Caccia al petrolio: in Perù gli indigeni fanno causa al governo

Un’organizzazione indigena del Perù ha fatto causa al governo per non aver protetto le tribù incontattate dalle invasioni e dalle prospezioni petrolifere. Perché il denaro non valga più dei diritti umani…9487-10228

AIDESEP, l’organizzazione nazionale indigena, sta portando in tribunale il Ministero della Cultura del Perù per non aver rispettato l’obbligo legale di mappare e creare cinque nuove riserve indigene, e di proteggere i popoli estremamente vulnerabili che vi vivono. Lo fa sapere l’organizzazione Survival International.

«Nel 2007, il Perù aveva concesso alla compagnia petrolifera canadese Pacific E&P il diritto di effettuare esplorazioni a Yavari Tapiche, un’area all’interno della frontiera dell’Amazzonia incontattata già proposta come riserva indigena – spiega l’associazione per i diritti del popoli indigeni –  L’AIDESEP chiede da 14 anni che la riserva venga istituita, mentre Survival International sta conducendo una campagna internazionale per il diritto dei popoli incontattati a determinare autonomamente il proprio futuro. I ricercatori temono che gli Indiani incontattati che vivono nell’area possano essere spazzati via dalla violenza di esterni e da malattie verso cui non hanno difese immunitarie. Gli operai che lavorano all’estrazione del petrolio rischiano di entrare in contatto con i popoli isolati; inoltre, il processo di prospezione petrolifera prevede la detonazione di migliaia di cariche sotterranee che fanno fuggire la selvaggina da cui gli Indiani dipendono».
«I Matsés, che vivono vicino all’area proposta come riserva, protestano contro il governo, che non ha proibito le prospezioni petrolifere. Nel corso di una recente riunione indigena, un uomo della tribù ha dichiarato: “Non voglio che i miei figli siano distrutti dal petrolio… Ecco perché ci stiamo difendendo… E perché noi Matsés ci siamo uniti. Le compagnie petrolifere… ci stanno insultando e noi non resteremo in silenzio mentre ci sfruttano nelle nostre terre ancestrali. Se necessario, moriremo lottando contro il petrolio.” Un’altra organizzazione indigena, ORPIO – prosegue ancora Survival – sta portando in tribunale un altro caso contro la minaccia di prospezioni petrolifere». «Le tribù incontattate sono i popoli più vulnerabili sul pianeta, ma sembra che le autorità del Perù considerino i profitti della compagnia petrolifera più importanti della terra, delle vite e dei diritti umani dei popoli” ha commentato Stephen Corry, Direttore generale di Survival. «Il fatto di non aver creato riserve indigene non è solo una catastrofe ambientale, ma potrebbe anche spazzare via per sempre intere popolazioni».

In sintesi:

– AIDESEP è l’organizzazione nazionale del Perù per gli Indiani amazzonici. Lavora per difendere i diritti umani degli indigeni peruviani.

– AIDESEP ha presentato una Domanda legale di Adempimento (Demanda de Cumplimiento) alla Corte Superiore di Giustizia di Lima, con il sostegno dell’organizzazione legale IDL.

– Il Ministero peruviano della Cultura è responsabile della mappatura e della protezione dei territori indigeni. In Perù, le terre delle tribù incontattate dovrebbero essere protette per legge ma, in realtà, questa protezione è spesso inadeguata o inesistente.
– Il Perù ha inoltre ratificato la Convenzione ILO 169, la legge internazionale per i popoli indigeni, che richiede di rispettare i diritti umani e territoriali dei popoli indigeni.

– Tra le tribù incontattate della frontiera dell’Amazzonia incontattata che potrebbero essere spazzate via senza una solida protezione territoriale ci sono anche membri incontattati dei Matsés.

– Molti Matsés furono contattati con la forza dai missionari americani nel 1969, a seguito di violenti scontri con i coloni dell’area. Il contatto ha portato violenze e malattie, e ha ucciso molti membri della tribù.

– Le cinque riserve proposte sono: Yavari Tapiche, Yavari Mirim, Sierra del Divisor Occidental, Napo Tigre e Cacataibo.

Delle tribù incontattate sappiamo molto poco. Ma sappiamo che nel mondo ce ne sono oltre un centinaio. E sappiamo che intere popolazioni sono sterminate dalla violenza genocida di stranieri che le derubano di terre e risorse, e da malattie, come l’influenza e il morbillo, verso cui non hanno difese immunitarie. I popoli incontattati non sono arretrati o primitivi, né reliquie di un remoto passato. Sono nostri contemporanei e rappresentano una parte essenziale della diversità umana. Quando i loro diritti sono rispettati, continuano a prosperare. Le loro conoscenze, sviluppate nel corso di migliaia di anni, sono insostituibili. Sono i migliori custodi dei loro ambienti. E le prove dimostrano che i territori indigeni costituiscono la migliore barriera alla deforestazione.

 

Fonte: ilcambiamento.it

 

Perù e Bolivia, un’alleanza per salvare il Lago Titicaca

L’inquinamento prodotto da El Lato e Puno mette in pericolo l’ecosistema del lago più alto e grande del Sud America

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L’inquinamento è arrivato anche lassù, ai 3800 metri sul livello del mare del Lago Titicaca che non è soltanto il più alto del Sud America, ma è anche il più esteso con i suoi 8372 kmq divisi fra Perù (4772 kmq) e Bolivia (3790). In quello che dovrebbe essere un paradiso naturale, dove le popolazioni di quechua e aymara vivono su isole di terraferma e isole artificiali costruite con le canne, l’inquinamento sta diventando un problema da risolvere tanto che i due governi dei paesi che si affacciano sul Lago hanno deciso di investire 500 milioni di dollari nell’arco di dieci anni: 117 fino al 2020 e 400 entro il 2025. Il bacino andino è 25 volte più ampio del Lago di Garda e nelle sue acque finiscono ben 27 fiumi. Lo stato di salute del lago è di vitale importanza per le comunità peruviane e boliviane: la fauna ittica e la sopravvivenza di rane uccelli determinano l’equilibrio che ha reso il lago abitabile negli ultimi tre millenni. A inquinare le acque del lago è stato lo sviluppo della città boliviana di El Alto che ospita ormai un milione di abitanti. Il rio Seco che la attraversa riversa nel Lago Titicaca rifiuti organici e industriali. Una situazione analoga si verifica a Puno, dove la popolazione è decisamente più contenuta: 200mila abitanti. I ministri dell’Ambiente Alexandra Moreira (Bolivia) e Manuel Pulgar (Perù) hanno spiegato di avere deciso un investimento in due tempi che è già iniziato con lo stanziamento di fondi per gli “impianti di trattamento delle acque reflue per far fronte ai principali problemi che il lago sta avendo a causa dei livelli di inquinamento”.  Oltre all’inquinamento prodotto dall’antopizzazione delle regioni che si affacciano sul lago, l’ecosistema lacustre viene minacciato dai cambiamenti climatici: l’azione combinata del riscaldamento che scioglie i ghiacciai e della maggiore intensità della radiazione solare contribuiscono alla progressiva contrazione del lago.

Fonte:  IBT

 

 

 

 

Il Perù mette sotto tutela 1,3 milioni di ettari di foresta amazzonica

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Il Perù ha deciso, nelle scorse settimane, di istituire il Divisor National Park, una nuova area protetta con una superficie di 1,3 milioni di ettari, un’area grande quanto la Regione Campania e, se vogliamo fare un paragone con altri parchi nazionali, quanto Yellowstone e Yosemite messi insieme. Si tratta di un passo molto importante su scala globale perché segna un’inversione di tendenza in un’area – quella amazzonica – dove la deforestazione ha ripreso a “correre” dopo anni di rallentamento. L’area nella quale sorgerà il nuovo parco è una vera e propria oasi della biodiversità con 3000 specie tra flora e fauna, molte delle quali non si trovano in nessun altro luogo del mondo. È stato lo stesso presidente peruviano Ollanta Humala a dare il proprio imprimatur alla nascita di questo parco che ha unito due aree protette, la Sierra del Divisor e la White Sands National Reserve. Questo nuovo “corridoio” – denominato Ande-Amazon Conservation Corridor – favorirà le popolazioni indigene come la tribù Iskonowa che continua a vivere in isolamento nelle aree più selvagge della foresta amazzonica peruviana.

Fonte:  Renovables Verdes

 

Perù: il reportage su chi si oppone alle multinazionali

Il progetto di reportage sulla lotta tra il popolo di Cajamarca, nel nord del Perù, e gli interessi economici della multinazionale Yanacocha, si è aggiudicato il finanziamento nell’ambito del bando Dev Reporter Network promosso dal Consorzio delle Ong Piemontesi. Il Cambiamento ha sostenuto gli autori, Simona Carnino e Luciano Gorriti Robles mettendosi a disposizione per la diffusione del lavoro una volta terminato.maxima_peru

Un giornalismo militante, vero, “in loco”, che racconterà “dal basso” la storia di un popolo (e di una donna) che sta lottando per i suoi diritti. A portare avanti il progetto sono Simona Carnino e Luciano Gorriti Robles; lo hanno presentato al Consorzio delle Ong Piemontesi partecipando al bando Dev Reporter Network e hanno vinto. Partiranno a luglio e Il Cambiamento si è impegnato, sostenendoli da subito, a dare ampia e adeguata diffusione al lavoro una volta che sarà terminato. Si intitolerà “Aguas de oro”.

Verranno prodotti un reportage video di 15 minuti e un reportage scritto corredato di fotografie.

La storia è quella di Máxima Acuña Chaupe e della sua resistenza nei confronti di Yanacocha, multinazionale mineraria (51% della Newmont Corporation, 44% Buenaventura-Perù, 5% International Finance Corporation-World Bank) proprietaria della più grande miniera di oro e rame del Sud America. Yanacocha vuole acquistare la terra di Maxima, strategica per il prossimo ampliamento della miniera d’oro di sua proprietà (progetto Conga). La donna si rifiuta. Nel 2011 Yanacocha ha diffuso la notizia che Maxima gli avesse già venduto la terra, accusandola di usurpazione. In seguito a un processo penale, a dicembre 2014 Maxima ha vinto la causa. Yanacocha ha rifiutato la sentenza e ha proceduto al ricorso in Cassazione. La vicenda giuridica è giunta questo punto.

QUI il resoconto di quanto accaduto

Maxima continua a vivere in condizioni di oppressione e intimidazione: sola nel suo campo, minacciata dalle forze della polizia che si sono piazzate davanti a casa sua con un avamposto permanente. «Ci focalizzeremo sul tema della violenza da parte della polizia e dello Stato, sul diritto all’acqua e a un ambiente incontaminato,  landgrabbing e autodeterminazione dei popoli – spiega Simona – Proveremo a parlare del modello di sviluppo promosso dai contadini di Cajamarca, che li accomuna ai valori espressi da altri gruppi umani coinvolti in conflitti ambientali in altre zone geografiche. Lo faremo anche insieme a Hugo Blanco, leader della riforma agraria peruviana, che ho conosciuto ultimamente e ha dimostrato interesse ad apparire nel reportage. Proveremo a parlarne anche con Yanacocha. Prima di tutto per capire qual è il mercato d’oro che stanno alimentando. Dove va quest’oro? E il rame? Cercheremo di far emergere una riflessione su quali devono essere gli obiettivi e i limiti alla base di scelte economiche. In questa fase, stiamo approfondendo il tema anche insieme agli Ingegneri Senza Frontiere del Politecnico di Torino, che stanno collaborando all’analisi degli studi ambientali e alla riflessione sugli obiettivi dello sviluppo. Chi deve essere il destinatario ultimo dell’innovazione tecnica?».

«Io e Maxima ci siamo parlate di recente. Sta bene, ma è provata dalle continue aggressioni da parte della polizia che entra nel suo campo ogni volta che lei si allontana. Il 29 aprile scorso, membri delle forze dell’ordine, approfittando della sua assenza, hanno prelevato il suo allevamento di cuy. Alcune settimane prima le sono state rubate le pecore e qualche giorno dopo i cani della polizia hanno sconfinato nella proprietà della donna, uccidendo tutti i conigli. Maxima non può più vivere di pastorizia, per cui prova a sbarcare il lunario con piccoli lavori di artigianato: cuce coperte, maglioni, ponchos. Ha deciso di rimanere a Tragadero Grande, non tanto per difendere il suo campo, ma per impedire con la sua presenza fisica, l’ampliamento della miniera. Si sveglia alle 5 del mattino, fa colazione, poi lavora un po’ a maglia. In mattinata si dirige verso una delle lagune che il progetto Conga vorrebbe distruggere e si carica di acqua che le servirà per la sua giornata. Maxima vive senza acqua corrente, luce e sistema fognario. Ogni tanto si assenta per andare al mercato di Santa Rosa a vendere i suoi prodotti di artigianato o per impegni a Cajamarca.Ma ritorna il prima possibile. Teme di ritrovarsi la casa distrutta o il campo devastato. Attualmente vive da sola in 25 ettari. Lei e, di fronte, una casupola di poliziotti piazzati in forma permanente ai limiti della sua proprietà.I figli passano a salutarla il fine settimana. La sua avvocatessa, Myrtha Vasquez, sta chiedendo garanzie per la donna e che vengano preservati i suoi diritti umani.Maxima è contenta di partecipare a questo reportage. Dovrei essere a Cajamarca a metà luglio». «Gireremo il reportage tra luglio e agosto di quest’anno – con me ci sarà Luciano Gorriti Robles. Abbiamo studiato entrambi giornalismo, io in Italia e lui in Perù. Io ho lavorato circa cinque anni per Amnesty International e scritto per un giornale locale della Valle di Susa occupandomi di tematiche ambientali. Luciano si è diplomato alla scuola di documentaristica di Barcellona. Ha lavorato per Discovery Channel, Al Jazeera e RT. Ci siamo conosciuti in Perù, dove lui è nato e io ho vissuto quando lavoravo come cooperante internazionale per una Ong italiana. Io sto scrivendo lo script e Luciano sarà incaricato delle riprese, editing e post-produzione.  Speriamo che i nostri sguardi italo-peruviani possano incrociarsi armonicamente. In Italia ci sarà anche Gabriele Lusco, un fotografo professionista e videomaker che ci appoggerà in caso di modifiche tecniche che dovessimo apportare al materiale all’ultimo minuto. Tra Perù e Italia alcuni amici ci stanno fornendo un supporto nella logistica delle riprese e per gli spostamenti». «Sono contenta di avere l’opportunità di tornare in Perù e raccogliere le storie di chi è lasciato ai margini del mondo dell’informazione tradizionale – continua ancora Simona – Allora abbiamo pensato di dar voce alla vita di MaximaAcuña Chaupe e di farla conoscere anche in Europa.Quella di Máxima è una storia originale, ma antica. Ci auguriamo che chi vedrà il reportage possa capire cosa accade al di là del mare, ma anche rendersi conto che gli abusi dei diritti di cui è vittima Maxima sono soliti accadere in ogni conflitto ambientale in Sud America, come in Europa e  magari anche a due passi da casa nostra qui in Italia. La nostra squadra è lieta di aver ricevuto il finanziamento del bando Dev Reporter Grant, perché promuove un giornalismo attento all’approfondimento, alla promozione dei diritti umani e, in un’epoca in cui la notizia vive a migliaia di chilometri da chi la dà effettivamente, pretende che i giornalisti ritornino a calpestare la terra, tocchino i protagonisti e accolgano con sincerità le storie che verranno raccontate. Mi sembra di tornare al vecchio giornalismo, quello dei grandi viaggi e dei grandi incontri. Un po’ ci mancava».

Fonte: ilcambiamento.it

Michel, da Como al Perù per salvare l’Amazzonia

Michel, a poco più di vent’anni, ha lasciato l’Italia per trasferirsi in Sud America e combattere contro la deforestazione e la monocoltura. Oggi ha 33 anni; in Perù ha fondato una Ong con cui porta avanti il suo progetto e ha dato corpo e voce a ciò in cui crede. E ci racconta la sua storia.4

Michel, classe ‘82, nato a Cantù, una laurea in Ingegneria Ambientale al Politecnico di Milano, da 10 anni vive in Sud America per inseguire un sogno: attuare un modello di sviluppo sostenibile nella regione amazzonica, per permettere alle comunità presenti di coesistere con l’ecosistema forestale senza trasformarlo in una vasta monocoltura agricola. Oggi, dopo aver viaggiato, studiato e lavorato in Costa Rica, Nicaragua e Perù, vive a Madre de Dios, nell’amazzonia peruviana, dove ha fondato una Ong locale – ArBio – con cui porta avanti il suo progetto di preservazione dell’ecosistema forestale.

Michel come è iniziato il tuo viaggio in America Latina?

«Tutto è cominciato con il corso di studi in Ingegnieria Ambientale e dalla possibilità di partecipare a un programma di cooperazione internazionale tra atenei, che mi ha permesso di studiare un semestre Ingegneria Forestale a Santiago del Cile. Avevo 21 anni, non sapevo lo spagnolo, ma ho pensato che non poteva essere così difficile e mi sono tuffato. In Cile ho scoperto la differenza tra l’insegnamento accademico italiano, molto teorico, e quello latinoamericano, dove gli esami si fanno camminando nella foresta con il prof che ti chiede i nomi di flora e fauna che si presentano lungo il cammino. Questo mi ha permesso di trasformare la teoria in pratica, di trasformare lo studio nella mia vita e nel mio lavoro».

Cos’è successo da lì in poi?

«Finita l’università partii subito per la Costa Rica, un’eccellenza a livello mondiale sulle politiche ambientali. Un Paese che dal 1946 ha abolito l’esercito per destinare i fondi militari all’educazione e alla sanità pubblica e che già oggi, grazie alle sue politiche ambientali, si può definire a “emissioni zero”. E’ il primo e unico Paese al mondo a non contribuire all’effetto serra. Questa esperienza mi ha insegnato tanto sulla gestione delle politiche ambientali a livello internazionale e su come funzionino le grandi Ong. E a questo punto non sono più riuscito a tornare indietro. La decisione è stata ovvia sia dal punto di vista etico che lavorativo: sono un ingegnere senza lavoro, con maestria in gestione e conservazione della foresta tropicale, e con una foresta amazzonica a fianco, che faccio? Così, insieme alla mia compagna di allora, Tatiana, anche lei ingegnere ambientale, e a Rocio, un’ingegnere dell’industria alimentare, abbiamo deciso di creare qualcosa di nostro, e così è nato ArBio».

Di cosa si tratta?

«ArBio è una Ong che vuole opporsi alla monocoltura intensiva proponendo e sviluppando un modello di Conservazione Produttiva: un metodo che permette di conservare e valorizzare l’ecosistema, mantenendo l’architettura della foresta e, al contempo, generare benessere per le comunità che vi vivono, coltivando specie produttive. Questo modello si chiama Forestería Analoga: un sistema di agricoltura che promuove la resilienza, rispetta l’ecosistema forestale e garantisce reddito e sostentamento alle comunità che vi abitano».

Perché proprio nella regione di Madre de Dios?

«Perché in questa regione è stata da poco terminata una superstrada: la Superstrada Interoceanica che parte dalla costa pacifica del Perù e scende nella regione amazzonica fino alle coste atlantiche del Brasile. Questa strada ha sicuramente aiutato a migliorare la qualità della vita della popolazione locale ma al tempo stesso ha portato con sé il classico sistema di sviluppo e uso del territorio che prevede deforestazione, incendi massivi, monocolture e allevamenti bovini estensivi. Oggi in Brasile guidando lungo la stessa superstrada, la foresta non si vede più: in soli venti anni sono stati rasi al suolo 50 km di foresta a destra e 50 km a sinistra dalla superstrada. Questo mi ha fatto scattare l’idea: in Perù la superstrada è ancora nuova e quindi è ancora possibile intervenire per fermare la deforestazione. Madre de Dios inoltre è una delle uniche zone al mondo che ancora possiede comunità indigene pristine. La metà della regione è sotto l’egida di parco nazionale, riserva territoriale delle comunità indigene destinata alla conservazione assoluta. Ma cosa fare con l’altra metà? Un territorio grande come la Svizzera, che non è protetto in nessun modo e che, se lasciato a se stesso, si trasformerà in monocoltura o terra di allevamento, cosa inammissibile per moltissime ragioni: la quantità di CO2 che attualmente è immagazzinata in forma solida e che verrebbe bruciata, la quantità di biodiversità che si perderebbe, l’importanza che ha il manto forestale nella preservazione del suolo e della sua fertilità».

Come si svolgono le tue giornate?

«In genere per tre settimane al mese vivo in città a Puerto Maldonado, dove svolgo più o meno lavoro d’ufficio, autogestito. Per una settimana poi mi trasferisco nella foresta e qui il mio lavoro varia dal pattugliare ad aprire sentieri, dal costruire o installare fototrappole al coltivare l’orto dal pulire al sistemare il campo e molto altro ancora. Si tratta comunque di uno stile di vita molto diverso da quello cui si è abituati».

Cosa intendi?

«La nostra è una vita sobria, molto diversa da quella “tradizionale”. Cambia la maniera di vedere le cose, qui una cosa mezza rotta non è ancora rotta e quindi si continua a usare e poi si cerca di aggiustarla e, soprattutto, cambia il modo di relazionarsi con le persone, qui le relazioni, la comunità, i rapporti anche con gli sconosciuti hanno un immenso valore. Sicuramente ho molte libertà e molto tempo. Dal 2006 non ho neanche la televisione e adesso non sopporto nemmeno i 4 secondi di pubblicità di youtube. A volte però mi sento fuori dalla società, intesa sia come possibilità di andare al cinema, al teatro, al centro sociale, in discoteca, in libreria, a un concerto o via dicendo, sia come presenza di infrastrutture, trasporto pubblico, rete fognaria, eccetera».

Com’è vivere dedicando il proprio tempo alle proprie passioni, ai propri sogni, alla natura?

«È bello. Sono orgoglioso di quello che faccio, e non è sempre facile esserlo. Certo, vorrei che il mio lavoro mi permettesse una vita più decorosa in termini di guadagni e più gratificante in termini di riscontri, ma sono sicuro che prima o poi la gente capirà l’importanza di quello che facciamo».

Come si può dare una mano?

«Adottando un pezzo di foresta! Diecimila metri quadri si possono proteggere con 30 euro all’anno, 2,5 euro al mese. E’ il costo stimato per coprire le spese per il custode forestale, la manutenzione basica delle stazioni di vigilanza (cucina e acqua potabile), il monitoraggio e gli investimenti in ricerca. Oppure si può donare a ArBio il 5 per mille. O ancora, decidere di proteggere una foresta come azienda, associazione o ente. E infine, nel caso delle aziende, si può decidere di fare un Life Cycle Assessment (valutazione del ciclo di vita, conosciuto anche con la sigla LCA, ndr) dei propri prodotti con Demetra. Oppure potete sempre venire a trovarci! Chi ha adottato un ettaro di foresta può venire a vederlo quando vuole: l’alloggio al campo base è gratuito, viaggio e vitto no. Per chi invece volesse venire a darci una mano o a imparare il mestiere il momento migliore è da ottobre in poi. L’inizio della stagione delle piogge è, infatti, il periodo in cui si pianta, prima non c’è tanto da fare. Dall’anno prossimo invece le possibilità aumenteranno: stiamo mettendo in piedi una fattoria didattica per la popolazione regionale e stiamo pensando a una casetta dove far alloggiare i volontari».

Come vedi l’Italia da laggiù?

«Una tartaruga gigante che si muove a rilento, con un sacco di molecole che stanno ribollendo di attività interna ma con un guscio duro di vecchie e corrotte abitudini che ancora oggi non si riesce a spezzare».

Cosa consigli a chi vorrebbe molare tutto e cambiare vita?

«Cambiatela. Come paracadute, potete sempre tornare a quella vecchia, che non sarà ovviamente la stessa, ma meno male. Per questo volete cambiare, no?».

FB: https://www.facebook.com/arbioperu?fref=ts

Web: http://www.italiano.arbioperu.org/

Fonte: ilcambiamento,it

Maxima ha combattuto le multinazionali minerarie e…ha vinto!

Maxima Acuña de Chaupe ha combattuto strenuamente contro le multinazionali minerarie che le volevano portare via la sua terra in Perù. E ha vinto la lunga battaglia legale che non l’ha mai vista arrendersi. Cambiare le cose è possibile!maxima_acuna_de_chaupe

La sua terra è proprio di fronte alla Laguna Blu di Celendin, a Tragadero Grande nella regione di Cajamarca. Per quasi quattro anni la contadina peruviana ha rifiutato di sottostare alle pressioni e alle azioni della multinazionale americana che voleva trasformare la sua terra in una miniera per l’estrazione dell’oro e ha superato diversi tentativi di viiolenza da parte della multinazionale stessa e di agenti governativi. A dicembre è arrivata la vittoria, quando la Sala Penal de Apelaciones di Cajamarca ha assolto la donna dalle accuse avanzate dai titolari della miniera Yanacocha, per il 52% di proprietà della Newmont Mining Corporation del Colorado. La società aveva chiesto di sfollare e incarcerare le famiglie che avessero “invaso” le loro stesse terre di cui la miniera vuole impossessarsi e aveva accusato Maxima di essersi opposta. Questa vittoria, benchè la compagnia abbia annunciato di voler ricorrere alla Corte Suprema, risulta importantissima per la resistenza locale che si sta organizzando contro la predazione delle terre. Nel 1994 Acuña de Chaupe e la sua famiglia avevano costruito la loro proprio a Tragadero Grande; sul lago chiamato Laguna Blu si è concentrata l’attenzione degli americani dopo l’apertura della miniera di Conga, una estensione della miniera Yanacocha. Contro l’attività della miniera si è organizzata la resistenza degli agricoltori, dei lavoratori e dei cittadini della regione che protestano contro i pericoli ambientali e per la salute e hanno anche indetto scioperi generali. Quando Yanacocha ha iniziato a trattare per comprare la terra di Maxima nel 2011, lei ha rifiutato nel tentativo di proteggere la casa della sua famiglia ma anche l’ambiente. “Possono anche essere povera e analfabeta, ma so bene che i laghi delle nostre montagne sono il nostro vero tesoro” aveva detto Maxima due anni fa. “Da essi posso avere acqua fresca e pulita per i miei figli, per mio marito e per i miei animali. Si aspettano forse che noi sacrifichiamo la nostra acqua e la nostra terra affinchè la gente della miniera possa porrtarsi a casa l’oro? Si aspettano che ci mettiamo in un angolo buoni e tranquilli e ci lasciamo avvelenare?”. Ne è seguita, come ha raccontato Maxima, una campagna intimidatoria architettata dalla compagnia mineraria con l’aiuto della sicurezza privata e del governo peruviano. Maxima ha rivelato di essere sfuggita ad almeno tre tentativi di violenza; in un’occasione Maxima e sua figlia sono state lasciate prive di coscienza e il figlio è dovuto essere ricoverato all’ospedale. La lotta di Maxima ha ottenuto il supporto di organizzazioni regionali e internazionali, tra cui il movimento femminile peruviano e la Marcha Mundial de las Mujeres. “Voglio ringraziare i giudici di Cajamarca per essere stati imparziali e per avere applicato la giustizia, per non avere permesso che noi lavoratori fossimo obbligati a soffrire a causa di questa miniera” ha detto ancora Maxima. “Prego Dio che si prenda cura di loro. Durante questi anni molte autorità se la sono presa con me, mi hanno diffamata”.

Photo: Jorge Chávez Ortiz

Fonte: ilcambiamento.it

Manú, in Peru un parco nazionale da record

Con 155 specie di anfibi e 132 di rettili, il parco nazionale peruviano vanta una biodiversità unica al mondo

Con oltre 5000 specie di piante, ben 1025 specie di uccelli (il 10% del patrimonio della fauna aviaria mondiale) , 221 specie di mammiferi, 300 di formiche, 210 di pesci, 132 di rettili e 155 di anfibi, il Parco nazionale di Manú, situato nel Perù amazzonico, può contare su una delle maggiori biodiversità di specie animali e vegetali al mondo. Un vero e proprio tesoro di oltre 17mila chilometri quadrati che nel 1977 fu dichiarato riserva della biosfera e tre anni dopo patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Rudolf von May, ricercatore della University of California Berkeley, insieme ai colleghi Alessandro Catenazzi della Southern Illinois University, Carbondale, ed Edgar Lehr della Illinois Wesleyan University di Bloomington hanno identificato 155 specie di anfibi e 132 e nel preciso resoconto pubblicati su Biota Neotropica hanno spiegato come Manú vanti “il primato mondiale di area protetta con il più elevato numero di specie di anfibi e rettili”. Finora il primato mondiale della biodiversità era detenuto dal parco nazionale ecuadoregno di Yasuni, con 150 specie di anfibi e 121 di rettili, ma le indagini compiute negli ultimi anni dal team di lavoro guidato da von May hanno consentito al parco nazionale peruviano di sorpassare i vicini dell’Ecuador. Entrambe le regioni ospitano foreste pluviali, ma la riserva peruviana include nel suo territorio praterie andine e zone di foresta nebulosa. Il territorio di Manú (grande quanto la regione Lazio) rappresenta lo 0,01% della superficie terrestre, ma ospita il 2,2% di tutti gli anfibi conosciuti (rane, rospi, salamandre e gimnofioni)e l’1,5% dei rettili (serpenti, lucertole, tartarughe e caimani). Nella regione risiedono numerosi gruppi etnici, fra i quali spiccano i Matsiguenka, Harakmbut e Yine.

Fonte:  National Geographic

Perù, allarme per la tribù “perduta” dei Mascho-Piro

Il clan di cacciatori-raccoglitori vive nella giungla e non ha contatti con la nostra civiltà. In questi giorni ha cercato di entrare nel territorio degli Yino sotto la pressione dei deforestatori o dei cercatori di petrolioClan-Mascho-Piro-586x392

Nei giorni scorsi si è creata una certa apprensione in Perù quando un gruppo di un centinaio di Mascho-Piro hanno tentato di attraversare il fiume Las Piedras per prendere contatto con i locali del remoto villaggio di Monte Salvado I Mascho-Piro vivono nell’Amazzonia peruviana, al confine con il Brasile e fanno parte delle cosiddette tribù mai contattate, ovvero popolazioni di cacciatori-raccoglitori che hanno avuto pochi o nessun contatto con la nostra “civiltà” (1). La politica del governo peruviano è di scoraggiare ogni contatto con le società tradizionali per evitare che vengano in contatto con i nostri germi patogeni (2) contro cui non hanno difese e per evitare il genocidio culturale legato all’incontro con la modernità. La tribù ha cercato contatto con gli Yino per la seconda volta dal 2011 per chiedere banane, funi e machete; ci sono stati momenti di tensione con i rangers quando hanno tentato di attraversare il fiume che separa i territori. Non si sa esattamente cosa abbia sconvolto la vita dei Mascho-Piro tanto da spingerli al contatto, ma si ipotizza che la deforestazione illegale e i voli a bassa quota associati alle esplorazioni petrolifere abbia disturbato i loro tradizionali terreni di caccia. La sorte di queste popolazioni è quanto mai incerta se non verrà frenato l’appetito energetico dell’occidente e della Cina.

(1) I Mascho-Piro hanno conosciuto il lato peggiore della nostra “civiltà” essendo stati decimati verso la fine dell’ottocento dall’avventuriero e barone della gomma Carlos Fitzcarrald.

(2) Chi ha letto lo straordinario Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond sa che le popolazioni indigene americane sono state sterminate dai germi degli spagnoli e portoghesi almeno quanto dalle loro armi.

 

Fonte:ecoblog

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cartellone pubblicitario sfrutta la condensa dell’aria raccolta a dieci metri d’altezza

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Mai come in questa occasione è possibile parlare di pubblicità progresso. A  Lima, capitale del Perù dove il tasso di umidità raggiunge l’80%, un gruppo di ricercatori dell’Universidad de Ingenieria & Tecnologia si è inventato un cartellone pubblicitario che è insieme pubblicità e invenzione. Un bel salto dall’astrazione alla pratica, vero? Una bella foto, uno slogan e il marchio del proprio ateneo? No, niente di tutto questo. Stavolta la pubblicità unisce la sostanza alla forma e si fa strumento in grado di dimostrare che cosa l’ingegno possa fare per la salvaguardia dell’ambiente e per il bene pubblico. Come? Il pannello pubblicitario della UTEC al chilometro 89,5 della Panamericana converte – attraverso cinque macchine – l’umidità presente nell’aria in acqua. Questa, opportunamente filtrata grazie ai carboni attivi, scorre giù fino alle fontanelle poste a livello della strada. La “produzione” è di circa 96 litri al giorno. Questo pannello riflette la proposta educativa dell’Università che è sviluppare l’ingegno e il talento dei nostri alunni attraverso un insegnamento basato sulla pratica. L’obiettivo è risvegliare la vocazione di studiare ingegneria rendendola più attrattiva per i giovani e prepararli per convertirli in professionisti di alto livello che applicheranno la scienza, la tecnologia e l’innovazione a beneficio dello sviluppo sostenibile del Perù, ha dichiarato Jessica Ruas Quartara, direttrice della Comunicazione dell’UTEC. E mentre i veicoli sfrecciano sulla Panamericana, alla base la gente fa la fila per raccogliere un po’ d’acqua che, a quelle latitudini, è un bene sempre più prezioso.

Fonte: UTEC