Il picco delle trivelle negli USA: inizio della fine per il fracking?

Negli USA le trivelle hanno raggiunto il picco nell’ottobre del 2014 e sono gia’ calate del 18%. E’ l’effetto del basso prezzo del petrolio che sta mettendo fuori mercato il greggio sporco da fracking e le sabbie bituminose. Il prezzo basso del petrolio non rappresenta solo un beneficio per i consumatori, ma sta iniziando a fare scricchiolare l’impero del fracking negli USA, il risultato disastroso che viene paventato nel video qui sopra. Il tight oil non e’ solo dannoso per l’ambiente, ma anche assai piu’ costoso da estrarre: con costi che variano da 46 a 70 dollari al barile per lo shale oil per arrivare fino ai 90 delle tar sands canadesi. Poiche’ il prezzo oscilla attualmente tra i 45 e i 50 dollari, e’ evidente che il fracking sta finendo fuori mercato. I primi segni si vedono gia’ dalla presenza del picco delle trivelle (curva blu grafico in basso): secondo Baker Hughesil loro numero e’ calato quasi del 18%, passando dalle 1600 di ottobre alle 1300 di oggi. Il calo e’ stato ancora piu’ sensibile in North Dakota (-22%) dove e’ collocato il piu’ grande bacino di tight oil del Nordamerica. Per garantire un aumento di produzione del 71% (curva rossa) negli ultimi anni le trivelle attive sono cresciute dell’ 800%. Questo perche’ i pozzi di petrolio e gas non convenzionale si esauriscono molto in fretta per cui bisogna continuare a trivellare per fare crescere la produzione. La bolla del fracking non sarebbe comunque potuta continuare a lungo, ma la decisione dei paesi OPEC di non tagliare la produzione ne ha anticipato la fine. Il prezzo basso del petrolio non sta peraltro danneggiando l’industria delle rinnovabili che continua ad essere in pieno sviluppo. Colpisce invece l’ industria dei combustibili fossili piu’ sporchi, responsabili di danni ambientali ed effetto serra.Picco-trivelle-620x409

Fonte: ecoblog.it

COOL ROOF, tetto fresco.

Il “cool roof” ( tetto fresco) è un sistema di coperture in grado di riflettere la radiazione solare mantenendo fresche le superfici esposte, aumentando il comfort e diminuendo i costi. Per ridurre l’effetto “isola di calore” delle aree urbane, accanto alla possibilità di investire sui giardini pensili orizzontali e verticali o sulle coperture ventilate, si è ormai consolidata la scelta di soluzioni a “cool roof”, letteralmente “tetto fresco”. Il “cool roof” è un sistema di coperture in grado di riflettere la radiazione solare mantenendo fresche le superfici esposte ai raggi. Essendo un sistema di raffrescamento passivo, il “cool roof” si basa sull’uso di tecniche per il controllo del calore principalmente utilizzando materiali ad alta riflettanza solare e ad alta emittanza termica, ovvero la capacità di emettere calore sotto forma di radiazione infrarossa mantenendo il tetto fresco anche sotto il sole.Immagine

Vantaggi dei cool roof

Rimanendo fresche le coperture, anche la quantità di calore trasmesso alle abitazioni diminuisce, aumentando il comfort interno e diminuendo i costi per la climatizzazione, con evidenti guadagni sia in termini economici che energetici. I cool roof si mantengono solitamente ad una temperatura tra i 28°C ed i 33°C, decisamente inferiore alle coperture convenzionali, garantendo un risparmio energetico giornaliero per quanto riguarda il condizionamento dell’aria ed una riduzione del picco di carico dal 10 al 30%. L’applicazione di membrane riflettenti inoltre aumenta la produttività dei pannelli fotovoltaici, mantenendo la temperatura della superficie del tetto decisamente inferiore rispetto al normale, arrivando addirittura ad una riduzione vicina ai 40°C.20130729_2

Le principali soluzioni per i “tetti freddi”

Per trasformare una normale copertura in un “cool roof” esistono vari approcci diversificati in base al materiale utilizzati, la caratteristica comune rimane la colorazione bianca. Oltre alle tradizionali membrane bituminose ed alle vernici di colore bianco, prodotte ovviamente a partire da derivati del petrolio, si stanno iniziando a diffondere sul mercato soluzioni per cool roof ecologiche o comunque riciclabili. Non ultimo una delle società specializzate in questa particolare tipologia di prodotto, ha presentato un manto di copertura per cool roof a base di oli vegetali e resine vegetali. La membrana è realizzata grazie al riutilizzo degli scarti di altri settori industriali, riducendo i rifiuti e gli scarti di materie prime e venendo riconosciuto anche dalla bioedilizia. Diversi casi studio hanno verificato che l’applicazione di soluzioni cool roof su coperture orizzontali o verticali ha generato un aumento dell’efficienza energetica delle abitazioni anche superiore al 40%, andandosi anche a sommare alle prestazioni già elevate degli edifici progettati secondo i criteri bioclimatici. Nell’edificio recentemente inaugurato a Toronto per l’Earth Rangers Centre for Sustainable Technology ad esempio, l’impiego del cool roof (tetto bianco) associato al green roof (tetto verde), ha permesso all’edificio di raggiungere livelli di sostenibilità elevatissimi, riducendo i propri consumi del 90%.

Fonte: rinnovabili.it

Picco dell’Uranio nel 2015 secondo uno studio svizzero

L’Uranio a buon mercato è prossimo alla fine: il fisico Dittmar prevede un picco di estrazione nel 2015 e poi un calo progressivo che forzerà una diminuzione della produzione termonucleare compresa tra l’1% e il 2% annui.

Produzione-Uranio-e-previsioni-586x401

Un interessantissimo e recente articolo del fisico svizzero Michael Dittmar dall’eloquente titolo La fine dell’Uranio a buon mercato  gela brutalmente le aspettative di chi sogna una rinascita nucleare nel 21° secolo. Sulla base della velocità di esaurimento delle miniere esistenti o in programma (1), lo studio stima che il picco della produzione dell’Uranio verrà raggiunto nel 2015 a 58000 t, per calare successivamente a 54000 nel 2025 e a 41000 nel 2030 (linea tratteggiata nel grafico in alto). L’Uranio estratto e arricchito non basterà quindi a soddisfare la domanda dei reattori esistenti (linea nera), nemmeno se questa calasse dell’ 1% o del 2% all’anno (linee blu e azzurra). (2)

Le conclusioni di Dittmar disegnano un futuro piuttosto nero per il nucleare civile, con risvolti socio-politici inquietanti:

«In effetti, riteniamo che sia difficile evitare scarsità di fornitura anche con una riduzione graduale della produzione dell’energia nucleare dell’1% all’anno. Suggeriamo quindi che sia nell’ordine delle cose una decrescita del nucleare a livello mondiale. Se una simile decrescita non verrà perseguita in forma volontaria, la fine delle forniture di Uranio a buon mercato sarà inevitabile. Alla fine alcune nazioni non saranno in grado di poter acquistare sufficiente Uranio, con conseguente riduzione involontaria e caotica della produzione, con cali di tensione, blackout o peggio.»

Le miniere sfruttate attualmente hanno concentrazioni di Uranio grosso modo tra l’1% e il 10%. Estrarre il metallo con concentrazioni via via più basse comporta crescenti usi di energeia e movimentazione di roccia, il che rende poco praticabile lo sfruttamento. E’ inoltre fisicamente insensato sfruttare giacimenti con concentrazioni sotto lo 0,01% (3), oppure pensare di estrarre l’Uranio dall’acqua di mare. L’ articolo di Dittmar contiene inoltre una considerazione tanto semplice quanto fondamentale, che tutti gli ineffabili (e metafisici) economisti dovrebbero imparare a memoria:

Il fatto che l’intera domanda europea di Uranio di 21 kt/anno debba essere importata è da sottolineare, perché dimostra che l’Uranio, come tutti i combustibili fossili, è una risorsa finita che non appare magicamente in maggiori quantità solo perchè la domanda spinge il suo prezzo verso l’alto. Come per i combustibili fossili, i dati minerari europei mostrano che l’esaurimento delle riserve e il declino della produzione sono una conseguenza inevitabile della finitezza delle risorse.

(1) I dati storici di produzione delle nazioni che hanno esaurito le loro riserve di Uranio (Germania est, Francia, Rep. Ceca,…) mostrano che la quantità di Uranio effettivamente estratto è stata compresa tra il 50 e il 70% della stima iniziale delle riserve. L’analisi della produzione canadese ed australiana, su cui esistono dati abbondanti, mostra invece che le miniere riescono a produrre in modo più o meno costante per una decina di anni. Combinando queste informazioni, Dittmar ha quindi stimato la produzione futura delle miniere esistenti o in progetto con un margine di errore dell’8-10%. (2) La differenza tra domanda e offerta di Uranio viene oggi coperta dallo smantellamento di vecchie testate nucleari (fino al 1990 si è accumulato molto più metallo di quello consumato nei reattori), ma a causa del picco di produzione questa riserva si esaurirà intorno alla metà degli anni ‘20. (3) In queste condizioni, per ottenere 1 t di Uranio (pari a 40 GWh in una centrale) bisognerebbe scavare 16000 tonnellate di roccia; a quel punto sarebbe più conveniente estrarre 14700 t di carbone che fornirebbero la stessa energia.

 

Fonte: ecoblog