I governi intraprendono azioni per affrontare l’inquinamento in ogni fase, dall’estrazione, produzione, uso e smaltimento alla bonifica. Von Hernandez, coordinatore globale, Break Free From Plastic: “Questa decisione fondamentale pone le basi per un approccio all-inclusive per risolvere la crisi dell’inquinamento da plastica”
Il mandato “Fine dell’inquinamento da plastica: verso uno strumento internazionale legalmente vincolante“, pone le basi per la negoziazione da parte dei governi di un trattato completo e giuridicamente vincolante che riguarderà le misure lungo l’intero ciclo di vita della plastica. Il mandato servirà a guidare lo sviluppo del trattato stesso, che un Comitato di negoziazione internazionale (INC) avrà il compito di redigere nei prossimi due anni.
Oltre a gettare le basi per un trattato legalmente vincolante che consideri l’intero ciclo di vita della plastica, dall’estrazione di combustibili fossili, alla produzione e al consumo di plastica, ai rifiuti post-consumo, il mandato stabilisce anche un ampio campo di applicazione per il trattato globale da coprire tutto l’inquinamento da plastica in qualsiasi ambiente o ecosistema, che va oltre i precedenti concetti di “plastica marina” che sarebbero stati insufficienti per affrontare la vera portata della crisi della plastica.
L’inquinamento da plastica non si ferma alle frontiere. Le particelle di plastica tossiche esistono nell’acqua che beviamo, nell’aria che respiriamo e nelle parti più remote del pianeta. Particelle microplastiche sono state osservate anche nella placenta umana materna. La plastica rilascia anche sostanze chimiche pericolose che possono danneggiare la salute umana, tra cui l’interruzione del sistema endocrino, problemi riproduttivi e una serie di impatti potenzialmente letali. Ogni anno vengono prodotte oltre 460 milioni di tonnellate di plastica e il 99% della plastica è prodotta da combustibili fossili. Ciò significa che affrontare la crisi della plastica alla fonte, ovvero la produzione di plastica, è anche un elemento importante per affrontare la crisi climatica.
Un recente sondaggio globale ha rivelato che il 75% delle persone desidera che la plastica monouso venga bandita il prima possibile per tutti questi motivi e altro ancora. Un trattato globale sulla plastica rappresenterebbe un punto di svolta nella lotta all’inquinamento da plastica, come richiesto da oltre un milione di persone in tutto il mondo che hanno presentato una petizione ai delegati del governo prima dell’incontro di Nairobi. Questa dimostrazione di sostegno pubblico è supportata anche da 450 esperti scientifici, 1.000 organizzazioni della società civile e 70 imprese.
Sfortunatamente, i negoziati per un trattato forte che copra l’intero ciclo di vita della plastica stanno anche affrontando la resistenza delle aziende petrolchimiche e di combustibili fossili che si oppongono alle proposte di limitare la produzione di plastica, che è destinata a raddoppiare nei prossimi due decenni.
“Questa decisione fondamentale pone le basi per un approccio all-inclusive per risolvere la crisi dell’inquinamento da plastica“, ha affermato Von Hernandez, coordinatore globale, Break Free From Plastic. “Ricevere il riconoscimento che questo problema deve essere affrontato lungo l’intera catena del valore della plastica è una vittoria per i gruppi e le comunità che da anni si confrontano con le trasgressioni e le false narrazioni dell’industria della plastica. Il movimento #breakfreefromplastic è pronto a contribuire in modo significativo a questo processo e contribuire a garantire che il trattato risultante preverrà e fermerà davvero l’inquinamento da plastica”.
Ove applicato, il deposito cauzionale per gli imballaggi monouso per bevande ha portato ottimi risultati. È per questo che una cordata di associazioni ha rivolto un appello ai ministeri competenti affinché anche l’Italia – secondo maggior inquinatore di plastica nel Mediterraneo – punti su questo sistema ricco di vantaggi per l’economia e per l’ambiente.
Al fine di accelerare la transizione verso un’economia circolare e facilitare il raggiungimento degli obiettivi europei in materia di raccolta e riciclo, l’Associazione nazionale dei Comuni Virtuosi insieme a: A Sud Onlus, Altroconsumo, Greenpeace, Kyoto Club, LAV, Legambiente, Lipu-Bird Life Italia, Oxfam, Marevivo, Pro Natura, Slow Food Italia, Touring Club Italiano, WWF e Zero Waste Italy, chiede l’introduzione di un efficiente sistema di deposito cauzionale per gli imballaggi per bevande monouso in Italia.
Come sta avvenendo in molti Paesi europei, dal luglio scorso anche in Italia viene discussa l’introduzione di un sistema di deposito cauzionale per gli imballaggi monouso per bevande (in plastica, alluminio e vetro). Il dibattito nasce dall’esigenza di raggiungere gli ambiziosi obiettivi europei imposti dal pacchetto economia circolare e in particolare dalla direttiva sulla plastica monouso – SUP, con lo scopo di ridurre la dispersione delle plastiche nell’ambiente e gli effetti dannosi correlati che colpiscono la biodiversità.
La direttiva SUP impone un tasso di raccolta del 90% per le bottiglie di plastica per bevande entro il 2029 (con un obiettivo di raccolta intermedio del 77% entro il 2025) e un minimo del 25% di plastica riciclata nelle bottiglie in PET dal 2025 (30% dal 2030 in tutte le bottiglie in plastica per bevande). Questi obiettivi sono raggiungibili unicamente attraverso l’introduzione di un sistema di deposito cauzionale, unico modello di raccolta selettiva al mondo capace di raggiungere tassi di intercettazione e riciclo così elevati con benefici ambientali ed economici.
L’appello
Per questo motivo un fronte di quindici Organizzazioni no profit nazionali che condividono l’obiettivo di preservare la natura, combattere la dispersione dei rifiuti nell’ambiente e favorire la transizione ecologica si è unito per rivolgere un appello al Governo e alle istituzioni, all’industria e alla società civile per accelerare un processo decisionale che porti anche in Italia all’introduzione di un sistema cauzionale efficace ed efficiente.
Un fronte trasversale ai portatori di interesse si è già espresso a livello europeo a favore dei sistemi cauzionali. Organizzazioni come Natural Mineral Waters Europe (NMWE), UNESDA Soft Drinks Europe e Zero Waste Europe (ZWE) hanno recentemente sollecitato l’Unione Europea a riconoscere il ruolo chiave dei sistemi di deposito cauzionale nel facilitare la transizione verso un’economia circolare, richiedendo di inserire nella revisione della direttiva UE sugli imballaggi e i rifiuti da imballaggio delle linee guida che contengano i “requisiti minimi” per lo sviluppo di sistemi di deposito cauzionali efficaci.
Come funziona un sistema di deposito cauzionale (deposit return systems – DRS)
L’interesse nei confronti di tali sistemi è cresciuto enormemente negli ultimi anni anche a livello globale: attualmente 291 milioni di persone al mondo hanno accesso a sistemi di deposito per il riciclo e questo numero aumenterà di altri 207 milioni entro la fine del 2023.
Il sistema di deposito massimizza la raccolta selettiva degli imballaggi per bevande incentivando la partecipazione dei consumatori attraverso il pagamento di una cauzione che viene aggiunta al prezzo di vendita del prodotto (in Europa solitamente tra i 10 ed i 25 centesimi di euro), la quale viene restituita nella sua totalità al momento del conferimento dell’imballaggio vuoto da parte del consumatore. I sistemi DRS sono attivi in dieci Paesi europei (Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Islanda, Lituania, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia) e raggiungono tassi di intercettazione e riciclo che superano il 90%. Ulteriori tredici Paesi si stanno accingendo ad introdurre il deposito nei prossimi quattro anni.
Perché l’Italia ha bisogno di un sistema di deposito cauzionale
Con i suoi quasi ottomila chilometri di coste l’Italia è, dopo l’Egitto e prima della Turchia, il maggior responsabile di sversamento di rifiuti plastici nel Mediterraneo. Un sistema di deposito cauzionale sugli imballaggi per bevande permetterebbe al paese di ridurre sensibilmente l’inquinamento ambientale, di raggiungere gli ambiziosi obiettivi europei in materia di raccolta e riciclo prima citati, e di favorire il perseguimento di obiettivi di riuso per una reale transizione verso un’economia più circolare. Secondo un recente studio di Reloop Platform, in Italia oltre 7 miliardi di contenitori per bevande sfuggono al riciclo ogni anno, uno spreco che potrebbe essere ridotto del 75-80% attraverso l’introduzione di un sistema di deposito efficiente. Inoltre, l’attuale sistema di raccolta differenziata del PET permette un’intercettazione solo del 58%, ben lontano dall’obiettivo del 90% imposto dalla direttiva SUP.
Nel decreto Semplificazioni del luglio 2021 è stato inserito uno specifico emendamento che apre all’introduzione di un sistema di deposito anche in Italia. Il Ministero della transizione ecologica in collaborazione con il Ministero dello sviluppo economico si trovano adesso a dover redigere i decreti attuativi per l’introduzione di tal sistema.
Auspichiamo dunque che i ministeri competenti nel definire le caratteristiche di un sistema di deposito nazionale vogliano ispirarsi alle esperienze europee di maggiore successo che vedono sistemi cauzionali di portata nazionale, obbligatori per i produttori di bevande e che coprono tutte le tipologie di bevande nelle diverse dimensioni commercializzate in bottiglie di plastica, vetro e lattine.
Trattasi di sistemi cauzionali regolati e gestiti da un ente no profit formato e finanziato dai produttori di bevande che opera in modo da raggiungere gli ambiziosi obiettivi di raccolta e riciclo stabiliti dal Governo organizzando un modello di raccolta conveniente e facilmente accessibile dai consumatori in cui l’importo della cauzione è un elemento chiave per raggiungere e mantenere tali obiettivi.
I vantaggi
I vantaggi dei sistemi di deposito in breve
I sistemi di deposito cauzionale europei raggiungono tassi di raccolta degli imballaggi per bevande del 94%, contro una media del 47% nei paesi che non adottano tali sistemi.
I sistemi DRS permettono il raggiungimento degli obiettivi di raccolta e di contenuto riciclato minimo previsti dalla direttiva SUP, favoriscono il raggiungimento di ulteriori obiettivi legati al riciclo degli imballaggi ed alla diminuzione di conferimento di rifiuti in discarica.
Stimolando il consumatore a partecipare al processo di raccolta attraverso un incentivo monetario, trasformando il rifiuto in risorsa favorendo un cambio culturale nell’ottica di un’economia circolare. Inoltre, tali sistemi rappresentano una chiara applicazione del principio “chi inquina, paga”.
I sistemi DRS riducono l’inquinamento e la dispersione di imballaggi nell’ambiente. In Germania, l’introduzione del sistema di deposito nel 2003 ha avuto un effetto positivo immediato sul fenomeno del littering: le bottiglie e le lattine sono scomparse dai parchi, dai luoghi pubblici e dalla natura praticamente da un giorno all’altro. Oggi, il 98,5% dei contenitori per bevande viene conferito nel modo corretto.
I sistemi di deposito riducono i costi per le autorità locali, responsabili di dover rimuovere i rifiuti dispersi nell’ambiente, creando vantaggi socioeconomici per le comunità e per diverse industrie, tra cui quella del turismo e dello sport.
Sondaggi europei dimostrano che i cittadini sono favorevoli all’introduzione di tali sistemi.
I sistemi di deposito favoriscono il design sostenibile degli imballaggi, favorendo l’utilizzo di materiali più facilmente riciclabili e riusabili.
I sistemi di deposito possono supportare la creazione e lo sviluppo di sistemi di vuoto a rendere volti al riutilizzo degli imballaggi. Un DRS finalizzato al riciclo, infatti, offre attraverso le sue infrastrutture di raccolta le condizioni per una maggiore immissione al consumo di contenitori ricaricabili per bevande in risposta a obiettivi di riuso definiti per legge.
I sistemi forniscono l’approvvigionamento di materie prime seconde di alta qualità per l’industria del riciclo, favorendo processi virtuosi come il bottle-to-bottle anziché processi di downcycling.
I sistemi di deposito sono finanziati dall’industria delle bevande in assolvimento della loro responsabilità estesa del produttore (EPR: Extended Producer Responsability) e non necessitano di alcun finanziamento pubblico.
I sistemi di deposito riducono il consumo di materie prime con conseguente riduzione delle emissioni climalteranti.
Nei nostri mari e coste un punto su tre è inquinato; per i laghi un punto campionato su quattro è risultato fuori dai limiti di legge. E dilaga la plastica usa e getta. I dati di “Goletta verde” di Legambiente.
Il mare
Un totale di 259 punti campionati lungo le coste italiane, in 18 regioni, e il risultato è che un punto ogni 3 è fuori legge. Criticità maggiori riscontrate sul versante tirrenico, a ridosso delle foci di fiumi, rii e canali che, sfociando in mare, portano con sé cariche batteriche a volte molto elevate. Situazione preoccupante in diverse regioni del sud come Campania, Calabria e Sicilia, ma anche nel Centro Italia, in particolare nel Lazio. Sul banco degli imputati, come sempre, c’è la ‘mala depurazione’, una delle principali opere incompiute del nostro Paese per la quale l’Ue ci ha già condannati a pagare 25 milioni di euro, cui se ne aggiungono 30 ogni semestre di ritardo nella messa a norma. E’ quanto emerge dai risultati di Goletta Verde, la campagna di monitoraggio di Legambiente che indaga parametri microbiologici (Enterococchi intestinali, Escherichia coli): vengono considerati ‘inquinati’ i campioni in cui almeno uno dei due parametri supera il valore limite previsto dalla normativa sulle acque di balneazione vigente in Italia; ‘fortemente inquinati’ se almeno uno dei due parametri viene superato per più del doppio del valore normativo. Negli ultimi 3 anni di ricerche in mare (dal 2017 al 2019) su 1.756 km monitorati, la campagna di Legambiente ‘Goletta Verde’ ha contato 111 rifiuti per ogni km di mare e almeno 1 rifiuto su 3 è usa e getta di plastica, per lo più imballaggi, buste, cassette di polistirolo e bottiglie. La situazione non migliora sulle spiagge dove a destare più preoccupazione è la plastica che costituisce l’83% di rifiuti trovati e, in particolare, l’usa e getta: sulle spiagge italiane almeno il 42% dei rifiuti trovati è plastica monouso, se ne trovano 3 per ogni metro di sabbia.
I laghi
Sono 28 i laghi italiani monitorati in 11 regioni e il risultato è che 1 punto campionato su 4 è risultato oltre i limiti di legge. Colpa, anche in questo caso come per il mare, della mala depurazione, il principale nemico delle acque interne. Nel lago Maggiore la metà dei prelievi (50% di 12) è fuori legge: 2 inquinati, 4 fortemente inquinati. Tutti oltre i limiti i tre prelievi effettuati nel lago Ceresio (Lombardia), ma anche il lago di Como non se la cava bene visto che la metà esatta dei 10 prelievi effettuati è risultata fuori legge (2 inquinati e tre fortemente inquinati). Ma ci sono anche le buone notizie come, nel Lazio, il lago di Bracciano in cui nessuno dei 4 prelievi effettuati ha sforato, così come Albano e Sabaudia; il lago di Santa Croce in Veneto (0% oltre i limiti) o il lago Matese in Campania (0%). Su 102 prelievi per le analisi microbiologiche, è stato giudicato fuori legge il 28% (8 inquinati e 20 fortemente inquinati). In totale sono 53 i campioni prelevati in foce, 49 quelli prelevati a lago. Dei campioni giudicati oltre i limiti, l’82% è stato prelevato in foce a canali, fiumi o torrenti. Dei 102 punti oggetto di analisi, 37 corrispondono a porzioni di laghi definiti balneabili dalle autorità competenti; 8 di questi sono risultati con cariche batteriche oltre i limiti di legge (di questi 3 giudicati Inquinati e 5 sono fortemente Inquinati). I laghi al centro dell’edizione 2020 sono stati: in Piemonte i laghi d’Orta, Viverone, Avigliana e Maggiore, nella sua sponda piemontese; in Lombardia la sponda corrispondente del Maggiore, il Ceresio, il lago di Como, d’Iseo e la sponda occidentale del Garda; in Veneto, l’altra metà del Garda (la cui parte più settentrionale ricade nella provincia autonoma di Trento) e il lago Santa Croce. Nel centro Italia in Umbria sono stati campionati Trasimeno e Piediluco, nel Lazio i laghi di Bolsena, Bracciano, Vico, Canterno, Albano, Fondi, Sabaudia e Fogliano. In Campania i laghi Patria e Matese, in Molise il lago di Occhito, in Puglia il lago di Varano, in Calabria i laghi Arvo e Cecita e in Sicilia i laghi Soprano, Pergusa e Prizzi. Goletta dei laghi 2020 è stata realizzata anche grazie al sostegno dei partner principali: Conou, Consorzio Nazionale per la Gestione, Raccolta e Trattamento degli Oli Minerali Usati, e Novamont.
La plastica è ormai una minaccia serissima e onnipresente per l’ambiente e per la salute umana. Milioni di tonnellate di plastica si sono riversati come una marea sulle terre e sui mari, sono finite negli inceneritori, nelle discariche, sui bordi delle strade, nei fiumi, sulle chiome degli alberi. È ora di dire basta.
LA MINACCIA
La plastica è ormai una minaccia serissima e onnipresente per l’ambiente e per la salute umana. Inquina le acque e la terra, mette a rischio lo sviluppo dei feti e dei neonati, è responsabile di malattie gravi, copre aree immense di oceano uccidendo tutti gli esseri viventi che vi si trovano; viene portata sulle coste dalle correnti, trasformandole in estese discariche e causando la morte degli uccelli marini che vi nidificano.
IL PROFITTO
La plastica è stata un grande affare per l’industria petrolifera e per quella chimica, veri potentati economici globali, e come tutti i grandi affari, ha continuato a crescere, sostenuta dalla pubblicità, dall’organizzarsi del commercio e sopratutto della grande distribuzione in funzione del suo uso, dalle leggi fatte ad hoc per eliminare la concorrenza di altri materiali un tempo usati nella trasformazione e confezione degli alimenti, come la terracotta, il giunco, il legno. Sostenuta anche dal suo bassissimo prezzo, che è possibile solo perché le grandi industrie petrolchimiche sono sovvenzionate dagli stati.https://www.riusa.eu/it/notizie/2018-sovvenzioni-plastica.html
Il prezzo dunque lo pagano tutti i cittadini, con le loro tasse e con la mancanza di servizi pubblici, mentre i soldi statali vengono ancora una volta dirottati nelle tasche della grande industria. Il basso prezzo della plastica e gli alti profitti delle aziende che producono la plastica “grezza”, e qui parliamo di multinazionali dall’enorme potere economico e, di conseguenza, politico, come Chevron, Dupont, Exxon, hanno creato il disastro. La plastica ha sostituito carta, vetro, spago, corda, legno, stoffa, ceramica, metallo.
IL DISASTRO
Milioni di tonnellate di plastica in forma di bottiglie, piatti, bicchieri, borse della spesa, sacchetti, contenitori per il cibo, pannolini per i bambini, siringhe, polistirolo per imbottire i pacchi, pennarelli e biro usaegetta si sono riversati come una marea sulle terre e sui mari, sono finite negli inceneritori, nelle discariche, sui bordi delle strade, nei fiumi, sulle chiome degli alberi. Nelle acque del solo mare Mediterraneo finiscono ogni anno 570.000 tonnellate di plastica (570 milioni di chili di plastica). Una ricerca scientifica ha appurato che nei terreni contaminati da plastica muoiono anche i lombrichi, questo vuol dire che il suolo, oltre che tossico, diviene sterile. Forse bisognerebbe cominciare a ricordare che è la terra che ci dà il cibo. E’ la terra che dà da vivere a tutti, ricchi e poveri, bianchi e neri, uomini e donne. La stiamo distruggendo con ogni tipo di inquinamento e con il cambiamento climatico per far crescere un’economia di morte. Mangeremo il petrolio? La plastica? I soldi?
LA MALATTIA
Infine, la plastica è arrivata nel nostro sangue e nei nostri organi. E’ stato calcolato che nell’arco di una settimana ingeriamo circa 5 grammi di plastica, due etti e mezzo all’anno, e i cibi più contaminati sono il pesce e le acque minerali. Le plastiche sono composte da un miscuglio di sostanze chimiche, e di molte non conosciamo la tossicità. Ma bastano quelle che conosciamo per capire che il danno alla salute è inquantificabile e spaventoso.
1. Alcune sostanze di cui è composta la plastica inducono tossicità generale (cioè intossicano tutto l’organismo);
2. altre danneggiano il sistema immunitario;
3. gli ftalati, presenti in molti tipi di plastica (tutti i contenitori in PET, le bottiglie di acqua minerale e bibite, le pellicole per alimenti, i contenitori in plastica per scaldare nel forno a microonde, ecc.), danneggiano il sistema endocrino, cioè le ghiandole ormonali. Quindi possono provocare infertilità, tumori al seno e all’utero, malformazioni dell’apparato genitale nei neonati, danni al fegato. Non è finita, gli ftalati assunti da una donna durante la gravidanza e l’allattamento possono danneggiare il cervello del bambino, le sue capacità cognitive e neurologiche.
E infatti, gli ftalati sono stati proibiti nei giocattoli per bambini… ma non nei contenitori di cibo!!!
Le plastiche, queste sostanze derivate dal petrolio, estranee alla vita e alla biologia, le mangiamo, le beviamo, le respiriamo, ci fanno ammalare e inquinano tutto il pianeta. E il motivo principale di tanto disastro e’ l’interesse economico delle grandi industrie petrolchimiche, che condizionano politiche e leggi. E’ ora di rifiutare tutta la plastica, e in particolare imballaggi e confezioni, e’ ora di protestare contro chi ce la propina, di “disturbare” commercianti e sopratutto grande distribuzione con i nostri reclami, individuali o collettivi. E’ ora di evitare la plastica come la peste, perche’ sta facendo come la peste danni epocali e, peggio della peste, oltre a danneggiarci ora, contamina le fonti della vita e il futuro dei nostri figli.
Zero Waste Italia, Movimento per la Decrescita
Felice e Italia Che Cambia lanciano la campagna permanente #stopusaegetta.
L’invito a partecipare è esteso ad associazioni, imprese, istituzioni e singoli
cittadini. Il futuro è adesso!
Che bello non
avere il pensiero di dover mettere piatti, posate e bicchieri in
lavastoviglie a fine pasto o addirittura doverli lavare a mano! Che comodità
andare al supermercato e trovare la frutta già tagliata, riposta in comode
confezioni. E sicuramente è più semplice bere l’acqua in bottiglia, che è più
pratica di quella del rubinetto. Ma ti sei mai chiesto dove finiscono
bicchieri, posate, piattini, contenitori, confezioni, bottigliette e gli altri
numerosissimi oggetti che nella tua vita usi una sola volta e poi butti via?
Sai qual è la loro destinazione finale? Sei tu! Già, proprio tu!
Ogni settimana nel
tuo stomaco finiscono 5 grammi di plastica. Nei tuoi escrementi si
trovano pezzi di plastica, fino a 20 frammenti per ogni 10 grammi di
feci. Ogni settimana, insieme all’acqua che bevi, ingerisci 1769 particelle
di plastica.
E non è tutto! La
plastica e altri materiali monouso stanno distruggendo il Pianeta. Ogni anno finiscono
negli oceani 8 milioni di tonnellate di plastica.
La direttiva
europea 904 prevede il bando della plastica monouso a partire dal 2021. È
troppo tardi: dobbiamo agire oggi! Non aspettare che l’industria si
adegui e ti proponga soluzioni “sostenibili”. Probabilmente non lo farà mai.
L’unico in grado di cambiare veramente le cose sei tu! È ora di dire BASTA alla
cultura dell’usa e getta! Le risorse del pianeta che ci ospita sono finite,
non possiamo continuare a sfruttarle pretendendo che non finiscano mai.
Il Movimento per la Decrescita Felice, Zero Waste e Italia
Che Cambia lanciano la campagna permanente #stopusaegetta,
per bandire una volta per tutte – e non solo per una settimana! – tutte le
confezioni e i dispositivi monouso.
Proporremo
approfondimenti per mettere in guardia il grande pubblico sui danni che
l’usa-e-getta sta provocando all’ecosistema e indicheremo le alternative
virtuose che ciascuno può adottare nella vita di tutti i giorni.
Anche tu puoi
fare la tua parte seguendo i nostri suggerimenti e aiutandoci a far
circolare questo messaggio.
Nella prima parte di questo articolo abbiamo
spiegato cosa prevede la nuova direttiva europea sulle plastiche monouso
(cosiddetta SUP, Single Use Plastics), quali sono gli oggetti e gli imballaggi
che vengono messi al bando e il fatto che il divieto sia esteso anche alle
plastiche biodegradabili e compostabili. In questa seconda parte vogliamo
quindi spingerci oltre e analizzare come l’Italia si stia preparando al
recepimento della direttiva, se le iniziative “plastic- free” sono coerenti con
le indicazioni contenute nella direttiva e quali sono le reazioni dei comparti
industriali interessati dal divieto che riguarda le stoviglie monouso in
materie plastiche.
Nonostante la
direttiva SUP sia stata accolta con entusiasmo nel nostro paese, c’è più di un
legittimo sospetto che non ne siano state pienamente comprese le misure e il
potenziale che essa racchiude per un superamento del consumo monouso e per una
transizione verso modelli di economia circolare. La cosa non è di per sé
eccezionale, e neanche sorprendente, poiché per “decifrare” o commentare le
direttive europee, è richiesta una certa conoscenza tecnica dell’argomento e
una familiarità con il linguaggio giuridico-amministrativo.
Qualche dubbio in
tal senso nasce dall’analisi dei provvedimenti contenuti nelle numerose
iniziative Plastic Free da parte di Atenei, Regioni, Comuni, Associazioni di
categoria e altri soggetti che si susseguono negli ultimi mesi. Quasi ogni
giorno vengono rese note nuove iniziative che, ricordiamo, si ispirano alla
“Plastic Free Challenge” l’iniziativa collegata alla campagna #Iosonoambiente
di cui si è fatto promotore il Ministro Costa. Tra le misure oggetto della
maggior parte delle ordinanze Plastic Free, che interessano oltre 100 comuni,
c’è un comune denominatore che consiste nel divieto di utilizzo e distribuzione
di stoviglie, bicchieri e posate in plastica. A seconda dei casi questo
provvedimento può arrivare anche al divieto di vendita di questi manufatti da
parte di negozi e supermercati e interessare anche tutto il territorio
comunale, oppure solo determinate aree cittadine o determinati uffici pubblici,
servizi gestiti dal comune come le mense scolastiche o eventi e manifestazioni.
Entrando nel merito dei prodotti interessati dalle ordinanze si può inoltre
rilevare che una parte di esse vietano l’utilizzo o la vendita di prodotti che
rientrano tra i 10 che la direttiva bandisce (ad esempio cannucce o mescolatori
per bevande), e altre si spingono oltre includendo invece prodotti come
bottiglie, bicchieri, bicchierini da caffè con palette e altri contenitori
monouso che non sono invece soggetti a restrizioni d’uso. In quasi tutti
questi casi l’amministrazione comunale dichiara, impropriamente di “anticipare
la Direttiva SUP” che dovrà essere recepita negli ordinamenti normativi dei
paesi membri entro la metà del 2021. Questa affermazione si ritrova
praticamente in tutte le comunicazioni inviate ai media dai soggetti prima
citati, e non risparmia neanche le regioni, dalle quali sarebbe legittimo
aspettarsi una maggiore precisione quando si entra nel merito di provvedimenti
legislativi. Come si può leggere in un articolo di e-gazette.it sulle iniziative Plastic Free Andrea Netti, esperto di diritto
amministrativo afferma “Il 47% dei provvedimenti analizzati include
erroneamente i bicchieri tra i prodotti monouso in plastica da abolire e ancora
il 52% vuole abolire anche le bottiglie d’acqua quando la Direttiva UE richiede
invece nuovi requisiti di fabbricazione”.
Un rischio insito
in queste ordinanze “fai da te” , sicuramente motivate da nobili intenti, è
quello di esporre le amministrazioni a ricorsi al TAR da parte dei
soggetti economici colpiti dai vari divieti, e di alimentare, allo stesso
tempo, la confusione dei cittadini e degli operatori commerciali con
provvedimenti che cambiano a seconda dei confini comunali.
Resta in qualche
modo sorprendente il fatto che, ad oggi, non ci sia stato alcun intervento
istituzionale (o di qualche altro ente autorevole) che abbia “contestato”
questa interpretazione, o almeno espresso qualche dubbio sul fatto che le
iniziative Plastic Free non siano sempre sono coerenti con le indicazioni della
direttiva SUP. Probabilmente sono i recentissimi accadimenti, che vedremo
più avanti, a offrire una chiave di lettura che chiarisce questa situazione.
Biodegradabile e
compostabile: la confusione regna
Con l’avvento delle
bioplastiche, termini prima raramente utilizzati nel quotidiano come biodegradabile, compostabile e
ultimamente anche biobased, sono diventati sempre più ricorrenti nel
linguaggio comune. Facendo una ricognizione sui social è facile rilevare che
anche chi fa uso di questi aggettivi ha una conoscenza approssimativa del loro significato,
non conosce la differenza tra compostabile e biodegradabile, e
tende a ritenere che un bene marchiato compostabile possa biodegradarsi in
natura.
Allo stesso tempo,
da quando la plastica è nell’occhio del ciclone, questi aggettivi hanno assunto
in modo automatico una valenza positiva, e a prescindere dal prodotto al quale
vengono attribuiti. Non per nulla il marketing aziendale si sta adeguando a
questo nuovo sentire nella scelta dei materiali per vecchi e nuovi
prodotti/imballaggi, in modo da sfruttare il potenziale vantaggio competitivo.
L’impressione è che si voglia “cogliere l’attimo” senza una valutazione del
ciclo di vita delle nuove proposte rispetto alle precedenti che vanno a
rimpiazzare, e soprattutto senza voler entrare nel merito di quali siano le
conseguenze del loro fine vita sui sistemi esistenti di avvio a riciclo dei
vari flussi di rifiuti. Il fatto che le ordinanze balneari Plastic Free
proibiscano stoviglie, posate o bicchieri in plastica ma ammettano le
versioni biodegradabili e compostabili si presta a rafforzare questa
interpretazione errata piuttosto che confutarla. Neanche i testi delle
ordinanze e i relativi comunicati aiutano a fare chiarezza, poiché gli
aggettivi biodegradabile e compostabile [1] vengono usati
alternativamente, come se fossero sinonimi. Raramente la comunicazione verso i
cittadini si avvale di spiegazioni a chiarire che la biodegradazione avviene
solamente all’interno di impianti di compostaggio industriale e dalla citazione
della norma di riferimento EN 13432 che definisce le condizioni e i termini in
cui avviene la compostabilità.
E ora
anche Supermercati Plastic free
Purtroppo
non sono solamente le amministrazioni locali a “creare confusione” sul
tema perché anche la Grande Distribuzione Organizzata tramite un comunicato di Federdistribuzione, ha annunciato qualche giorno fa la partenza della
“lotta alla plastica monouso” della GDO che prevede che, entro il termine
massimo del 30 giugno 2020, tutte le stoviglie in plastica monouso escano
definitivamente dagli scaffali delle insegne associate. Curioso che sia proprio la GDO a voler
ingaggiare “una guerra santa” contro la plastica quando sono state proprio le
politiche commerciali delle insegne ad aumentarne l’utilizzo. Ad esempio aumentando progressivamente la quota di offerta di prodotti freschi pronti al consumo, di tutti i tipi, con un conseguente
aumento nell’utilizzo di packaging e di banchi refrigerati che non è proprio la
migliore ricetta per ridurre le emissioni climalteranti. La competitività e il
fatturato di un punto vendita della distribuzione organizzata si gioca
soprattutto sui prodotti freschi. Rispetto al peso del packaging abbiamo avuto
l’informazione che nel nord e centro Italia solamente il 30% circa degli
acquisti tra prodotti di gastronomia, inclusi formaggi e salumi viene
acquistato al banco e il restante 70% viene acquistato confezionato dai banchi
frigo. Questo risultato viene ribaltato solamente nel sud dell’Italia.
Il manifesto della
campagna di Unicoop Tirreno
Tornando ai
fatti recenti, la prima a passare ai fatti è stata Unicoop Tirreno che dal
primo giugno scorso non ha più questi manufatti in vendita, con l’effetto che
anche Conad Tirreno ha annunciato di voler seguire l’esempio. Unicoop Tirreno è
stata anche la prima a fare riferimento alla direttiva nel suo comunicato stampa “Lo stop al monouso inquinante batte sul tempo tutti e anticipa in
concreto la direzione di marcia indicata dall’Europa che, lo scorso marzo, ha
approvato una direttiva con cui, dal 2021, mette al bando sul territorio
europeo alcuni oggetti di plastica monouso, che costituiscono il 70% di tutti i
rifiuti marini.”
Ci sono altri
passaggi nella comunicazione
ambientale adottata
dall’insegna, a partire dal suo claim “L’Ambiente non è usa e getta”,
che suscitano qualche perplessità. Come l’affermazione che si possano ridurre i
rifiuti usa e getta passando a stoviglie in bioplastica. Di fatto la decisione,
presa per poter “ garantire un servizio”, non diminuirà questa tipologia di
rifiuto, anche qualora la destinazione fosse l’impianto di compostaggio. A meno
che un possibile prezzo più alto di questi manufatti, abbinato a una “corretta”
interpretazione dello slogan dell’iniziativa, possano avere l’effetto di
scoraggiare gli acquisti. Tornando
invece all’annuncio di Federdistribuzione, l’associazione non esclude che
alcune insegne affiliate possano anticipare questa tempistica e nel comunicato
stampa ribadisce che “Nei punti vendita della Distribuzione Moderna
Organizzata acquistano 60 milioni di persone ogni settimana, che si aspettano
da noi comportamenti etici (…). Siamo consapevoli di questa responsabilità e
vogliamo essere attori di cambiamento, coerenti con i nuovi valori, anticipando
le leggi e stimolando i consumatori verso atteggiamenti e azioni
sostenibili e favorevoli alla tutela dell’ambiente”.Un percorso graduale ma
determinato, coerente con lo sviluppo dei nuovi materiali secondo le
indicazioni della Direttiva Europea e con i tempi necessari per la
riconversione del comparto industriale.”
Il giorno seguente
alla presentazione del quinto Rapporto annuale di Assobioplastiche il direttore
dell’area legale di Federdistribuzione Marco Pagani ha spiegato che la decisione di anticipare l’entrata in vigore del provvedimento “è
stata presa per fornire un sufficiente lasso di tempo alle aziende della grande
distribuzione e ai loro fornitori per adeguarsi alle nuove norme in modo
graduale, evitando il caos seguito all’introduzione degli shopper compostabili.
Mentre la decisione di mantenere a scaffale le stoviglie ‘bio’ anche dopo il
2021 dipenderà da come la direttiva SUP sarà recepita nel nostro paese”.
Il ragionamento
fatto da Federdistribuzione per arrivare a questa linea d’azione, così come
viene illustrata, non ci appare tuttavia così lineare, a meno che
l’associazione consideri molto probabile un recepimento della direttiva che non
vieti anche le versioni compostabili.
Guerre commerciali
In occasione del
convegno prima citato Assobioplastiche ha reso noto che si sta muovendo presso il Ministero dell’Ambiente e le commissioni parlamentari per far
esentare le bioplastiche compostabili dai divieti imposti dalla direttiva sugli
articoli monouso. Secondo il Presidente dell’associazione Marco Versari vi
sarebbero una serie di elementi presenti nel pacchetto sull’economia
circolare e nella strategia europea sulla plastica e all’interno dell’art. 3 della direttiva che aprirebbero la strada ad un possibile recepimento italiano della
direttiva che escluda le bioplastiche dal suo campo di applicazione. Non si è
fatta attendere la reazione di Federazione Gomma Plastica FGP a difesa di un
settore che conta 25 aziende, 3mila dipendenti e 1 miliardo di fatturato, che in una nota
inviata ai media, si è dichiarata sconcertata dal “repentino cambio di rotta di
Assobioplastiche“ che “preannuncia forse un recepimento
“truffaldino” dei contenuti della Direttiva, che il Gruppo Promo e Unionplast
contestano nella sua interezza”.
La nota firmata da
Angelo Bonsignori Direttore di FGP dichiara inoltre che “Questa notizia si
aggiunge alla sorprendente decisione di Federdistribuzione di anticipare i
termini della “SUP” al 30 giugno 2019. Con questi atteggiamenti, questi
comportamenti e queste inutili e dannosissime fughe in avanti stiamo aprendo le
porte dell’Unione Europea a massicce importazioni di materiali di origine
asiatica di dubbia composizione, di dubbia igienicità e di incertissima
sostenibilità ambientale!”.
Che dire se non che
siamo di fronte a due competitor che hanno l’interesse a mantenere o a conquistare
il mercato dei prodotti monouso, supportati da studi e analisi che sono
legittimamente “di parte”. Ci auguriamo che la politica faccia il suo dovere e
vada oltre al mero ruolo di arbitro tra i diversi interessi economici. Se
vogliamo avere una minima chance di poter mitigare il riscaldamento climatico
servono urgentemente politiche ambiziose di decarbonizzazione dell’economia che
inducano allo stesso tempo drastici cambiamenti negli attuali stili di vita e
di consumo “spreconi” che hanno una diretta influenza sul consumo di
risorse e la conseguente perdita del capitale naturale.
Effetti collaterali sulle politiche di riduzione da parte dei comuni
Da un’analisi dei
provvedimenti contenuti nelle ordinanze Plastic Free emerge che è ormai passato
il messaggio sul fatto che le misure adottate siano in linea con la direttiva
Sup. Chi si sia fatto carico, volontariamente o meno, di inviare questo
messaggio è ormai di secondaria importanza. In riferimento alle potenziali
politiche di riduzione dei rifiuti da parte dei comuni l’avere chiaro che gli
articoli monouso più frequentemente utilizzati nel settore alberghiero e della
ristorazione (cosiddetto Ho.re.ca) non potranno essere sostituiti con
altri tipi di monouso, potrebbe avere un effetto propulsivo, rendendole
più ambiziose. Poter giocare la carta della direttiva all’interno di azioni
verso le attività commerciali che fanno un massiccio utilizzo di articoli
monouso, potrebbe essere per le amministrazioni la mossa vincente per spingerle
ad adottare alternative riutilizzabili e/o sistemi di riutilizzo. Mentre le
stoviglie e i sistemi usa e getta sono appetibili per la comodità di non dover
lavare e gestire i manufatti (che per l’industria significa risparmi economici
importanti sulle ore del personale), i sistemi di riutilizzo lo sono molto meno
perché richiedono cambiamenti e investimenti iniziali per cambiare
l’operatività dei servizi e renderli invitanti per gli utenti. Venire a
conoscenza che il nostro paese sta lavorando per mantenere nel mercato questi
manufatti monouso, senza che siano comunicate allo stesso tempo misure per
scoraggiarne l’uso a favore di sistemi riutilizzabili, non avrà l’effetto
di stimolare un cambio di paradigma verso modelli di riuso. È difficile
mantenere l’ottimismo se guardiamo a cosa è successo quando è stato introdotto
lo scorso anno il divieto di commercializzazione per i sacchetti ultraleggeri
in plastica, a favore delle alternative in bioplastica. L’ultimo atto è stata
la circolare da parte del ministero della Salute, che, sollecitato dal
ministero all’Ambiente ad esprimersi sulla possibilità di mettere a
disposizione sacchetti riutilizzabili nel comparto ortofrutta da parte della
GDO, ha di fatto bocciato la proposta per ragioni di ordine sanitario. Mentre in quel caso solamente la catena NaturaSì ha
introdotto ugualmente tali sacchetti, Federdistribuzione e le sue associate non
hanno ritenuto di fare prevalere il ruolo di “attori del cambiamento”
che “stimolano i consumatori verso atteggiamenti e azioni sostenibili
e favorevoli alla tutela dell’ambiente” menzionato nel loro
comunicato del 30 maggio. Il nuovo rapporto Preventing plastic waste in Europe a
cura dell’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) ha preso in esame le
politiche di prevenzione dei rifiuti plastici in 27 diversi paesi UE e
concluso che la performance è altamente insufficiente. Solo 9 paesi si sono dotati
di un programma con obiettivi stringenti di prevenzione per i rifiuti di
plastica, e sono risultati pochissimi anche i casi di iniziative adottate
in cui è stata fatta una misurazione e una valutazione adeguata dei progressi
ottenuti. Questa situazione che fotografa lo stato dell’arte delle politiche di
prevenzione dei rifiuti dimostra quanto sia invece necessario un approccio
fatto di azioni ex ante, prima che che la produzione dei rifiuti avvenga.
Come intervenire concretamente ?
A nostro parere è
necessario sia cambiare la comunicazione che è stata fatta ad oggi verso il
pubblico, che aprire urgentemente un confronto con tutti gli stakeholder per
sviluppare un piano condiviso di azioni di prevenzione dei rifiuti da usa e
getta che sia ispirato alla gerarchia europea di gestione dei rifiuti [2].
Questo prima ancora di andare a pensare come sostituire al meglio i materiali
con cui realizzare prodotti monouso. Un
esempio su tutti ci fa capire quanto sia importante cambiare la comunicazione:
da quando sono stati introdotti i sacchetti biodegradabili/compostabili è
successo che articoli o servizi che trattano di inquinamento da plastica dei
mari, o delle conseguenze sulla fauna marina, finiscano per fare un accenno
alla legge che ha vietato i sacchetti in plastica come un esempio di best
practice europea.
Ugualmente, in
qualsiasi iniziativa in cui si sono sostituiti i manufatti in plastica con
opzioni compostabili è stato fatto riferimento alla problematica della plastica
in mare. Questa “presunta” relazione tra l’utilizzo di manufatti compostabile e
salvaguardia dei mari rafforzata da immagini e video è inoltre il “piatto
forte” di quasi tutte le iniziative Plastic Free. Viceversa nelle occasioni in
cui sono state riportate notizie di avvenute sostituzioni di manufatti monouso
con versioni riutilizzabili (purtroppo rarissime) questa associazione non si è
mai esplicitata. Fatta eccezione, per fare un esempio concreto, dei casi in cui
si è annunciato la sostituzione di cassette in polistirolo per il pesce con
alternative riutilizzabili (da parte di Unicoop Tirreno e di Eataly per
un progetto pilota) in cui esisteva un chiaro rapporto di causa effetto. Per
affrontare l’attuale confusione ed evitare interpretazioni “sbagliate” sarebbe
invece necessario, a nostro avviso,evitare accostamenti tra temi come la
salvaguardia di mari e dei fiumi dalla minaccia della plastica e l’utilizzo di
materiali compostabili.
Gli impatti delle bioplastiche sui sistemi di raccolta e l’impiantistica nazionale
Per quanto riguarda
il fine vita dei manufatti compostabili è evidente che si sta delineando
un potenziale problema che verrà causato da un loro aumento incontrollato nella
raccolta dell’umido, a seguito dei provvedimenti Plastic Free e dalla decisione
degli associati a Federdistribuzione. Questo avverrà prima ancora di un
eventuale possibile recepimento dell’Italia a favore delle bioplastiche. Gli
impianti di compostaggio industriale sono infatti in grado di smaltire
correttamente le plastiche compostabili solo se non superano una certa
percentuale del totale del materiale organico.
E non ci riferiamo
solamente a stoviglie e bicchieri, ma anche a varie tipologie di imballaggi
compostabili che l’industria del largo consumo, in fuga dalla plastica, ha adottato,
o è in procinto di adottare. Al momento, le opzioni di imballaggio che sono già
presenti sul mercato si sono orientate sul PLA (acido polilattico) come
monomateriale o in abbinamento alla carta nel caso di imballaggi multistrato.
Si tratta di involucri per surgelati e altri prodotti, vaschette e bottiglie
per l’acqua minerale. Da una ricognizione effettuata in altri paesi risulta che
ad oggi il PlA non venga riciclato e neanche compostato trattandosi di un
materiale difficile da gestire e valorizzare a fine vita. I motivi sono
diversi e non si riducono solamente al fatto che non ci siano quantità
sufficienti per rendere economicamente sostenibile una loro gestione post
consumo come flusso separato. Senza parlare del problema che il PLA e altre
bioplastiche vengono facilmente confuse con la plastica fossile e quando
conferiti con la plastica ne contaminano il riciclo. Evenienza che si verifica
nel caso della biobottiglia della nota marca di acqua minerale che invita i
suoi clienti a conferirle nell’umido. Questa difficoltà di individuazione del
materiale che per molte persone avviene “ad occhio” non si risolverà
facilmente con una corretta etichettatura.
Servirebbe pertanto
a nostro avviso l’affidamento urgente a un ente terzo di uno studio che
valuti lo stato dell’arte e l’impatto sul breve e sul lungo termine che si
determinerà in seguito ad un massiccio aumento di questi materiali sulla
tecnologia degli impianti a digestione aerobica e anaerobica presenti in
Italia. Impatto che sarebbe da verificare sia a livello ambientale che
economico e tenendo anche conto dell’inevitabile aumento di conferimenti
impropri dovuti al fattore umano e dei conseguenti effetti sulla qualità del
compost. La dichiarazione del presidente del Consorzio Italiano Compostatori
(CIC) Flavio Bizzoni nel corso della tavola rotonda del convegno di
Assobioplastiche, che ha sottolineato
come la presenza nel compost di plastiche non biodegradabili incida per il 15% sui costi di recupero della
frazione organica dei rifiuti, farebbe supporre che qualche studio o analisi in
tal senso sia già stata fatta, nel qual caso sarebbe interessante poterla
visionare.
Per chi abbia
voglia di approfondire, segnaliamo come approfondimento la guida rilasciata da
Zero Waste Europe, per un corretto recepimento della Direttiva (di cui si
consiglia la lettura) scaricabile qui.
NOTE:
[1] Un materiale
biodegradabile deve, per definirsi tale secondo la normativa europea,
degradarsi per almeno il 90% entro 6 mesi, mentre uno compostabile deve
ottenere lo stesso risultato entro 3 mesi. Il materiale compostabile può essere
conferito nel compost, mentre quello biodegradabile no. In nessun caso, se di
origine artificiale come nel caso delle plastiche, possono essere dispersi in
natura.
Clarien e Monica, all’interno del loro
laboratorio nel cuore di Torino, hanno ideato Beeopak, una pellicola
riutilizzabile e biodegradabile per avvolgere e conservare gli alimenti nel
totale rispetto dell’ambiente. Una soluzione 100% naturale per sostituire gli imballaggi
in plastica che quotidianamente utilizziamo nelle nostre cucine e promuovendo
gli ingredienti biologici del territorio piemontese. Vi ricordate la vecchia carta cerata, proprio quella
con cui le nostre nonne avviluppavano il formaggio prima che la plastica
invadesse le nostre tavole? È un ricordo conservato nella memoria di molti di
noi, di quell’attenzione e di quella cura per il cibo che ora è nostro
compito far sopravvivere.
E se plastica e
stagnola usa e getta immancabilmente occupano un posto fisso nel nostro
cassetto o sul ripiano della nostra cucina, esistono delle soluzioni con le
quali possiamo far rivivere quelle antiche abitudini messe in pratica proprio
dalle nostre nonne. Proprio come Beeopak, la soluzione nuova ed ecosostenibile ideata a
Torino come sostituto alla pellicola di plastica. Beeopak deriva dall’unione
dei termini “bee” (ape) e “pack” (impacchettare, avvolgere) ed è il risultato
di una lunga amicizia nata dall’incontro tra due sognatrici: Monica Fissore e
Clarien van de Coevering. Si tratta di una pellicola alimentare riutilizzabile
e biologica per conservare gli alimenti e portare colore e bellezza in tavola e
in cucina, riducendo il quantitativo di rifiuti.
“Questo progetto –
mi racconta Monica – nasce da un’idea condivisa in un pomeriggio dell’estate
del 2018, durante una passeggiata nel noccioleto dell’Azienda Agricola di
Clarien. Confrontandoci sull’argomento ci siamo rese conto che l’idea di una
pellicola alimentare riutilizzabile era già presente in diversi Paesi del mondo
ma non in Italia. Così abbiamo pensato di crearla noi e da quel momento,
all’interno dell’azienda, abbiamo dato vita a quello che sarebbe diventato il
nostro primo laboratorio e iniziato a sperimentare”.
Beeepak nasce con
una sola condizione: quella di essere realizzata in modo artigianale con ingredienti
100% naturali. Per questo sono stati scelti cotone biologico impregnato in
cera d’api, resina di pino e olio di nocciole, ovvero alimenti autoctoni
piemontesi totalmente a chilometro zero. Si tratta di cera biologica e quando
possibile biodinamica, che viene fornita a Monica e Clarien direttamente dai produttori
locali. “Abbiamo iniziato a conoscere delle realtà piccole sul territorio
del torinese, dell’astigiano e del cuneese e abbiamo quindi provveduto a
mapparle, per costruire delle relazioni che vedessero protagonisti proprio i
produttori del luogo, che sono per noi i veri custodi della terra, della natura
e dell’ecosistema”, mi spiegano.
Piccole realtà, che
testimoniano la volontà di favorire più produttori che, proprio come Clarien e
Monica, stanno crescendo sul territorio e cercano di proporre un’agricoltura
sana e naturale che valorizzi le tipicità locali. “Nel complesso abbiamo
riscontrato molta curiosità e interesse da parte dei produttori
agricoli, proprio perché il nostro è un prodotto nuovo ed insolito che
anch’essi hanno voluto testare e scoprire”.
Beeopak ha delle proprietà
antibatteriche che permettono di conservare il cibo fresco e più a lungo.
La cera è infatti ricca per natura di propoli e altre sostanze con cui la
plastica non potrà mai competere. “È traspirante e modellabile – mi spiega
Clarien – perfetta per avvolgere cibi perché, scaldandola con le mani, si
adatta alla forma dell’alimento. Inoltre, contiene resina di pino al suo
interno, che conferisce una perfetta capacità aderente, ottimale per conservare
gli alimenti”, aggiunge Monica. Insomma, un prodotto versatile che
funziona proprio come una seconda pelle: “Ha mille utilizzi, c’è chi lo usa
come se fosse un piano di lavoro per far lievitare la pasta del pane, chi ci
avvolge la saponetta da portare in viaggio al posto della custodia di plastica,
chi incarta il panino da mangiare a scuola o a lavoro, chi conserva formaggi,
frutta e verdura facilmente deperibili”, mi raccontano.
“Beeopak è per noi
un’alternativa alla pellicola, ma non solo”. Come mi spiega Clarien, è
un modo diverso per prendersi cura del cibo. “Nel momento in cui una persona
compra un alimento, lo avvolge, lo conserva, lo presenta in tavola, ne gode e
se ne nutre, dando così valore ai doni che la natura ci offre”.
L’idea di una
pellicola naturale riutilizzabile vuole ricordarci l’importanza di introdurre alternative
sostenibili nella nostra quotidianità, a cominciare da subito. Beeopak
rappresenta una delle sempre più numerose ed innovative soluzioni contro lo
spreco e la cultura dell’usa e getta, che trova la sua soluzione ideale in una
dimensione locale proprio perché capace di valorizzare i prodotti
caratteristici di un territorio.
“Da quando abbiamo
avviato il progetto nel 2018, l’attività è cresciuta molto. Abbiamo sempre più
richieste da piccoli negozi locali che prediligono il biologico e la spesa
sfusa senza imballi oppure gruppi di acquisto collettivi o i privati, nonché
realtà che stanno intraprendendo percorsi virtuosi. Ci accorgiamo che le
persone sono curiose, vogliono cambiare e sono pronte a cambiare, cercando
delle alternative più sostenibili”, mi raccontano.
Oltre ad una
finalità ambientale, tramite Beeopak, Monica e Clarien stanno promuovendo
intorno al progetto una dimensione sociale legata allo sviluppo di
comunità. “Abbiamo avviato un rapporto di collaborazione con un’agenzia
formativa sul territorio attivando degli stage nel nostro laboratorio per
lavoratori svantaggiati, con l’idea che alcuni di questi stage si trasformino
poi in tirocini e rapporti di lavoro. Stiamo inoltre sviluppando una dimensione
educativa e pedagogica attraverso collaborazioni con musei, bioparchi e realtà
attive nell’ambito dell’educazione, accompagnando i bambini, i ragazzi e i
futuri cittadini del nostro domani verso la scoperta di soluzioni che, proprio
come Beeopak, possono aiutarci a vivere in maniera più consapevole”.
Greenpeace ha riattivato Plastic Radar,
l’applicazione per segnalare la presenza di rifiuti in plastica sulle spiagge,
sui fondali o che galleggiano sulla superficie del mare. Novità di questa
edizione la possibilità di segnalare i rifiuti in plastica anche nei nostri
fiumi e laghi. Greenpeace ha
riattivato Plastic Radar il servizio per segnalare la presenza di
rifiuti in plastica che inquinano spiagge, mari e fondali e che, a partire dall’edizione
di quest’anno, include anche l’inquinamento da plastica nei nostri fiumi e
laghi. Partecipare è semplice, basta avere un telefono cellulare su cui sia
installata l’applicazione WhatsApp e, una volta ritrovato un rifiuto di
plastica in mare, spiaggia, in fiumi o laghi, segnalarlo al numero di
Greenpeace +39 342 3711267 tramite l’applicazione. Per effettuare una
segnalazione è necessario inviare a Plastic Radar una foto in cui sia
ben riconoscibile il tipo di rifiuto/oggetto e, se possibile, anche il marchio
dell’azienda produttrice, insieme alle coordinate geografiche del
luogo dove è stato individuato il rifiuto. La chatbot di Plastic Radar porrà
successivamente delle domande per reperire le informazioni necessarie per
registrare e validare la segnalazione. I dati saranno disponibili in forma
aggregata – nell’arco di 24-48 ore – sul sito. Greenpeace invita
tutti i partecipanti a raccogliere i rifiuti, differenziarli e depositarli
negli appositi contenitori una volta effettuata la segnalazione.
“Nella nostra
recente spedizione di ricerca e documentazione “MAYDAY SOS Plastica” nel
Tirreno abbiamo verificato che i nostri mari e le nostre spiagge sono soffocate
dalla plastica. Tra i punti più contaminati la foce del Sarno, a conferma che
i fiumi sono una delle principali vie di ingresso dei rifiuti in mare. Per
questo raccogliamo anche segnalazioni relative alla presenza di rifiuti in
plastica lungo fiumi e laghi”, dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile della
Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. “Chiediamo una mano a tutti:
insieme possiamo denunciare cosa sta succedendo e accendere i riflettori su una
delle emergenze ambientali più gravi dei nostri tempi”.
Attraverso il sito Plastic Radar sarà
possibile scoprire quali sono le tipologie di imballaggi più comuni che inquinano
mari, spiagge, fiumi e laghi, a quali categorie merceologiche
appartengono e quali sono le aziende che dipendono maggiormente dalla plastica
monouso nell’offerta dei propri prodotti.
“L’iniziativa
lanciata l’anno scorso ha avuto un enorme successo con oltre 6.800 segnalazioni
valide e ci ha aiutato a far luce sui rifiuti in plastica più presenti nei mari
italiani. La maggior parte erano prodotti usa e getta, in primis bottiglie
di plastica, e appartenenti a marchi ben noti come San Benedetto, Coca Cola
e Nestlè. Le grandi aziende continuano a immettere sul mercato enormi
quantitativi di plastica usa e getta non assumendosi alcuna responsabilità
circa il suo corretto riciclo e recupero. Se vogliamo veramente fermare
l’inquinamento da plastica nei nostri mari è necessario che le grandi aziende
avviino immediatamente programmi per ridurre drasticamente il ricorso
all’utilizzo di imballaggi e contenitori in plastica usa e getta” , conclude
Ungherese.
Delle quasi
6.800 segnalazioni valide ricevute nell’estate 2018, il 91 per cento ha
riguardato rifiuti in plastica usa e getta, ovvero oggetti progettati per
un utilizzo che va da pochi secondi ad alcuni minuti, e in gran parte
rappresentati da bottiglie per l’acqua minerale e bevande (25 per cento); a
seguire, nell’ordine: confezioni per alimenti (circa il 10 per cento),
frammenti (6 per cento), sacchetti di plastica (4 per cento), bicchieri,
flaconi di detersivi, tappi e reti (tutti al 3 per cento) e contenitori
industriali, flaconi di saponi e contenitori in polistirolo (tutti al 2 per
cento).
Nei mesi scorsi
Greenpeace ha lanciato una petizione, sottoscritta da
più di un milione di persone in tutto il mondo, in cui si chiede ai grandi
marchi come Coca-Cola, Pepsi, Nestlé, Unilever, Procter & Gamble,
McDonald’s e Starbucks di ridurre drasticamente l’utilizzo di contenitori e
imballaggi in plastica monouso.
Nello stomaco del capodoglio spiaggiato due
giorni fa a Cefalù, in Sicilia, è stata trovata molta plastica. “Bisogna intervenire
subito per salvare le meravigliose creature che lo abitano”. Lo afferma
Greenpeace pronta a salpare insieme a The Blue Dream Project per monitorare lo
stato di salute dei nostri mari. A pochi giorni dalla partenza di una spedizione di ricerca, monitoraggio,
documentazione e sensibilizzazione sullo stato dei nostri mari, organizzata
insieme a The Blue Dream Project, Greenpeace diffonde le immagini di quanto è
stato ritrovato nello stomaco del capodoglio spiaggiato due giorni fa
sulle coste della Sicilia.
«Quello che è stato
trovato due giorni fa sulla spiaggia di Cefalù era un giovane capodoglio di
circa sette anni appena. Come si può vedere dalle immagini che diffondiamo, nel
suo stomaco è stata trovata molta plastica. Le indagini sono appena iniziate
e non sappiamo ancora se sia morto per questo, ma non possiamo certo far finta
che non stia succedendo nulla», dichiara Giorgia Monti, responsabile campagna
Mare di Greenpeace Italia.
«Sono ben cinque
i capodogli spiaggiati negli ultimi cinque mesi sulle coste italiane. Nello
stomaco della femmina gravida ritrovata a marzo in Sardegna sono stati trovati
addirittura 22 kg di plastica. Il mare ci sta inviando un grido di allarme, un
SOS disperato. Bisogna intervenire subito per salvare le meravigliose creature
che lo abitano».
Greenpeace e The
Blue Dream Project monitoreranno per tre settimane i livelli di inquinamento
da plastica in mare, in particolare nel Mar Tirreno Centrale. Una
spedizione di ricerca che si concluderà in Toscana l’8 giugno, in occasione
della Giornata mondiale degli oceani. In occasione della conferenza stampa di
presentazione del tour, che si terrà martedì 21 maggio alle ore 11 presso la
Sala conferenze Lega Navale di Ostia, i ricercatori del Dipartimento di
Biomedicina Comparata e Alimentazione dell’Università degli Studi di Padova,
centro di riferimento per le autopsie sui grandi cetacei spiaggiati lungo le
coste italiane, presenteranno un report preliminare sullo spiaggiamento dei
cetacei in Italia, con un focus proprio sui capodogli e la plastica.
Con l’approssimarsi della
primavera, nelle località balneari si è in procinto di iniziare le operazioni
di ripulitura delle spiagge in previsione della stagione estiva che verrà. E
Legambiente denuncia una situazione insostenibile: l’80% dei rifiuti che
invadono i nostri litorali è costituito da plastica.
L’indagine Beach litter 2018 di Legambiente ha monitorato 78 spiagge con 48.388
rifiuti rinvenuti in un’area complessiva di 416.850 mq (pari a circa 60 campi
di calcio) e una media di 620 rifiuti ogni 100 metri di spiaggia (lineari)
campionata, 6,2 per ogni metro di spiaggia.
Quello che si trova
sulle spiagge italiane è soprattutto plastica (80%). L’associazione ambientalista sottolinea come oltre
la metà dei rifiuti raggiungono le spiagge perché non vengono gestiti
correttamente a terra. La cattiva gestione dei rifiuti a monte è, infatti, la
causa principale del continuo afflusso dei rifiuti in mare. Ma non è la sola. Anche
i rifiuti abbandonati direttamente sulle spiagge o quelli che provengono
direttamente dagli scarichi non depurati e dalla cattiva abitudine di
utilizzare i wc come una pattumiera.
Sul podio dei
rifiuti più trovati lungo le spiagge ci sono i frammenti di plastica, ovvero i
residui di materiali che hanno già iniziato il loro processo di disgregazione,
anelli e tappi di plastica e infine i cotton fioc, che salgono quest’anno al
terzo posto della top ten. Gli oggetti che si trovano praticamente in tutte le
spiagge monitorate sono tappi e anelli di plastica (95% delle spiagge),
bottiglie e contenitori di plastica per bevande (96% delle spiagge) e
bicchieri, cannucce, posate e piatti di plastica (90% delle spiagge
monitorate).
Questi oggetti usa
e getta di uso diffuso rappresentano un problema comune per tutte le spiagge. Altro
rifiuto molto diffuso sono i materiali da costruzione, presenti nell’85% delle
spiagge monitorate. L’indagine di Legambiente è una delle più importanti azioni
a livello internazionale di citizen science, ovvero il risultato di un monitoraggio
eseguito direttamente dai circoli di Legambiente, da volontari e cittadini, che
ogni anno setacciano le spiagge italiane contando i rifiuti presenti, secondo
un protocollo scientifico comune e riconosciuto anche dall’Agenzia Europea
dell’Ambiente, a cui ogni anno vengono trasmessi i dati dell’indagine per
completare il quadro a livello europeo. Questi dati infatti vanno a integrare
quelli rilevati dalle agenzie ambientali di tutta Europa nell’ambito della
Marine Strategy, la strategia marina dell’Unione Europea.