Trust in Food: sette ragazzi creano una startup per supportare i produttori locali

Trust In Food è una startup nata a Pinerolo (TO) dal sogno di sette ragazzi che intendono promuovere le aziende agricole del territorio attraverso una spesa responsabile e un contatto diretto con i consumatori. Così stanno dando vita a un modello alternativo di spesa che supporta l’economia locale e permette alle persone di ottenere informazioni chiare sul cibo che porta in tavola.

Torino – “Trust in Food” significa letteralmente “credi nel cibo”: credi nella capacità degli alimenti di nutrirti e farti stare in salute, credi nella passione di agricoltori e produttori che ogni giorno raccolgono dalla terra frutta e verdura genuina, credi nel potere che ogni tuo acquisto ha nel promuovere il tuo territorio. Tutto questo non è soltanto un invito a essere più consapevoli di ciò che acquistiamo e mangiamo, ma un progetto concreto che sta mettendo in contatto le persone con i produttori, per valorizzare le risorse che il territorio ci sa offrire. A crederci sono innanzitutto sette ragazzi che vivono nel pinerolese, in provincia di Torino, da sempre appassionati di cibo, sostenibilità e innovazione. Sono Giorgio Rasetto, Kevin Cardetti, Alberto Viotto, Daniele Rasetto, Gabriele Vernetti, Lorenzo Cravero, Giacomo Baudi: tra di loro c’è chi ha competenze in campo ingegneristico chi in campo economico, chi in ambito gastronomico e chi nel mondo del design. Insieme formano un gruppo multidisciplinare che si sta impegnando a mettere a sistema diverse competenze per contribuire a un cambio di paradigma nella produzione e nel consumo alimentare.

Sette ragazzi e il loro sogno

Come racconta Daniele Rasetto, gastronomo e Co-Founder di Trust in Food – TIF «le filiere produttive sono diventate così distanti da noi consumatori e si sono inseriti nel mezzo così tanti passaggi che col tempo abbiamo smesso di farci domande e pensiamo che tanto, alla fine, un prodotto vale l’altro, non importa da dove arrivi, chi l’abbia fatto e come l’abbia prodotto. Siamo riusciti a ridurre la complessità dei valori che il cibo porta con sé a semplice commodity e merce di scambio. E io credo che non ci sia follia più grande che l’uomo abbia mai concepito. TIF nasce proprio con l’arduo obiettivo di rendere le persone consapevoli della bellezza delle piccole produzioni locali e delle storie delle persone che stanno dietro ciò che mangiamo».

Il progetto è stato avviato nel pinerolese a inizio 2021 e si sta sempre più espandendo, coinvolgendo ora anche i comuni della provincia di Torino, in cui le aziende della rete Trust In Food consegnano i loro prodotti. L’obiettivo è creare una rete di aziende agricole e alimentari da cui sia possibile informarsi sui metodi e sulla sostenibilità dei loro prodotti, e ordinare online, per poi ricevere i propri acquisti direttamente a casa.

La piattaforma di Trust in Food

Per invertire la rotta e creare filiere alimentari più trasparenti e sostenibili occorre infatti partire dalle scelte quotidiane: da questa convinzione il progetto si è strutturato in una piattaforma, una vetrina digitale dove i produttori possono vendere i propri prodotti senza dover creare un e-commerce privato e allo stesso tempo possono ricevere supporto nella comunicazione digitale. Per quanto invece riguarda i consumatori, attraverso il progetto possono reperire facilmente informazioni chiare sull’azienda e sui processi produttivi del cibo che acquistano, così da riconoscerne valori e virtù e scegliere con consapevolezza ciò che mettono nel piatto, attraverso una spesa responsabile ed etica. La piattaforma, nella sezione della mappa, raccoglie ad oggi i profili di oltre 35 produttori locali del pinerolese e del torinese che finora hanno aderito al progetto. Ortofrutta, prodotti da forno, latticini, carne, salumi, miele, confetture, olio e ancora vino e birra: nella vetrina online ciascuna impresa viene raccontata in modo trasparente e descrive la sua storia, le attività e le caratteristiche di sostenibilità ambientale e sociale, per generare fiducia nei consumatori.

Oltre a favorire la comunicazione tra domanda e offerta, Trust In Food facilita l’acquisto diretto dalle aziende locali: come riportato nella descrizione del progetto, «è sufficiente verificare le condizioni di consegna, selezionare i prodotti preferiti sul sito e aggiungerli al carrello virtuale per riceverli direttamente a casa, consegnati da ogni produttore». Nei primi mesi del 2022, inoltre, si aggiungerà la possibilità di ordinare attraverso un’App dedicata che è in fase di sviluppo per migliorare il processo di acquisto. «Oggi più che mai ci siamo accorti dell’importanza della digitalizzazione: la tecnologia è ormai parte delle nostre vite, è innegabile. Anche il comparto agricolo non può, e non deve, esimersi dal suo utilizzo. Abbiamo bisogno di contadini 2.0, che stiano al passo con le richieste del mercato e dei nuovi consumatori digitali. La tecnologia, se usata bene, è un mezzo di incredibile utilità, e Trust In Food ne è un esempio», ha aggiunto Daniele Rasetto.

I buoni di Natale per una spesa etica e locale

In occasione delle festività natalizie, Trust in Food lancia l’iniziativa “Bigliet-TIF di Natale”, buoni di diverso valore economico che potranno essere utilizzati per fare la spesa presso qualsiasi produttore della rete e che saranno validi per tutto il 2022. Un’idea che permette di donare prodotti di qualità e sostenere le aziende locali che investono nella sostenibilità e nel proprio territorio: sul sito è inoltre disponibile un’intera sezione dedicata esclusivamente alle proposte natalizie, nella quale ogni produttore propone una confezione regalo con i propri prodotti: dai panettoni agricoli, alla birra, al vino e tanto altro ancora. Il progetto di Trust in Food è pensato per essere allineato alla più ampia Strategia Europea Farm to Fork, che prevede di avvicinare i consumatori ai produttori agricoli e promuovere l’acquisto di cibi sani e sostenibili. Così facilita il raggiungimento degli obiettivi comunitari e permette di fare del bene all’economia del territorio, nonché alla nostra salute.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/12/trust-in-food-startup-produttori/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Aerobico o anaerobico? Proviamo a capire una querelle romana

Queste differenti modalità di trattamento dell’organico sono uno degli elementi di dibattito sulle soluzioni da adottare per risolvere le criticità di Roma.387470_1

Aerobico o anaerobico? Ma anche integrazione tra i due processi. Queste differenti modalità di trattamento dell’organico sono uno degli elementi di dibattito sulle soluzioni da adottare per risolvere le criticità di Roma nella gestione dei rifiuti.

Ai tempi della giunta Marino, era stata avanzata la proposta di creare degli “ecodistretti con impianti anaerobici dove i rifiuti si sarebbero trasformati in biogas” ricorda il quotidiano La Stampa. La nuova giunta guidata da Virginia Raggi,invece, così come indicato nel piano Ama per la gestione dei materiali post-consumo 2017 – 2021, prevede la costruzione di impianti per la valorizzazione della frazione organica con “l’individuazione di aree per la costruzione di impianti di compostaggio aerobico che possano trattare almeno 120.000 tonnellate di organico”.

Legambiente, che in un comunicato “ribadisce le 4 mosse per liberare la capitale dai rifiuti”, indica tra le misure da adottare, “la costruzione di 10/15 impianti anaerobici per la gestione dell’organico e la produzione di biometano. La frazione organica – sottolinea l’associazione – pesa per circa il 30% del totale dei rifiuti urbani e a Roma, al superamento del 65% di differenziata come previsto per legge, sarebbe di circa 500.000 tonnellate annue; per smaltirle sarebbero necessari 10/15 digestori anaerobici per il trattamento dell’organico e la produzione di biometano, impianti piccoli, a zero emissioni e miasmi. La giunta invece si era detta favorevole alla costruzione di 3 impianti aerobici, scelta che Legambiente ritiene sbagliata, pensando che non si possa condannare un territorio che ha sopportato già così tanto, a miasmi perenni provenienti da impianti i cui progetti sono ancora sconosciuti, la localizzazione altrettanto e le persone non coinvolte nelle scelte”.

C’è da ricordare, tuttavia, che recentemente l’attuale l’assessora alla Sostenibilità Ambientale di Roma, Giuseppina Montanari, i vertici di Ama e numerosi rappresentanti del Comune e dei Municipi di Roma, sono stati in visita al Polo Ecologico di Acea Pinerolese Industriale S.p.A., realtà all’avanguardia che integra un impianto di depurazione acque reflue, al trattamento anaeorobico dei rifiuti, al compostaggio aerobico e all’impianto di produzione di biometano. “Una visita molto utile” aveva affermato in quella occasione l’assessora Montanari “perché mi sembra ci sia un esempio virtuoso di valorizzazione dell’organico”.

Ma quali sono i principali vantaggi e svantaggi dei due processi? Riprendiamo a questo proposito un documento del Consorzio Italiano Compostatori: La digestione anaerobica produce energia rinnovabile (biogas) a fronte del compostaggio aerobico che consuma energia; gli impianti anaerobici sono in grado di trattare tutte le tipologie di rifiuti organici indipendentemente dalla loro umidità, a differenza del compostaggio che richiede un certo tenore di sostanza secca nella miscela di partenza; gli impianti anaerobici sono reattori chiusi e quindi non vi è rilascio di emissioni gassose maleodoranti in atmosfera, come può avvenire durante la prima fase termofila del compostaggio; nella digestione anaerobica si ha acqua di processo in eccesso che necessita di uno specifico trattamento, mentre nel compostaggio le eventuali acque di percolazione possono essere ricircolate come agente umidificante sui cumuli in fase termofila; gli impianti di digestione anaerobica richiedono investimenti iniziali maggiori rispetto a quelli di compostaggio la qualità del digerito, in uscita dalla digestione anaerobica, è più scadente di quella del compost aerobico.

Tuttavia, si legge ancora nel documento, l’integrazione dei due processi può portare dei notevoli vantaggi, in particolare: si migliora nettamente il bilancio energetico dell’impianto, in quanto nella fase anaerobica si ha in genere la produzione di un surplus di energia rispetto al fabbisogno dell’intero impianto; si possono controllare meglio e con costi minori i problemi olfattivi; le fasi maggiormente odorigene sono gestite in reattore chiuso e le “arie esauste” sono rappresentate dal biogas (utilizzato e non immesso in atmosfera). Il digerito è già un materiale semi-stabilizzato e, quindi, il controllo degli impatti olfattivi durante il post-compostaggio aerobico risulta più agevole, si ha un minor impegno di superficie a parità di rifiuto trattato, pur tenendo conto delle superfici necessarie per il post-compostaggio aerobico, grazie alla maggior compattezza dell’impiantistica anaerobica; si riduce l’emissione di CO2 in atmosfera (Kubler and Rumphorst, 1999) da un minimo del 25% sino al 67% (nel caso di completo utilizzo dell’energia termica prodotta in cogenerazione); l’attenzione verso i trattamenti dei rifiuti a bassa emissione di gas serra è un fattore che assumerà sempre più importanza in futuro.

Foto: impianto biometano Acea Pinerolese

Fonte: ecodallecitta.it

 

Fugge dalla padrona per tornare al canile: la storia del labrador Dado

La storia di Dado sembra una favola capovolta. Sopravvissuto al sisma dell’Aquila e portato in un canile di Bibiana (To), nei pressi di Pinerolo, il labrador è scappato dalla sua nuova padrona per tornare al canile che lo aveva accolto quattro anni fa.

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Lo avevano visto aggirarsi da solo per la città, dopo il terremoto del 2009. All’epoca aveva sei mesi, un cucciolo senza casa né padroni. Un’attivista della Lega Nazionale del Cane abruzzese, vista la situazione di emergenza, chiese a Graziella Avondetto, responsabile del canile di Bibiana (To) se potesse occuparsene. Il labrador è giunto in Piemonte dopo il terremoto, ancora impaurito dai rumori forti ha impiegato un po’ di tempo ad abituarsi al nuovo ambiente. Inizialmente ha dovuto metabolizzare il trauma subito, ma con il passare del tempo – racconta la volontaria – ha assunto un ruolo di leader all’interno del canile, venendo identificato dagli altri come un capo branco. Il canile di Bibiana è una struttura-modello con tanto di pannelli solari per scaldare le cucce. Dopo l’intervento di educatori e di un veterinario comportamentista Dado ha cominciato a lasciarsi avvicinare dagli umani. Il lungo iter per trovargli una casa è culminato con l’adozione di un paio d’anni fa. Ad accoglierlo è stata una signora residente di Prarostino, piccolo paese a cavallo fra le valli Pellice e Chisone. Tre giorni dopo l’adozione, la signora ha telefonato ai responsabili del canile per avvertirli che Dado aveva saltato un’alta rete e un muretto ed era scomparso. Il cane ha iniziato il suo viaggio nei boschi. A quindici giorni dalla scomparsa, una domenica i volontari del canile decidono di organizzare un rastrellamento delle campagne per trovarlo. Verso le sei di sera scorgono una macchia bianca. È Dado che ha ritrovato la strada di casa, percorrendo i quindici chilometri di distanza da Prarostino a Bibiana. Provato dagli stenti, con dieci chili di meno, il labrador è finalmente tornato in quella che è ormai la sua vera casa. Per restarci.

Fonte: Repubblica