Deindustrializzare e rallentare: che sia questa la strada?

Un terzo delle emissioni di gas serra è “incomprimibile”, dice uno studio pubblicato sulla rivista Science. Quindi, ci vogliono dire che ce lo dobbiamo tenere? Nemmeno per sogno, messaggio inaccettabile. Sia una spinta in più per cambiare paradigma.9864-10651

La conclusione alla quale sono giunti gli esperti nell’articolo pubblicato dalla rivista Science suona un po’ come un’ovvietà per chi è ormai convinto che non si andrà da nessuna parte se ci si ostina a non voler mettere in discussione un’economia basata sulla produzione industriale, sul “libero inquinamento” e sulla tendenza a favorire i grandi gruppi e la grande industria. Come scrive l’Agenzia Ansa, secondo quanto riportato sullo studio di Science, «per diversi settori produttivi, che insieme producono il 27% delle emissioni di gas serra, non ci sono soluzioni praticabili per diminuire l’impatto ambientale». L’articolo è firmato da oltre 30 esperti pubblicato da Science, che cita tra gli altri i trasporti aerei e la produzione di acciaio e cemento. Il 6% delle emissioni globali, ricorda l’articolo, è dovuto al trasporto aereo e a quello terrestre a lungo raggio, il 9% alla produzione di cemento e acciaio e il 12% alle centrali elettriche ‘accoppiate’ a quelle ad energia rinnovabile che aumentano o diminuiscono la propria attività per compensare cali di vento o nelle ore notturne. Per tutti questi settori, notano gli esperti, le soluzioni per ridurre le emissioni proposte finora, come i biocarburanti per gli aerei o i dispositivi di stoccaggio della CO2, sono troppo costosi per diventare competitivi.

“Se vogliamo essere ambiziosi nel rispettare gli obiettivi sul clima – spiega Steven Davis dell’Università della California, uno degli autori – dobbiamo occuparci di questi settori subito. Abbiamo bisogno di molta più innovazione, ricerca e di un maggiore coordinamento per rendere queste fonti più pulite”.

Ma può essere questa la strada? Mantenere il tasso di industrializzazione e frenesia attuale riconvertendo questo mondo energivoro che oggi “inghiotte” fonti fossili in un mondo altrettanto energivoro che consuma altrettanta energia ma da fonti rinnovabili a costi altissimi. Può mai essere sostenibile o plausibile un tale paradigma?

Non è forse invece utile, forse addirittura indispensabile, oggi pensare a un radicale cambio di paradigma, a una deindustrializzazione e a un rallentamento dei ritmi frenetici della società e quindi a un ridimensionamento drastico dei consumi di energia e materie prime, quali che siano le fonti? In un mondo ipoteticamente a basso consumo e meno ossessionatamente industrializzato, rimarrebbe forse ben poco di “emissioni incomprimibili”. La resistenza al cambiamento può essere dettata dalla classica obiezione: ma così si perdono i posti di lavoro, come ci si guadagnerà lo stipendio? All’industrializzazione selvaggia si può sostituire un modello comunque che valorizzi il lavoro dei singoli, ma inserito in un “ecosistema sociale” più sostenibile e meno inquinante.

 

Fonte: ilcambiamento.it

L’antropologa: «Impariamo dalle culture che rispettano la natura»

Come si può vivere cambiando paradigma e modificando il nostro quotidiano per mettere un freno al consumismo e allo sfruttamento di risorse che ci sta condannando a morte? Può essere utile guardare ad altre culture che hanno mantenuto un legame più stretto con la natura? Ne parliamo con Federica Giunta, antropologa ambientale.Senza nome

 

 

 

 

 

 

Nelle società capitaliste sembra aumentare sempre di più la distanza tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda. Le società sembrano muoversi, andare avanti o “correre”, come si dice quando ci si esalta perorando la causa della necessità della crescita,  indifferenti o ignare della distanza tra il consumo sempre maggiore e le risorse che quel consumo dovrebbero sostenere. Per molti, considerati i più sensibili al problema, è fondamentale e urgente uno sviluppo sostenibile. Tuttavia, c’è chi crede che questo sia solo una bella favola che qualcuno continua a raccontarci e che uno sviluppo davvero sostenibile non esista perché basato su un fondamentale squilibrio tra chi di quello sviluppo gode e chi lo deve, molto lontano da noi, sostenere. A carissimo prezzo. Le questioni che si aprono e le domande che si pongono in questo ambito sono moltissime e complesse. Ne parliamo con Federica Giunta, antropologa culturale, specializzata in Antropologia ambientale e attivista per i diritti umani e della natura. Ha svolto ricerche in Asia, Africa e, attualmente in America Latina dove studia e supporta comunità indigene e rurali in lotta per la salvaguardia socio-territoriale. È membro dell’organizzazione ecuadoriana Clínica Ambiental-Acción Ecologica e attualmente impegnata alla frontiera fra Turchia e Siria in un progetto di sensibilizzazione ambientale in un centro di accoglienza per profughi afgani e siriani.

Di che cosa si occupa un’antropologa ambientale?

Un’antropologa ambientale studia le relazioni fra gli esseri umani e l’ambiente che li circonda, cercando di interpretare le dinamiche che sostengono questa relazione e di comparare le differenti tecniche adattative dei membri di una determinata società all’ambiente. Personalmente ho sempre provato a lavorare in contesti rurali ed indigeni così da rendere visibile, attraverso le mie ricerche e le mie lotte sociali, quella differenza fondamentale fra le società dove gli esseri umani ancora vivono in forte interdipendenza con il territorio che li accoglie e quelle in cui dinamiche capitaliste e di sfruttamento hanno allontanato questi due mondi. Gli interessi di un’antropologa ambientale possono comprendere questioni legate alla giustizia e all’accessibilità delle varie comunità alle risorse naturali e alla gestione dei beni comuni. Si tiene, inoltre, sempre presente la valutazione di nuove forme di stratificazione e disuguaglianza legate alla mercificazione e a vari aspetti dell’economia liberista, sviluppando nuovi modi di pensare alle interdipendenze. Si dettagliano, infine, le traiettorie storiche (tra cui il colonialismo, il capitalismo, l’imperialismo) che modellano le opinioni contemporanee a livello locale e globale.

Quando è nata l’antropologia ambientale?

L’antropologia ambientale è nata negli anni settanta, subito dopo la formazione di movimenti ambientalisti, di protesta e di sensibilizzazione rispetto a tematiche legate alla salvaguardia ambientale. Con l’aumento dei movimenti ambientali e dei paradigmi ecologici del XX secolo, anche gli antropologi hanno adottato nuove prospettive. Infatti l’antropologia ambientale è nata in concomitanza con un’altra disciplina, l’antropologia della crisi, nel momento in cui ci si è resi conto che la crisi dovuta alla contaminazione e alle pratiche di sfruttamento estremo della natura coinvolgeva anche la vita delle società in qualsiasi latitudine. Antropologia della crisi e antropologia ambientale sono nate insieme e sono relazionate in modo stretto perché nel momento in cui una struttura culturale affronta una criticità ambientale deve affrontare una serie di crisi sistemiche interconnesse. Questo ha fatto nascere il desiderio e la necessità di capire quelle dinamiche.

Antropologia della crisi?

Sì, si chiama esattamente così. Il prodursi di una crisi determina, infatti, un momento di perturbazione che tende a determinare un’incertezza strutturale, come può essere quello di una formazione sociale o di una dinamica eco-sistemica. Ed è per questo che questa disciplina si trova in stretta relazione con l’antropologia ambientale: dal momento in cui una società: si trova ad affrontare una criticità ambientale deve confrontarsi anche con una serie di problemi correlati, come lacerazioni del tessuto sociale e contaminazioni delle risorse naturali.

Può farci un esempio?

Prendiamo l’estrattivismo come pratica umana che coinvolge con pesanti ripercussioni la dimensione territoriale. Creare un sistema estrattivo non significa solamente l’azione meccanica di estrazione, che possa essere petrolifera o mineraria. Estrarre significa creare una geografia, ambientale ed umana, che va a cambiare il territorio che ci circonda attraverso la creazione di strade di collegamento in zone naturali spesso incontaminate; creare immigrazione di lavoratori e tecnici che provengono dall’altra parte del mondo (per esempio cinesi o nordamericani in Sudamerica); significa introdurre non solo qualcosa di alieno in un contesto culturale e ambientale, che in un mondo globalizzato è sempre più usuale, ma sfruttare ed abusare di un sistema naturale e sociale senza consulta previa o attenzione verso le realtà locali. Le azioni che si attuano sul territorio determinano danni anche in ambito culturale e le problematiche e crisi ambientali hanno effetti nocivi sempre di più sugli aspetti della formazione e interazione sociale. Da qui nasce l’antropologia ambientale.

Lei dice che l’antropologia dell’ambiente e quella dell’ambientalismo sono due cose diverse. Qual è la differenza?

La differenza è che l’antropologia dell’ambiente è lo studio delle interazioni fra esseri umani e ambiente circostante, mentre quella dell’ambientalismo, nata negli anni Sessanta, si basa sull’analisi delle formazioni sociali di protesta contro contaminazioni ambientali e di movimenti critici nei confronti di un sistema economico che ha iniziato a creare “crisi ambientali”. Kay Milton, una delle più importanti antropologhe ad aver analizzato l’ambientalismo, si chiede come mai gli esseri umani si possano dividere fra chi si batte in difesa dell’ambiente e chi non si cura di questo, sfruttandolo e contaminandolo. Nonostante non si riesca ad arrivare a nessuna conclusione, in alcune parti la Milton parla di un approccio emozionale alle questioni ambientali, basandosi su studi che parlano di una romanticizzazione della natura, anche se secondo me potrebbe essere un errore, portare qualcosa di politico sul piano dell’emozionalità personale.

Che cosa si intende per cultura?

In questo mondo dominato da dinamiche di globalizzazione, migrazioni e crisi è difficile dare una definizione. Se si pensa all’antropologia questa è una disciplina che nasce dalla constatazione che la specie umana è una specie sociale, che si basa cioè sulle relazioni che intercorrono fra individui e sulla loro creazione di strutture sociali e fatti sociali, che persistono o mutano. La cultura potrebbe definirsi come un sistema di credenze e valori condivisi, comportamenti e oggetti materiali che i membri di una società utilizzano per affrontare il proprio mondo e per affrontare il rapporto interpersonale, e che vengono trasmessi da generazione in generazione attraverso la trasmissione e l’apprendimento.

Possiamo dire che è tutto ciò che non è natura?

Non direi, proprio perché secondo me è errato creare una divisione così netta fra i concetti di natura e cultura, che in realtà, proprio per superare le numerose crisi ambientali che stiamo vivendo, dovrebbero essere riavvicinati e messi in dialogo fra di essi. È infatti l’ambiente naturale che determina le caratteristiche proprie di una determinata cultura, le sue dinamiche di adattamento e distribuzione, le sue forme di parentela e le sue cosmogonie. Dall’altro lato la cultura formatasi, per l’antropologia ecologica, è stata vista conseguentemente come mezzo di adattamento ambientale delle popolazioni umane. Sulla base di una tale teoria, gli antropologi ecologici si sono concentrati su come gli aspetti del comportamento culturale mantengano equilibrio o “homeostasi” nei rapporti tra un gruppo locale e le sue risorse ambientali e promuovano così la sua sopravvivenza a lungo termine.

Quando è iniziato il distacco tra uomo e natura? Qual è la differenza tra l’uomo e gli altri animali?

C’è la descrizione quantitativa e biologica che parla di pollice opponibile, postura eretta, la struttura del cranio, ecc. C’è però una teoria interessante. L’uomo, sarebbe un animale biologicamente incompleto, come riferisce l’antropologo tedesco Arnold Il Gehlen, tesi supportata per esempio anche da Remotti e Speranza. Le sue caratteristiche non sono adeguate a livello fisico e istintuale e non gli permettono di sopravvivere in contesti territoriali apparentemente avversi alla sua permanenza. La creazione di strumenti “culturali” ha permesso quindi all’uomo di adattarsi: è infatti l’unica specie che troviamo a tutte le latitudini. La sua inadeguatezza fisica è stata compensata dalla capacità di creare cultura, cioè tutti quegli elementi prodotti artificialmente come il linguaggio, gli utensili, la conoscenza tecnica, le tradizioni, le istituzioni, etc. atti a modificare a proprio vantaggio le condizioni d’esistenza. Molti antropologi danno questa interpretazione. La maggior parte degli animali sono intelligenti, probabilmente anche più degli esseri umani, ma in maniera differente. Si pensi al linguaggio, per esempio.

Però anche gli altri animali comunicano.

Sì, ma si tratta di un suono. L’uomo ha creato un linguaggio articolato e che può essere simbolico. Se articolo qualcosa, costruisco e posso ricordare ed è da questo momento che posso iniziare a mettere insieme immagini, simboli, fatti, a ricordarli e a dar loro una struttura. L’essere umano è l’unico che si autopercepisca e racconti una storia che è frutto di una memoria personale che poi, in una formazione culturale, diviene collettiva. E’ capace di percepire un io e di conseguenza un ego, un individualismo e un egocentrismo che porta poi a desiderare per sé. Forse proprio da qui questa tendenza di allontanarsi dal naturale, esacerbata nella modernità dal momento in cui la dipendenza dalle risorse naturali non è più così diretta.

Se l’uomo è così intelligente come mai non riesce a percepire i pericoli cui sta andando incontro?

Il punto non è che l’uomo è “così” intelligente. Il punto è che ha un tipo di intelligenza differente dagli altri animali (quindi differenza qualitativa e non quantitativa). Nella società in cui viviamo noi credo si sia esacerbata la dinamica di individualismo ed egocentrismo che non permette di valutare una visione d’insieme che quindi ci collochi in un territorio, in un contesto “mondo”. Questo crea una forte inconsapevolezza rispetto a quanto le nostre azioni influenzino l’ambiente a livello macroscopico e a quanto la salvaguardia della natura possa essere di beneficio ad ognuno di noi, come parte di una collettività. Infatti, nel momento in cui ci siamo affidati ad una logica capitalista in cui la natura viene depredata, siamo arrivati ad una alienazione totale non solo come esseri umani ma anche nei confronti della natura.

Che cos’è l’intelligenza?

Il discorso sarebbe lunghissimo ma molto in breve è la capacità di adattamento dell’essere umano. Nonostante questo, se riportiamo questa capacità ad un discorso contemporaneo e critico nei confronti del sistema capitalista, credo che stia diventando sempre più difficile per noi sostenere i cambiamenti (erroneamente chiamati sviluppo!) di cui siamo responsabili. Pensiamo alle malattie alle epidemie, ad esempio la malaria o il colera o l’aids, sempre più connesse con dinamiche contemporanee ed acutizzati da un deterioramento socio-ambientale. La nostra “intelligenza” dovrebbe quindi suggerirci di politicizzare la lotta alle varie crisi ambientali, smettendola di relegarla solamente ad una questione individuale.

Le popolazioni indigene e incontattate vivono in equilibrio col territorio?

Nella maggior parte dei casi sì, dal momento in cui la loro vita dipende strettamente dal contesto territoriale e delle risorse che la natura può offrire loro per vivere. Nel contesto ecuadoriano in cui ho lavorato quest’anno si ha ancora la presenza di popolazioni indigene incontattate. Sfortunatamente devono ridisegnare costantemente i loro confini dal momento in cui sono costretti a sfuggire a dinamiche di sfruttamento capitalista delle risorse naturali, sia questo il petrolio, il legname o il caucciù. In questi casi delicati non bisogna romanticizzare troppo la visione delle popolazioni indigene, anzi bisogna rivendicare con loro un loro territorio e la dignità della loro espressione culturale. Non condivido molto l’ecologia emozionale e per questo credo che sia molto importante la conservazione. E’, tuttavia, necessario fare attenzione a trasformarla in segregazione (per esempio attraverso la costruzione di parchi naturali dove far vivere le comunità indigene). Ho conosciuto popolazioni che ancora non fanno uso del denaro e non fanno parte dell’economia neoliberista. Queste popolazioni sono riuscite a mantenere un approccio egalitario nei confronti della natura, anche attraverso conoscenze ancestrali che permettono loro di “preservarsi”: per esempio la visione e l’uso dell’acqua o dei beni comuni. I loro miti sono strettamente correlati con la natura: l’acqua per esempio è spesso associata ad una delle divinità più importanti di molti pantheon di differenti comunità, perché si è consapevoli della sua vitale importanza e che non si può contare su strumenti meccanici o scientifici per depurarla o ricrearla: si deve solo ascoltare e salvaguardare. Credo così che un problema delle società capitaliste sia proprio che la distanza tra consumo e risorse sia sempre più grande.

Raccontare e fare testimonianza sui limiti delle risorse è utile? Molti negano che esse possano finire. Gli ambientalisti sono destinati ad essere le “Cassandre” della situazione?

Credo che faccia comodo etichettare gli ambientalisti come allarmisti o catastrofisti, soprattutto a chi si sente che agire non gli competa perché le ripercussioni sulla sua vita non sono poi così ingenti. Inoltre, pensiamo sempre di non avere la responsabilità diretta sul nostro ambiente o che le crisi ambientali siano lontane, ben oltre il nostro giardinetto (da vedere il movimento NIMBY). Questo è vero soprattutto perché attraverso il colonialismo abbiamo obbligato altre nazioni e comunità, ben lontane dall’Italia, a farsi carico di processi estrattivi, trasformativi, produttivi e di smaltimento altamente contaminanti. Qui si pensa erroneamente che solo delegando i politici e relegando le responsabilità alle istituzioni si stia agendo a favore della salvaguardia del nostro territorio.

Lei è ottimista o pessimista sul futuro che ci aspetta?

Personalmente penso che si vada incontro ad un collasso della struttura sociale esistente ma sono per natura un’ottimista e credo che possiamo ancora ristabilire dinamiche che riportino equilibrio nel rapporto fra essere umano e ambiente, soprattutto se ci si organizza attraverso una costruzione sociale di partecipazione attiva comunitaria. Dobbiamo svegliarci e muoverci adesso, smettere di lamentarci e fare qualcosa di concreto e coraggioso, senza rimandare le responsabilità ad altri.

Che cosa si deve fare, in concreto?

Smetterla di delegare ad altri ed agire.Vivo in America Latina e, probabilmente per le forti crisi ambientali causate per esempio dall’estrattivismo, ho incontrato movimenti sociali più attivi, singoli individui più coinvolti, forse perché ancora impregnati di speranza, con una visione meno cinica della questione. La speranza porta ad agire, porta a sviluppare azioni concrete di intere comunità, di movimenti dal basso che possono determinarsi e quindi riappropriarsi dei processi decisionali.

Cosa pensa dello sviluppo sostenibile?

Penso che non esista. E’ un ossimoro. Il concetto stesso di sviluppo attuato da una società capitalista e colonialista non può dirsi sostenibile, se non per quella stessa società. Perché in fondo a discapito di chi lo stiamo effettuando? Per chi questo sviluppo risulta sostenibile? La nostra società lo perpetua, però sono altre società che realmente lo “sostengono”, società spesso discriminate e sfruttate proprio in nome dello sviluppo di qualcuno ben lontano da loro. Si dovrebbe rivedere la nostra proiezione del futuro non in maniera lineare ma circolare, dall’estrazione e trasformazione delle materie prime alla gestione degli scarti che queste producono. Ormai abbiamo capito che il solo sviluppo non è sostenibile per nessuno: né per noi né per l’ambiente.

Si dice che il capitalismo sia il problema. E questo sembra un modo per chiamarsi fuori dalla questione, come se non dipendesse da noi.

Il problema non è solamente il sistema capitalistico ma che tutti noi ormai lo attuiamo attraverso atteggiamenti e dinamiche capitaliste, adattando le nostre vite e i nostri bisogni a necessità innecessarie. Per me non può esistere un ambientalista che non si definisca anche anticapitalista. E non basta più solamente definirsi: si deve andare oltre l’apparenza e rivoluzionare le nostre vite, i nostri circuiti sociali, il nostro sistema economico. È importante infatti che l’indignazione per le problematiche moderne (si pensi all’immigrazione o al dilagante maschilismo) ci porti ad unirci e a creare la necessità di formare movimenti sociali che vadano oltre le nostre buone azioni quotidiane individuali ed individualiste.

Fonte: ilcambiamento.it

Cosa si nasconde dietro il paradigma della crescita

Come ci ricorda Ivan Illich, il più grande pensatore del Novecento, il concetto di “sviluppo economico” nella sua accezione attuale fa la sua comparsa il 10 gennaio 1949, nel celebre “Discorso dei Quattro Punti” rivolto alla nazione dal presidente americano Truman, alla vigilia della ricostruzione post-bellica.crescita_economica_strozzi

Fino ad allora, tale espressione era relegata all’evoluzione delle specie animali, al gioco degli scacchi e poco altro. Da quel giorno, e in meno di una generazione, hanno invece cominciato a pullulare le più disparate teorie sull’opportunità di inscatolare all’interno di quel concetto il vero destino dell’evoluzione del genere umano: se da un lato si ricordano i cosiddetti“pragmatisti”, coloro cioè che attribuivano alla vocazione imprenditoriale l’unica rotta salvifica perseguibile; dall’altro lato, vi erano quelli che potremmo definire gli “aspiranti politici”, prevalentemente intenti a salvaguardare gli aspetti più “soft” del new-deal espansionistico, come per esempio l’intima realizzazione di se stessi. L’unico aspetto che
accomunava le due correnti di pensiero era, guarda caso, che la salvezza sarebbe necessariamente dovuta passare per la crescita: entrambi sostenevano che l’unica via percorribile sarebbe stata l’incremento della produzione e, con essa, una maggiore dipendenza dai consumi. La cosa vagamente ironica, ci ricorda sempre l’immenso Illich, è che ciascuno dei due “schieramenti” utilizzava, in difesa delle proprie ragioni, la foglia di fico della Pace. Tanto che, all’epoca, schierarsi contro lo sviluppo, oppure contro quella che sarebbe diventata (come la chiamo io) l’ipnosi consumistica globale, significava essere additati come nemici della Pace. Persino Gandhi fu spesso rappresentato come uno sciocco, un romantico o uno psicopatico, tanto che molti suoi insegnamenti furono astutamente distorti (e,aggiungo, violentati) nell’equivoco concetto di “strategia di sviluppo non violento”. Oggi, dopo 65 anni, è cambiato qualcosa? A cosa ha portato quel new-deal? Quali sono stati gli effetti sulla civiltà di quella rivoluzionaria intuizione di Truman?
All’indomani del Dopoguerra, l’Occidente ha cavalcato a spron battuto gli stilemi della crescita ad ogni costo. Ai quali, aggiungo io, è stata surrettiziamente affiancata la suggestione sociale dell’irrinunciabilità. Tutto, in un modo o nell’altro, avrebbe potuto (e dovuto) essere raggiungibile: il lavoro, la carriera, il successo, i viaggi, le esperienze, fino a farcire queste prospettive con le loro derivazioni idealistiche: la libertà, l’amore, la bellezza… La postmodernità ha astutamente previsto, per i suoi abitanti,l’illusoria prospettiva della panpossibilità:tutto sarebbe stato a portata di mano! Questo new-deal era, fuori da ogni discussione, diabolicamente perfetto: da un lato, garantiva continuità al paradigma economico dello sviluppo indiscriminato; dall’altro lato, soggiogava intere popolazioni, subordinandole a un imperativo di crescita che avrebbe sempre più richiesto un loro radicale asservimento al mondo del lavoro. Utile o inutile, questo era di secondaria importanza. Gratificante o umiliante, questo era di importanza, invece, nulla. E le persone? Ci arriviamo… Sempre in quegli anni, ci ricorda stavolta Zygmunt Bauman, il maggior sociologo vivente, assistiamo all’esaltazione di un ruolo sociale con cui molti di noi, ancora oggi, fanno quotidianamente i conti: la figura del manager.
Come molti di voi, so benissimo anch’io cosa significhi essere oggi un manager. Tuttavia, solo recentemente ho imparato che questo ruolo prende forma e vita, proprio in quegli anni, con il solo scopo di intermediare tra la catena di montaggio e la proprietà, divenuta ormai incapace di controllare direttamente tutte le microfunzioni del processo produttivo. Il manager, diversamente da quanto comunemente si crede, non è deputato a prendere decisioni, non gli vengono richieste particolari doti di lungimiranza o di problem-solving. No, niente di tutto ciò! Fin dai suoi albori, il manager deve fare essenzialmente due cose: osservare e riferire. Il perfetto morphing tra un vigilante e una spia. Avvilente? Forse, ma comunque ben remunerato! Unico requisito? La piena fiducia da parte della proprietà. (Quando mi viene chiesto come mai oggi non ci sia meritocrazia nel mondo del lavoro in Italia, io rispondo sempre: “La meritocrazia c’è eccome: si tratta solo di stabilire con quali prassi e atteggiamenti lo si vuole riempire, questo concetto…”.). La figura del manager è quella che oggi, con decine di chili di manuali di organizzazione aziendale sugli scaffali delle librerie, potremmo definire una commodity: un servizio cioè esternalizzabile, in quanto rappresenta un’inutile (a volte, dannosa) interferenza tra la base produttiva e il vertice decisionale della piramide aziendale. Dico “dannosa” perché, in molti casi, assolvere a una mera funzione di rendicontazione di quanto avviene sotto di loro, implica per la proprietà un assorbimento di risorse economiche che potrebbero compromettere la salute stessa dell’organizzazione. O che, comunque, potrebbero essere destinate ad investimenti a più alto ritorno. Ma lo sappiamo: come tutte le cose, la fiducia ha un prezzo, no?
Quindi, paghiamo pure la fiducia – si disse – ma insistiamo però su un altro imperativo, che ha preso sempre più piede dagli anni del boom economico ai giorni nostri: quello della produttività. E, con essa, arriviamo finalmente anche alle persone (che, come ormai sarà chiaro, occupano un ruolo periferico in tutto questo palinsesto organizzativo).
La produttività, per tutti i policy-maker (dal Presidente del Consiglio, al numero uno di Confindustria, fino al vostro caporeparto), è uno snodo strategico imprescindibile: va salvaguardata a tutti costi. Ma… senza esagerare. Perché, se la carichi troppo, la schiena del ciuco rischia pur sempre di spezzarsi. Ed è così che, come ci ricorda il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, grazie anche a un progresso tecnologico ben più che lineare (esponenziale), dagli anni Settanta ad oggi la produttività del lavoro è cresciuta nelle economie occidentali a ritmi forsennati. Molto superiori – per esempio – alla dinamica dei salari reali medi. Ed ecco che, per i più avvezzi alle relazioni macroeconomiche, si spiegano così anche le vere cause degli attuali livelli (sub)occupazionali. Pensiamoci: per ottenere lo stesso bene o servizio finale – un cesto di mandarini, un stampa fotografica, un nuovo contratto telefonico o un qualsiasi altro bisogno (per lo più, indotto) – al giorno d’oggi occorrono molte ore di manodopera in meno. La filiera è molto più corta e, soprattutto, dove si può fare a meno dell’uomo, subentra la tecnologia. Quella di cui tuttavia non si può fare a meno è chiamata manodopera qualificata: sempre più rara, sempre più strategica, ma pagata sempre meno, in quanto, mediamente, i salari comunque diminuiscono (e, da qui, il tema delle disuguaglianze distributive, che non affronterò in questa sede, perché troppo vasto). Tuttavia, proprio per tutelare la produttività (occhio: non i lavoratori), nel decennio a cavallo del nuovo millennio i soloni dell’organizzazione aziendale introducono un concetto nuovo, tanto suggestivo quanto ipocrita: la worklife balance (equilibrio lavoro-vita privata): nell’ambito di una vita dedicata prioritariamente al lavoro, occorre cioè consentire all’unità produttiva di distrarsi (dedicandosi alla famiglia, al tempo libero, agli hobby…). Infine, è di un paio d’anni fa quella che mi piace definire “la controriforma”, perfettamente illustrata da una docente della SDA Bocconi, santuario italiano della dottrina neoliberista: la work-life balance deve progressivamente essere sostituita con la worklife integration: lavoro e vita privata non devono cioè essere due “momenti” che, alternandosi, si completano vicendevolmente, bensì divengono due fasi della nostra vita che si compenetrano simultaneamente. Così, per fre un esempio banale, nessuno storcerà il naso se un lavoratore effettuerà una telefonata personale dall’ufficio, ma – simmetricamente – lo stesso lavoratore sarà poi dotato di blackberry, tablet o altri astutissimi “malefit” aziendali, in modo che possa poi essere mantenuto agganciato alla sua attività di giorno e, spesso, di notte (o, come oggi è molto più cool affermare, 24/7). In questa prospettiva, e citando ancora una volta Bauman,“[…] quei confini sacrosanti che separavano la casa dal luogo di lavoro, e il tempo da dedicare alla carriera da quello cosiddetto “libero”, sono praticamente svaniti; dunque, ogni attività della nostra vita diventa una scelta: seria, dolorosa e spesso seminale, tra carriera ed obblighi morali, tra impegni professionali ed esigenze vitali, nostre e di tutti coloro che hanno bisogno del nostro tempo, della nostra compassione, delle nostre cure, del nostro aiuto e della nostra assistenza.”
Questa è l’attuale situazione, cari amici de “il Cambiamento”. Ve l’ha provata a delineare, per sommi capi, una persona che, pesantemente radicata in questo mondo da una dozzina d’anni, ha la presunzione di conoscerla piuttosto bene e che ha deciso anche lui di fare il manager: cioè… osservando e riferendo. Il mio think-net si chiama “Low Living High Thinking”. Vivere basso e pensare alto è più di un semplice motto. E’ più che altro un destino. Ed è comune. Solo che, purtroppo, ancora in molti non lo sanno…

Fonte: ilcambiamento

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