Panacea, il progetto che recupera l’antica filiera del pane

Dalla materia prima ricavata dalle aziende agricole del territorio, passando per il mulino e arrivando al pane a lievitazione naturale e alla sua distribuzione nel forno cittadino. Andiamo oggi a Torino, alla scoperta di Panacea: un possibile esempio di una sana filiera del pane a chilometro zero auspicabilmente replicabile. Eccoci oggi in Piemonte, specificatamente tra Torino e Stupinigi, alla scoperta di un progetto che potrebbe rappresentare un esempio di sana filiera del pane a chilometro zero, auspicabilmente replicabile: si tratta del progetto Panacea, ideato dalla Cooperativa Articolo 4. Recuperando l’antica filosofia di produzione del pane a lievitazione naturale, Panacea è riuscita ad unire il produttore, l’intermediario e la distribuzione nel creare un forno che rappresenta un progetto imprenditoriale dove l’unione fa la forza e ognuno vince.

Come funziona Panacea

Il progetto Panacea è nato nel 2014: alcune aziende agricole di Stupinigi (una frazione del comune di Nichelino, in provincia di Torino), convertendo la propria produzione, cedono il proprio grano al Mulino di Candia Canavese, che a sua volta vende le varie farine ai forni Panacea che realizzano un pane a lievitazione completamente naturale.

“Con il progetto di Panacea abbiamo voluto creare un forno che producesse pane a lievitazione naturale solo con la pasta madre, perché era un prodotto raro da trovare qui a Torino” ci racconta Isabella de Vecchi, responsabile del forno Panacea. “Abbiamo pensato che, oltre a dotarci di uno spazio funzionale al forno e dell’attrezzatura necessaria, fosse anche importante lavorare con una buona materia prima”.

Da qui è nata l’idea imprenditoriale di Panacea: coinvolgere cinque aziende agricole di Stupinigi nella coltivazione sia dei grani classici che di alcune varietà di grani antichi che permettessero la produzione di un pane a lievitazione naturale, con poco glutine e ricco di nutrienti e fibre, capace di riequilibrare la flora batterica e stabilizzare in modo spontaneo e naturale il ph dell’intestino e il suo normale funzionamento fisiologico. Il progetto è riuscito ed è partito anche grazie alla collaborazione raggiunta con il Mulino Roccati di Candia Canavese, dando vita alla filiera della farina di Stupinigi, regolata da un patto composto da vari impegni a cui si conformano i vari attori della filiera e che valorizza il  lavoro degli agricoltori, riconoscendo un giusto reddito per il loro lavoro e garantendo la qualità del prodotto. Questo è stato un bel traguardo e una bella soddisfazione – ci spiega Enzo Bartolla, uno dei cinque agricoltori coinvolti nella filiera e socio Panacea – soprattutto perché la nostra era un’azienda intensiva prima della collaborazione con Panacea. La filiera ci ha permesso di cambiare il nostro approccio, investendo insieme a Panacea e ottenendo un importante riconoscimento anche a livello economico, perché nonostante produciamo meno grano, questo ci viene pagato di più”.19894944_774333876082723_5735282460279200684_n

Il Forno e il valore della sostenibilità

Le panetterie dove vengono trasformati e venduti i panificati di Panacea sono tre e si trovano a Torino. Nel corso di questi anni la richiesta del pane prodotto da Panacea è in costante aumento, tant’è che oggi è nata la cooperativa Panacea Social Farm che si occupa esclusivamente del progetto e le persone coinvolte lavorativamente sono circa quindici, con varie collaborazioni in termini di tirocini. Dall’ottobre 2017 Panacea ha sviluppato anche una parte educativa, organizzando dei corsi di panificazione con la pasta madre. “È un bel risultato e abbiamo anche un fatturato ormai solido che permette a Panacea di essere un progetto sostenibile dal punto di vista economico – spiega Isabella de Vecchi – secondo me però è importante sottolineare anche il ruolo della filiera: con questo percorso abbiamo cercato di avere tutti i prodotti che fossero vicino alla città, siamo riusciti a convincere i contadini a trasformare parte delle loro coltivazioni, con un impatto ambientale importante e questo secondo noi è un buon risultato. La gratitudine e l’affetto delle persone per questo progetto è importante perché stanno capendo, oltre al valore oggettivo di produrre un buon pane, l’importanza della sostenibilità delle relazioni che si sono venute a creare”.

Vi rimandiamo a questo link per un approfondimento sulla collaborazione tra Panacea e la Federazione dell’Economia del Bene Comune.

Intervista: Daniel Tarozzi
Riprese: Roberto Vietti e Daniel Tarozzi
Montaggio: Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/03/io-faccio-cosi-205-panacea-recupera-antica-filiera-pane/

Milano, recuperati nelle mense 100mila chili di frutta e 60mila di pane all’anno

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Con il programma “Siticibo” di Banco Alimentare Onlus e Milano Ristorazione in un anno sono stati salvati nelle mense milanesi 98 tonnellate di frutta e 57 tonnellate di pane. L’80% del cibo recuperato proviene dalle scuole, il resto dalle mense aziendali. A Milano lo spreco di cibo si combatte anche nelle scuole. Con il programma “Siticibo” di Banco Alimentare Onlus e Milano Ristorazione in un anno sono stati recuperati nelle mense milanesi 98 tonnellate di frutta e 57 tonnellate di pane. L’80% del cibo recuperato proviene dalle scuole, il resto dalle mense aziendali. I refettori scolastici coinvolti sono 99 mentre le strutture caritative milanesi aiutate con il programma “Siciticibo” sono 79. (Dati pubblicati su http://www.milanoristorazione.it/notizie-eventi/progetti/progetti-attivi/1070-progetti-di-contenimento-sprechi-alimentari-collaborazione-con-siticibo)

Siticibo è attivo dal 2003 ed è la prima applicazione della Legge n. 155/2003, nota come legge del Buon Samaritano, che ha lo scopo di recuperare il cibo cotto e fresco in eccedenza nella ristorazione organizzata e dunque anche nei refettori scolastici. L’iniziativa è partita da una mamma, oggi volontaria di Banco Alimentare, che preoccupata nel vedere i quantitativi di cibo sprecati nella scuola frequentata dai figli ha contattato il Banco Alimentare proponendo alcune iniziative per recuperare le eccedenze e sensibilizzare alunni e insegnanti. Oltre al recupero e alla distribuzione del cibo Banco Alimentare propone azioni educative. “Entrando nelle scuole ci siamo accorti che i bimbi e gli insegnanti erano desiderosi di sapere perché salviamo gli alimenti. Nasce dunque l’attività sull’educazione al valore del cibo che non va sprecato e neanche sciupato sui tavoli”

Le iniziative contro lo spreco di cibo nelle scuole milanesi sono davvero tante.  

Nel corso degli anni, sono stati distribuiti in più di 80 plessi scolastici di Milano più di 24.700 sacchetti “Salva merenda”. Gli alunni delle scuole che hanno aderito al progetto “Io non spreco” usano il sacchetto per portare a casa frutta, pane, budini UHT e prodotti da forno, da loro stessi non consumati durante il pranzo e la merenda a scuola.387407_2

Invece negli asili dove sono stati distribuiti i kit “Riciclo e coltivo”gli avanzi si trasformano in compost da usare nei giardini delle scuole che hanno aderito all’iniziativa. Da non sottovalutare anche la scelta di consumare la frutta a metà mattina anticipando la distribuzione della frutta prevista a fine pasto. Con il progetto “Frutta a metà mattina” di Milano Ristorazione i bambini infatti apprezzano di più la frutta e si evitano gli sprechi a pranzo dato che spesso non si riesce a finire il pasto. Ma non solo. Lo spreco di cibo si combatte anche là dove viene cucinato. Milano Ristorazione cucina un numero di pasti tenendo conto degli alunni presenti a scuola il giorno prima. A metà mattina ricevono i fax con il numero di presenze per quella data giornata e se le porzioni preparate fossero in più non saranno consegnate ma conservate grazie agli abbattitori rapidi di temperatura e distribuite alle associazioni che operano sul territorio.  Sulle pagine di Eco dalle città abbiamo parlato più volte delle azioni contro lo spreco di cibo grazie anche al progetto “Formichine Salvacibo” finanziato dalla Fondazione Cariplo che ha visto la partecipazione e la premiazione di alcune scuole milanesi impegnate con attività di sensibilizzazione contro gli sprechi alimentari.

Fonte: ecodallecitta.it

 

Dal grano al pane, nasce Panacea Social Farm

Panacea social farm è un’impresa sociale cooperativa che sta muovendo i primi passi, “costola” del progetto Panacea, primo forno a lievitazione naturale di Torino, avviato e portato avanti negli ultimi due anni da Articolo 4, Società Cooperativa Sociale di tipo B, impegnata nella promozione del diritto al lavoro e della sostenibilità alimentare.9440-10178

«La sfida che sta alla base di Panacea social farm è quella di ridurre il gap tra città e campagna fornendo una visione inedita della città di Torino e ricostruendo, sulle macerie dell’era industriale, una nuova visione culturale che concili e rinsaldi il legame tra area urbana e aree rurali» spiega Chiara Vesce, che fa parte del gruppo promotore.

«Attraverso la promozione di nuove fertili relazioni tra insediamento umano e ambiente, Panacea social farm promuove la cultura agricola e alimentare, elementi fondanti intorno ai quali ricostruire un rapporto di scambio solidale fra città e campagna. Crediamo, infatti che il settore agricolo non produca solo merci per il mercato ma utilità collettiva, fruibilità del territorio e che, se trasformato e innovato in senso ecologico, preservi le risorse paesaggistiche per le future generazioni».

Il Sistema di relazioni e la filiere del grano di Stupinigi

«La social farm nasce nel virtuoso contesto relazionale della già esistente Filiera del grano di Stupinigi, l’idea che muove la costituzione di un nuovo soggetto giuridico è quella di estendere l’attività di Panacea oltre la semplice trasformazione, verso la coltivazione diretta di grani antichi e di cereali a basso tenore glutinico o privi di glutine. Nata nel 2014, la Filiera del grano vede la collaborazione di sei aziende agricole del Parco Naturale di Stupinigi, l’Ente Parco, Coldiretti Torino, il Mulino Roccati, il Consorzio Agrario di Piobesi e il forno a lievitazione naturale Panacea. La social farm rappresenta, dunque, un ulteriore anello di sviluppo del progetto di filiera volto a garantire la produzione di valore sociale diffuso, oltre che la generazione d’impatto positivo per il territorio».

«Il nuovo progetto agricolo si basa sull’esperienza maturata in questi anni – prosegue Chiara – e s’inserisce nel processo di filiera assorbendo il segmento di produzione e commercializzazione di pane a lievitazione naturale, allargando allo stesso tempo il bacino della produzione cerealicola della filiera attraverso la semina e la riproduzione di varietà antiche di frumento tenero. Negli ultimi due anni Panacea ha studiato e sperimentato un metodo di produzione ispirato ai disciplinari del primo Novecento che non contempla l’uso di prodotti chimici e rispetta il ciclo naturale della lievitazione con pasta madre viva. L’esperienza acquisita in questi anni ci ha spinto in direzioni sempre più sperimentali a testare la lievitazione naturale con diverse farine e misture, in particolare nel tentativo di verificare la capacità di lievitazione con metodi naturali delle farine a basso tenore glutinico. Questa attenzione ci ha condotti infine alla convinzione che le varietà antiche di frumento tenero oltre ad avere proprietà nutritive decisamente più alte delle farine ottenute dalla macinazione dei grani moderni, permettono di ottenere un prodotto di qualità superiore e meno impattante dal punto di vista ambientale, capace allo stesso tempo di soddisfare il gusto di tutti. Grazie all’approccio collaborativo tra i diversi attori della Filiera siamo riusciti quest’anno a fare un passo oltre la semplice sperimentazione e a seminare 5 ettari di antichi grani. In questo processo Panacea si è posta come promotore di una diversa modalità di coltivazione mettendosi in gioco con la social farm anche sul piano agricolo dimostrando di voler correre il rischio, insieme agli altri agricoltori, di promuovere un approccio innovativo all’agricoltura, consapevole e rispettoso dell’ambiente e del territorio. L’interesse della cooperativa agricola è d’instaurare con gli altri produttori partnership strategiche in un ottica di condivisione di know-how ed expertise che portino a tutti gli attori e al territorio un ritorno positivo. Il processo di filiera, infatti, comporta per gli attori che ne fanno parte vantaggi a più livelli: oltre a garantire la correttezza di ogni passaggio, agevola le attività attraverso azioni di marketing specifiche, azioni di coinvolgimento diretto dei clienti e delle comunità territoriali e partnership che permettono di valorizzare a tutto tondo il territorio e i suoi prodotti».

La rete di Partner di Panacea social farm comprende:

-6 aziende agricole del Parco Naturale di Stupinigi

-Il Mulino Roccati

-Il Consorzio Agrario di Piobesi

-L’Associazione di categoria Coldiretti Torino

-L’Associazione territoriale Stupinigi è

-AIAB in Piemonte

-L’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche

-Il Collettivo LieviTO

-Ortja piattaforma per il crowdfunding nel settore agrifood

Lo scopo sociale e gli obiettivi di breve termine

«Quando abbiamo iniziato a pensare Panacea – aggiunge Chiara – l’obiettivo che ci siamo posti era quello di portare sulle tavole torinesi un pane di alta qualità, a km 0, dal prezzo accessibile e con un valore sociale aggiunto: quello di creare occupazione per soggetti in condizioni di fragilità sociale. Oggi in buona parte quest’obiettivo è stato raggiunto. In due anni di attività Panacea è arrivata a produrre circa 200 kg di pane al giorno. Il nostro pane viene distribuito in due punti vendita “Panacea”, in numerosi esercizi commerciali convenzionati oltre che nei mercati della provincia di Torino, dove la distribuzione non ci permette di portare quotidianamente i nostri prodotti. In due anni siamo riusciti ad assumere 7 lavoratori, alcuni di loro sono giovani immigrati di prima generazione a cui offriamo l’opportunità di imparare un mestiere migliorando il loro livello d’integrazione, altri sono over 50 reintegrati nel mondo del lavoro dopo un periodo di disoccupazione, altri sono persone in condizione di svantaggio fisico o sociale con difficoltà d’inserimento. Panacea si muove nello sforzo continuo di migliorare i propri prodotti e le condizioni di vita dei lavoratori».

«Il miglioramento continuo è proprio ciò che ci ha spinti ad andare oltre questi risultati e a trasformare Panacea in Panacea social farm. Gli scopi che perseguiamo attraverso il progetto agricolo sono:

-Promuovere l’agricoltura di prossimità come strategia sostenibile per nutrire la città generando nuova occupazione

-Promuovere la resilienza agricola attraverso metodi innovativi e partecipativi quali i sistemi open data

-Diffondere la cultura dell’alimentazione sana e sostenibile valorizzando il patrimonio agricolo e il paesaggio rurale.

Per rendere possibile tutto ciò abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding  sulla piattaforma Ortja, un progetto anch’esso in fase di start up che promuove l’innovazione tecnologica in agricoltura».

«Il primo obiettivo è di raccogliere 2.500 euro per sostenere le spese della prima semina di Panacea social farm. I fondi raccolti copriranno le spese di affitto e lavorazione dei terreni; se dovessimo, come speriamo, superare quest’obiettivo useremo l’esubero per allargare la produzione del prossimo anno. Verna, Gentil rosso, Gamba di ferro, Autonomia, Terminillo, Mentana, Apulia, sono le sette varietà di antichi grani che abbiamo scelto di seminare. Dei cinque ettari complessivamente seminati dalla Filiera del grano di Stupinigi, Panacea social farm raccoglierà 1, 5 ettari (3 giornate piemontesi). Oggi i grani antichi rappresentano il 20 % delle coltivazioni della Filiera, l’obiettivo è d’incrementare questa percentuale sostituendo progressivamente alle varietà moderne della rivoluzione verde, più produttive ma che allo stesso tempo richiedono un intervento maggiore, un’agricoltura meno invasiva senza fertilizzanti, erbicidi o antiparassitari capace di restituire un prodotto più sano e più ricco sotto il profilo nutrizionale. Oltre a seminare in purezza, seguendo gli studi genetici condotti da Salvatore Ceccarelli, stiamo portando avanti la sperimentazione su alcuni miscugli di grani con l’obiettivo di creare popolazioni di frumento in grado di adattarsi al nostro terreno e al nostro clima. I miscugli, infatti, sono dotati di intrinseca biodiversità che facilita l’adattamento, incrementa la resistenza ai patogeni e, nel rispetto dei tempi naturali, aumenta la resa senza forzare il terreno. Seminiamo antichi grani, coltiviamo biodiversità. Produciamo lavoro e preserviamo il territorio.; attraverso la lievitazione naturale trasformiamo i grani in pane e se il nostro pane è buono è perché buon grano fa buon pane».

Fonte: ilcambiamento.it

 

Maurizio Spinello, pane e magia in un paese fantasma

Arriviamo a Borgo Santa Rita percorrendo una stradina che pare dipinta con un tocco di pennello in mezzo alle campagne nissene verdi e gialle. La marmitta della macchina di Marcello, che ci accompagna, si è sganciata e sferraglia rumorosamente per terra. Appena giungiamo a pochi metri dall’ingresso del paese, un branco di cani eccitati e polverosi si raduna come dal nulla e inizia ad inseguire la macchina abbaiando.  Borgo Santa Rita è un paesello sperso nelle campagne attorno a Caltanissetta. Le sue origini risalgono agli anni Venti, probabilmente sotto il fascismo, ma sulla data esatta vi molta incertezza. D’altronde è facile perdere la memoria storica di un posto che è andato incontro ad un progressivo ma quasi inesorabile abbandono. Già, perché oggi a Borgo Santa Rita abitano solo cinque famiglie. Per il resto è un paese fantasma. Lo si percepisce percorrendone le vie abbandonate, osservandone le case diroccate. C’è un ché di romantico in questa desolazione. Marcello ha insistito molto perché venissimo fin qui. E il motivo è presto detto: conoscere Maurizio Spinello, il “miglior panettiere di Sicilia”, che ha fatto di questo borgo la sua ragione di vita.

Maurizio esce dal suo forno un po’ accaldato e ci stringe vigorosamente la mano. Poi inizia a raccontarci la storia del suo paese, un tempo pieno di gente, molti giovani, oggi praticamente disabitato. L’agricoltura ha perso molto appeal negli anni, soprattutto sui più giovani, ed il richiamo della città si è fatto sentire prepotente. Ma Maurizio non ha voluto seguire il gregge; non se la sentiva di abbandonare il paese dove era cresciuto, dove la sua famiglia aveva messo le radici. Un legame di sangue lo teneva ancorato a Borgo Santa Rita e gli impediva di andarsene. Vedere gli altri fuggire era una sorta di emorragia personale.10411797_673378036066458_2590272494648684731_n

I cani ci attendono all’ingresso del Borgo

Ora, molti di noi in una situazione come questa si sarebbero rassegnati ad un destino che appare ineluttabile. Nel migliore dei casi sarebbero rimasti al paese con la sensazione di essere l’ultimo dei Mohicani, estremo baluardo di un passato destinato a scomparire con noi. Maurizio invece no. Lui vuole che il borgo torni a vivere come un tempo. E ha un piano. Qualche anno fa, quando si è accorto che con l’agricoltura non riusciva più a campare la famiglia, ha deciso di cambiare mestiere e ha aperto un forno, il Forno Santa Rita. Che idea geniale, penserete, aprire un forno in un paese fantasma, ci sarà la fila! Già, solo che lui non ha aperto un forno qualsiasi: ha creato un’eccellenza. Fa il pane utilizzando grani antichi siciliani e ricette tradizionali. Quando entriamo dentro al forno ci avvolge un profumo inebriante che ci riporta ad una dimensione diversa, più naturale. Ci offre dei biscotti alla lavanda da inzuppare in un bicchiere di vino ambrato profumatissimo. 10386245_673377642733164_7990805059353204417_n

Marcello e Maurizio in una delle strade di Borgo Santa Rita, di fronte al panificio

In breve tempo Maurizio ha vinto vari riconoscimenti nazionali e internazionali. Il suo pane è richiesto da tutte le parti della Sicilia. Tiene dei corsi di panificazione a cui partecipano da tutto il mondo. Recentemente è stato intervistato dalla tv giapponese e da quella americana ed è stato persino invitato a tenere dei corsi in Giappone. Adesso vuole aprire un pastificio che faccia pasta fresca e secca di qualità, sempre a Borgo Santa Rita. Inoltre si ingegna di organizzare attività per richiamare la gente fin là. C’è un ché di magico in tutto questo. Quando gli chiedo se si sente più un nostalgico o un innovatore non ci pensa neanche un istante: “un sognatore“.

 

Andrea Degl’Innocenti

 

Fonte: italiachecambia.org/

Pasta Madre: come preparare il lievito naturale

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Il segreto per un buon pane, anche di quello fatto in casa, è la pasta madre. In questa epoca di crisi, sono in molti a cercare di arrangiarsi a preparare in casa quegli alimenti diventati troppo onerosi per il bilancio familiare. Il pane è senz’altro uno di questi alimenti ma la pasta madre è comunque utile anche per preparare dolci di stagione come panettoni, pandori o colombe.

La pasta madre, detta anche pasta acida, lievito naturale lievito madre, nell’immaginario collettivo è assimilato ad una sorta di blob appiccicoso, dal comportamento tanto imprevedibile da spaventare generazioni di abili e volenterose massaie. Con una buona dose di pazienza e comprendendo a fondo i meccanismi che ne regolano la fermentazione, si può ottenere, in realtà, un buon composto, sano e attivo per decenni. La preparazione classica della pasta madre comincia da un impasto acido spontaneo ottenuto con la lievitazione innescata in un impasto di farina e acqua: questo impasto deve essere lasciato acidificare spontaneamente, permettendo così lo sviluppo di varie specie di batteri.

Ingredienti dell’impasto

  • 200 grammi di farina Manitoba tipo 0;
  • 100 ml di acqua tiepida.

(alcune ricette prevedono l’aggiunta di yogurt, frutta zuccherina e miele, ma si tratta di varianti in realtà poco significative a livello pratico).

Preparazione

La pasta madre va preparata in una cucina in cui la temperatura media è di 22-25 gradi. Mettere la farina in una terrina, aggiungendo l’acqua un po’ per volta fino ad ottenere un impasto molto morbido ma non troppo appiccicoso. L’impasto così ottenuto va messo in un contenitore di vetro precedentemente infarinato; incidere la superficie dell’impasto con un taglio a croce e coprire il contenitore con un panno umido e della pellicola trasparente. L’impasto va lasciato riposare per 48 ore sempre in un luogo tiepido (20 gradi). Può essere utile avvicinare o, comunque, avere all’interno della stanza della frutta matura perché questa favorisce la fermentazione. Trascorse le 48 ore, pesare l’impasto e aggiungere la medesima quantità di farina e il 50% di acqua. Fare riposare per altri due giorni e ripetere nuovamente questa operazione (il cosiddetto rinfresco), con la medesima procedura e le medesime quantità. Al sesto giorno, dopo due rinfreschi, la pasta madre sarà pronta: a questo punto, dovrebbe sprigionare un gradevole profumo d’aceto. Il lievito madre si conserva in frigo, senza problemi, per una settimana: trascorso tale lasso di tempo, è necessario rinfrescarlo di nuovo, con la stessa procedura già descritta, lasciandolo per sei ore a temperatura ambiente, sempre ricoperto dal panno umido e dalla pellicola, per poi riporlo nuovamente in frigo. Per poter conservare la pasta madre negli anni, occorre ripetere PER SEMPRE il rinfresco ogni 5/6 giorni.

Fonte: tuttogreen

Come fare il pane cotto al sole

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Si può immaginare una pratica più sostenibile di questa? Il pane cotto al sole è sostenibilità all’ennesima potenza, ma è anche una storia delle nostre radici che va riscoperta. Il pane cotto al sole è ispirato dal testo apocrifo Vangelo esseno della pace e la leggenda racconta come il pane cotto al sole sia stato mangiato da Gesù e dai discepoli all’ultima cena.

Approfittiamo del sole di questa stagione per vedere come si prepara.

Di cosa abbiamo bisogno (oltre al sole, ovviamente, e un balconcino dove esporlo):
– mattarello
– 1 chilo di farina di frumento integrale
– sale
– rosmarino o altre erbe aromatiche tritate finissimamente.
– una rete da zanzariera con telaio

Preparazione:
Impastiamo la farina con acqua, sale e le erbe aromatiche e facciamo dei dischetti sottili stendendoli col mattarello (più sono sottili, meglio e più velocemente cuocerà). Disponiamo i dischetti sulla zanzariera ed esponiamola al sole su cavalletti o sedie, affinchè possa prendere aria da entrambe le parti, fino a quando saranno essiccati e croccanti. Il risultato assomiglia molto al pane carasau sardo. Delizioso e dura parecchi giorni.

Fonte: tuttogreen

 

Un forno collettivo per la ‘Casetta Rossa’ di Roma

Il quartiere romano della Garbatella avrà fra pochi giorni un suo forno popolare. Merito della Casetta Rossa, centro culturale popolare della zona, che sta costruendo il forno ed è pronto ad inaugurarlo il 1 maggio. Con la consapevolezza che “fare il pane insieme” non significa solo risparmiare, ma riappropriarsi del proprio tempo, scambiarsi saperi, conoscersi a vicenda.forno

Nel verde della Garbatella c’è una Casetta Rossa. Se entrate sarete accolti da un piacevole profumo di incenso che più che di orientale sa di antico. Maya mi accoglie sorridendo, dietro di lei una coppia di abitanti del quartiere è appena venuta a ritirare la frutta che aveva richiesto attraverso il Gas, il gruppo di acquisti solidale, che qui alla Casetta Rossa conta oltre 200 persone. Fuori, seduti ad un tavolino, due ragazzi conversano in inglese: fanno parte del Language Exchange Meeting, una serie di incontri per chi vuole imparare o praticare una lingua diversa dalla propria. Dal 2002 – anno in cui è nato il progetto – ad oggi il centro ha portato avanti una serie incredibile di attività che hanno coinvolto in larga misura gli abitanti del quartiere. Il parco circostante, prima poco più che un campo pieno di sterpaglie, è stato ripulito, attrezzato e restituito ai cittadini. “La stessa casetta”, mi racconta Luciano “quando siamo arrivati noi era poco più di un rudere, senza tetto, inabitabile”. Siamo seduti ad un tavolino all’aperto, Maya, Lucia, Luciano ed io, è una delle prime giornate di sole dopo mesi di pioggia. Dietro di me a pochi metri dall’edificio, sorge un parallelepipedo in muratura, la vera ragione della mia visita: è la base di un forno comunitario che è in corso di costruzione da quasi un anno e verrà ultimato con ogni probabilità entro il 1 maggio, data in cui è prevista l’inaugurazione. “Sarà un forno aperto a tutti, chiunque potrà venire qui e fare il pane, la pizza, i taralli, quello che vuole. Non chiederemo niente in cambio, o al massimo un piccolo contributo per la legna”, mi spiega Maya. “Poi, parallelamente, vogliamo portare avanti un laboratorio di panificazione, che è già iniziato, per insegnare alle persone come autoprodurre il proprio pane, utilizzando il lievito madre, le farine giuste. E Vincenzo, il nostro mastro pizzaiolo, insegnerà a tutti i segreti di una buona pizza”. Corsi del genere la Casetta Rossa li ha già tenuti in passato, in collaborazione con l’Università del saper fare, e c’è sempre stato il tutto esaurito. “Non siamo mai stati in grado neppure di soddisfare tutte le richieste di partecipazione”. Ora si vuole fare un passo in più e mettere a disposizione del quartiere uno strumento concreto di autoproduzione. Il forno comunitario è qualcosa di molto antico, storicamente presente nei paesi, nei borghi, ma anche nei vari quartieri delle città più grandi. Cancellato dall’avvento della modernità. Fare il pane assieme rappresentava, e rappresenta, un’attività complessa, ricca di significati. “Non si tratta solo di risparmio – aggiunge Luciano – perché fare il pane insieme è anche un atto sociale. Significa riappropriarsi del proprio tempo, scambiarsi conoscenze e saperi, conoscersi a vicenda. Certo, c’è la crisi e tutto, è vero che ogni euro risparmiato è prezioso, ma non credo che sarà questo motivo a spingere gli abitanti del quartiere a usare il forno. Piuttosto sarà la consapevolezza che un’ora trascorsa a fare il pane in compagnia è un utilizzo del proprio tempo di gran lunga preferibile ad un ora persa tra gli scaffali di un supermercato”. Fabio è uno degli esperti che si sta occupando di costruire il forno. Manca ancora la parte superiore, la cupola, che poi sarebbe il forno vero e proprio. Per adesso c’è solo la base. Ma non ci vorrà molto, dicono gli “abitanti” della Casetta. Il 1 maggio, in occasione della festa che ogni anno viene organizzata, il forno sarà inaugurato con una enorme “pizzata”.

Fonte: il cambiamento

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Girelle di pane alla scarola

Farina, scarola, seitan al naturale, olive verdi, semi di lino, lievito di birra, olio extravergine di oliva. Questi gli ingredienti necessari a realizzare delle ottime girelle di pane e scarola. 

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400 g di farina 0
1 cespo piccolo di scarola
80 g di seitan al naturale
10 olive verdi
Semi di lino
Lievito di birra
Olio extravergine di oliva

Impastate la farina con 200 ml di acqua, un filo d’olio, un pizzico di zucchero una presa di sale, un cucchiaio di semi di lino ed un terzo di cubetto di lievito di birra fresco sciolto in una tazzina di acqua tiepida. Lavorate a lungo la pasta fino a che non si attaccherà più ed avrà una consistenza elastica. Mettete l’impasto in un recipiente, coprite con un canovaccio umido e abbandonatelo a lievitare almeno un paio d’ore in un ambiente caldo privo di correnti d’aria, tipo il forno (anche leggermente riscaldato e poi spento). Nel frattempo pulite per bene la scarola e lavatela; lasciate sgocciolare e tagliatela a striscioline. Scottate la scarola in acqua leggermente bollente per cinque minuti, quindi scolatela. Riscaldate in una padella abbondante olio di oliva. Una volta caldo aggiungete la scarola scolate e lasciate asciugare qualche minuto. Unite quindi le olive denocciolate e grossolanamente tritate, ed il seitan passato al mixer. Lasciate insaporire ancora qualche minuto ed aggiustate di sale. Riprendete la pasta, ormai lievitata e rimpastatela per qualche minuto. Stendetela con il mattarello a formare un rettangolo. Disponete il composto sopra la pasta ed arrotolatelo su sé stesso. Ottenuto un salame di pasta ripiena, tagliate le girelle di 3-4 cm di larghezza e disponetele in una tortiera ben unta dal bordo alto. Accostate le girelle l’una all’altra senza problemi. Ungete per bene anche la superficie con olio e pennello. Infornate a 180° per 30 minuti nel forno già caldo. Sfornate e lasciate brevemente intiepidire. Servite il pane in tavola non ancora totalmente freddo. Ogni commensale staccherà dalla forma la propria girella senza problemi.

Fonte: il cambiamento

Seitan Gourmet

Voto medio su 5 recensioni: Da non perdere

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FORNO A MICROONDE: energia dannosa alla salute?

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Rinunceresti al microonde? Riscaldi il latte, scongeli il pane e cucini cibo in un attimo. Ma cosa si cela di dannoso?

L’uso del forno a microonde è diventato così frequente che ormai pochi si pongono il problema sui danni che esso possa provocare. Tale dispositivo riscalda gli alimenti e le bevande in pochissimo tempo, vediamo però come funziona realmente. Grazie al flusso di microonde, l’acqua, i grassi e i carboidrati che costituiscono il cibo, assorbono l’energia delle microonde in un processo chiamato riscaldamento dielettrico. Tali molecole sono dei dipoli, ovvero hanno una estremità con carica elettrica positiva e un’altra con carica negativa; trascinate dal campo elettrico alternato delle microonde e indotte a ruotare, generano calore attraverso forze di attrito con le molecole vicine, provocando quindi un riscaldamento. Secondo varie ricerche questa forma di cottura distrugge alcune sostanze nutritive. I forni a microonde ad esempio convertono la vitamina B12 dalla forma attiva alla forma inattiva, rendendo il 30-40% circa di tale vitamina inutilizzabile. Diverse diatribe ci sono state anche sull’emissione di radiazioni e quindi sull’esposizione alle microonde in prossimità di forni a microonde accesi. Ci occuperemo però in questo caso soprattutto sulla cottura dei cibi e sugli studi eseguiti in merito.

A tal proposito si è molto discusso sul Dottor Hertel, medico nutrizionista svizzero, ricercatore dedito all’uso del forno a microonde e ai suoi effetti. Secondo alcuni esperimenti da esso eseguiti su persone tra i 20 e i 40 anni, il dottor Herten ha riscontrato e dedotto che l’uso del forno a microonde provoca: “una diminuzione a breve termine dei Linfociti (globuli bianchi); alterazione dei meccanismi naturali di riparazione delle cellule; forte calo dei valori degli eritrociti, dell’emoglobina degli ematrociti e leucociti (valori simili a quelli degli anemici) e derivante aumento dei livelli di colesterolo. Alterazione della permeabilità della membrana cellulare che diventa così preda di batteri, funghi e altri microorganismi”. Secondo poi altre sue conclusioni, la carne scaldata in microonde provoca: “d-nitrosoditanolamine (un agente ben conosciuto fra le cause del cancro); destabilizzazione dei composti biomolecolari della proteina attiva; le microonde alterano il comportamento catabolico degli alcaloidi di verdure, anche se queste vengano esposte per tempi molto brevi; i radicali liberi che causano il cancro si formano in alcune strutture molecolari; ingerire cibi trattati a microonde innalza la percentuale di cellule cancerogene nel sangue”. Altre ricerche poi suggeriscono di non riscaldare il latte nel forno a microonde, soprattutto quello destinato ai bambini e ai neonati, le microonde ne alterano la struttura rendendolo meno efficace (da un punto di vista nutrizionale) e potenzialmente tossico! Le più importanti industrie del settore negano tutto ciò e si difendono giustificandosi dal fatto che le radiazioni scompaiono non appena il forno si spegne e che non esistono seri riscontri sulle alterazioni proteiche dei cibi.

Fonte: supermoney