Sea-Ty: “Ecco come valorizziamo e tuteliamo le meraviglie del mar ligure”

Il progetto Sea-Ty è un percorso di conoscenza, sensibilizzazione e valorizzazione di un’area marina unica completamente sommersa: le Secche di Santo Stefano al Mare (IM). Lo scopo è quello di avvicinare cittadini, scuole, giornalisti e ambientalisti a questa area marina, facendo conoscere il ruolo determinante delle praterie di posidonia che qui sono protagoniste. Qualche anno fa feci un viaggio nel nord Africa e viaggiando sulle dune del deserto e attraversando a piedi piccoli villaggi ho scoperto quanto poco fertile possa essere una terra. I miei occhi vedevano aridità: la vita vegetale e animale, per come la conoscevo sino ad allora, assumeva un altro significato. D’altra parte, immergendomi in mare, ho avuto il privilegio di conoscere da vicino la vita stupefacente sottomarina, che un occhio poco attento come il mio non riusciva a scorgere dalla terra: coralli, alghe, pesci, testuggini abitavano in maniera silenziosa il blu del mare capovolgendo il mio immaginario, ovvero una terraferma piena di vita e un mare povero.

Da qualche anno mi sono trasferita in Liguria e la notizia che esistevano luoghi altrettanto ricchi di vita in queste acque mi ha emozionato. Non sarà la barriera corallina africana, ma anche qui coralli, alghe preziose, pesci e cetacei vivono e proliferano sotto il nostro naso, senza mostrarsi. Ho intervistato la biologa marina ed educatrice ambientale Monica Previati, che lavora da anni nell’ambito della Liguria di ponente per far conoscere il mondo del mare a più livelli, organizzando dalle attività con i ragazzi delle scuole alla divulgazione ai media. Insieme all’European Research Institute e con il sostegno della Compagnia di San Paolo, ha da poco dato vita al progetto Sea-Ty.

Che cos’è Sea-Ty?

Si tratta di un percorso di conoscenza, sensibilizzazione e valorizzazione di un’area marina speciale e unica, completamente sommersa, la cui presenza è centrale per l’attività e il benessere umano. Ho proposto alla onlus European Research Institute, di cui fa parte Franco Borgogno – divulgatore scientifico, presidente di Ocean Literacy Italia e autore di un paio di pubblicazioni a tema inquinamento da plastica e mare –, di creare insieme un progetto da presentare alla Fondazione di Compagnia di San Paolo, che aveva aperto dei bandi per idee che riqualificassero aree urbane degradate. Il progetto da me scritto prende in considerazione un’area specifica che è la secca di Santo Stefano al Mare, completamente sommersa e per questo non visibile, ma degradata dall’utilizzo pluriennale indiscriminato di reti da pesca. La secca si estende per otto chilometri di lunghezza ed è un’area molto ricca da un punto di vista di biodiversità: è una collina sott’acqua che dal fondo del mare si innalza sino a cinquanta metri di altezza. Nella parte più alta c’è una prateria di posidonia – una specie endemica di pianta marina – e ai lati coralli e spugne. In questo ambiente pieno di vita le reti dei pescatori sono un pericolo: è un po’ come entrare in un bosco con una ruspa, estirpando tutto ciò che troviamo. Ciò che vogliamo fare con Sea-Ty è quello di far conoscere queste secche e farle diventare un’area periurbana in cui il mare venga considerato come parte della città, quindi un luogo proprio come gli altri di cui prendersi cura, pretendendo che venga gestito e tenuto pulito, proprio come si farebbe con i musei, i palazzi, le chiese, le abitazioni. Vorremmo quindi da una parte coinvolgere turisti, cittadini, scuole, per far conoscere loro questo luogo e, dall’altra parte, richiedere aiuto ai sommozzatori e ai pescatori affinché vengano tolte le reti ora presenti sulle secche, che continuano a pescare e che con il continuo movimento feriscono e uccidono chi abita in queste acque.

Perché è importante parlare del mare?

Mi sono resa conto che spesso quando parliamo del mare lo facciamo da un punto di vista problematico: inquinamento della plastica, cambiamento climatico, danni causati dalle azioni umane. Ma conosciamo ancora poco del mondo marino: partendo proprio dal mondo scientifico, parte del fondale non è ancora stato esplorato. Peccato che la nostra vita dipenda da esso: fornisce l’ossigeno, assorbe anidride carbonica, mitiga il clima, oltre ad assicurare cibo e lavoro. E durante le attività con i ragazzi mi sono resa conto di quanto poco fosse conosciuto: non avevano mai riflettuto sul fatto che il fatto che esistono nomi diversi per mari e oceani o che non si tratta di un mondo piatto, ma di valli, montagne, pianure, vulcani.

Spesso quando parliamo di ossigeno ci vengono in mente gli alberi, ma mai il mare. E anche da un punto di vista amministrativo i comuni devono molto al mare, in particolar modo per il settore del turismo che si basa su di esso, eppure ne sanno ben poco. Inoltre dobbiamo ricordarci che ovunque viviamo, anche se stiamo a centinaia di chilometri dalle coste, molte nostre azioni quotidiane influenzano il mare.

Parliamo di tutela del mare. Cosa sta cambiando?

Credo che sempre più stiamo andando verso la giusta direzione per la tutela del mondo in cui viviamo e lo strumento principale da usare è proprio la conoscenza: più conosciamo, più sappiamo cosa e come proteggere. Negli anni passati purtroppo abbiamo creduto a troppe falsità: che il mare coprisse tutto, quindi che potevamo buttare qualsiasi cosa al suo interno, che avesse risorse infinite. Siamo andati avanti da allora: abbiamo compreso che certi passi devono essere fatti con maggior rispetto e conoscenza, anche attraverso valutazioni di impatto. Stiamo andando verso una direzione di sempre maggiore tutela. Questo sarà il primo anno del decennio del mare, che con l’agenda 2030 ha istituito la tutela della vita marina come obiettivo globale da raggiungere.

Parliamo di rifiuti: qual è la situazione?

Da ciò a cui assisto vedo cittadini sempre più coscienti e consapevoli su questo tema. Il problema è che stiamo pagando e pagheremo gli errori fatti negli anni scorsi ancora per molto tempo: stiamo raccogliendo diverse migliaia di cotton fioc presenti in mare, che oggi non è più possibile produrre, ma che per anni sono stati venduti. Credo anche che se è vero che c’è sempre più consapevolezza del problema, ce n’è ancora poca sulla soluzione. In particolar modo, man mano che diventiamo adulti perdiamo il contatto con ciò che possiamo fare noi quotidianamente per limitare ed eliminare i nostri rifiuti. Se è pur vero che alcune azioni devono partire dall’alto, credo altresì che ognuno di noi possa e debba agire nella sua quotidianità.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/05/sea-ty-valorizziamo-tuteliamo-meraviglie-mar-ligure/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Vietnam, moria di pesci a causa dell’inquinamento

VIETNAM-TAIWAN-ENVIRONMENT-POLLUTION-PROTEST

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Un’ondata di indignazione si è diffusa nelle piazze e sui social media del Vietnam dopo la moria di pesci verificatasi nella costa centrale del Paese che ha portato al divieto della vendita dei frutti di mare nella regione e alla temporanea disoccupazione dei pescatori. Fino a questo momento non è ancora stato possibile scoprire la reale causa di questo disastro ambientale, ma secondo molti la responsabilità potrebbe essere attribuibile a un impianto industriale della Formosa Plastics Corporation situato nella zona industriale di Ang Vung. Il governo vietnamita ha detto che non vi è alcuna prova che l’impianto appartenente alla Formosa Plastics Corporation sia responsabile di questa situazione, ma gli attivisti della provincia di Tran Hong Ha hanno protestato disseminando le strade di pesci morti. La contaminazione delle acque ha avuto un effetto devastante sulle comunità locali di pescatori con perdite stimate in 200mila dollari in una sola settimana. Giovedì scorso il governo vietnamita ha deciso di vietare la vendita e la distribuzione dei pesci provenienti dalle aree colpite. Una catastrofe ambientale che è rimbalzata sul web, tanto che su Change.org è stata aperta una petizione nientemeno che da Erin Brockovich.

Fonte:  IBT

Messico, moria di 36 tonnellate di pesci nel lago Cajititlan: la causa è l’inquinamento

L’inquinamento del Lago Cajititlan in Messico ha prodotto una imponente moria di pesci. Ne sono state raccolte 36 tonnellate. Ma dei responsabili per ora nessuna traccia

La moria di pesci che si è registrata nel lago Cajititlan in Messico già da martedì scorso ha assunto proporzioni notevoli e tra sabato e domenica scorso i pescatori hanno tirato su oltre 36 tonnellate di pesce morto. Le cause sembra siano state indotte da qualche comportamento criminale. Queste le conclusioni a cui è giunta Magdalena Ruiz Mejía, segretario di Ambiente e sviluppo territoriale (Semadet). Non è la prima volta che nel lago si verificano massicce morie di pesci, questa è la quarta in ordine di apparizione ma probabilmente è la più grave e consistente. I problemi di inquinamento sono noti e denunciati da diversi anni e già nel 2013 furono avanzati sospetti sulla salubrità per flora e fauna delle acque lacustri.MEXICO-ENVIRONMENT-FISH

A questo proposito, il Comune di Tlajomulco de Zuniga, sotto cui ricade la territorialità del lago ha affermato in una breve dichiarazione che il fenomeno era dovuto a cause naturali e ciclici legati alla mancanza di ossigeno e al riscaldamento dell’acqua, ma secondo Ruiz Mejía questa possibilità è da escludere:

Abbiamo un sistema di controllo che ci suggerisce che la causa sia da ricercare nella cattiva gestione dell’acqua.

Infatti i funzionari dell’Ufficio di Stato per la protezione ambientale e della Commissione Acqua hanno affermato di avere le prove che ci sia una inadeguata gestione di tre impianti per il trattamento dei fanghi di Tlajomulco il che avrebbe prodotto la morte dei pesci. Tuttavia non ci sono al momento dati disponibili e dunque le prove sono state presentate al vaglio del Procuratore generale che potrebbe aprire un fascicolo di indagine per crimine ambientale.MEXICO-ENVIRONMENT-FISH

Cajititlán è una graziosa cittadina di appena 8.000 abitanti la cui vita ruota proprio intorno alla bellezza del lago considerata anche attrazione turistica grazie anche alla presenza di santuari e basiliche. Il nome Cajititlán deriva dalla radice “Caxitl” che in lingua Nahuatl significa ciotola, piatto o zucca. Pescatori e agricoltori della zona anche sostengono che la contaminazione delle acque dipenda dai liquami rilasciati nel lago dai tre impianti di depurazione presenti in zona e dagli scarichi industriali da 15 società che sversano nelle acque lacustri.MEXICO-ENVIRONMENT-FISH

Per ora comunque tutti i rappresentanti dell’amministrazione cittadina hanno le bocche cucite.

Fonte: InformadorTlajomulcoExcelsior

© Foto Getty Images

Allevamenti killer: moria di pesci in laguna a Venezia

Migliaia di pesci galleggiano senza vita nella laguna di Venezia. All’origine della moria di pesci vi sarebbe il maggior rilascio di azoto e fosforo, che proviene dagli allevamenti. “La scelta per l’ambiente è incompatibile con l’alimentazione carnivora”.laguna_venezia

Di che cosa sono morti le migliaia di pesci che galleggiano senza vita nella laguna di Venezia, dopo una lunga e penosa agonia? Secondo quanto riportato dai giornali, la proliferazione e successiva decomposizione delle alghe ha provocato la carenza di ossigeno nelle acque e il conseguente“soffocamento” dei pesci; questo fenomeno ha visto sì come causa scatenante le intense precipitazioni prima e l’aumento di temperatura poi, ma il problema di base, come ribadito dalle fonti citate dai vari quotidiani, rimane il livello troppo alto di composti a base di azoto e fosforo, che da decenni le imprese e le aziende agricole sversano in laguna e che funzionano da fertilizzante per le alghe. Il Centro Internazionale di Ecologia della Nutrizione intende proporre una riflessione proprio su questo aspetto, facendo notare come, in ogni parte del mondo, sia l’industria dell’allevamento di animali per la produzione di carne, latticini e uova ad avere la maggior responsabilità relativamente all’inquinamento delle acque. Ciò è confermato anche dal dossier della FAO del 2006 “Allevamenti, una grande minaccia per l’ambiente” in cui si afferma che, per quanto riguarda le acque, i maggiori agenti inquinanti sono proprio le deiezioni degli animali, ricche di antibiotici e altre sostanze chimiche usate nell’allevamento nonché i fertilizzanti e pesticidi usati nella coltivazione dei mangimi per gli animali. Infatti, i raccolti assorbono solo da un terzo alla metà dell’azoto applicato al terreno come fertilizzante: le sostanze chimiche rimaste inutilizzate inquinano il suolo e l’acqua. Dato che, secondo le statistiche della FAO, metà dei cereali e il 90% della soia prodotti nel mondo sono usati come mangimi per animali, e che queste sostanze chimiche sono per la maggior parte usate nelle monocolture per la produzione di mangimi animali, è chiaro che la maggior responsabilità per questo enorme uso di sostanze chimiche sta proprio nella pratica dell’allevamento.pesticidi8__

Un ulteriore problema sono le deiezioni degli animali allevati: le deiezioni liquide e semi-liquide contengono livelli di fosforo e azoto al di sopra della norma, perché gli animali possono assorbire solo una piccola parte della quantità di queste sostanze presenti nei loro mangimi. Quando gli escrementi animali filtrano nei corsi d’acqua, l’azoto e fosforo in eccesso rovina la qualità dell’acqua e danneggia gli ecosistemi acquatici e le zone umide. Circa il 70-80% dell’azoto fornito ai bovini, suini e alle galline ovaiole mediante l’alimentazione, e il 60% di quello dato ai polli “da carne” viene eliminato nelle feci e nell’urina e finisce nei corsi d’acqua. Oggi, le deiezioni in eccesso vengono sparse sul terreno e nelle acque, mettendo in pericolo la salubrità delle acque e i pesci che ci vivono. Questo accade in ogni zona del mondo, perché ormai la pratica dell’allevamento intensivo è diffusa ovunque. Per esempio, lo spandimento delle deiezioni animali è strettamente collegato alla “zona morta” di 7.000 miglia quadrate nel Golfo del Messico, che non contiene più vita acquatica. Nel giugno 2010 il Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite ha pubblicato un report intitolato “Calcolo degli impatti ambientali dei consumi e della produzione” le cui conclusioni affermano: “Si prevede che gli impatti dell’agricoltura aumentino in modo sostanziale a causa dell’aumento di popolazione e del conseguente aumento del consumo di alimenti animali. Una riduzione sostanziale di questo impatto sarà possibile solamente attraverso un drastico cambiamento dell’alimentazione globale, scegliendo di non usare prodotti animali”. Lo stesso report specifica: “La produzione di cibo è quella che più influenza l’utilizzo del terreno, e quindi il cambiamento di habitat, il consumo di acqua, il sovrasfruttamento delle zone di pesca e l’inquinamento da azoto e fosforo”.allevamento__vacche_2

Gli animali d’allevamento, oggi considerati come “macchine” che producono “proteine animali”, hanno bisogno di una grande quantità di mangime per “produrre” una quantità di carne, latte, uova molto più bassa. Si possono definire in questo senso “fabbriche di proteine alla rovescia”, perché per ottenere un kg di carne sono necessari mediamente 15 kg di vegetali coltivati appositamente. Ernst von Weizsaecker, uno scienziato ambientale dell’IPCC (il Panel di scienziati dell’ONU sui cambiamenti climatici), ha dichiarato nel 2010: “Il bestiame oggi consuma la maggior parte dei raccolti mondiali, e di conseguenza la gran parte dell’acqua potabile, di fertilizzanti e di pesticidi”. Se le persone, anziché basare la propria alimentazione sui cibi animali, si nutrissero di cibi vegetali, come accadeva fino a pochi decenni fa, il risparmio, in termini di risorse e di inquinanti emessi, sarebbe enorme. Nello studio “Alimentazione e ambiente: quel che mangiamo è importante?” pubblicato nel 2009 dalla rivista scientifica “American Journal of Clinical Nutrition”, i risultati mostrano che la dieta non vegetariana richiede 13 volte più fertilizzanti rispetto a una dieta vegetariana. Dal punto di vista dell’ambiente, concludono gli scienziati, quello che ciascuno sceglie di mangiare fa la differenza. Se la terra fosse usata per produrre cibo per il consumo umano diretto, infatti, da un lato servirebbero molti meno terreni, dato che la quantità di vegetali da produrre sarebbe molto minore (perché viene eliminato lo spreco della trasformazione da prodotti vegetali a prodotti animali, che da 15 kg di vegetali fa ottenere 1 solo kg di carne), dall’altro la produzione potrebbe avvenire in maniera sostenibile, con la tradizionale coltivazione a rotazione, che non richiederebbe l’attuale uso massiccio di sostanze chimiche. E i pesci non morirebbero soffocati. Prima scegliamo di spostare i nostri consumi verso i cibi vegetali anziché quelli animali, prima potremo contrastare i danni enormi che il pianeta e tutti gli esseri che ci vivono (noi inclusi) è costretto a subire. E potremo così evitare che la meravigliosa laguna di Venezia rischi di diventare una delle “zone morte” del pianeta.

Fonte: il cambiamento

Alle Hawaii i pesci mangiano plastica: i rischi per l’uomo

Nelle isole Hawaii il 19% dei pesci catturati presenta residui plastici nell’organismo. Risalendo la catena alimentare potrebbe danneggiare anche l’uomo 88613690-586x374

Uno se le immagina come isole ricolme di frutti e fiori, oasi di natura incontaminata, sfiorate appena dal progresso. Nulla di tutto ciò: alle Hawaii i pesci mangiano plastica e tali quantitativi plastici ingeriti dai predatori, sarebbero in grado di mettere a rischio la salute dell’uomo. Un’equipe di ricerca ha analizzato il contenuto dello stomaco di 600 pesci catturati nel corso degli ultimi sei anni, scoprendo come in sette specie di predatori su dieci siano presenti residui plastici. Non tutti, però, sono colpiti dal ”fenomeno” allo stesso modo: i ricercatori hanno infatti trovato plastica nel 19% dei pesci catturati. La specie con la maggiore quantità presente nello stomaco è l’Opah, conosciuto anche come Pesce Luna, mentre altre specie quantitativamente più numerose, sono risultate meno esposte, su tutte i tonni. Gli effetti dell’ingestione di plastica sulla salute di questi pesci predatori e sugli esseri umani che se ne nutrono restano ancora incerti, ma i risultati dello studio non lasciano dubbi sulla gravità del fenomeno:

I pesci lungo tutta la catena alimentare ingeriscono nel corso della loro vita una qualche forma di inquinamento da plastica,

rilevano i ricercatori americani. Il problema non è limitato all’oceano Pacifico. In un recente rapporto dell’agenzia federale dell’Ambiente tedesca e della Commissione Ue, è stato reso noto come tre quarti della spazzatura che si trova in mare sia plastica, tra cui soprattutto teli, buste e cassette per il pesce di polistirolo. Ovviamente dal fenomeno non si salva neanche il Mediterraneo in cui, come riporta lo stesso studio, la quota di rifiuti di plastica presenti supererebbe l’80%. Qualche anno fa Legambiente aveva addirittura lanciato l’allarme per l’insorgenza, al largo dell’Isola d’Elba, di una vera e propria isola di rifiuti di plastica simile – anche se di superficie inferiore – al più noto Pacific TrashVortex oceanico. Una volta entrata nella catena alimentare, la plastica arriva anche sulle nostre tavole. Una ricerca dell’Università di Siena ha fatto notare che micro particelle di plastica – con uno spessore di meno 5 millimetri, derivate dalla degradazione di rifiuti plastici – interferiscono con le capacità riproduttive delle balenottere. Che sono mammiferi, proprio come l’uomo. Il problema  – al quale è dedicato un lungo capitolo del documentario Trashed – non può più essere relegato a livello locale: è, a tutti gli effetti, un’emergenza globale.

Fonte:  Ansa