Una simile connettività offre numerosi vantaggi ma può comportare anche alcuni rischi. L’inquinamento provocato da un’altra persona può andare a finire nel giardino di casa nostra. Ciò significa che non possiamo ignorare le nostre responsabilità nella tutela di un ambiente globale. La convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCCC) rappresenta una delle conquiste del vertice della terra di Rio del 1992. Il suo obiettivo è stabilizzare le emissioni di gas a effetto serra, che contribuiscono al cambiamento climatico. Il successo di numerosi accordi internazionali, fra cui l’UNFCCC, dipende dalla partecipazione dei soggetti interessati. Purtroppo, se ad assumersi l’impegno sarà soltanto un numero ristretto di paesi, difficilmente ciò sarà sufficiente a proteggere l’ambiente, anche qualora i pochi aderenti rispondessero appieno ai principi dell’economia verde. Il vertice di quest’anno offre l’opportunità di rinnovare l’impegno globale per la sostenibilità. Come cittadini, consumatori, scienziati, imprenditori, responsabili politici, noi tutti dobbiamo assumerci la responsabilità delle nostre azioni, e delle nostre inazioni.

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

 

Il 1978 è stato l’anno più felice per l’umanità

Sulla base dell’indicatore di vero progresso (GPI) una ricerca di economisti ecologici mostra che dopo gli anni ’70 è aumentato il PIL, ma non la qualità della vitaGPI-commentato-586x316

Secondo uno studio anglo-americano-australiano pubblicato su Ecological Economicsil migliore anno della nostra vita è stato il 1978, e mi dispiace per voi se non eravate ancora nati (personalmente sono grato per averlo vissuto, e alla grande …). I ricercatori hanno confrontato la consueta misura del PIL in cui tutte le attività economiche vengono sommate alla rinfusa, con il più rigoroso GPI (Genuine Progress Indicator), in cui alle singole attività  viene assegnato un segno più o un segno meno in base al fatto che esse aumentino o diminuiscano la qualità della nostra vita. Hanno ad esempio un segno meno il comparto degli armamenti, le spese processuali, il crimine, le spese sanitarie per inquinamento, le ore perse nel traffico, gli interventi di bonifica ambientale. Tutte queste attività non vengono sommate, ma sottratte dal PIL. Hanno invece un segno più attività normalmente non considerate perché non retribuite come la cura dei parenti o il volontariato.

I ricercatori hanno analizzato il GPI di ben 17 nazioni che rappresentano il 53% della popolazione mondiale e il 59% del PIL. Mentre quest’ultimo è in crescita costante a partire dagli anni ‘50, il GPI pro capite è aumentato fin verso la fine degli anni ‘70 per poi lentamente diminuire. L’anno del picco è stato appunto il 1978, più o meno nello stesso periodo in cui l’impronta ecologica ha superato la biocapacità del pianeta.

In pratica, nonostante le grandi innovazioni tecnologiche degli ultimi 40 anni,i costi ambientali e sociali hanno superato la crescita della ricchezza monetaria. Afferma Robert Costanza, uno degli autori:

“Non stiamo realizzando profitto sociale. In particolare, le crescenti diseguaglianze di reddito e il degrado ambientale sono i maggiori fattori che spingono il GPI verso il basso.”

Secondo i ricercatori il GPI pro capite cresce fino a che il PIL pro capite arriva a 7000 $ all’anno ($ 2005), dopo di che inizia leggermente a scendere. Detto altrimenti la ricchezza ulteriore non ci fa vivere meglio. Il GPI non è certo un indicatore perfetto, ma sicuramente è un’approssimazione assai migliore rispetto al PIL. Lo stato del Maryland ha iniziato a tenere in considerazione il GPI nella sua attività di pianificazione economica ed altri stati USA ci stanno pensando. Potrebbe esse l’inizio della fine dell’assurda dittatura del PIL.

Fonte: ecoblog

The Human Scale, le città che abbiamo modellato ora modellano noi

Un documentario tecnicamente e contenutisticamente ineccepibile che (di)mostra come la vita di più della metà della popolazione mondiale sia condizionata dalla struttura delle città

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Dal 2010 più della metà della popolazione mondiale vive in aree urbane un numero destinato a salire fino all’80% entro il 2050. Ma l’umanità è pronta ad affrontare questa concentrazione? E, soprattutto, come questa concentrazione e la conformazione urbanistica del territorio condizionano la vita delle persone?

Il documentario The Human Scale diretto dal danese Andreas M. Dalsgaard ha una guida d’eccezione, l’architetto Jan Gehl, che da più di quarant’anni studia l’evoluzione del comportamento umano cittadino. Il film è diviso in cinque capitoli ed è un affascinante trattato di sociologia che sconfina nell’urbanistica e nella filosofia.

1) Prima noi formiamo le città, poi sono loro a dare una forma a noi.

L’esempio sono le nuove metropoli cinesi. Negli ultimi 25 anni l’abbandono delle campagne e la concentrazione nelle città ha fatto sviluppare in maniera esponenziale le città della Cina, facendo cambiare le abitudini dei suoi abitanti. Gli hutong, gli stretti vicoli commerciali sono stati spazzati via dalle grandi vie di comunicazione, privando la popolazione dei luoghi di ritrovo deputati allo sviluppo della socialità. Inoltre lo sviluppo orizzontale ha moltiplicato in maniera esponenziale il fenomeno del pendolarismo, erodendo il tempo libero e le possibilità di incontro. Invece di favorire la socialità, le città la annichiliscono.

2)  Misuri solo ciò che ti interessa.

Per buona parte del Novecento l’urbanistica ha pensato le città in funzione delle automobili, ma alla fine del secolo scorso qualcosa è cambiato. Copenaghen, per esempio, ha rivoluzionato la propria struttura urbana pedonalizzando le vie del centro storico e aprendo numerose piste ciclabili. Che cosa è successo? La pedonalizzazione e la ciclabilità, la creazione di piazze per le persone e non per le auto hanno creato occasioni di incontro sviluppando la vita pubblica, una cittadinanza matura e una mobilità orientata sulla bicicletta (il 35% degli spostamenti avviene in bicicletta e il 24% con mezzi motorizzati). È un caso che Copenaghen sia sempre in testa a tutte le classifiche sulle capitali più vivibili del mondo? La stessa trasformazione è avvenuta a New York, metropoli che per un secolo è stata costruita solo e soltanto in un’ottica motoristica e che ha iniziato a cambiare quando l’amministrazione ha deciso di pedonalizzare alcuni tratti di Broadway e di allestire piste ciclabili. Risultato? Il 74% della popolazione si è detta contenta dei cambiamenti e gli incidenti stradali sono diminuiti del 63%.

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3)  Come fare di più con meno.

Siena è la città ideale. Tutte le città costruite per spostamenti a 5 km/h (pedonali) permettono di percepire odori, dettagli e sensazioni che non si possono cogliere viaggiando a 60 km/h. Queste esperienze, ripetute quotidianamente nel corso della nostra vita, hanno un’incidenza fortissima sulla qualità della vita. Nel 2050 la popolazione urbana toccherà i 6,5 miliardi di persone e a quell’appuntamento bisognerà arrivarci con una nuova visione. Negli ultimi decenni un miliardo di cinesi ha abbandonato le campagne per insediarsi nelle città, una trasformazione radicale della quale solo ora qualcuno inizia a pentirsi. In questo periodo di crisi non abbiamo né il tempo, né le risorse economiche per allestire le infrastrutture in grado di far funzionare le Gigacittà da 50 milioni di abitanti del futuro. Bisogna, dunque, imparare a fare di più con meno, come a Melbourne, per esempio, dove i vicoli malfamati dove vent’anni fa c’erano soltanto bidoni della spazzatura, ora sono diventati luoghi di ritrovo e di locali trendy. 

4) Cammini verso il caos che tu stesso hai creato.

Continuare a costruire le città con le logiche motoristiche del XX° secolo è insostenibile. L’esempio è Dacca, città che, ogni anno, accoglie mezzo milione di nuovi abitanti, con problemi di sovrappopolazione dovuti a una crescita non controllata. E imbottigliamenti nel traffico che sembrano gironi danteschi.

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5) Costa poco essere gentili con gli altri.

L’ultimo capitolo dimostra come una pianificazione partecipata e un’amministrazione capace di ascoltare le esigenze della propria cittadinanza possano cambiare la vita delle persone. L’esempio è Christchurch, cittadina distrutta da un terremoto e successivamente ricostruita ascoltando i suggerimenti dei suoi abitanti e… della natura. Gli edifici alti al massimo sei piani sono progettati per motivi di sicurezza ma favoriscono maggiormente la socialità. Questo perché più i palazzi sono alti, maggiori sono gli ostacoli alla socializzazione. Un documentario magnifico del quale potete gustare un’anteprima sul sito ufficiale. Prima di studiare cinema il regista Andreas M. Dalsgaard si è laureato in antropologia sociale e dopo aver visto The Human Scale non abbiamo dubbi che i suoi voti fossero molto, ma molto alti.

Fonte:ecoblog