Sembra incredibile da leggere su un rapporto della BP, ma c’è scritto: la corporation che è tra i leader del petrolio e del gas ammette che occorre andare verso la transizione energetica e che siamo di fronte a un declino inesorabile delle fonti fossili. Noi, come portale di informazione, lo stiamo ripetendo da anni…
Sembra incredibile da leggere su un rapporto della BP, ma c’è scritto: ammette che occorre andare verso la transizione energetica e che siamo di fronte a un declino inesorabile delle fonti fossili. Noi, come portale di informazione, lo stiamo ripetendo da anni…
La ex British Petroleum ammette nel suo rapporto che la domanda di petrolio potrebbe non riprendersi mai completamente dall’impatto della pandemia e potrebbe iniziare a scendere in termini assoluti per la prima volta nella storia moderna, con il picco raggiunto nel 2019 e ora superato. La corporation afferma che il petrolio sarà sostituito da elettricità pulita, da parchi eolici, pannelli solari e centrali idroelettriche poiché l’energia rinnovabile emerge come la fonte di energia in più rapida crescita mai registrata.
Ci voleva la BP per sancirlo?!
Dei tre scenari ipotizzati, solo nel terzo, il più pessimista, si afferma che i livelli di consumo di petrolio rimarranno ancora costanti fino al 2035, quando inizieranno a scendere. Ma comunque si sottolinea che non aumenteranno di certo.
La pandemia dovrebbe aver contribuito alla “svolta verde” in quanto ha fermato, o comunque rallentato, secondo la BP, la crescita economica nei Paesi in via di sviluppo che in genere stimolano la domanda di energia, mentre i paesi economicamente sviluppati come la Germania stanno mettendo in atto politiche climatiche più ambiziose e aumentando le tasse sul carbonio, stanno scegliendo di puntare sulla svolta ecologica per dare una spinta alla ripresa.
Anche la crescita delle vendite di veicoli elettrici, ibridi e a idrogeno, che è già in corso, peserà anche sulla domanda di petrolio. Poi ci sono naturalmente i nuovi impegni presi dai Paesi mondiali negli accordi di Parigi, che dovrebbero (se rispettati) far scendere la domanda di energie fossili.
Da oltre trent’anni (appena!) affermo che il Paese del sole non può che puntare sulle fonti energetiche rinnovabili, con il necessario compendio di risparmio energetico e uso razionale dell’energia, altrimenti in un mondo di sprechi le rinnovabili da sole servono a ben poco. Se ci fossimo mossi trent’anni fa, ora le cose sarebbero molto diverse.
Da oltre trent’anni (appena!) affermo che il Paese del sole non può che puntare sulle fonti energetiche rinnovabili, con il necessario compendio di risparmio energetico e uso razionale dell’energia, altrimenti in un mondo di sprechi le rinnovabili da sole servono a ben poco. Cosa dicevano gli esperti trent’anni fa? Che l’apporto delle energie rinnovabili in Italia era risibile e non erano nemmeno da considerare alternative perché non lo erano affatto, al massimo potevano essere una graziosa cornicetta al quadro ben delineato dei combustibili fossili sempre e comunque. Ma del resto anche un ragazzino delle medie o forse anche di quinta elementare guardando una piantina nazionale di insolazione media annua o della ventosità, visto che siamo un paese pieno di costa e di monti, poteva facilmente capire le potenzialità enormi delle energie rinnovabili. Così come era altrettanto ovvio che i combustibili fossili erano una fonte esauribile. Ma a quanto pare i nostri esperti non avevano conoscenza nemmeno delle basi, del due più due che fa quattro. O forse le conoscevano e le conoscono ma hanno ben altri interessi da servire che quelli delle energie rinnovabili, dell’ambiente e di conseguenza della salute delle persone. Ora grazie a questi esperti, rigorosamente dotati di lauree prestigiose e master, messi a capo anche dei grandi gruppi energetici nazionali e grazie a una politica cieca, sorda e muta, l’Italia al 2020 (!!) è ancora dipendente dall’estero energeticamente per oltre il 75%, e con pervicace e masochista ostinazione si continua ad andare in quella direzione.
Si vedano a questo proposito, fra le innumerevoli follie, le trivellazioni in cerca di petrolio, il metanodotto TAP in Puglia, la metanizzazione della Sardegna e gli oltre 18 miliardi di euro che ogni anno lo Stato regala in modi diversi alle aziende di combustibili fossili. E sono quegli stessi esperti e quella stessa politica che poi si lamentano se c’è, ad esempio, la disoccupazione, quando sono le loro azioni che la determinano. E gli stessi esperti e gli stessi politici che grazie a scelte suicide hanno costruito un paese fortemente dipendente soprattutto nei due aspetti principali che determinano l’esistenza di tutti noi che sono l’energia e l’alimentazione. Cosa sarebbe successo se trenta o quarant’anni fa, invece di non fare nulla fino ad oggi, sottolineo nulla, confermato dalla dipendenza che ancora abbiamo, si fosse puntato decisamente alle energie rinnovabili e all’abbattimento di tutti gli sprechi energetici? Avremmo ora una filiera italiana sviluppata in innumerevoli settori, milioni di posti di lavoro certi, stabili, con un senso sociale e ambientale. Anche solo con la diffusione a tappeto delle tecnologie solari termiche applicate alla riqualificazione energetica del patrimonio edilizio italiano, avevamo e avremmo da lavorare per i prossimi cento anni. E che dire degli enormi risparmi di soldi per le tasche dei cittadini italiani e per quelle pubbliche che si sarebbero avuti con questi interventi? E che dire della salute e delle centinaia di migliaia di morti evitati a causa dell’inquinamento di ogni tipo che li determina ?
Niente di tutto questo è stato fatto e così il paese del sole si è visto arrivare, in tutti questi anni, tecnologie per le energie rinnovabili e il contenimento energetico anche dai paesi del nord Europa, che il sole a malapena sanno cosa sia ma che in maniera seria, intelligente e lungimirante hanno puntato su questi settori. Ci lamentiamo ora con la Germania brutta e cattiva ma le abbiamo comprato questo mondo e quell’altro di tecnologie solari, che solo a dirlo viene da ridere o da piangere, quando saremmo dovuti essere noi a vendergliele, altro che vendergli vestiti alla moda o le Ferrari. Infatti chi al mondo può sviluppare questo tipo di tecnologie e lavoro se non il Paese del sole? Ma queste sono considerazioni così ovvie, così semplici e solari appunto, che forse proprio per questo non entrano nei mega cervelli dei nostri mega esperti.
C’è chi potrebbe obiettare che i cinesi, grazie al regime di schiavitù lavorativa che hanno, avrebbero abbattuto i costi e quindi potuto venderci anche quel tipo di tecnologia, come in parte è avvenuto in maniera recente; ma a questi si può tranquillamente rispondere che tutti i soldi e le agevolazioni date ai fossili si sarebbero potute dare alle rinnovabili e così il “sistema Italia” avrebbe retto anche all’invasione dei prodotti cinesi. Oltre al fatto che realizzare campagne di informazione e sensibilizzazione per utilizzare il Made in Italy avrebbe fatto scegliere con cognizione di causa i prodotti italiani piuttosto che quelli arrivati da chissà dove e fatti chissà come. Inoltre partendo molto prima dei cinesi in quei campi, avremmo avuto vantaggi enormi. Per non parlare poi di tutto il personale tecnico e non, che avrebbe il compito di diffondere ovunque le buone pratiche e la consapevolezza presso la popolazione e tutta la conseguente formazione da fare in ogni luogo per divulgare come risparmiare energia e interagire con le fonti rinnovabili. Lavori e prassi normali e diffuse che sarebbero dovute diventare tante e usuali come le pizzerie e inserirsi nella mentalità e quotidianità così come si conosce a memoria la formazione delle propria squadra di calcio o le canzoni del proprio cantante preferito. E visto che ci si lamenta pure dell’Europa, cosa sarebbe successo se l’Italia fosse stata fortemente indipendente nei fatti, non nelle chiacchiere e nelle sparate dei finti sovranisti, per gli elementi base dell’esistenza? Avrebbe significato che ciò che faceva o fa l’Europa ci sarebbe interessato fino ad un certo punto, forti della nostra vera e sola sovranità che è quella nei fatti, perché è assolutamente ridicolo fare i sovranisti se poi si è totalmente dipendenti da tutto e tutti, che si chiamino Europa, Cina, Giappone, Russia o Stati Uniti. Sarà il caso ora finalmente di rivedere radicalmente la questione? Sarà il caso di puntare decisamente ad una filiera italiana di energie rinnovabili e tecnologie per il risparmio energetico? Si trasferiscano in questi settori i soldi che vengono regalati ai combustibili fossili, si taglino le innumerevoli spese inutili e dannose come ad esempio quelle per gli aerei militari da combattimento F35 e si vada diretti in questa direzione senza se e senza ma. Abbiamo tutto, conoscenze, tecnologia, competenze, persone, non ci manca nulla, se non la volontà politica o la volontà tout court, perché anche senza la politica si può andare risolutamente in quella direzione coinvolgendo la società civile, le imprese lungimiranti e la finanza etica. Poi anche la politica seguirà, tanto è sempre l’ultima a reagire (se mai lo farà).
E veniamo ora all’alimentazione. Per cosa è conosciuta l’Italia nel mondo? Per il cibo e non potrebbe essere altrimenti visto che ogni più piccolo paesino, borgo, città che sia, ha le sue specialità e cultura alimentare, cibo di qualità sopraffina frutto di attenzione e cura secolare per uno dei motivi di maggiore piacere nella vita e per il quale siamo invidiati da tutto il mondo. E una cultura di questo tipo da cosa è stata favorita? Anche dalla posizione geoclimatica meravigliosa dell’Italia dove praticamente è possibile coltivare una varietà di alimenti incredibile, considerate anche tutte quelle coltivazioni antiche e particolari che sono state trascurate e dimenticate e che possono essere facilmente riprese. Mangiamo due o tre tipi di mele quando ne esistono centinaia. Ma in una tale situazione da paradiso terreste dell’alimentazione abbiamo trascurato le nostre ricchezze e varietà alimentari e siamo riusciti a farci colonizzare da cibo spazzatura che arriva da paesi che non sanno nemmeno lontanamente cosa sia una cultura dell’alimentazione. Vengono prodotti e venduti cibi imbottiti di sostanze chimiche e veleni assortiti che sono un attentato quotidiano alla nostra salute. Bombardati da pubblicità dementi ci fanno credere che prodotti industriali pieni di robaccia che arriva da mezzo mondo e packaging ci facciano tanto bene e siano pure naturali. Viste quindi le nostre immense risorse e potenzialità, perché non dirigersi verso la massima sovranità alimentare possibile, recuperando ogni centimetro coltivabile, facendo rifiorire la nostra eccezionale agricoltura da nord a sud, coltivando di tutto e proteggendo con sacralità la biodiversità che tra l’altro è quella che ci aiuta ad avere ottime difese immunitarie?
Non si può fare? E’ troppo difficile? Assolutamente no, basta puntare decisamente su questi due ambiti di forte indipendenza alimentare ed energetica così come si è fatto per altri ambiti che non solo ci hanno regalato pericolosissima dipendenza ma ci hanno determinato spese, prodotto inquinamento e danneggiato la salute. In alternativa potete sempre staccare uno sportello della vostra automobile, magari proprio della tanto decantata Fiat, orgoglio nazionale che di nazionale non ha praticamente più nulla e provare a mangiarlo. Magari sarà un po’ indigesto ma sai che scorpacciata….
Il video realizzato da un dottorando utilizza i dati forniti dal colosso petrolifero BP per visualizzare la crescita della produzione energetica al mondo dal 1860 ad oggi, a seconda della fonte. Quando teniamo in considerazione tutta l’energia prodotta (e non solo di quella elettrica) ci accorgiamo che siamo ancora molto distanti da emissioni 0 e che le rinnovabili, da sole, non bastano, se contemporaneamente non ci impegnamo a ridurre di molto i consumi complessivi.
Il canale Youtube Data is Beautiful ha pubblicato un video interessante che mostra la progressione cronologica della produzione globale di energia a seconda della fonte: carbone, biocarburanti tradizionali (legname), petrolio greggio, gas naturale, energia idroelettrica, nucleare, solare, eolica. Il canale appartiene a un dottorando appassionato di dati, che ha usato come fonte le Statistical Review di BP, uno dei colossi mondiali nel settore petrolifero.
Il video mostra l’aumento della produzione di energia negli ultimi 160 anni. Parliamo qui del totale dell’energia prodotta, non soltanto dell’energia elettrica. Quindi si considera, ad esempio, anche il legname per scaldare le abitazioni, i carburanti per far viaggiare le automobili, gli aeroplani, azionare motori vari e così via. In pratica tutta l’energia prodotta dall’essere umano per alimentare le proprie attività. La progressione è a dir poco impressionante. Si parte dal 1860 quando l’energia complessiva prodotta sulla terra era di circa 8mila ThW ed era prodotta per la maggior parte dal legname, per giungere oggi a una produzione di 153mila ThW all’anno (2019), con petrolio, carbone e gas naturale a farla da padroni (87% del totale). Solo dal 2000 ad oggi la produzione mondiale di energia è cresciuta di oltre il 27%.
Le fonti rinnovabili producono oggi solo 6.500 ThW di energia all’anno, poco più del 4% dell’energia complessiva. Siamo ancora distanti anni luce dalle emissioni zero che la crisi climatica ci richiede. Inoltre va considerato che mentre per la produzione di energia elettrica la transizione verso le rinnovabili è relativamente semplice, perché l’infrastruttura di distribuzione dell’energia rimane sostanzialmente la stessa, lo stesso non vale ad esempio per la transizione da veicoli a carburante verso auto elettriche. Infatti in quel caso (come in molti altri) è necessario ripensare l’intera infrastruttura, dato che l’energia non “entra” più nella macchina attraverso una pompa di benzina ma attraverso una presa di corrente.
Se da una parte le emissioni di anidride carbonica, il gas serra responsabile del riscaldamento globale, continuano ad aumentare, dall’altro, magra consolazione, crescono a un ritmo più lento rispetto al passato. A raccontarlo, mentre è in corso la Cop25 (l’annuale conferenza internazionale delle Nazioni Unite sul clima) a Madrid, sono stati i ricercatori dell’Università dell’East Anglia (Uea), in collaborazione con l’Università di Exeter, secondo cui quest’anno le emissioni derivanti dalla combustione di combustibili fossili sono cresciute dello 0,6%, raggiungendo quasi 37 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2). Vale a dire una riduzione significativa rispetto all’1,5% nel 2017 e il 2,1% nel 2018. Lo studio Global Carbon Project 2019 è stato appena pubblicato su Nature Climate Change, Earth System Science Data edEnvironmental Research Letters.
Il tasso di crescita più lento delle emissioni di anidride carbonica nel 2019, spiegano i ricercatori, è dovuto principalmente a drastiche riduzioni dell’utilizzo del carbone da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea (-10%), e, in aggiunta, a una crescita più lenta dell’uso di carbone da parte di Paesi come la Cina e l’India. Inoltre, quest’anno, secondo le stime dello studio, le emissioni di CO2 dovute al consumo di petrolio, dovrebbero crescere dello 0,9%, mentre per quelle dovute all’uso di gas naturale, che rappresenta la fonte di emissioni in più rapida crescita, l’aumento previsto è del 2,6%. Mentre si prevede che le emissioni derivanti dalla combustione del carbone diminuiranno dello 0,9%.
(Infografica: University of East Anglia, University of Exeter e Global Carbon Project)
Sebbene le strategie climatiche ed energetiche stiano emergendo, sottolineano i ricercatori, non sono ancora sufficienti per invertire la tendenza delle emissioni globali. “Un fallimento nell’affrontare prontamente i fattori trainanti alla base della continua crescita delle emissioni limiterà la capacità del mondo di spostarsi su un percorso coerente all’obiettivo dell’Accordo sul clima di Parigi”, spiega Pierre Friedlingstein, dell’università di Exeter. “La scienza è chiara: le emissioni di CO2 devono ridursi a zero a livello globale per fermare un ulteriore riscaldamento del pianeta”.
Le emissioni globali di CO2, ricordano i ricercatori, sono cresciute in media dello 0,9% all’anno dal 2010, più lentamente del 3% degli anni 2000. Mentre quest’anno le stime delle emissioni provocate dalla deforestazione, hanno raggiunto 6 miliardi di tonnellate di CO2, circa 0,8 miliardi di tonnellate in più rispetto ai livelli del 2018. Le emissioni totali di CO2 prodotte dalle attività umane – compresa la combustione di combustibili fossili e il consumo di suolo – dovrebbero raggiungere i 43,1 miliardi di tonnellate nel 2019. Mentre, la concentrazione di CO2 atmosferica nel 2019 dovrebbe essere del 47% al di sopra dei livelli preindustriali. In Europa, sempre secondo le stime del nuovo studio, le emissioni sono diminuite dell’1,7% nel 2019, con una riduzione prevista del 10% delle emissioni a base di carbone. Mentre, il consumo petrolio continua ad aumentare, portando a un aumento delle emissioni dei prodotti petroliferi dello 0,5%. Anche il consumo di gas continua a crescere, di circa il 3% di media, sebbene a un tasso molto variabile tra gli stati membri dell’Ue. “Le attuali politiche climatiche ed energetiche sono troppo deboli per invertire le tendenze delle emissioni globali”, spiega Corinne Le Quéré, ricercatrice dell’Uea. “Le politiche hanno avuto successo a vari livelli nell’implementazione di tecnologie a basse emissioni di carbonio, come i veicoli solari, eolici ed elettrici. Ma queste spesso si aggiungono alla domanda esistente di energia anziché sostituire le tecnologie che emettono CO2, in particolare nei paesi in cui la domanda di energia è in crescita. Abbiamo bisogno di politiche più forti volte a eliminare gradualmente l’uso di combustibili fossili”.
Non sono solo gli oceani e gli animali marini a
soffrire: la plastica comporta evidenti rischi per la salute umana e per questo
è necessario ed urgente adottare il principio di precauzione e a iniziare ad
eliminare definitivamente questo materiale, a partire dall’usa e getta. Un rapporto diffuso nelle ultime ore dal Center for
International Environmental Law (CIEL) evidenzia l’urgenza
di adottare il principio di precauzione per proteggere l’umanità
dall’inquinamento della plastica. Valutate tutte le fasi del ciclo
produttivo e di vita di questo materiale, il report infatti rileva evidenti
rischi per la salute umana.
Nel dettaglio, il
rapporto del CIEL evidenzia come:
– le materie
plastiche presentano differenti rischi per la salute umana in ogni fase
del loro ciclo di vita: dalle sostanze chimiche pericolose rilasciate durante
l’estrazione del petrolio e la produzione delle materie prime, all’esposizione
agli additivi chimici rilasciati durante l’utilizzo delle materie plastiche,
per terminare con l’inquinamento dell’ambiente e del cibo che può derivare dal
rilascio di plastica nell’ambiente;
– le
microplastiche, come frammenti e fibre, a causa delle loro piccole dimensioni
possono entrare nel corpo umano attraverso il contatto, l’ingestione o
l’inalazione, penetrare nei tessuti e nelle cellule generando impatti
sull’uomo, anche a causa del rilascio di sostanze chimiche pericolose;
– incertezze e
lacune conoscitive non consentono di avere un quadro dettagliato circa gli
impatti sulla salute umana e impediscono a consumatori, comunità e istituzioni
di prendere decisioni consapevoli su questo materiale.
Commentando quanto
emerge dal report di CIEL, Giuseppe Ungherese, responsabile campagna
Inquinamento di Greenpeace Italia, dichiara: “I rischi per la salute derivanti
dall’inquinamento da plastica sono stati ignorati per troppo tempo, un
atteggiamento che va contro le regole basilari della prevenzione che
dovrebbero guidare le scelte istituzionali e delle multinazionali e venire
prima dei profitti. Imprese e istituzioni hanno scelto invece di mantenere lo
status quo. Non sono solo gli oceani e gli animali marini a soffrire le conseguenze
della dipendenza dalla plastica della nostra società, siamo tutti noi a
subirne gli effetti. Nonostante ci sia ancora molto da chiarire su tutti i
possibili impatti generati dalla plastica sulla salute umana, i rischi sono
evidenti. Le conoscenze attuali impongono di applicare concretamente il
principio di precauzione e iniziare a eliminare definitivamente la plastica, a
partire dall’usa e getta”.
“Il ricorso a
questo materiale, oltre a devastare il Pianeta, continua a mantenerci
dipendenti dai combustibili fossili, contribuendo ai cambiamenti
climatici”, continua Ungherese. “Non ci sono motivi per continuare a mettere a
rischio la salute umana in nome della presunta convenienza della plastica. Da
mesi chiediamo alle grandi multinazionali, responsabili della
commercializzazione dei più grandi volumi di plastica usa e getta, di assumersi
le proprie responsabilità riducendo drasticamente la produzione di plastica
monouso”, conclude.
Il rischio di nuove trivellazioni di petrolio è
nazionale: non solo il Mar Ionio, ma anche l’Adriatico centro meridionale ed il
canale di Sicilia sono sotto attacco dalle compagnie petrolifere. È quanto
denuncia Legambiente in merito al dibattito di questi giorni sulle autorizzazioni
alle prospezioni petrolifere nel mar Ionio da parte del Ministero dello
Sviluppo Economico. “Questa strada è sbagliata: il Governo abbandoni le fonti
fossili”.
“Il rischio di
nuove trivellazioni di petrolio è nazionale: non è solo il Mar Ionio ad essere
sotto attacco delle compagnie petrolifere, anche l’Adriatico centro meridionale
e il canale di Sicilia sono oggetto di richieste di prospezione e ricerca di
petrolio nei fondali marini. Dal Governo di M5S e Lega che insieme a noi hanno
sostenuto il Sì alla campagna referendaria del 17 aprile 2016 contro le
trivellazioni di petrolio ci aspettiamo 5 atti concreti: lo stop immediato a
nuove trivellazioni in mare e a terra a partire dalle 96 richieste di
prospezione, ricerca e coltivazione in attesa di via libera; il taglio dei 16
miliardi di euro di sussidi annuali alle fonti fossili; la legge che vieta
l’uso dell’airgun per le prospezioni, per cui il M5S si era tanto battuto
durante la discussione parlamentare dell’allora disegno di legge sugli ecoreati;
un piano energetico nazionale per il clima e l’energia che definisca un
percorso concreto per la decarbonizzazione dell’economia; la riconversione
delle attività di Eni, società a prevalente capitale pubblico, dalle fonti
fossili all’efficienza energetica e alle rinnovabili”. È questo il commento
di Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente sulle
polemiche di questi giorni sulle autorizzazioni alle prospezioni petrolifere
nel mar Ionio da parte del Ministero dello Sviluppo Economico.
L’Italia, infatti, continua la sua insensata corsa all’oro nero. A
confermarlo gli ultimi dati aggiornati da Legambiente che fotografano la
situazione attuale: ad oggi su 16.821 kmq sono ben 197 le concessioni di
coltivazione, tra mare (67) e terra (130), alle quali si potrebbero aggiungere
ben 12 istanze di concessione di coltivazione (7 in mare e 5 a terra). E
poi su un totale di 30.569 kmq sono attivi 80 permessi di ricerca, ai quali si
potrebbero aggiungere 79 istanze di permessi di ricerca su un totale di 26.674
kmq, e 5 istanze di prospezione a mare su un totale di 68.335 kmq.
L’associazione
ambientalista da questo Governo si aspetta più coerenza e fatti concreti sulla lotta
ai cambiamenti climatici e contro le trivellazioni di petrolio, sui quali
soprattutto il Movimento 5 Stelle si è tanto speso in campagna elettorale e
anche nella scorsa legislatura quando era all’opposizione. Per arrestare i
cambiamenti climatici, ma anche per ridurre e combattere l’inquinamento
atmosferico e migliorare la qualità di vita dei cittadini è di fondamentale
importanza uscire dalla dittatura delle fonti fossili, ancora oggi al centro
del sistema energetico del nostro Paese. Per questo l’Esecutivo deve avere il
coraggio di imprimere una svolta alla politica energetica nazionale, perché
quello che serve all’Italia è un efficace e ambizioso Piano per il clima e
l’energia che punti alla decarbonizzazione dell’economia per un futuro più
rinnovabile e libero dalle fonti fossili che vengono sussidiate dallo Stato (16
miliardi di euro all’anno per le fossili). (In media tra il 2017 e i primi mesi
del 2018 il 30% del gas estratto in Italia e il 10% del petrolio è stato
esentasse Elaborazione Legambiente su
dati Mise).
“Dovremo ridurre
sensibilmente – aggiunge Ciafani – i consumi di gas nel settore
elettrico e civile, attraverso una generazione sempre più distribuita e
rinnovabile. Così come dovremo ridurre quelli di petrolio nei trasporti. Una
prospettiva che si scontra anche con le attività del più grande gruppo industriale
italiano, ENI, che continua a fare scelte e investimenti nella direzione
opposta e rischia di diventare uno dei campioni delle fonti fossili e tra i
nemici numero uno della lotta ai cambiamenti climatici. Stiamo parlando di
un’azienda energetica, di proprietà anche dello Stato, che dovrebbe a pieno
titolo entrare nell’agenda di governo dopo Ilva.
Nel 2018, dopo che
il mondo ha deciso di prendere la strada della decarbonizzazione dell’economia,
ENI continua a trivellare per estrarre petrolio e gas, in Italia e nel
resto del mondo. Da noi lo fa in Val d’Agri, in Basilicata, nel più grande
giacimento petrolifero a terra di tutta Europa, con non pochi problemi
ambientali. Lo fa nei mari che circondano il Belpaese, da sola o in partnership
con altre aziende, come nel caso della piattaforma Vega con Edison nel canale
di Sicilia, di cui è stato presentato il progetto di raddoppio, bocciato dalla
Commissione Via del Ministero dell’ambiente, ma mai ufficialmente ritirato. Lo
fa in paesi in tutto il mondo, dal Portogallo all’Egitto, dalla Nigeria
all’Artico. Noi pensiamo – conclude Ciafani – che questa strada sia
sbagliata e chiediamo al governo italiano di essere coerente con gli impegni
sottoscritti a livello internazionale, indirizzando l’attività futura di Eni
verso le tecnologie pulite che non hanno nulla a che fare con gas e petrolio”.
“Sempre più impegnata nel rilancio di fonti
fossili in tutto il mondo a fronte di investimenti minimi nelle rinnovabili, in
conflitto con gli impegni presi dall’Italia sul clima”. Legambiente, Greenpeace
e Wwf contestano le scelte di Eni e scrivono al vicepremier Di Maio affinché si
definiscano all’interno del Piano Nazionale energia e clima gli indirizzi
strategici per l’azienda controllata dallo Stato.
“Serve una profonda riconversione del sistema energetico e industriale
italiano, se vogliamo raggiungere gli obiettivi firmati con l’Accordo di Parigi
sul Clima, a partire dalle imprese direttamente controllate dal Governo. Per
questo chiediamo al Ministro Di Maio di chiarire al più presto le scelte e gli investimenti
da parte di Eni. L’azienda controllata dallo Stato è, infatti, sempre più
impegnata nel rilancio di estrazioni petrolifere e ampliamento dei giacimenti
di idrocarburi in tutto il Mondo, a fronte di investimenti minimi nelle fonti
rinnovabili. Scelte in evidente conflitto con gli impegni presi dall’Italia per
combattere i cambiamenti climatici. Dal Governo ci aspettiamo un impegno
concreto per aiutare il nostro Paese e il suo sistema di imprese ad accelerare
nella direzione dell’innovazione e del cambiamento”.
È l’appello
che Legambiente, Greenpeace e Wwf lanciano al Ministro dello
Sviluppo Economico Luigi Di Maio affinché si definisca all’interno del Piano
Nazionale energia e clima – che dovrà essere trasmesso alla Commissione europea
entro la fine di dicembre – gli indirizzi strategici per l’azienda, perché
possa passare dall’essere un ostacolo sulla strada degli impegni sul Clima a
diventare una leva e uno strumento virtuoso nella complessa sfida climatica. Nella
lettera inviata oggi al vicepresidente del Consiglio – a firma di Stefano
Ciafani (presidente di Legambiente), Giuseppe Onufrio(Direttore
Esecutivo Greenpeace Italia) e Donatella Bianchi (presidente Wwf
Italia) – si sottolinea che gli investimenti dell’azienda “riguardano
direttamente le scelte politico-istituzionali sul piano interno e
internazionale del nostro Paese, perché possono contribuire ad accelerare la transizione
attraverso investimenti in innovazione e ricerca oppure ritardarla
ulteriormente”.
Un impegno da parte
del Governo anche alla luce della discussione in corso a Katowice (in Polonia)
dove si sta svolgendo la Conferenza sul Clima, un appuntamento di grande importanza per il futuro
dell’Accordo di Parigi. Il recente rapporto IPCC ha infatti fornito solide
prove sulla necessità e l’urgenza di contenere l’aumento della temperatura
media globale entro 1.5°C per poter vincere la sfida climatica e contenere
in maniera significativa i danni climatici non solo per i paesi più poveri e
vulnerabili, ma anche per l’Europa.
“Il successo della
COP24 dipenderà dall’Europa, ma anche dagli impegni degli dagli Stati –
scrivono le tre associazioni – In questo scenario diventa determinante che le
scelte portate avanti dai Governi e dalle imprese controllate siano coerenti
con questa direzione strategica”. A oggi, invece, le attività di Eni sono
arrivate ad interessare 71 Paesi, movimentando nel 2017 migliaia di
barili/giorno di idrocarburi (gas e petrolio) con esplorazioni che stanno
andando a interessare sempre più aree del mondo, tra l’altro assai delicate da
un punto di vista ambientale: dal circolo polare artico ai tanti pozzi già
produttivi o di cui è prevista l’entrata in produzione in varie aree nel
Mediterraneo, passando per il Golfo del Messico e l’Oceano Indiano, il Mar
Caspio e quello di Barents, la foresta amazzonica e le coste africane. È
preoccupante inoltre che pure i minimi investimenti nelle fonti rinnovabili
portati avanti da Eni, sottolineano ancora Greenpeace, Legambiente e Wwf,
“coinvolgono anche l’uso di materie prime come l’olio di palma, che deriva da
attività spesso connesse alla deforestazione e che contribuiscono in maniera
rilevante alle emissioni di gas serra”. Così come “non è più possibile
accettare acriticamente le ripetute dichiarazioni sulla ‘sostenibilità climatica’
del gas naturale, sui cui tanto Eni afferma di puntare. Numerosi rapporti
confermano infatti che il computo complessivo delle emissioni di gas
clima-alteranti connesse alle produzioni di gas naturale sono, e sono state,
ampiamente sottostimate. Se l’utilizzo del gas è un elemento degli scenari di
transizione energetica, la scala del proposto sviluppo di una ulteriore
dipendenza dal gas naturale della nostra economia è contraria a ogni ipotesi
ragionevole di tutela del clima e di indipendenza energetica”.
Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/12/eni-continua-rilanciare-fonti-fossili-associazioni-di-maio/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni
A preannunciarlo è il rapporto Renewable Power Generation Costs in 2017 dell’International Renewable Energy Association: entro il 2020 con ogni probabilità si potrebbe avere energia elettrica da sole e vento a un costo pari o inferiore a carbone e petrolio.
Dal 2010 il costo di generazione elettrica dall’eolico onshore è sceso di circa il 23% e quello del solare fotovoltaico del 73%. È quanto emerge dal rapporto Renewable Power Generation Costs in 2017 di Irena (International Renewable Energy Association), secondo cui i costi del solare dovrebbero scendere ulteriormente entro il 2020.
Quindi, se le previsioni saranno rispettate, i progetti eolici e solari più avanzati potrebbero fornire elettricità, nel giro di tre anni, a un prezzo pari o addirittura inferiore (nei due anni successivi) a 3 centesimi di dollaro per kwh. Un costo questo che sarebbe inferiore a quello con cui si produce oggi energia dalle fonti fossili (5-17 centesimi di dollaro per kWh). Dai dati provenienti dai progetti e dalle aste, sempre entro il 2020, tutte le tecnologie per la produzione di energie rinnovabili attualmente commercializzate concorreranno, e persino batteranno sul prezzo, i combustibili fossili, con una produzione compresa tra i 3 e i 10 centesimi di dollaro/kWh. L’energia eolica è già disponibile al prezzo di qualsiasi altra fonte: i costi medi ponderati globali negli ultimi 12 mesi ammontano a 6 centesimi di dollaro (-23% dal 2010) e l’energia eolica è oggi disponibile anche a 4 centesimi per kWh. Per il solare si è invece nell’ordine di 10 cent. Un calo percentuale ancora maggiore l’ha fatto registrare il fotovoltaico diminuito del 73% dal 2010 a un Lcoe (costo di produzione costante dell’energia sull’intera vita operativa dell’impianto) di 10 centesimi di dollaro/kWh, con una previsione di un’ulteriore riduzione entro il 2020.
“Questa nuova dinamica segna un significativo cambiamento nel paradigma energetico”, ha dichiarato Adnan Z. Amin, direttore generale di Irena. “Il declino dei costi grazie alla tecnologia sono senza precedenti e dimostrano il grado con cui le rinnovabili stanno cambiando il sistema energetico globale”.
Ma la riduzione nei costi per la produzione di energia da sole e vento non basta: servono investimenti, ricerca e sviluppo. A sostenerlo sono studiosi ed economisti del settore energetico in tutto il mondo, preoccupati dal rallentamento osservato nell’implementazione di sistemi di produzione energetica verdi. Come riportato da Bloomberg, le compagnie del settore dell’energia solare spendono solo l’uno per cento dei loro introiti nella ricerca, affossando così le possibilità di crescita del mercato. Nel suo libro, “Taming the Sun. Innovations to Harness Solar Energy and Power the Planet”, Varun Sivaram invita i governi a farsi carico della ricerca per dare impulso al mercato.
Se le economie più sviluppate decideranno di raggiungere realmente gli obiettivi dell’accordo di Parigi sul clima sarà una catastrofe per l’industria delle fossili: rischiano di saltare 2,3 trilioni di dollari di investimenti in petrolio e gas.
Gli accordi di Parigi sulla riduzione delle emissioni di CO2 e di contenimento del riscaldamento globale entro i 2 gradi centigradi sono un pericolo, e anche serio, per le grandi e piccole industrie del settore oil&gas. Secondo uno studio di Carbon Tracker, infatti, se realmente si mettessero in atto le contromisure necessarie a restare sotto i 2 gradi di aumento delle temperature le aziende petrolifere non avrebbero praticamente più motivo di investire. Secondo Carbon Tracker, infatti, gli investimenti non più necessari sarebbero pari a circa 2.300 milioni di dollari. Calcoli fatti da qui al 2025. Una enorme massa di capitali che, a livello globale, dovrebbe essere spostata dal petrolio e dal gas verso le energie rinnovabili, il risparmio energetico e la mobilità sostenibile elettrica o con carburanti alternativi. Tutti settori, al contrario, utili al raggiungimento degli obiettivi di Parigi.
Sono 69 le società, pubbliche e private, del settore petrolifero che, secondo Carbon Tracker, avranno ripercussioni. Il budget eccedente varia dal 20-40% fino al 50-70%, ma la maggior parte delle grandi società rientrano nel range 30-50%. Tra queste anche big del settore come Exxon e l’italiana Eni. Da notare che, applicando politiche utili a restare entro i 2 gradi di riscaldamento, sarebbero soprattutto le società private a perderci. Non è un caso, fa notare Carbon Tracker, che a maggio di quest’anno il 62% degli azionisti di Exxon abbia chiesto all’azienda di produrre un report dettagliato sulle implicazioni di questo scenario sul bilancio della società. A questo punto, se Exxon dovesse produrre dati anche lontanamente simili a quelli di Carbon Tracker, rischierebbe la fuga degli azionisti.
È stata fissata al 13 novembre 2017 la prima udienza per la causa che Greenpeace Nordic e Nature and Youth hanno intentato contro il governo norvegese per l’ok alle trivellazioni nell’Artico per il petrolio «violando l’accordo di Parigi».
Il governo norvegese era stato citato in giudizio per la concessione di nuove licenze di trivellazione petrolifera nel Mare Artico e ora è stata fissata la prima udienza del processo, che si terrà il 13 novembre. A presentare il ricorso sono state Nature and Youth (una organizzazione ambientalista giovanile norvegese) e Greenpeace Nordic.
“Il governo sta disattendendo l’Accordo di Parigi sul clima e violando il diritto costituzionale norvegese alla salute e alla tutela dell’ambiente di tutte le generazioni, sia di quelle presenti sia di quelle future” commenta Truls Gulowsen, di Greenpeace Norvegia. “Con questa azione legale vogliamo far sì che i governi di tutto il mondo siano tenuti a rendere conto degli impegni che assumono. Consentendo alle compagnie petrolifere di trivellare nell’Artico, il governo norvegese mette a rischio la salute e la vita delle popolazioni”. Il governo norvegese – per la prima volta in vent’anni – ha concesso lo sfruttamento di una nuova area nel Mare di Barents, permettendo a Statoil, Chevron, Lukoil e altre dieci compagnie petrolifere di avviare nuove campagne esplorative nel 2017. Statoil ha già annunciato che inizierà le trivellazioni quest’estate.
«L’autorizzazione di nuove trivellazioni non è compatibile con l’impegno assunto dalla Norvegia, con la ratifica dell’accordo di Parigi: ridurre le proprie emissioni di CO2 e contenere l’aumento della temperatura globale a 1.5° C – spiega l’associazione ambientalista – Nature and Youth e Greenpeace Nordic sosterranno inoltre il diritto alla tutela dell’ambiente per le generazioni future, così come è formulato nella Costituzione norvegese, che per la prima volta viene invocato in un’azione legale. Si tratta del primo caso giudiziario che trae origine dall’Accordo di Parigi, ma azioni legali contro governi e grandi aziende che non proteggono le popolazioni dai cambiamenti climatici sono già state intentate in Filippine, Stati Uniti e Svizzera».