L’ultima guerra?

E’ dai tempi della guerra in Cecenia e della guerra in Jugoslavia che sono cominciate ad arrivare notizie su mercenari “islamici” addestrati in Turchia, Arabia Saudita e stati del golfo. Cioè in alcuni tra gli stati più fedelmente e strettamente alleati dell’Impero Euronordamericano. Gli “amici” di allora diventano i nemici di oggi, in un giochetto perverso che costa vite umane ma alimenta due grosse “industrie”: quella della guerra e quella della paura.isis

E del resto, uno dei compiti che si attribuiscono anche ufficialmente le multinazionali della guerra mercenaria, tipo Blackwater (ma sono ormai centinaia le autonominatesi “compagnie di sicurezza”, sorte soprattutto all’inizio di questo millennio), è proprio quello di addestrare milizie ed eserciti alleati dei loro padroni. Non per niente, durante la guerra contro la Libia l’esercito libico catturò “consiglieri militari” anglosassoni e simili: evidentemente, l’addestramento non era ancora completo ed era necessaria la presenza sul campo degli addestratori. Questa gente ha avuto la funzione di cecchini, attentatori, milizie di tagliagole prezzolati per seminare morte e terrore tra i nemici degli interessi economici e politici occidentali. Adesso abbiamo l’ISIS, siamo passati a uno stadio più avanzato della terza guerra mondiale. E’ forse un caso che, dopo che il Papa ha lanciato il suo accorato appello contro la guerra, parlando in maniera esplicita di “pianificatori del terrore, organizzatori dello scontro…” e dicendo altrettanto esplicitamente che “dietro le quinte ci sono interessi economici, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere…”, l’ambasciatore iracheno (rappresentante di un governo fantoccio e che quindi parla a nome di chi e per conto di chi?) abbia dichiarato che l’ISIS intende uccidere il Papa? Se fosse vero che le Torri Gemelle sono state abbattute dallo stesso governo USA, dai “pianificatori del terrore”, per scioccare l’opinione pubblica e poter iniziare la Grande Guerra al (del) Terrore su scala globale (ammesso che si possa chiamare ancora “governo” un insieme di poteri oscuri senza più controllo, senza più scopi razionali, senza alcun tipo di remora né riguardo nemmeno nei confronti del proprio stesso popolo e paese, e quindi senza più un popolo né una terra da rappresentare), allora l’ISIS e la sua guerra sporca sarebbero il secondo stadio di quella cominciata l’11 settembre. I cosiddetti “fondamentalisti islamici” e/o Al Quaeda non sono altro che la versione musulmana di Settore Destro in Ucraina, delle SS, dei falangisti spagnoli, delle Camicie Nere italiane, degli ustascia. Che del resto erano in massima parte “fondamentalisti cristiani”. I loro obiettivi sono gli stessi: la distruzione di qualsiasi tipo di stato sociale, l’abbattimento cruento di qualsiasi governo o partito che promuova uno stato sociale e che cerchi di sottrarre il proprio paese alle grinfie oggi delle multinazionali, sempre del grande capitale; la distruzione di qualsiasi tipo di democrazia e partecipazione popolare; l’umiliazione e la subordinazione delle donne. Gli stessi sono i metodi: una ferocia illimitata, una violenza che si scatena indiscriminatamente verso militari e civili, esecuzioni di massa, torture, efferatezze, sgozzamenti, il terrore che imperversa tra le popolazioni attaccate e che demoralizza gli eserciti e i combattenti avversari. Se cominciassimo a chiamarli “fascisti islamici” o semplicemente fascisti, dato che l’islam non ha a che fare con loro più di quanto il cristianesimo avesse a che fare con i nazisti, forse faremmo un po’ più di chiarezza. “… fino a poco fa i ribelli dello Stato Islamico, conosciuti ufficialmente come Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, venivano esaltati come “l’opposizione che combatteva per la libertà” impegnata a “restaurare la democrazia” e abbattere il governo laico di Bashar al Assad…” (M. Chossudovski – Global Research) L’ISIS e i vari gruppi di mercenari islamici sono un grande strumento dell’Impero, non solo perché sono serviti in Libia e stanno servendo in Siria a distruggere quelli che erano gli ultimi stati sociali e laici arabi, e ricordiamoci che “stato sociale” vuol dire lasciare a bocca asciutta le multinazionali rifiutando di privatizzare energia, acqua, grandi aziende statali, servizi pubblici, ma perché è il pretesto per conquistare, occupare e sottomettere tutta quell’area geografica, compreso un Iraq ancora troppo turbolento, nonostante i milioni di morti provocati dalla guerra USA.

Chi si rifiuterà di partecipare alla crociata contro un esercito di sgozzatori e stragisti? Vestiti di nero da capo a piedi in una sorta di divisa, col volto coperto (e al buio tutti i gatti sono bigi), super armati, super equipaggiati, efficienti e organizzati: esattamente come un esercito di professionisti.

Chi avrà l’ardire di opporsi alla crociata contro una tale armata di tagliagole, che minaccia di espandersi come una marea e di colpire anche l’Europa? O almeno così si dice.

Creare il mostro per poter distruggere, apparentemente, il mostro stesso ma in realtà chi ad esso si oppone.

Un giornalista del Corriere, Lorenzo Cremonesi, ha intervistato telefonicamente il responsabile dell’ISIS per i rapporti con i cristiani, Haji Othman, e ad un certo punto gli domanda: “Però l’aviazione americana vi sta bombardando a suo piacimento. Non costituisce un problema?”, e questa è la risposta (cito dall’intervista): “Ma dai! Cosa stai a dire?” replica scoppiando in una risata…Sembrerebbe una risata proprio spontanea: riderà dell’opinione pubblica occidentale? Poi si riprende e dice qualche frase del tipo “Dio stramaledica gli americani”. Evidentemente la verità gli sembra così palese, che considera inutile fingere con impegno.

Chi ci sarà a controllare che i bombardamenti colpiscano le “armate nere” o non colpiscano piuttosto l’esercito siriano o la resistenza irachena? I giornalisti? Gli operatori umanitari? Se ce ne sarà qualcuno, dovrà avere molta fortuna e l’ISIS e l’Impero ce lo hanno già fatto vedere.

Se potesse esserci dell’ironia in una strategia di morte e sofferenza, oppressione e orrore, starebbe nel fatto che tutto ciò avviene mentre un’altra guerra, la guerra al pianeta, sta avendo un grande successo. L’aumento dell’anidride carbonica in atmosfera supera le peggiori previsioni, tanto che gli scienziati sospettano che stia diminuendo la capacità della Terra di assorbirla. Ma possiamo andare più in là dei sospetti: la deforestazione va avanti di gran carriera, gli oceani sono ormai avvelenati, si cerca il petrolio in fondo ai mari e le prospezioni petrolifere creano ulteriore inquinamento, la pesca industriale ha desertificato aree oceaniche grandi come continenti, mentre continenti di melma plastica ci galleggiano sopra e ne coprono i fondali; i rifiuti tossici si spandono sulle terre fertili e nei mari. E il capitale globale accelera la propria corsa per la conquista del mondo.

“Cosa facciamo stasera, prof?”

“Quello che facciamo tutte le sere, Mignolo, andiamo alla conquista del mondo!”

Non si tratta di problemi diversi e distinti. Sono le stesse cause che producono ambedue queste guerre. La nostra plastica, il nostro petrolio.

Sono cause profonde, una rete di cause nella quale siamo tutti invischiati. L’indifferenza, la competitività, la spietatezza, l’irresponsabilità, l’ignoranza delle conseguenze sono ormai il pane quotidiano di cui si nutre una buona parte dell’umanità.

Contro la guerra all’Iraq ci fu una mobilitazione mondiale senza precedenti, decine di milioni di persone scesero in piazza in tutto il mondo. Nello stesso periodo erano di moda i SUV, si vendettero decine di milioni di SUV in tutto il mondo ma, ovviamente , soprattutto nel mondo ricco, in occidente e satelliti limitrofi. Allora ci domandammo perché una mobilitazione così grande non ottenne risultati proporzionati. Eppure molte persone che erano contro la guerra comprarono quelle automobili, aumentarono a dismisura i consumi di petrolio. Arricchirono e rafforzarono quei potentati economici che avevano bisogno della guerra. Una riflessione, un dibattito, una strategia che voglia porre fine alla guerra e all’ingiustizia non può prescindere da una riflessione, un dibattito, un’azione più vasta per mettere in discussione radicalmente tutta l’economia, l’organizzazione sociale, la cultura umana oggi dominante. La nostra cultura, la nostra vita. Pena la sconfitta di ogni lotta, la sterilità di ogni sforzo, per quanto generoso.

Fonte: ilcambiamento.it

Gli sradicati

“Oggi, a furia di allontanarci dalla natura, ci siamo separati dalla nostra stessa natura. Abbiamo prodotto una novità assoluta: le prime generazioni nella storia dell’umanità di ‘senza radici’. Abbiamo prodotto degli esseri umani da allevamento intensivo, privi dei punti di riferimento di un bagaglio di cultura ed esperienze tramandate e privi anche del bagaglio di esperienze proprie, dirette e concrete”.

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Quando ero bambina, negli anni cinquanta e sessanta, nei cortili di Milano senza un albero risuonavano le voci dei bambini che giocavano. “Vado giù a giocare”, “vai fuori a giocare” erano frasi scambiate quotidianamente tra madri e figli. Nessuno con un grano di sale in zucca si sarebbe sognato di poter tenere dei bambini chiusi tutto il giorno tra quattro mura, come in galera. Negli anni sessanta cominciò il boom edilizio e le case nuove di periferia, o almeno quelle da un certo prezzo in su, venivano costruite mantenendo un’area di terreno a verde: il giardino. Ci sembrò una meravigliosa novità finché non scoprimmo, adulti e bambini, che in quei giardini non si poteva giocare. Né si poteva usufruirne in alcun modo: erano giardini “per bellezza”. Una cosa che ci apparve del tutto insensata e ci lasciò, adulti e bambini, esterrefatti. Fino a che, anno dopo anno, giardino dopo giardino “per bellezza”, ci convincemmo che era la cosa giusta: niente schiamazzi (solo quelli del traffico, delle televisioni a tutto volume, delle liti in famiglia), nessuno che sciupasse il tappeto erboso condito di pesticidi e concimi chimici. E già lì fu evidente che l’uomo moderno può essere convinto di qualsiasi cosa, avendo il cervello imbottito dei precetti dei media-vocedelpadrone in ogni loro forma, cominciando dalla pubblicità, ed essendo di conseguenza sotto ipnosi ventiquattro ore su ventiquattro. Ma per essere ipnotizzati ci vuole una certa predisposizione. Per creare questa predisposizione bisogna, prima di tutto, distruggere la comunità umana e la sua istintiva solidarietà, e secondariamente interrompere il flusso delle esperienze tramandate di generazione in generazione. Alla fine degli anni sessanta e durante gli anni settanta, anni di lotte di classe, di forti ed estesi movimenti anticapitalisti, di contestazione di tutta l’organizzazione economica e sociale, di cultura antiautoritaria, pedagoghi, psicologi e pediatri erano concordi nell’affermare e spiegare che il gioco era una delle prime necessità del bambino, assieme al cibo e all’affetto. Il gioco libero e autonomo, quello in solitudine e quello in compagnia, era una necessità imprescindibile per lo sviluppo fisico e mentale dei bambini. Bisognava lasciarli giocare liberamente. L’occhio degli adulti doveva essere discreto, limitarsi a sventare eventuali pericoli.

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Quanto al bullismo, ai tormenti che oggi quotidianamente bambini infliggono ad altri bambini, erano praticamente impossibili, dato che in ogni gruppo di gioco convivevano età diverse, sessi diversi, fratelli e cugini e amici di questo e di quello. E dato che le madri si affacciavano alle finestre, le portinaie (figure scomparse con l’apparire dei citofoni e del metro quadro abitabile pagato a peso d’oro) ci tenevano d’occhio, gli artigiani che lavoravano nei cortili (in quei tempi selvaggi non esistevano le ASL benché ci fosse un ambulatorio in ogni quartiere) erano pronti a redarguire i prepotenti. Il gioco spontaneo, non inquadrato, non competitivo, non finalizzato a diventare campioni sportivi ricchi e famosi, era più importante della scuola. Non sarebbe stato necessario, allora, affannarsi a ripeterlo: che gli adulti lo ritenessero necessario o no, riuscivano comunque a capire che era naturale e inevitabile. Ma facevano bene a ripeterlo pediatri, psicologi e pedagoghi: a quei tempi in Italia esisteva il lavoro dei bambini, nel nostro sud c’erano ancora bambini muratori, braccianti, sguatteri. Era per loro che si ribadiva il diritto e la necessità del gioco, della libertà e spensieratezza dell’infanzia.

Quando sono a casa solo
e mi annoio, mi consolo;
chiudo gli occhi e sto salpando
verso i cieli, navigando,
navigando verso il mare
del Paese del Giocare,
là, nei luoghi assai lontani
dove vivon solo nani,
dove i fiori sono peri
e le pozze oceani veri
e le foglie son velieri
pieni di filibustieri,
dove passano volando

calabroni che ronzando
fan tremar le cime ardite
delle immense margherite…

Robert Louis Stevenson

Oggi in Italia lo sfruttamento del lavoro minorile non esiste più, e non esiste più nemmeno il gioco, la libertà e la spensieratezza dell’infanzia. I bambini sono chiusi tra quattro mura quasi ventiquattrore su ventiquattro, tra scuola a tempo pieno, compiti affibbiati dalla scuola a tempo pieno, sport, canto/musica/danza e lingue varie, più televisione videogiochi e computer. Totalmente avulsi dalla realtà e dalla complessità della vita concreta, alienati e incapaci. Molto progrediti… Infatti sanno le lingue straniere, sono dei maghi del computer, degli atletini e/o dei musicisti in erba. Li vogliamo scalpitanti e allenati alle gabbie di partenza, come veri purosangue assetati di vittorie.

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Il gioco collettivo insegnava ad organizzarsi, a collaborare, a prendersi cura dei più piccoli, ad essere leali e anche ad essere astuti, svelti, previdenti. Isolava i litigiosi, gli egocentrici e i prepotenti, che a quel punto erano fortemente incentivati a mitigare i propri difetti. Il gioco individuale insegnava a immaginare, fantasticare, riflettere. Tutti i giochi insegnavano la pazienza, la consapevolezza dei propri limiti e delle proprie qualità, la deduzione e l’immaginazione. Tutto ciò è stato spazzato via dal “progresso”: da una società sempre più rigida, competitiva, individualista e autoritaria. Si è dato per scontato che più scuola si affibbiava ai bambini e meglio era, ma la scuola è un’istituzione, non è neutra: rappresenta ed esprime l’organizzazione sociale di cui fa parte, ne persegue gli scopi. In una società di dominio e competizione qual è quella in cui viviamo, la scuola è strutturata in modo da formare individui privi di spirito critico, competitivi, specializzati, conformisti: ricettivi alle direttive e indicazioni che vengono dall’alto, alle “versioni ufficiali”, alle mode, al senso comune, e diffidenti e sprezzanti verso tutto ciò che se ne discosti. Per ottenere questo occorre che lottino con le unghie e coi denti per riuscire a svolgere una mole di lavoro sempre più imponente, non importa quanto utile, che li occupi davvero a tempo pieno, senza lasciare ai loro cervelli una via di fuga. Non più tempo per l’ozio, la noia, la riflessione, la fantasticheria, il coalizzarsi e organizzarsi con altri bambini. E dopo la scuola i nostri minimanager hanno già pronte le attività imposte dalle famiglie. Indispensabili per farsi strada nella mischia. Non abbiamo più il lavoro minorile ma i nostri “minori” non sono meno occupati e oberati, almeno a livello psicologico, dei piccoli braccianti e muratori degli anni cinquanta. Sicuramente più dei pastorelli e camerierini di quel tempo, che lavoravano con la propria famiglia e potevano sdraiarsi su un prato o giocare a carte in cucina. Cosa rimane di libero? Il tempo passato davanti al televisore, al computer, al cellulare. Ho sentito genitori vantarsi di non chiedere alcun aiuto in casa ai propri figli, perché il loro primo compito deve essere studiare. È sottinteso che quello “studiare” significa “vincere”. Devono essere i primi. Imparare, cioè crescere, maturare, acquistare conoscenza non ha importanza, evidentemente. Perché imparerebbero molto di più se sapessero farsi il letto, lavare i piatti, fare la spesa e cucinare, aggiustare una presa o un rubinetto che perde. Far compagnia ai nonni, salutare i vicini, portare a spasso il cane.

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Se poi sapessero coltivare qualche pianta, cucirsi un orlo, riparare la gamba di un tavolo, le loro probabilità di sopravvivenza aumenterebbero del cento per cento: vorrebbe dire che sanno ingegnarsi e adattarsi, che hanno sviluppato un’intelligenza pronta e duttile, uno spirito d’osservazione a tutto campo. Ma per questo è necessario trasmettere le proprie conoscenze. Invece, nel progredito occidente, stiamo crescendo le prime generazioni di “senza radici”. Da quando gli esseri umani esistono, ogni generazione ha trasmesso le proprie conoscenze ed esperienze a quelle che la seguivano. È una delle condizioni imprescindibili per la sopravvivenza di una specie; tanto più imprescindibile per una specie, quella umana, dalla cultura vasta e complessa e dallo scarso istinto. È altrettanto importante, questa trasmissione di saperi, della trasmissione del patrimonio genetico. I genitori, i nonni, gli zii, i vicini di casa, l’intera comunità degli adulti raccontava ai bambini: la propria vita e le vite che aveva conosciuto, le idee che aveva maturato, le cognizioni apprese. Era una necessità primaria, né più né meno del gioco. E infatti ciò che più i bambini amavano, oltre al gioco, erano i racconti. Fino a qualche decennio fa, attraverso quei racconti si è tramandato a spizzichi e bocconi tutto il patrimonio culturale accumulato dagli uomini, tutte le esperienze che ci precedevano, i miti e la storia. C’erano racconti sulla guerra e sulla fame, sulla bontà e la malvagità, sullo sfruttamento e sul riscatto, sulla resistenza e la dignità, sulla sacralità del cibo e sul rispetto dei più deboli, sulla fatica e sulla festa. Tra ricordi e principi, parabole e aneddoti, concetti e idee, si trasmetteva una cultura ancestrale e attuale; i bambini crescevano legati a tutti coloro che li avevano preceduti, come da un reticolo di radici nascono i nuovi polloni: nutriti da tutte le sostanze che possiede il terreno dove spuntano. Ma oggi, a furia di allontanarci dalla natura, ci siamo separati dalla nostra stessa natura. Abbiamo prodotto una novità assoluta: le prime generazioni nella storia dell’umanità di “senza radici”. Abbiamo prodotto degli esseri umani da allevamento intensivo, privi dei punti di riferimento di un bagaglio di cultura ed esperienze tramandate e privi anche del bagaglio di esperienze proprie, dirette e concrete. Abituati ad obbedire senza chiedersi perché: tutta la loro vita è organizzata e indirizzata dagli adulti: insegnanti di scuola, istruttori sportivi, insegnanti di musica, animatori e chi più ne ha più ne metta.

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Abituati a competere: a scuola bisogna essere tra i primi, a calcio bisogna vincere la partita, in ogni attività bisogna puntare ad essere più e meglio degli altri e poi magari i genitori li portano a scalare il Monte Bianco, tanto perché gli rimanga chiaro che l’uomo non ha limiti e la natura è qualcosa da conquistare e sottomettere. Obbedienza e competizione preparano il servo perfetto per una società di dominio senza più limiti. Televisione e strumenti digitali fanno il resto. L’immaginazione è una dote indispensabile per la sopravvivenza umana. Non serve a un batterio, probabilmente, e neanche a un lombrico, che hanno il loro corrispondente dell’immaginazione in dote già dalla nascita. Ma serve a qualsiasi animale abbia necessità di apprendere dopo la nascita una parte delle proprie cognizioni. Bene, “immaginazione” ha la stessa radice di “immagine” perché è la capacità di creare immagini mentali. Il neonato, sentendo la voce o l’odore della madre, immagina probabilmente il suo volto, il suo abbraccio o il sapore del suo latte. Poi ci saranno le parole da decifrare e trasformare in immagini e idee: un continuo allenamento mentale, come muoversi e camminare è un allenamento per i muscoli. Ma, se a un bambino piccolo dessimo una seggiolina a rotelle che lo porta ovunque, che ne sarebbe delle sue gambe? Atrofizzate proprio nell’età in cui dovrebbero svilupparsi. Potrebbe più camminare, correre, saltare? E, se a un bambino piccolo scodelliamo continuamente immagini televisive e cartoni animati e poi, quando riesce a usare le dita, gli forniamo strumenti che schiacciando dei tasti gli permettono una fittizia e astratta comunicazione con gli altri esseri umani e un fittizio e mutilato rapporto con la realtà e con la vita, cosa succederà alle sue capacità mentali? Proprio nell’età in cui la sua esperienza e la sua immaginazione dovrebbero svilupparsi; e immaginazione significa sapersi immedesimare negli altri, saper prevedere i pericoli, saper valutare le conseguenze. Significa responsabilità, compassione, accortezza. Cosa succederà alla sua capacità di esprimersi con parole, gesti, espressioni del viso, toni di voce? Tutto quello che serve per “incontrarsi” con gli altri umani e non solo. Cosa succederà ai suoi sensi, al tatto, alla vista, all’olfatto, all’udito? Tutto quello che serve a percepire e comprendere il mondo. Noi non lo sappiamo. Nessuno delle generazioni precedenti lo sa. Perché non si può sapere, e nemmeno immaginare, ciò di cui nessuno ha mai avuto esperienza prima. Possiamo però vederne le conseguenze. Nei ragazzi incapaci di vivere, che non riescono a studiare né a lavorare, terrorizzati dalla continua già sperimentata competizione della nostra società, convinti fino in fondo all’anima della propria incapacità, rinchiusi nella “comoda” irrealtà di rapporti mediati da internet. Sono ormai un’epidemia, che trova le famiglie del tutto impotenti e sole.

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Nelle inaudite e inspiegabili violenze di gruppi di adolescenti “normali”, che in maniera evidente non hanno né la capacità di immedesimarsi nelle sofferenze altrui, né tanto meno quella di immaginare le conseguenze che i loro atti faranno ricadere sulle proprie stesse vite. E poi ci sono i comportamenti di massa. Le caratteristiche ormai di una nuova specie umana: la paura o l’indifferenza nei confronti della natura. Quando io ero bambina, il più grande divertimento di qualsiasi bambino era poter scorrazzare in un vasto spazio libero e selvaggio: un prato, un bosco, il mare. Di fronte a qualsiasi ambiente del genere, nessun adulto con un grano di sale in zucca avrebbe tentato di trattenerci. Lo stesso valeva per fonti e ruscelli. Un surrogato erano i giardini pubblici. Meglio che niente, anche se non si poteva correre nell’erba, far capriole, rotolarcisi, arrampicarsi sugli alberi. Questo rapporto dei cuccioli d’uomo con la natura è continuato, pur diluendosi via via, fino a una ventina d’anni fa. Oggi nei parchi cittadini ci sono prevalentemente i cani, dato che non si può piazzarli davanti a un televisore o appassionarli a un videogioco, né si accontenterebbero di rapporti “virtuali” coi loro simili. Del resto, i bambini attuali guardano un prato, un bosco, un fiume come qualcosa di estraneo e incomprensibile. Come i canarini nati in gabbia (non) guardano il cielo e rifiutano di uscire dalla gabbia anche se la porta è aperta. Forse come i polli d’allevamento intensivo guardano il mondo oltre la porta del capannone. Eppure basterebbe poco, prima che sia troppo tardi. La maggior parte dei bambini è cento volte più disponibile a far qualcosa in compagnia che a ottundersi davanti a uno schermo. La maggior parte dei bambini possiede ancora curiosità e senso del mistero. Basterebbe ricordare. Siamo stati tutti bambini, anche se ci sembra impossibile. Non si tratta, in effetti, di alieni: si tratta di comuni esseri umani in uno stadio della loro esistenza. Basterebbe ricordassimo le decine di giochi di gruppo che nessun grande organizzava; ricordare i duelli, gli agguati, le galoppate a rotta di collo delle nostre immaginarie avventure; ricordare come rompevamo le scatole ai genitori per comperare il granturco in sacchettini che vendevano nella piazza e come ci emozionavano i piccioni posati sulle nostre braccia per mangiarlo. Ricordare il fascino indescrivibile del soldino al posto del dente che ci era caduto, dei doni magicamente portati dalla Befana o da Babbo Natale o da Gesù Bambino. Sarebbe sufficiente dedicarci a loro quel tanto che basta per ridargli tutto questo, per aiutarli a scoprire la vita. E forse richiederebbe meno tempo che scarrozzarli in auto da piscine a palestre ad effimere scuole di discipline nate da effimere mode. I figli di una mia amica hanno in casa un folletto che ruba le cose lasciate in disordine. I folletti possono esserci in tutte le case, anche in un appartamento di due stanze. E anche dalla finestra di un appartamento di due stanze si possono soffiare nel cielo le bolle di sapone fatte con una “cannuccia” di cartoncino arrotolato e un po’ di acqua e sapone. E poi, con i nostri bambini, potremmo anche riprenderci i marciapiedi e le piazze e i cortili, e prima di tutto i “giardini per bellezza”. Proviamoci almeno, a ritrovare quegli spiritelli incapaci di camminare ma solo di correre e saltellare, ridenti, vocianti e canterini che sono sempre stati i bambini dagli albori dell’umanità fino a due, tre decenni fa. Ci guadagneremmo tutti: potremmo tornare a goderci lo spettacolo dei loro giochi dalle finestre e dai balconi. Gratis. Potremmo ravvivare le nostre speranze e la nostra fantasia per rispondere alle loro domande. Potremmo sentirci immortali guardandoli crescere.

… È questa una mattina
che non c’è scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d’albaspina.

Le siepi erano brulle, irte; ma c’era
d’autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera
bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.
Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino

ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.

Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza.

S’inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo, esile
e vada a rifiorir lontano.

S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo
petto del bimbo e l’avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo…

Giovanni Pascoli

Fonte: il cambiamento