Fuga dalla città. Una seconda vita sulle colline piacentine

Il nuovo documentario della serie “TERRE”, prodotto e ideato dalla casa di produzione MaGestic Film, racconta del ritorno di Stefano Malerba sulle colline piacentine, per occuparsi dei vigneti un tempo coltivati dai suoi avi. Dopo anni trascorsi in giro, Stefano realizza con grande tenacia il sogno di una vita semplice e a contatto con la natura. Ma gli ostacoli sono numerosi e i risultati dei propri sforzi non sono quelli sperati.

PiacenzaEmilia-Romagna – Reinterpretando un vecchio proverbio, Stefano Malerba – protagonista del secondo episodio della serie di documentari “TERRE” – è convinto che lasciare la strada vecchia per la nuova non sia mai una cattiva idea. Anche quando, dopo anni trascorsi in giro per il mondo, la vita lo riporta a casa, tra i vigneti delle colline piacentine. Era il 2007 e Gualdora, la sua allora nascente azienda vinicola, era molto di più di una brillante trovata imprenditoriale. Un sogno per l’appunto e l’inizio di una vita diversa, lontano dalla città. Nato e cresciuto a Milano, Stefano lavora per anni nel settore delle telecomunicazioni, dividendosi tra la sua città, il Sudafrica e Madrid. Il tempo trascorso nella metropoli spagnola è il preludio alla sua nuova vita: «Già avevo l’allergia alla città – ironizza Stefano – e Madrid è una super città. Milano mi sembrava un paesino al confronto. Questo ha forzato la voglia di cambiamento che sentivo da anni». E così lascia un lavoro che sa far bene ma che non è ciò che vuole e si trasferisce in Val Tidone, nel comune di Ziano Piacentino, la terra delle sue origini.

Sulle dolci pendici collinari della valle, dove la vite viene coltivata da millenni, Stefano impianta pregiate varietà di uva. Ha l’aria di essere un perfezionista, uno che non vende solo un prodotto, ma una “filosofia”. Barbera, Bonarda, Malvasia e Chardonnay sono i principali vini che produce nella sua cantina. Dietro c’è la ricerca inesausta di un prodotto di alto livello.

Nella sua azienda tra le colline piacentine, Stefano sceglie di coltivare le sue viti biologicamente e non perché tale certificazione sia di per sé una garanzia indiscutibile di qualità. La sua è una scelta consapevole, frutto di domande, studio ed esperienza. «Nel biologico sono ammessi solo prodotti non di sintesi. Nel caso dei fungicidi, ad esempio, si utilizzano solo rame e zolfo, che sono due metalli la cui efficacia fungicida è provata. C’è una limitazione nell’uso del rame perché si tratta di un metallo pesante. Ma siamo certi che non faccia male alla terra e alla vite?», si chiede Stefano, convinto che purtroppo nel mercato la certificazione valga di più del prodotto in sé. Tuttavia, dal suo punto di vista, la fiducia nel produttore è ciò che alla fine pesa di più sul piatto della bilancia, al di là di ogni certificazione di origine. Nel documentario la storia di Gualdora è un racconto amaro. Alle immagini delle colline assolate al ritmo lento della natura si alternano scene di duro lavoro, avvolte nei colori delle brevi giornate invernali. La vita in campagna appare tutt’altro che bucolica: si fatica a tirare avanti, soprattutto in un’azienda piccola dove bisogna spartirsi il lavoro tra pochi. Per Stefano le cose non sono andate come si sarebbe aspettato: «Io sognavo che un’azienda come Gualdora potesse stare in piedi. Il discorso non è arrivare a fine anno. Se vuoi crescere devi continuare a investire e se non investi non cresci e rimani lì».

I debiti, le gelate, i raccolti andati persi, gli ingenti costi per una piccola azienda costretta a barcamenarsi tra mille difficoltà, diventano un cappio, sempre più stretto. No, la campagna non è più quella di una volta, verrebbe da dire. Vivere in modo semplice, come si faceva un tempo, richiede in realtà grandi sacrifici. Le stagioni non sono più facilmente prevedibili e così una gelata ti devasta il raccolto e vanifica il duro lavoro di un anno. In una scena Florencia, la compagna di Stefano, mostra i danni irreparabili della pioggia, che in una sola notte ha sventrato il fianco della collina, trascinando dietro di sé ogni cosa. Ma questo non fa scalpore: se è una piccola azienda a non farcela, non importa a nessuno.

«Tante piccole aziende stanno sparendo. Quando chiudono o senti che il titolare si è impiccato perché non ce la faceva più, non è un problema. La gelata di due anni fa ha fatto danni a più di quattrocento aziende della zona. Ma qualcuno lo ha detto in televisione?», denuncia Stefano. Le sue parole d’accusa sono cariche di amara rassegnazione, perché si è destinati a soccombere in un sistema che non tutela affatto le piccole e medie imprese. La vita a Gualdora è raccontata con un carosello di immagini. Le fiere, il vigneto, la cantina, le feste di paese addobbate con i sorrisi di gente semplice e infine le chiacchiere con gli anziani, che hanno lasciato la campagna per ritornarvi da vecchi. Tutti, nessuno escluso, a fare i conti con quel poco che viene dalla terra e non sembra più sufficiente per i bisogni e le comodità a cui siamo ormai abituati da generazioni. «Dal dopoguerra in poi siamo stati cresciuti con l’idea di dover essere qualcosa di meglio dei nostri genitori. E quindi non zappare la terra, ma diventare dirigenti e magari finire a lavorare nella grande distribuzione a leggere le etichette». Ma siamo certi che sia la strada giusta?

Oggi Stefano è tornato a lavorare in ambito commerciale per un’azienda del settore alimentare. «L’agricoltore lo faccio il sabato e la domenica – scherza davanti alla telecamera –, forse è proprio questa la dimensione giusta di Gualdora». Alla fine tutto è cambiato e allo stesso tempo è rimasto uguale. La sua Gualdora, a 35 chilometri da Piacenza e a 65 da Milano, oltre a un’azienda vinicola è un posto tranquillo dove poter trascorrere qualche giorno di pace. Ma soprattutto è il suo riscatto personale. In fondo, anche per essere felici, si deve accettare qualche compromesso.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/11/nuova-vita-gualdora/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Damiano, il giovane contadino musicista

Un’agricoltura lenta e locale che pur mantenendo stretto il legame tra chi la pratica e la terra lascia all’agricoltore il tempo e lo spazio per altre passioni. È questa la strada seguita da Damiano, il giovanissimo contadino e musicista protagonista del primo documentario della serie “TERRE” che narra la vita ed il lavoro di alcuni piccoli produttori agricoli, partendo dalle zone piacentine. Damiano Sprega ha vent’anni ed è un agricoltore. Il primo cortometraggio della serie di documentari “TERRE” è incentrato su di lui e sull’azienda agricola Casa Della Memoria Casella (San Protaso di Firenzuola – Piacenza). È una storia semplice, nel senso più positivo del termine. Damiano è genuino e spontaneo, lo si percepisce vedendolo rispondere alle domande.

Il documentario non si apre però discutendo di agricoltura. Damiano parla della sua più grande passione: la musica. Racconta delle emozioni che gli dà, di come abbia intenzione di dedicare il suo tempo e le sue energie in una carriera da musicista. Ma, allora? Stiamo andando fuori tema? No, questo documentario ha un messaggio da estrapolare dalle sensazioni del giovane agricoltore-musicista. L’agricoltore è un mestiere totalizzante, per come lo intendiamo ai giorni nostri, l’imprenditore agricolo deve produrre e guadagnare il più possibile, questo è il dogma. L’agricoltura industriale spinge a produrre sempre più, così l’agricoltura è nelle mani di poche persone che devono lavorare tantissimo, a questo siamo abituati. Ma Damiano non vuole tutto ciò. Ama la sua terra, la stessa terra che suo nonno ha coltivato e coltiva ancora con cura e dedizione. Rispetta la natura e il lavoro con cui la sua famiglia può vivere dignitosamente e sostenere la sua grande passione musicale. Non ha intenzione di lasciare questa occupazione, gli piace. Dice che continuerà a prendersene cura, anche l’agriturismo dovesse chiudere, anche se il contadino non sarà il suo primo lavoro.

Damiano Sprega

Quando diciamo che nel futuro bisognerà tornare ad un’agricoltura più lenta e locale, legata al territorio, fatta dai contadini e non dai grandi imprenditori agricoli quello che m’immagino sono tanti ragazzi come Damiano che torneranno alla terra. Come molti giovani d’oggi avranno altre passioni, ma avranno anche l’esigenza di rimanere a contatto con la natura e col cibo, prendendosi cura di un campo, di un orto o un giardino. Sarà quell’attività quotidiana che ci manterrà sani fisicamente e mentalmente. In futuro l’agricoltura non sarà per forza un lavoro full-time? Potrà essere un lavoro che svolgeremo al di fuori dalle logiche di mercato, allo scopo di produrre cibo e curare l’ambiente? Queste sono le domande che sono sorte dalla visione del corto. In passato non è stato così per vari motivi. I giovani che si affacciano all’agricoltura adesso hanno davanti un nuovo mondo, hanno vecchi schemi da archiviare e nuovi metodi da inventare. Non sarà facile, questo anche Damiano lo sa, ma è una strada che vale la pena percorrere. Il progetto indipendente di documentari “TERRE”, prodotto e ideato dalla casa di produzione MaGestic Film, si propone di narrare la vita e il lavoro di alcuni piccoli produttori agricoli, partendo dalle zone piacentine, espandendosi poi su altri territori, coinvolgendo anche enti, associazioni e fondazioni locali. Qui in seguito il link al primo episodio, scritto e diretto da Silvia Onegli, disponibile gratuitamente anche su YouTube.

 Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/01/damiano-giovane-contadino-musicista/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Storie di bimbi favolosi che non la danno vinta ai problemi

È proprio il titolo di un libro: “Storie di bimbi favolosi che non la danno vinta ai problemi”. Ma un libro particolare. Gli autori sono ragazzi autistici che si dedicano con passione e impegno a realizzare libri per bambini. E c’è il modo di aiutarli!9938-10729

Ogni mattina c’è una redazione speciale che si incontra a Piacenza. Sono ragazzi di neanche trent’anni pieni di talento per la scrittura e per il disegno. Lavorano a libri per l’infanzia, pannelli per musei, articoli per il web e tanto altro ancora. E sono ragazzi doppiamente speciali. Da un lato perché sono autistici, dall’altro perché ogni giorno “scavalcano” con tenacia i loro limiti per trasformare la passione in lavoro. Riuniti nell’associazione “La Matita Parlante”, accolti presso la sede di Papero Editore, questi nove scrittori e artisti hanno già pubblicato due libri con la CAA, la Comunicazione Aumentativa e Alternativa, che possono essere così letti da chi ha difficoltà cognitive, dai bambini in età prescolare e dagli stranieri che si affacciano alla nostra lingua.

Ora però hanno di fronte la sfida più grande: un libro che racconta le vicende di chi superando i propri problemi è diventato un esempio per tutti…

«L’idea è venuta sfogliando Storie della buonanotte per bambine ribelli, il libro di Elena Favilli e Francesca Cavallo che racconta come piccole fiabe illustrate le vite di donne che nonostante le difficoltà di un mondo ancora oggi così maschilista sono riuscite a trasformare i loro sogni in realtà – spiegano i promotori dell’iniziativa – Donne che di fronte ai problemi hanno voluto a tutti i costi superarli, così come fanno ogni giorno i ragazzi della “Matita Parlante”. E come hanno fatto, alla grande, tante persone che oggi ammiriamo: uno scienziato come Stephen Hawking, un musicista come Ezio Bosso, un compositore come Beethoven, un velista come Ambrogio Fogar, una pittrice come Frida Kalho, un pilota come Alex Zanardi».

Così la redazione si è messa al lavoro. Per scoprire le vite e i pensieri di questi personaggi, per cercare il modo migliore per raccontare “la loro favola” e per ritrarli.

«Ognuna di queste storie è una storia di coraggio e merita di essere raccontata» dicono.

Ancora una volta a fianco della “Matita Parlante”, per stampare e diffondere il libro, ci sarà il Papero, nato a Piacenza nel settembre del 2015. Insieme hanno già pubblicato nel 2017 La scimmia abbracciona e nel 2018 Animali in cerca di amici , storie scritte, illustrate e tradotte in simboli CAA dai ragazzi dell’associazione. Ai ragazzi della “Matita Parlante” e a Papero Editore si sono affiancati i soci della cooperativa Officine Gutenberg, altra casa editrice che fa del coinvolgimento di tutti il suo punto di forza. Officine Gutenberg ha “prestato” alcuni autori di casa, già firme dei volumi collettivi della collana “Pescegatti”, perché collaborassero a mettere a punto le stesure definitive con i redattori della “Matita Parlante”.

Ciascuno di noi può supportare questo progetto partecipando alla raccolta fondi e acquistando una copia del libro QUI

 

Fonte: ilcambiamento.it

Inaugurata sul Po la “scala per pesci”, ora storioni e anguille possono superare la diga

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Una “scala” fatta di vasche e chiuse, per permettere a storioni e anguille di superare una diga sul Po e di tornare a muoversi tra il fiume e il mare. E’ quella che è stata inaugurata oggi a Monticelli d’Ongina, in provincia di Piacenza. Si tratta di un corridoio ecologico, con vasche ampie cinque metri a fare da gradino, che permette di superare la barriera rappresentata per oltre 50 anni dalla Diga di Isola Serafini e della sua centrale idroelettrica Enel, nel tratto tra Piacenza e Cremona, lungo la sponda emiliana del fiume. La “scala di risalita” permetterà a storioni, anguille e cheppie di ripopolare tutto il corso del Po. Questi pesci per vivere e riprodursi hanno bisogno di spostarsi dal mare ai fiumi e viceversa. Ma finora, arrivati a Isola Serafini si fermavano lì. Oggi invece potranno colonizzare anche il corso superiore del fiume. Il primo impianto di questo tipo in Italia risale al 1891, sul Ticino a Sesto Calende, per superare lo sbarramento della diga sul Canale Villoresi. L’impianto di Monticelli è stato realizzato nell’ambito del progetto europeo ‘Life Con-flu-po’ (Connettività fluviale fiume Po) ed è costato 7 milioni di euro, di cui quasi il 50% arriva dall’Ue. La Regione Emilia-Romagna ha messo a disposizione oltre 2 milioni attraverso Aipo (l’Agenzia interregionale per il fiume Po) per l’impianto, il più grande con queste caratteristiche in Italia e uno dei più importanti d’Europa. Sarà avviata un’azione di monitoraggio, in particolare nell’area del Delta, per verificare il ripopolamento e gli effetti sull’ecosistema. (la foto della “scala per pesci” è americana e d’archivio)

Fonte: http://guidominciotti.blog.ilsole24ore.com/2017/03/18/inaugurata-sul-po-la-scala-per-pesci-ora-storioni-e-anguille-possono-superare-la-diga/?refresh_ce=1

Gino, falegname dei bambini: manualità e poesia

C’è una falegnameria per bambini che si trova nella fattoria didattica I Campi, a Vernasca, in provincia di Piacenza, ma si tratta di un vero e proprio laboratorio in movimento che viene realizzato anche in molte scuole del Piemonte e della Val d’Aosta. I laboratori nascono 21 anni fa da un’idea di Gino Chabod. Che abbiamo intervistato.9438-10176

«In questi anni ho cercato – dice Gino Chabod – di trasmettere, attraverso il lavoro manuale,  conoscenze e valori che si stanno lentamente perdendo. Non si tratta, però, solo di questo ma di molto di più. Il ritorno alla manualità, infatti, favorisce equilibrio, immaginazione, fiducia in se stessi e una diversa visione delle cose e delle nostre possibilità. A tutte le età. Trasmettere i saperi essenziali ai giovani è fondamentale per trovare una risposta a molti dei problemi che la nostra società deve affrontare».

Lei è un falegname professionista. Ci racconta la sua storia? Quando e come ha iniziato a lavorare il legno?

La mia famiglia arriva dalla Valsavarenche, nel cuore del parco del Gran Paradiso, in Valle d’Aosta e il legno come la manualità in genere e il rapporto con la terra, sono, e sopratutto erano, il linguaggio prevalente. Ma se ho fatto il falegname e non solo, è per la straordinaria lezione di civiltà che il villaggio di montagna ci può regalare. Ho avuto la fortuna di affacciarmi sul mondo tradizionale contadino-montanaro al suo ultimo tramonto, dopo secoli di grande vitalità. Emotivamente, sono partito da un’identità collettiva in cui muoiono le persone singole ma continua la vita. E’ un concetto molto importante che l’isterica e schizofrenica società moderna ci ha sottratto, forse per sempre. E’ anche la dimensione umana delle cose, i ritmi delle stagioni, il sapere che si tramanda lasciando che gli anziani continuino ad avere un ruolo, le radici di alberi secolari, la natura madre ma anche matrigna. Ricordo il profumo dei salici che mio padre intrecciava, del legno che scolpiva, della resina dei larici che gli uomini del villaggio, nell’aiuto reciproco dell’organizzazione del lavoro, tagliavano nell’ultima settimana di luna calante di dicembre per farne travi di tetti o pavimenti di stalle. Non ho mai pensato di cercarmi un lavoro, ho da sempre avuto chiaro che volevo trasmettere con la mia testimonianza queste cose. Quando, dopo la maturità, ho fatto il corso da casaro e sono andato in alpeggio per imparare a fare la fontina, pensando ad un gruppo di giovani che potevano fare quell’attività, ho capito che quel mondo tradizionale aveva troppe rigidità e chiusure per sopravvivere all’impatto con il nuovo. E così per decenni ho cercato di imparare quante più cose possibili di quella grandiosa esperienza del saper fare che si stava spegnendo. Per questo non ho fatto l’università. Tra i miei ricordi più belli, c’è mio nonno ottantaduenne che, non più capace di reggersi in piedi, toglieva le patate con la zappa, in ginocchio e così, in ginocchio, le puliva dalla terra ancora troppo umida una ad una, con le sue mani ruvide, lentamente, con la massima attenzione, quasi a sottolineare la sacralità di quel gesto e a ringraziare quella terra che ancora gli aveva dato i suoi frutti. Dopo di loro, rimane solo il vento a muovere qualcosa. Sta a noi, generazione di mezzo, sopravvissuti al telerincoglionimento generalizzato, saper cogliere e mettere a frutto anche quella formidabile lezione di vita, trovando il giusto equilibrio tra vecchio e nuovo, tra valori universali ancestrali intramontabili e un sempre più necessario progetto di insieme di una società vivibile a misura d’uomo in alternativa alla follia di un mercato senza regole.. E’ quindi da sempre che lavoro il legno, ci sono nato, ma la stessa famigliarità, o meglio identità, è per il bestiame, i boschi, i pascoli, il letame, la terra e le sue risorse, le montagne.

Quando le è venuta l’idea che la falegnameria potesse essere proposta ai bambini? 

Circa 40 anni fa ho capito che bisognava riuscire a trasmettere ai bambini la passione per queste cose e ho cominciato a lavorare per attuare questo progetto. Ho fatto alcune esperienze gradualmente e poi ho impiegato circa 3 anni per immaginare e realizzare un’attrezzatura e dei processi che fossero il più possibili sicuri.

Può essere pericoloso maneggiare gli strumenti di falegnameria per i bambini?

No, è sufficiente fare una buona prevenzione a monte su attrezzi e processi. Si tratta anche di seguire la normativa del D. lgs. 81. In 21 anni di attività abbiamo ormai superato le 135.000 ore di lavoro effettuate dai bambini senza incidenti

A quali età si rivolge soprattutto? 

Dai 3 ai 12 anni circa

Nelle scuole una volta esistevano le Applicazioni Tecniche che oggi non ci sono più. Cosa si può fare per recuperare queste conoscenze nella scuola di oggi secondo lei?

Si dovrebbe prima formare gli insegnanti con percorsi molto diversi e per questo ci vuole tempo. Poi si dovrebbe andare a recuperare il saper fare che rischia di andare perso da chi ancora fa.

Perché secondo lei è necessario un ritorno alla manualità?

Perché manualità e conoscenza di un territorio sono il presupposto per riuscire ad immaginare qualcosa di diverso che non sia un mercato folle che uccide così tanto.

Quali sono secondo lei le ripercussioni positive di un ritorno alla manualità nella vita di tutti i giorni?

E’ un grande elemento di riequilibrio tra cultura universitaria e il fare. Le nuove generazioni si sentono sovente perdenti in partenza perché non riescono più a immaginare che possono fare, pensare ad un progetto di vita e poterlo realizzare e finiscono per rassegnarsi ai call center. Ad esempio gli artigiani danno per scontato di poter fare, di essere i protagonisti del loro lavoro. Gli universitari invece sono in genere come paralizzati all’idea di prendere una iniziativa propria lavorativa, si affidano a qualcuno, o peggio, di questi tempi poi, vanno ad elemosinare un posto di lavoro con la rassegnazione di chi pensa di non poter fare lui. Se è vero che il fare è almeno la metà del sapere dell’umanità, le nostre sono università monche. E poi ci sono tutti gli ambiti importanti della vita, dal costruirsi la propria casa (almeno nel gestirsi il cantiere), gli arredi, le manutenzioni, l’orto o un frutteto famigliare, giocare con i propri figli.

Manualità e pensiero. Secondo lei in che modo l’una influisce sull’altro?

Sono due cose completamente interconnesse, insieme, sono l’equilibrio, l’armonia delle energie.

Considerato che i bambini fin da piccolissimi sono ormai abituati al contatto con gli strumenti digitali (e quindi a far lavorare poco mani e creatività) qual è la loro reazione nei progetti che propone?

Si entusiasmano, come è naturale che facciano dei bimbi quando scoprono un linguaggio diverso e riescono a concretizzare. Basta fornire loro alcuni suggerimenti, giusto il necessario per consentirgli di raggiungere un risultato interessante senza che perdano la percezione di averlo fatto loro.

Quali sono gli obiettivi dei suoi corsi?

Far venir fuori una bella energia, offrire alle nuove generazioni la riscoperta del piacere del fare, del linguaggio della manualità, l’uso equilibrato dei 5 sensi nel contatto con gli elementi naturali, tenere aperte nuove vie di costruzione di un altro mondo possibile sostenendo un sano spirito imprenditoriale che rimetta l’uomo al centro di uno sviluppo sostenibile. L’obiettivo è, inoltre, far nascere sul piano emotivo dei bambini passioni per mestieri nobili, riequilibrare la dimensione del virtuale, mediatico ed internet, con la riscoperta del territorio, del senso della realtà e del bene collettivo.

Come si fa a partecipare?

Stiamo partendo con 2 laboratori a Milano per la stagione invernale, uno nel progetto Artepassante al passante ferroviario di porta Vittoria e uno per il periodo natalizio a Teatro. Poi da marzo ad ottobre alla fattoria didattica “I Campi”  a Vernasca (PC). Imminenti i dettagli sul sito .

“Ci sono poeti che non parlano, non scrivono, non suonano. Hanno calli duri come sassi, scuri in faccia, non prendono il sole per abbronzarsi, rendono fertile la terra, costruiscono case, utensili e oggetti di ogni tipo. Quando fanno questo con amore, poeti è dir troppo poco, non ho parole per dar loro un nome! Quel che si vede, per chi sa guardare, è grande come il senso pieno della vita. Né smene né giri di parole inutili, l’essenzialità e l’equilibrio della concretezza è la semplice risposta a come spendere bene i propri giorni. Custodi di un grande sapere vitale che vedono sempre più andare perso, il silenzio gli rimane nel vedere così tanti, correre dietro a gingilli luccicanti…

Non è morire che gli fa paura ma sentire che quel che sanno e quel che han fatto non serve o interessa più a nessuno. Quando gli alberi muoiono nella foresta, la vita continua ma se muore la foresta… è deserto

Gino Chabod, L’ultimo tramonto.

Fonte: ilcambiamento.it

 

Smog, dalle polveri ultrafini ci si può difendere? Lo studio UPUPA di Piacenza (LEAP)

Ci si riferisce non al Pm2.5 ma a quelle ancor più piccole , che sfuggono alle direttive europee sulla qualità dell’aria e sono molto più dannose: sono le polveri ultrafini (nanoparticelle di metalli pesanti, solfato e nitrato di ammonio)che raggiungono gli alveoli polmonari senza difficoltà. Si possono limitare i danni? | le slide della presentazione di LEAP377913

parametri con cui valutiamo la qualità dell’aria e il rischio per la salute sono ormai obsoleti: lo dice l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, lo dicono diversi studi recentemente pubblicati sulla connessione fra esposizione alle polveri e patologie tumorali e cardiovascolari.  Parametri obsoleti non solo perché le soglie di tolleranza sono troppo blande – oltre che cronicamente non rispettate in oltre la metà dei capoluoghi italiani, e praticamente in tutti quelli del Nord – ma soprattutto perché alle direttive europee sono sfuggiti fino ad ora i principali responsabili dei danni alla salute:le particelle ultrafini. Ma è proprio questa invece la direzione che sta prendendo la ricerca sull’inquinamento dell’aria, non solo italiana, e la crescente attenzione per il monitoraggio del black carbon – finalmente contemplato dalla revisione del protocollo di Göteborg – ne è un esempio. Più le particelle sono piccole – e qui parliamo di centinaia di volte in meno rispetto al Pm10 – più hanno possibilità di penetrare nei tessuti, causando danni gravissimi e aumentando notevolmente le probabilità di contrarre patologie mortali. Della misurazione di tali particelle e della correlazione con il danno sanitario si è occupato per tre anni il Laboratorio Energia & Ambiente di Piacenza (LEAP), che ha appena presentato i risultati del Progetto UPUPA.  “Le componenti più sottili delle polveri fini possono rivelarsi di particolare importanza per la qualità dell’aria – si legge nella presentazione del progetto del Laboratorio – Si tratta delle particelle ultrafini (dimensioni delle polveri inferiori a cento milionesimi di millimetro) e di quelle nano-particolate (dimensioni inferiori a cinquanta milionesimi di millimetro). La comunità scientifica si sta interessando ad esse perché, da un lato, non sono rappresentate adeguatamente dai limiti normativi sull’inquinamento atmosferico(PM10 e PM2.5) e, dall’altro, manifestano in modo sempre più evidente il loro alto potenziale d’impatto sulla salute umana. Per questo motivo il Laboratorio LEAP ha sviluppato il progetto UPUPA, tra i primi in Italia, realizzando con strumentazione dedicata una serie di campagne di misura di tali componenti nell’area urbana di Piacenza, esplorandone anche l’esposizione personale con misuratori portatili e rilevandone la composizione chimica”. A seguito della sperimentazione del LEAP, è risultato che l’esposizione alle micropolveri varia considerevolmente a seconda della stagione e dell’ambiente in cui ci muoviamo. Durante l’inverno la concentrazione delle polveri è più forte, sia per fattori antropici – riscaldamento, maggior numero dei veicoli in circolazione) sia per cause naturali e metereologiche, così come avviene per il pm10. La presenza di aree verdi al contrario, può limitarne la quantità: per esempio, percorrendo un tragitto in bicicletta in una zona ad alta densità di traffico nell’area di Piacenza, siamo esposti ad una concentrazione media delle particelle ultrafini di circa 22.000 particelle/cm3; ma basta allontanarsi di poco e raggiungere un’area verde nella stessa città per registrare valori medi dimezzati: circa 10.000 particelle/cm3. L’esposizione non sembra invece variare di molto a seconda del mezzo utilizzato per gli spostamenti, a differenza di quanto accade per il Pm10, dove, paradossalmente, pedoni e ciclisti urbani “a zero emissioni” sono i più esposti agli effetti dell’inquinamento. Ma l’abitacolo delle automobili non sembrerebbe invece offrire alcuna protezione contro le polveri ultrafini.
Ma si può fare qualcosa per difendersi?

Secondo il team di ricercatori che ha curato lo studio, gli sporadici interventi una tantum – dalle domeniche a piedi alle targhe alterne – non sono sufficienti. Bisogna intervenire a livello più ampio, con un piano di interventi che miri sì a ridurre il traffico (si ricordi il risultato della misurazione del black carbon in Area C: – 30% nella Cerchia dei Bastioni a seguito dell’entrata in vigore del provvedimento) ma anche a ridurre le emissioni prodotte dalle fabbriche e dal riscaldamento. Insomma: se l’inquinamento dell’aria non conosce frontiere, tanto meno il confine tra un comune e l’altro.

Scarica le presentazioni degli studiosi:

Il Progetto Upupa: Ultrafine Particles in Urban Piacenza Area – Prof. Michele Giugliano 

Progetto UPUPA: i rilevamenti nell’area urbana di Piacenza – Ing. Giovanni Lonati, ing. Senem Ozgen

Che cos’è il LEAP

L.E.A.P. – Laboratorio Energia & Ambiente Piacenza effettua ricerca applicata, sperimentazione, sviluppo e trasferimento di tecnologie energetiche ad alta efficienza e ridotto impatto ambientale. Laboratorio partecipato dal Politecnico di Milano e inserito nella Rete Alta Tecnologia dell’Emilia Romagna.
Guarda i video del convegno

Fonte: ecodallecittà