Freschette: le tre vite del cibo locale e biologico a Palermo

Da dieci anni Marina e Francesca si battono per diffondere a Palermo, la loro città, la cultura del cibo sano, locale e biologico. Lo fanno nonostante le mille peripezie che le hanno costrette a chiudere e riaprire il loro locale, le Freschette, per ben tre volte. Ma sempre più motivate ed entusiaste di prima!

PalermoSicilia – Ricordate la leggenda secondo cui secondo le leggi della fisica il calabrone non potrebbe volare, eppure lui non lo sa e vola lo stesso? Questo aneddoto viene spesso usato come analogia sull’esistenza dell’impossibile e dello scientificamente inspiegabile. Ed è proprio una storia simile che vi sto per raccontare e cioè quella del primo bar/ristorante biologico con grande scelta di piatti vegetariani e vegani nato a Palermo e di tutte le sue trasformazioni per sopravvivere: Freschette. Quando Marina Scalesse e Francesca Leone decidono di aprire questo luogo assolutamente nuovo e innovativo per la Palermo del 2011 hanno appena 27 anni. Dopo aver lavorato insieme in un ristorante molto famoso – Il Fresco, poi chiuso lasciando le due con un pugno di mosche – non si scoraggiano e decidono di aprire un posto tutto loro. Marina è la chef e Francesca si occupa della gestione.

Grazie a un bando di Invitalia, nel novembre del 2011 apre in piazza Monteleone Freschetteprimo locale in città con la cucina a vista, che usa prodotti completamente biologici e siciliani e con un market all’interno. La loro cucina è da subito contraddistinta dalla ricerca di produttori incontrati e scelti personalmente dalle due fondatrici in Sicilia.

Da quella cucina, oltre ai piatti nascono mille connessioni, collaborazioni, festival, idee. Nel 2016 viene affidata loro anche la caffetteria di Palazzo Riso, sede di un museo d’arte regionale in pieno percorso Arabo Normanno dell’Unesco. Le due portano a Palazzo Riso il primo festival di illustrazioni della città – Ciciri –, il See You Sound Festival Film da Torino e una edizione straordinaria del SiciliAmbiente. Inoltre organizzano un capodanno insieme al circolo Arci Porco Rosso e Moltivolti per devolvere metà dell’incasso a Mediterranea e ospitano 22 tirocini di minori stranieri non accompagnati, ragazzi provenienti da case famiglia e detenuti. Purtroppo Palermo sa conquistare il cuore di molti con il suo fascino decadente e un attimo dopo si trasforma in degrado e inciviltà e anche la piazza dove con tanto amore era nato Freschette, come la peggiore delle metamorfosi, si trasforma, presa d’assalto dalla movida, dai locali notturni con musica a decibel da fare impallidire il concertone del primo maggio a Roma. Cocktail a pochi euro chiamano a raccolta solo giovani che hanno voglia di divertirsi e, in più, la piazzetta viene riempita di cassonetti: «Erano ben 22 quando abbiamo deciso di mollare gli ormeggi e salpare alla ricerca di un nuovo locale», racconta Francesca Leone. «Tutto quello che ci circondava strideva con la nostra ricerca, cura e attenzione».

Nel settembre del 2018, dopo aver fatto tutti i dovuti lavori di adeguamento al nuovo locale, aprono la nuova sede in via Grande Lattarini. Anche da questa viuzza nel centro storico partono mille connessioni, incontri e idee, una fra tutte è quella di fare diventare la via pedonale e in accordo con il Comune partono le prime sperimentazioni. Il festival di illustrazioni Ciciri si sposta in quella via diventata temporaneamente pedonale e per Natale si organizza un market di artigianato, aperitivi teatrali e pranzi sociali domenicali.

Poi nel marzo del 2019 arriva il Covid, con la pandemia e i lokdown. Freschette non regge la botta d’arresto e Francesca e Marina, conti alla mano e la morte nel cuore, sono costrette a chiudere i battenti per la seconda volta. Ma siccome si dice che niente nasce o muore e tutto si trasforma, grazie alla caparbietà e la voglia di farcela, seguendo le loro regole – anche se tutto il mondo sembra remare contro – le Freschette si reinventano.

«Non è resilienza e non è resistenza, è sopravvivenza, volere esserci. Alla fine siamo come un liquido che si adatta ai vari contenitori», continua Francesca. Con questo motto apre in un’altra forma – la terza – il laboratorio di Freschette in via Quintino Sella, dove si fanno asporti e consegne a domicilio solo in bici elettrica, oltre a rifornimenti al banco del fresco di Natura Sì nonché a quattro mense di scuole private. Feel rouge che accompagna ogni loro scelta è la ricerca dei prodotti: dal 2011 Francesca e Marina girano e incontrano fornitori e produttori locali, provano i prodotti e stipulano contratti annuali con queste realtà. L’olio viene dall’azienda agrigentina Carbonia di due donne, mamma e figlia; per le zucche c’è Simeti, per le patate Volo Bio Organic Farm, i formaggi sono di Invidiata Madonie. In tutto sono undici le aziende siciliane dalle quali si riforniscono e sono tassativamente escluse quelle che operano nella grande distribuzione organizzata.

«Nonostante tutto quello che ci è accaduto –- aggiunge Francesca –, nonostante i debiti, le chiusure, i traslochi, le delusioni, penso comunque di essere una persona fortunata e di dover condividere questa mia fortuna, anche se spesso in questa città mi sono sentita come un’erbaccia che cresce spontanea nonostante non la voglia nessuno. La nostra è anche una scelta di autoaffermazione».

«Palermo per adesso straripa di food, spesso di scarsa qualità – dice Marina – e la nostra scelta di esserci in questo modo è anche educativa. In tanti negli anni ci hanno detto “da quando mangio qui sto meglio”. Il nostro segreto in cucina è togliere: togliere il soffritto, togliere il burro… quando la materia prima è buona non c’è bisogno di altro. Ci fanno i complimenti per le nostre patate al forno, forse la chiave di volta è rendere le cose semplici». Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/11/freschette-locale-biologico/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Luoghi di condivisione: “Zero”, la biblioteca delle cose a Palermo

Dobbiamo montare una mensola e non abbiamo il trapano. Riparare un guasto e ci manca la chiave inglese. Organizzare una festa e… l’impianto stereo? Val la pena comprarli, anche se ci serviranno solo in quell’occasione? E se ci fosse un altro modo? Sono partiti da domande così gli ideatori di “Zero”, la prima biblioteca delle cose, nata a Palermo.

Dobbiamo montare una mensola e non abbiamo il trapano. Riparare un guasto e ci manca la chiave inglese. Organizzare una festa e… l’impianto stereo? Val la pena comprarli, anche se ci serviranno solo in quell’occasione? E se ci fosse un altro modo? Sono partiti da domande così gli ideatori di “Zero”, la prima biblioteca delle cose, nata a Palermo.

Dobbiamo montare una mensola e non abbiamo il trapano. Riparare un guasto e ci manca la chiave inglese. Organizzare una festa e… l’impianto stereo? Un trapano, una chiave inglese, un impianto stereo. Val la pena comprarli, anche se ci serviranno solo in quell’occasione? E se invece ci fosse un altro modo per impiegare gli oggetti, sottraendoli al vortice consumistico dell’usa e getta?

Sono partiti da domande così gli ideatori di “Zero”, la prima biblioteca delle cose, nata a Palermo a febbraio del 2020 su iniziativa di “Neu [nòi] spazio al lavoro”, “Booq” e “Alab Palermo”. Che qui si raccontano attraverso la voce di Michelangelo Pavia, uno dei fondatori del progetto.

Cosa vi ha spinto ad aprire questa biblioteca? Vi siete ispirati a qualche modello?

«Il progetto “Zero” è frutto principalmente di esperienze dirette fatte da Neu [nòi] all’interno di Palazzo Castrofilippo, il condominio in cui si affaccia il coworking, e la storia di Booq. Parliamo di sette, otto anni fa. All’interno di Neu[nòi] per anni si è svolta in modo molto spontaneo un’attività di prestito di attrezzi ai condomini che, una volta avevano bisogno di una scala, un’altra di un trapano o di una prolunga, e così hanno preso il nostro luogo di lavoro come un possibile punto di riferimento dove trovare quanto necessario. Booq nasce proprio con lo scopo di  far nascere a Palermo una bibliofficina in cui condividere attrezzi e libri. Per un periodo di tempo una delle socie di Booq ha lavorato presso il nostro coworking e proprio in quel periodo è stato pubblicato il bando B-Circular da parte di Punto.sud. Il caso ha voluto che tutti i pezzi si siano messi al loro posto per dare vita a “ZERO – attrezzi condivisi”. Scrivendo il progetto abbiamo approfondito le esperienze di biblioteche delle cose in altre parti d’Italia e del mondo, dalle quali abbiamo preso spunto».

Come funziona?

«Il funzionamento è semplicissimo ed è proprio quello delle biblioteche, ossia si fa una tessera annuale che costa 10 euro e si prendono attrezzi gratuitamente. Se sei un utente base, puoi prendere due  attrezzi alla volta per una settimana. Se invece hai donato un attrezzo alla biblioteca, diventi un utente ZERO-PER e puoi prenderne cinque alla volta per due settimane. Sempre gratis. Spesso ci hanno mosso delle critiche per il  nome “biblioteca” perché non ci sono libri ma attrezzi. In realtà, il nome prende proprio spunto dal funzionamento immediato e semplice del prestito, mutuatodalle biblioteche pubbliche. Grazie a questo nome riusciamo a raccontare il progetto a chiunque in modo immediato. Poi in una delle due sedi (quella di Booq) una biblioteca di libri c’è davvero!».

Quali oggetti si possono prendere in prestito e quali sono quelli più richiesti?

«Oggi si possono prendere in prestito oggi più di cento  attrezzi suddivisi in dieci categorie diverse. C’è un database condiviso che permette di vedere sul sito gli attrezzi di tutte le sedi (attualmente due) e di prenotare on-line quello che serve: QUI. L’intenzione è quella di aprire altre sedi in altri quartieri e in altre città, sempre con un database condiviso in ogni città così da trovare anche attrezzi più particolari in una delle sedi o oggetti più comuni nel posto più vicino a te».        

La vostra iniziativa è legata solo allo scambio di oggetti?

«No, in realtà il progetto poggia su due pilastri: lo scambio di oggetti e la condivisione del sapere. Purtroppo abbiamo aperto la prima sede e dopo due settimane è scoppiata la pandemia, cosa che ha praticamente fermato tutta la dinamica dei corsi in presenza. Per non restare fermi, abbiamo messo in piedi un canale youtube in cui si possono vedere alcuni corsi per l’uso degli attrezzi di falegnameria, di ceramica, di sartoria, dei corsi di riciclo e di artigianato 3d. Questo soprattutto grazie al terzo partner di progetto: l’associazione ALAB Palermo che da anni promuove l’artigianato in tutte le sue forme. Insomma, bisogna saperli usare gli attrezzi!».

Come hanno risposto i vostri concittadini e cos’altro pensate di proporre in futuro?

«La risposta è stata davvero molto positiva per quanto riguarda i riconoscimenti, l’interesse verso il progetto e l’interesse mediatico. L’attività di prestito vero e proprio è iniziata più lentamente ma questo ci era stato detto da chi da più anni di noi ha attiva una biblioteca delle cose a Bologna (Leila-Bologna). Infatti, abbiamo ospitato uno dei loro fondatori all’inizio del nostro progetto per avere consigli e per confrontarci sul cosa fare, ed è stato molto utile. Oggi i prestiti sono molti di più ma ancora molti devono entrare in questa dinamica culturale. C’è sempre un po’ di diffidenza quando qualcuno ti regala qualcosa. Serve tempo e c’è di mezzo pure una pandemia che ha creato non poche difficoltà. Nei prossimi mesi speriamo di poter concretizzare l’apertura di altre sedi in altri quartieri e poter attivare corsi in presenza».

Pensate che la vostra iniziativa sia replicabile anche in altre città? Se sì, cosa serve?

«Assolutamente sì! Deve nascere una Biblioteca delle cose in ogni quartiere, anche più di una! Si tratta di un progetto agile e snello che può essere attivato in decine di modi diversi, più o meno strutturati. La cosa fondamentale perché il progetto funzioni sono le persone che lo gestiscono e animano la comunità. Di attrezzi è pieno il mondo e non è difficile raccogliere attrezzi donati o comprarne qualcuno importante. La parte dello spazio è anche risolvibile coinvolgendo chi un piccolo spazio già lo ha: non ne serve molto, una libreria o un angolo inutilizzato di uno spazio già attivo che comunque apre. Il terzo settore in questo può essere una valida risorsa o una biblioteca comunale, se si trova un’Amministrazione collaborativa».

Per saperne di più: zeropalermo.itwww.facebook.com/zeropalermo,YouTube

Foto di Giuseppe Mazzola

Fonte: ilcambiamento.it

Orto Capovolto: a Palermo al posto del degrado nascono orti urbani

Dal 2015 a oggi sono più di cento i progetti compiuti nelle scuole e circa venti gli interventi di orti urbani realizzati per riqualificare spazi abbandonati di Palermo. Nata dall’idea di una donna architetto e di un educatore ambientale, Orto Capovolto sta cambiando il volto del capoluogo siciliano e diffondendo consapevolezza fra i suoi abitanti. In questo periodo così opaco e scarso di emozioni belle, assembrate e colorate, in cui ogni cosa sembra perdere di senso e il significato delle azioni a volte è senza significante, la vita di prima del covid sembra un sogno lontano. Eppure Palermo prima della pandemia era un fiorire di iniziative, di tran tran di turisti e guide che urlavano “follow me” in giro tra i monumenti, di artigiani che aprivano botteghe, di startup geniali che nascevano, di comunità operose che valorizzavano il bene comune. La “città tutta porto” – questo vuol dire Palermo – era in continuo fermento.

In questo contesto pulsante di nuove energie e vibrante di emozioni, nasce Orto Capovolto, “la cooperativa sociale che vuole valorizzare il volto della città attraverso il verde commestibile” – questa la definizione che danno di loro stessi sul sito web del progetto. Ed era bello girare un angolo e stupirsi di trovarsi di fronte a cassoni pieni di terra con tanti ortaggi e fiori dentro. Succedeva spesso, in particolare durante Manifesta 12, la biennale di arte contemporanea che ha messo a soqquadro Palermo; c’era un progetto tutto curato da Orto Capovolto chiamato “Palermo, la città tutta orto”, dove gli orti urbani sono stati disseminati per il centro storico e non solo.

Ma come nasce l’idea di Orto Capovolto e con quali finalità? Ha origine dall’incontro di un architetto – Angelica – e un educatore ambientale – Giorgio –, che insieme immaginano una città più verde. Nel 2013 Angelica propone a un cliente di realizzare un orto sul tetto della sua casa e così inizia ad appassionarsi all’agricoltura urbana. Giorgio è convinto che solo partendo dalle nuove generazioni si può immaginare un futuro più sostenibile. Decidono quindi di aprire una startup – correva l’anno 2015 – con l’obiettivo di creare un orto diffuso a Palermo, per occuparsi tanto di progettazione e realizzazione di orti urbani, quanto di educazione ambientale e alimentare nelle scuole e non solo.

In questo contesto pulsante di nuove energie e vibrante di emozioni, nasce Orto Capovolto, “la cooperativa sociale che vuole valorizzare il volto della città attraverso il verde commestibile” – questa la definizione che danno di loro stessi sul sito web del progetto. Ed era bello girare un angolo e stupirsi di trovarsi di fronte a cassoni pieni di terra con tanti ortaggi e fiori dentro. Succedeva spesso, in particolare durante Manifesta 12, la biennale di arte contemporanea che ha messo a soqquadro Palermo; c’era un progetto tutto curato da Orto Capovolto chiamato “Palermo, la città tutta orto”, dove gli orti urbani sono stati disseminati per il centro storico e non solo.

Ma come nasce l’idea di Orto Capovolto e con quali finalità? Ha origine dall’incontro di un architetto – Angelica – e un educatore ambientale – Giorgio –, che insieme immaginano una città più verde. Nel 2013 Angelica propone a un cliente di realizzare un orto sul tetto della sua casa e così inizia ad appassionarsi all’agricoltura urbana. Giorgio è convinto che solo partendo dalle nuove generazioni si può immaginare un futuro più sostenibile. Decidono quindi di aprire una startup – correva l’anno 2015 – con l’obiettivo di creare un orto diffuso a Palermo, per occuparsi tanto di progettazione e realizzazione di orti urbani, quanto di educazione ambientale e alimentare nelle scuole e non solo.

«Coltivare un orto in città non significa solo produrre la propria cena senza pesticidi», spiega Angelica Agnello. «Significa anche e soprattutto, imparare l’importanza della biodiversità, la stagionalità dei prodotti e concetti chiave come il chilometro zero, la filiera corta e l’importanza di tutti gli elementi naturali».

La cosa che i fondatori di Orto Capovolto ritengono più importante sono i progetti di riqualificazione urbana, che sono realizzati sempre in partnership con altre realtà, come associazioni e comitati di quartiere. Attraverso questi progetti cercano di coinvolgere un target che sia il più ampio possibile, principio che cozza con la pandemia e infatti da circa un anno questo filone di attività è fermo. Ma di certo il covid non può fermare l’immaginazione: «In questo momento – spiega Angelica – abbiamo sospeso quasi del tutto le attività; manteniamo pochi progetti, come quello in partenza al Malaspina, (il carcere minorile di Palermo, ndr) dal titolo “Le buone erbe”. La maggior parte delle nostre iniziative era con i bambini. Abbiamo deciso di rimanere quasi del tutto fermi aspettando tempi migliori perché i laboratori erano dentro ludoteche o scuole. Sono in stand-by anche i progetti di riqualificazione urbana, che generalmente partono in primavera. Ma la grande bellezza è il coinvolgimento di tanta gente, cosa che per adesso è impensabile. Facciamo l’indispensabile e aspettiamo l’anno prossimo». Va molto bene però la linea di design di Orto Capovolto, prodotti legati al giardinaggio come grembiuli da orto o le bombe di semi.

«Coltivare un orto in città non significa solo produrre la propria cena senza pesticidi», spiega Angelica Agnello. «Significa anche e soprattutto, imparare l’importanza della biodiversità, la stagionalità dei prodotti e concetti chiave come il chilometro zero, la filiera corta e l’importanza di tutti gli elementi naturali».

La cosa che i fondatori di Orto Capovolto ritengono più importante sono i progetti di riqualificazione urbana, che sono realizzati sempre in partnership con altre realtà, come associazioni e comitati di quartiere. Attraverso questi progetti cercano di coinvolgere un target che sia il più ampio possibile, principio che cozza con la pandemia e infatti da circa un anno questo filone di attività è fermo. Ma di certo il covid non può fermare l’immaginazione: «In questo momento – spiega Angelica – abbiamo sospeso quasi del tutto le attività; manteniamo pochi progetti, come quello in partenza al Malaspina, (il carcere minorile di Palermo, ndr) dal titolo “Le buone erbe”. La maggior parte delle nostre iniziative era con i bambini. Abbiamo deciso di rimanere quasi del tutto fermi aspettando tempi migliori perché i laboratori erano dentro ludoteche o scuole. Sono in stand-by anche i progetti di riqualificazione urbana, che generalmente partono in primavera. Ma la grande bellezza è il coinvolgimento di tanta gente, cosa che per adesso è impensabile. Facciamo l’indispensabile e aspettiamo l’anno prossimo». Va molto bene però la linea di design di Orto Capovolto, prodotti legati al giardinaggio come grembiuli da orto o le bombe di semi.

Una delle azioni che più sono rimaste impresse nella memoria della città è sicuramente l’intervento su Salita Raffadali, che per un periodo è stata chiusa al traffico, colorata e addobbata con alberi, fiori e ortaggi. Un intervento di riqualificazione che ha avuto una eco nazionale, ma che adesso rappresenta una grandissima delusione per Orto Capovolto e anche per Sos Ballarò, il comitato di quartiere: «È stato un intervento che sarebbe dovuto durare solo quattro settimane – aggiunge Angelica –, poi è piaciuto a tutti e si era deciso di farlo diventare permanente, ma non è stato così, l’amministrazione è scomparsa e la strada è tornata carrabile. Molto spesso i giardini che riqualifichiamo vengono abbandonati, per questo è importante fare innamorare i residenti del progetto».

Un intervento molto positivo è stato invece quello fatto alla Kalsa, in vicolo del Pallone: «Qui gli abitanti si sono messi davvero in gioco e hanno continuato a interagire con il giardino aggiungendo dettagli, come la statua di una madonnina; anche la vicina chiesa se ne prende cura, ha anche celebrato delle messe lì, all’aperto».

«Quello che ci manca di più è lavorare con i bambini», conclude Angelica. «Una cosa che vogliamo assolutamente fare appena torneremo alla vita di prima è mappare le aree urbane di Palermo non destinate a ospitare strutture e infrastrutture e che quindi possano essere dei luoghi di aggregazione dove far nascere delle aree verde e dei giardini condivisi».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/04/orto-capovolto-palermo-degrado-orti-urbani/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Thar do Ling: permacultura e consapevolezza come scelta di vita

Qualche anno fa una coppia di siciliani ha sentito l’esigenza di rimodulare la propria vita per renderla più consapevole, più sostenibile, più lenta. Da questo bisogno è nato il centro Thar do Ling, ispirato ai principi della permacultura con uno sguardo rivolto alla spiritualità tibetana. Il centro è stata una delle tappe del nostro tour nella Sicilia Che Cambia. Partiamo da Tusa e ci dirigiamo verso Montelepre attraversando le Madonie orientali, evitando le autostrade e imbattendoci in un percorso un po’ tortuoso, ma godendoci il paesaggio e scoprendo piccoli paesini fin a quel momento sconosciuti. Siamo in provincia di Palermo, precisamente a Sagana, nel comune di Montelepre, in una splendida valle nel bacino del fiume Nocella. Dopo un piacevole viaggio giungiamo a Thar do Ling, una nuova tappa del viaggio nella Sicilia Che Cambia. Ad accoglierci suoi fondatori, Simona Trecarichi e Danilo Colomela. Appena arrivati, mentre i figli di Simona e Danilo sono attratti dai miei cani che scorrazzano in cerca di palle con cui giocare, ci concediamo un tè per conoscerci meglio a telecamere spente. Simona e Danilo ci raccontano la loro storia e le scelte di vita che hanno portato alla nascita del centro Thar do Ling, dedicato allo sviluppo della consapevolezza.

Qualche anno fa una coppia di siciliani ha sentito l’esigenza di rimodulare la propria vita per renderla più consapevole, più sostenibile, più lenta. Da questo bisogno è nato il centro Thar do Ling, ispirato ai principi della permacultura con uno sguardo rivolto alla spiritualità tibetana. Il centro è stata una delle tappe del nostro tour nella Sicilia Che Cambia. Partiamo da Tusa e ci dirigiamo verso Montelepre attraversando le Madonie orientali, evitando le autostrade e imbattendoci in un percorso un po’ tortuoso, ma godendoci il paesaggio e scoprendo piccoli paesini fin a quel momento sconosciuti. Siamo in provincia di Palermo, precisamente a Sagana, nel comune di Montelepre, in una splendida valle nel bacino del fiume Nocella. Dopo un piacevole viaggio giungiamo a Thar do Ling, una nuova tappa del viaggio nella Sicilia Che Cambia. Ad accoglierci suoi fondatori, Simona Trecarichi e Danilo Colomela. Appena arrivati, mentre i figli di Simona e Danilo sono attratti dai miei cani che scorrazzano in cerca di palle con cui giocare, ci concediamo un tè per conoscerci meglio a telecamere spente. Simona e Danilo ci raccontano la loro storia e le scelte di vita che hanno portato alla nascita del centro Thar do Ling, dedicato allo sviluppo della consapevolezza.

L’idea comincia a maturare nel 2005, originata dal desiderio di creare un luogo in cui poter vivere a contatto con la natura e praticare un modello di vita ecocompatibile, basato su uno stile di vita semplice e lontano dai consumi eccessivi. «La prima attività è stata quella di recuperare attraverso la bioedilizia un immobile che stava andando in malora», racconta Simona. In un primo momento i due fondatori hanno mantenuto il loro lavoro a Palermo, ma col tempo, anche attraverso la conoscenza della permacultura, hanno deciso di creare un’associazione di promozione sociale e divulgare quanto appreso.

«Da un posto da mantenere è diventato un posto che ci mantiene», prosegue Simona. Durante tutto l’anno, infatti, vengono proposti corsi, seminari, workshop, cantieri didattici, campi per ragazzi e famiglie, attività educative per le scuole, ritiri di meditazione e pratica spirituale. Le caratteristiche principali dello stile di vita di Simona e Danilo sono parte integrante della loro offerta formativa, in particolare l’alimentazione vegetariana e, quando possibile, locale e biologica, l’attenzione alla riduzione dei rifiuti – i prodotti usa e getta non sono utilizzati –, l’uso di detersivi ecologici acquistati alla spina, la compostiera per gli avanzi della cucina, l’uso di un sistema di riscaldamento a biomassa per evitare sprechi e preservare la salubrità dell’ambiente e tanto altro. Durante la visita al Centro Thar do Ling sono rimasto particolarmente affascinato dalle arnie, alcune delle quali vengono costruite da Danilo che, oltre a produrre del miele buonissimo – penso il migliore che abbia mai provato –, organizza sia al Centro che presso altre strutture corsi di apicoltura naturale.

L’idea comincia a maturare nel 2005, originata dal desiderio di creare un luogo in cui poter vivere a contatto con la natura e praticare un modello di vita ecocompatibile, basato su uno stile di vita semplice e lontano dai consumi eccessivi. «La prima attività è stata quella di recuperare attraverso la bioedilizia un immobile che stava andando in malora», racconta Simona. In un primo momento i due fondatori hanno mantenuto il loro lavoro a Palermo, ma col tempo, anche attraverso la conoscenza della permacultura, hanno deciso di creare un’associazione di promozione sociale e divulgare quanto appreso.

«Da un posto da mantenere è diventato un posto che ci mantiene», prosegue Simona. Durante tutto l’anno, infatti, vengono proposti corsi, seminari, workshop, cantieri didattici, campi per ragazzi e famiglie, attività educative per le scuole, ritiri di meditazione e pratica spirituale. Le caratteristiche principali dello stile di vita di Simona e Danilo sono parte integrante della loro offerta formativa, in particolare l’alimentazione vegetariana e, quando possibile, locale e biologica, l’attenzione alla riduzione dei rifiuti – i prodotti usa e getta non sono utilizzati –, l’uso di detersivi ecologici acquistati alla spina, la compostiera per gli avanzi della cucina, l’uso di un sistema di riscaldamento a biomassa per evitare sprechi e preservare la salubrità dell’ambiente e tanto altro. Durante la visita al Centro Thar do Ling sono rimasto particolarmente affascinato dalle arnie, alcune delle quali vengono costruite da Danilo che, oltre a produrre del miele buonissimo – penso il migliore che abbia mai provato –, organizza sia al Centro che presso altre strutture corsi di apicoltura naturale.

Tra i progetti futuri, Danilo ci racconta la volontà di creare dei tour esperienziali per i quali sta predisponendo un piano di interpretazione ambientale – una branca dell’educazione ambientale – che permetterà ai visitatori attraverso la traduzione di un codice, quello della natura, di approfondire i valori del luogo e il contesto circostante. Un’altra possibilità che offre il centro Thar do Ling è quella del woofing per chi voglia fare esperienza di vita rurale e immergersi nelle varie attività proposte in un clima conviviale. Infine, un’ultima curiosità legata al nome. Thar dö Ling in tibetano significa “Terra di chi aspira alla grande pace”; Centro per lo sviluppo della consapevolezza invece è una dicitura che legata a una riflessione: «Pensiamo che tutti i problemi del nostro Pianeta – concludono Simona e Danilo – possano essere risolti solo se abbiamo la consapevolezza che il primo passo da fare deve essere il nostro. Per saper muovere i passi bisogna allenarsi. Il Centro Thar dö Ling vuole essere la palestra!».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/04/thar-do-ling-permacultura-consapevolezza-scelta-di-vita/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Mal’Aria edizione speciale: le città peggiori sono Torino, Roma, Palermo, Milano e Como

Nuovi dati raccolti da Legambiente nel report Mal’aria edizione speciale, in cui l’associazione stila una “pagella” sulla qualità dell’aria di 97 città italiane sulla base degli ultimi 5 anni – dal 2014 al 2018. Giorgio Zampetti: “Serve una politica diversa che non pensi solo ai blocchi del traffico e sporadiche misure”

Che aria si respira nelle città italiane e che rischi ci sono per la salute? Di certo non tira una buona aria e con l’autunno alle porte, unito alla difficile ripartenza dopo il lockdown in tempo di Covid, il problema dell’inquinamento atmosferico e dell’allarme smog rimangono un tema centrale da affrontare. A dimostrarlo sono i nuovi dati raccolti da Legambiente nel report Mal’aria edizione speciale nel quale l’associazione ambientalista ha stilato una “pagella” sulla qualità dell’aria di 97 città italiane sulla base degli ultimi 5 anni – dal 2014 al 2018 – confrontando le concentrazioni medie annue delle polveri sottili (Pm10, Pm2,5) e del biossido di azoto (NO2) con i rispettivi limiti medi annui suggeriti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): 20µg/mc per il Pm10; 10 µg/mc per il Pm2,5; 40 µg/mc per il NO2. Limiti quelli della OMS che hanno come target esclusivamente la salute delle persone e che sono di gran lunga più stringenti rispetto a quelli della legislazione europea (limite medio annuo 50 µg/mc per il Pm10, 25 µg/mc per il Pm2,5 e 40 µg/mc per il NO2) e il quadro che emerge dal confronto realizzato da Legambiente è preoccupante: solo il 15% delle città analizzate ha la sufficienza contro l’85% sotto la sufficienza. Delle 97 città di cui si hanno dati su tutto il quinquennio analizzato (2014 – 2018) solo l’15% (ossia 15) raggiungono un voto superiore alla sufficienza: Sassari (voto 9), Macerata (8), Enna, Campobasso, Catanzaro, Grosseto, Nuoro, Verbania e Viterbo (7), L’Aquila, Aosta, Belluno, Bolzano, Gorizia e Trapani (6). Sassari prima della classe con voto 9 in quanto dal 2014 al 2018 ha sempre rispettato i limiti previsti dall’OMS per le polveri sottili (Pm10 e Pm2,5) e per il biossido di azoto (NO2) ad eccezione degli ultimi 2 anni in cui solo per il Pm10 il valore medio annuo è stato di poco superiore al limite OMS; analoghe considerazioni con Macerata (voto 8), in quanto pur avendo sempre rispettato nei 5 anni i limiti, per il Pm2,5 non ci sono dati a supporto per gli anni 2014, 2015 e 2016 che quindi la penalizzano. Le altre città sopra la sufficienza, pur avendo spesso rispettato i limiti suggeriti dall’OMS mancano di alcuni dati in alcuni anni, a dimostrazione che per tutelare la salute dei cittadini bisognerebbe comunque garantire il monitoraggio ufficiale in tutte le città di tutti quegli inquinanti previsti dalla normativa e potenzialmente dannosi per la salute.

La maggior parte delle città – l’85% del totale – sono sotto la sufficienza e scontano il mancato rispetto negli anni soprattutto del limite suggerito per il Pm2,5 e in molti casi anche per il Pm10. Fanalini di coda le città di Torino, Roma, Palermo, Milano e Como (voto 0) perché nei cinque anni considerati non hanno mai rispettato nemmeno per uno solo dei parametri il limite di tutela della salute previsto dall’OMS. Dati che Legambiente lancia oggi alla vigilia del 1 ottobre, data in cui prenderanno il via le misure e le limitazioni antismog previste dall’«Accordo di bacino padano» in diversi territori del Paese per cercare di ridurre l’inquinamento atmosferico, una piaga dei nostri tempi al pari della pandemia e che ogni anno, solo per l’Italia, causa 60mila morti premature e ingenti costi sanitari. Il Paese detiene insieme alla Germania il triste primato a livello europeo. Per questo con Mal’aria edizione speciale Legambiente chiede anche al Governo e alle Regioni più coraggio e impegno sul fronte delle politiche e delle misure da mettere in campo per avere dei risultati di medio e lungo periodo. Un coraggio che per Legambiente è mancato alle quattro regioni dell’area padana (Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto) che, ad esempio, hanno preferito rimandare all’anno nuovo il blocco alla circolazione dei mezzi più vecchi e inquinanti Euro4 che sarebbe dovuto scattare questo 1 ottobre nelle città sopra i 30 mila abitanti. Una mancanza di coraggio basata sulla scusa della sicurezza degli spostamenti con i mezzi privati e non pubblici in tempi di Covid, o sulla base della compensazione delle emissioni inquinanti grazie alla strutturazione dello smart working per i dipendenti pubblici.

“Per tutelare la salute delle persone – dichiara Giorgio Zampetti, Direttore Generale di Legambiente – bisogna avere coraggio e coerenza definendo le priorità da affrontare e finanziare. Le città sono al centro di questa sfida, servono interventi infrastrutturali da mettere in campo per aumentare la qualità della vita di milioni di pendolari e migliorare la qualità dell’aria, puntando sempre di più su una mobilità sostenibile e dando un’alternativa al trasporto privato. Inoltre serve una politica diversa che non pensi solo ai blocchi del traffico e alle deboli e sporadiche misure anti-smog che sono solo interventi palliativi. Il governo italiano, grazie al Recovery Fund, ha un’occasione irripetibile per modernizzare davvero il Paese, scegliendo la strada della lotta alla crisi climatica e della riconversione ecologica dell’economia italiana. Non perda questa importante occasione e riparta dalle città incentivando l’utilizzo dei mezzi pubblici, potenziando la rete dello sharing mobility e raddoppiando le piste ciclopedonali. Siamo convinti, infatti, che la mobilità elettrica, condivisa, ciclopedonale e multimodale sia l’unica vera e concreta possibilità per tornare a muoverci più liberi e sicuri dopo la crisi Covid-19, senza trascurare il rilancio economico del Paese”.

“L’inquinamento atmosferico nelle città – aggiunge Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente –  è un fenomeno complesso poiché dipende da diversi fattori: dalle concentrazioni degli inquinanti analizzati alle condizioni meteo climatiche, passando per le caratteristiche urbane, industriali e agricole che caratterizzano ogni singola città e il suo hinterland. Nonostante le procedure di infrazione a carico del nostro Paese, nonostante gli accordi che negli anni sono stati stipulati tra le Regioni e il Ministero dell’Ambiente per ridurre l’inquinamento atmosferico a cominciare dall’area padana, nonostante le risorse destinate in passato e che arriveranno nei prossimi mesi/anni con il Recovery fund, in Italia manca ancora la convinzione di trasformare concretamente il problema in una opportunità. Opportunità che prevede inevitabilmente dei sacrifici e dei cambi di abitudini da parte dei cittadini, ma che potrebbero restituire città più vivibili, efficienti, salutari e a misura di uomo”.

Focus Mal’aria: Tornando ai dati del report Mal’aria edizione straordinariai giudizi che ne seguono per le 97 città analizzate sono il frutto quindi del “rispetto” o “mancato rispetto” del limite previsto per ciascun parametro (inteso come concentrazione media annuale) rispetto a quanto suggerito dall’OMS per ogni anno analizzato. Tra gli altri dati che emergono: per le polveri sottili la stragrande maggioranza delle città abbia difficoltà a rispettare i valori limite per la salute: infatti per il Pm10 mediamente solo il 20% delle 97 città analizzate nei cinque anni ha avuto una concentrazione media annua inferiore a quanto suggerito dall’OMSpercentuale che scende drasticamente al 6% per il Pm2,5 ovvero le frazioni ancora più fini e maggiormente pericolose per la facilità con le quali possono essere inalate dagli apparati respiratori delle persone. Più elevata la percentuale delle città (86%) che è riuscita a rispettare il limite previsto dall’OMS[1] per il biossido di azoto (NO2). Il non rispetto dei limiti normativi imposti comporta l’apertura da parte dell’Unione europea di procedure di infrazione a carico degli Stati membri con delle conseguenze economiche per gli stessi.

Focus auto: Nel report Legambiente, inoltre, dedica un focus sulle auto come fonte principale di inquinamento in città e ricorda che le emissioni fuorilegge delle auto diesel continuano a causare un aumento della mortalità, come è emerso anche da un recente studio condotto da un consorzio italiano che comprende consulenti (Arianet, modellistica), medici ed epidemiologi (ISDE Italia, Medici per l’Ambiente) e Legambiente, nonché la piattaforma MobileReporter. Lo studio in questione stima per la prima volta in assoluto la quota di inquinamento a Milano imputabile alle emissioni delle auto dieselche superano, nell’uso reale, i limiti fissati nelle prove di laboratorio alla commercializzazione.  Se tutti i veicoli diesel a Milano emettessero non più di quanto previsto dalle norme nell’uso reale, l’inquinamento da NO2 (media annuale) rientrerebbe nei limiti di qualità dell’aria europei (già nel 2018). Invece il mancato rispetto ha portato alla stima di 568 decessi in più per la sola città di Milano, a causa dell’esposizione “fuorilegge” agli NO2 per un solo anno. Quindi per Legambiente si dovrebbero bloccare tutti i veicoli diesel troppo inquinanti, persino gli euro6C venduti sino ad agosto 2019. Lo studio si inquadra nella più ampia iniziativa transfrontaliera sull’inquinamento del traffico urbano Clean Air For Health (https://cleanair4health.eu/), progetto lanciato dall’Associazione europea sulla salute pubblica (EPHA) che coinvolge healthcare partner in diversi Stati Membri.

Proposte: Per aggredire davvero l’inquinamento atmosferico e affrontare in maniera concreta il tema della sfida climatica, servono misure preventive, efficaci, strutturate e durature. Tutto quello che non sta avvenendo in Italia. Per questo Legambiente torna a ribadire l’urgenza di puntare su una mobilità urbana sempre più condivisa e sostenibile, di potenziare lo sharing mobility e raddoppiare i chilometri delle piste ciclabili, un intervento, quest’ultimo, già previsto nei PUMS, i Piani urbani per la mobilità sostenibile, che i Comuni devono mettere in campo al più presto. Legambiente ricorda che la Legge di Bilancio 2019, che ha visto stanziare i primi bonus destinati ai veicoli elettrici (auto e moto), ha permesso di sperimentare la micromobilità elettrica, mentre con la Legge di Bilancio 2020 è stato possibile equiparare i monopattini con la ciclabilità urbana a cui si è aggiunto il bonus mobilità senz’auto. Tutte misure convergenti e allineate che sono proseguite, anche in tempo emergenziale attraverso i “decreti Covid-19”, con la definizione di nuovi percorsi ciclabili urbani, la precedenza per le bici e le cosiddette “stazioni avanzate”.

Fonte: Legambiente

Dalla terra al ristorante: una filiera del gusto alle porte di Palermo

Dalla passione di un giovane siciliano e della sua famiglia per la propria terra è nato il progetto Villa Costanza, ristorante e realtà imprenditoriale che nella natura alle porte di Palermo promuove un’alimentazione sostenibile, valorizza le eccellenze locali e con il suo orto crea un filo diretto fra terra e cucina. Qualità e stagionalità delle materie prime, valorizzazione del territorio e promozione della filiera corta. Sono questi gli ingredienti principali che hanno reso vincente, negli anni, il progetto Villa Costanza: un ristorante pizzeria che si trova ai piedi della riserva di Monte Pellegrino, a Palermo.  

«È stato un processo lungo e lento, ma soddisfacente», afferma il co-fondatore, insieme alla sorella Costanza, Marco Durastanti. In circa sette anni, infatti, con impegno e dedizione hanno selezionato, uno ad uno, i micro produttori del territorio, esclusivamente siciliano, puntando su numerosi presidi Slow Food.

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Marco e Costanza Durastanti

Una scelta ambiziosa e sapiente che è la sintesi perfetta dei valori in cui credono: qualità dei prodotti e lavoro di squadra. Nella loro cucina, guidata dallo Chef Antonio Terzo, si trovano solo le eccellenze del territorio, dai formaggi ai salumi, dal Piacentino ennese allo zafferano o al pepe nero alla razza bovina Cinisara o al suino nero dei Nebrodi, dal miele di Ape nera Sicula alle mandorle di baucina bio.  Tutti prodotti buoni e sani che rappresentano la Sicilia. Anche per le pizze hanno adottato la stessa filosofia: lievito madre lievitato per 48h e grani antichi siciliani, come la farina di grano duro Biancolilla Bio di San Cataldo. Non si sono, però, “limitati” a selezionare con cura le materie prime, ma hanno coinvolto l’intero staff nel processo di selezione: organizzano, infatti, visite ai produttori locali attraverso le quali acquisiscono consapevolezza rispetto agli alimenti da portare in tavola e generano quel senso di appartenenza fondamentale in ogni azienda. Negli ultimi anni hanno inoltre, scelto di vendemmiare personalmente il vino di Villa Costanza con visite presso le aziende agricole, cantine, pascoli e vigne. Hanno creato poi tre tipi di birra diversa per valorizzare i piccoli produttori e raccontarli agli ospiti.

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Durastanti continua sottolineando come questo modus operandi abbia generato entusiasmo e relazioni di fiducia, senza le quali adesso non potrebbe fare a meno. “La follia” come la definisce lui, continua, perché in sinergia con la cooperativa Coltiviamo Tradizioni hanno creato un orto da cui attingere i prodotti per la ristorazione. Un filo diretto tra terra e cucina che, in armonia con i tempi della natura e delle sue stagioni, gli permette di avere prodotti sempre freschi e genuini. Una scelta che non predilige certo l’economicità, ma la qualità. E la qualità ripaga. Villa Costanza, inoltre, propone ai clienti che lo desiderano la possibilità di coltivarsi il proprio orto, tramite gli orti urbani della cooperativa e/o di usufruire del servizio di consegna settimanale delle verdure a domicilio. Le prelibatezze di Villa Costanza si possono trovare anche all’interno del nuovo Bastione di Cefalù. Un centro culturale polifunzionale che ospita Bastione&Costanza, un caffè letterario con cucina e pizza slow. Villa Costanza promuove un’alimentazione sostenibile, valorizza le eccellenze locali e tutela la biodiversità. È l’espressione di un sogno riuscito, di una scelta imprenditoriale etica e della passione di un giovane e della sua famiglia per il territorio siciliano.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/10/terra-ristorante-filiera-gusto-palermo/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Plastica nello stomaco del capodoglio spiaggiato: “L’SOS disperato del mare”

Nello stomaco del capodoglio spiaggiato due giorni fa a Cefalù, in Sicilia, è stata trovata molta plastica. “Bisogna intervenire subito per salvare le meravigliose creature che lo abitano”. Lo afferma Greenpeace pronta a salpare insieme a The Blue Dream Project per monitorare lo stato di salute dei nostri mari. A pochi giorni dalla partenza di una spedizione di ricerca, monitoraggio, documentazione e sensibilizzazione sullo stato dei nostri mari, organizzata insieme a The Blue Dream Project, Greenpeace diffonde le immagini di quanto è stato ritrovato nello stomaco del capodoglio spiaggiato due giorni fa sulle coste della Sicilia.

«Quello che è stato trovato due giorni fa sulla spiaggia di Cefalù era un giovane capodoglio di circa sette anni appena. Come si può vedere dalle immagini che diffondiamo, nel suo stomaco è stata trovata molta plastica. Le indagini sono appena iniziate e non sappiamo ancora se sia morto per questo, ma non possiamo certo far finta che non stia succedendo nulla», dichiara Giorgia Monti, responsabile campagna Mare di Greenpeace Italia.  

«Sono ben cinque i capodogli spiaggiati negli ultimi cinque mesi sulle coste italiane. Nello stomaco della femmina gravida ritrovata a marzo in Sardegna sono stati trovati addirittura 22 kg di plastica. Il mare ci sta inviando un grido di allarme, un SOS disperato. Bisogna intervenire subito per salvare le meravigliose creature che lo abitano».

Greenpeace e The Blue Dream Project monitoreranno per tre settimane i livelli di inquinamento da plastica in mare, in particolare nel Mar Tirreno Centrale. Una spedizione di ricerca che si concluderà in Toscana l’8 giugno, in occasione della Giornata mondiale degli oceani. In occasione della conferenza stampa di presentazione del tour, che si terrà martedì 21 maggio alle ore 11 presso la Sala conferenze Lega Navale di Ostia, i ricercatori del Dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione dell’Università degli Studi di Padova, centro di riferimento per le autopsie sui grandi cetacei spiaggiati lungo le coste italiane, presenteranno un report preliminare sullo spiaggiamento dei cetacei in Italia, con un focus proprio sui capodogli e la plastica. 

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/05/plastica-stomaco-capodoglio-spiaggiato-sos-disperato-mare/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

BallarArt: così i bambini di Palermo crescono attraverso l’arte

Musica, teatro, danza, arti visive, cinema. L’arte può insegnare ai bambini a conoscere se stessi, educarli alla cura e alla valorizzazione del territorio, invitarli ad agire per cambiare in meglio il mondo in cui viviamo. Da qui nasce BallarArt, un percorso socioeducativo avviato nel quartiere Ballarò di Palermo. Partire dai più piccoli per portare un cambiamento nel mondo. Diffondere cultura in modo non tradizionale in un quartiere siciliano considerato difficile, ovvero il quartiere Albergheria di Ballarò a Palermo. Farlo attraverso le arti e, grazie ad esse, rigenerare. È un cerchio che si chiude: BallarArt, un percorso socioeducativo che coinvolge i bambini del quartiere e, in linea definitiva, cambia anche le persone che lo vivono.

A raccontarcelo è Liliana Minutoli, che è presidente del Counseling espressivo creativo Il Giardino delle idee ma che è anche insegnante di pianoforte, sociologa e psicologa. Da sempre impegnata nel sociale e trapiantata da sette anni nel quartiere Ballarò e 13 a Palermo, crede fortemente nella possibilità del cambiamento: “Cerchiamo di mettere da parte la ‘lagnusìa’ siciliana, questa sorta di indolenza che ci fa pensare che nulla si può cambiare e che contagia anche i bambini. E lo facciamo in un modo diverso da quello classico: facciamo scoprire ai bambini e ai ragazzi di Ballarò chi sono e come vivere al meglio attraverso le arti, che possono essere musica, teatro, danza, arti visive, cinema”.
Liliana è solo una fra i tanti operatori sociali e artisti (tutti volontari) che si occupano di bambini da molti anni e che sono tutti confluiti, lo scorso anno, nella creazione di BallarArt. Lo scopo è anche quello di coordinare i vari centri di aggregazione giovanile (che si occupano di doposcuola, catechismo, attività ricreative) e fare in modo che questo percorso coinvolga un numero più alto possibile di bambini e ragazzi. “Vogliamo fare in modo che la cultura parta dai bambini, perché se vogliamo ottenere un cambiamento di mentalità dobbiamo farlo dal basso. In questo caso le arti sono uno strumento per scoprire il legame fra il proprio mondo interiore (quello dei bambini) e quello esteriore (Ballarò, il quartiere)”.

A tal proposito Liliana fa riferimento a varie manifestazioni, in cui sono sempre i bambini ad essere protagonisti e portabandiera di cultura. Ad esempio, la scorsa primavera durante l’iniziativa “Anima Ballarò” i bambini hanno partecipato attraversando il mercato e urlando slogan positivi, di cambiamento: una vera e propria reazione alla “lagnusìa” siciliana di cui si parlava prima. O ancora, dopo atti di vandalismo perpetrati nella piazzetta Ecce Homo, è sempre stato un gruppo di bambini a rivitalizzarla cantando in coro.ballarart-1-1030x772

La cultura del cambiamento e della valorizzazione del territorio non è affatto facile. Più volte vi sono stati atti di vandalismo nella piazzetta Ecce Homo, cuore di Ballarò, che è stata recentemente ristrutturata dopo essere stata una discarica a cielo aperto per molto tempo. Ma secondo Liliana, è qualcosa a cui si può rimediare: “Non c’è una motivazione reale per gli atti di vandalismo, molto spesso è una mancanza, una non appartenenza vera al territorio e una diseducazione alla valorizzazione di ciò che può essere nostro”. Che invece è ciò a cui BallarArt educa.
“Il ruolo dell’arte è fondamentale per il sé e per il noi, per il singolo e per la collettività», ci spiega Liliana. «Perché in tutte le arti – che sono espressioni dell’individuo – c’è il codice che aiuta a vivere meglio le regole di convivenza civile: ad esempio ascoltare un altro mentre si sta facendo un coro è necessario perché altrimenti ci va di mezzo tutto il gruppo che canta”. Piccoli dettagli a cui spesso non si pensa ma che in realtà incarnano un codice comportamentale fatto di condivisione e ascolto. Qualcosa che di questi tempi è necessario e che serve a far capire anche che la diversità è ricchezza: “Questo quartiere vive di tantissime contraddizioni e diversità: è un quartiere storico antichissimo, dove vivono differenti tipologie sociali di persone con un mix di energie completamente diverse fra loro”.IMG_20180415_120305-1030x772

Anche BallarArt è, nella sua essenza, un mix di energie diverse e non solo in quanto percorso socioeducativo che coinvolge disparati ambiti e discipline, ma anche in quanto parte di un “contenitore” più grande che è SOS Ballarò (Storia Orgoglio Sostenibilità). SOS Ballarò altri non è che un’assemblea cittadina, fatta da associazioni, volontari, membri delle parrocchie del quartiere e così via che a titolo volontario si impegnano per la città. Nonostante BallarArt sia pensato per bambini e ragazzi, c’è però qualcosa che riguarda anche “i grandi”. Attraverso la voglia di cambiamento dei più piccoli anche gli adulti possono ‘cambiare’: “Forse ritornando a coltivare quel bambino interiore che c’è dentro gli adulti e prendendo spunto dai ragazzi, noi possiamo fruire di un cambiamento”. Non a caso ‘il Giardino delle idee’ – il counseling espressivo creativo di cui Liliana è presidente – si rivolge agli adulti: fare in modo che essi diventino consapevoli e responsabili di sé attraverso le arti per poi riversare questo cambiamento nel mondo ‘esterno’ che abbia poi un impatto sulla comunità di appartenenza. Ancora una volta il cerchio si chiude.

Intervista: Daniel Tarozzi
Realizzazione video: Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/10/ballarart-bambini-palermo-crescono-arte/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Serra Guarneri: il borgo abbandonato diventa un Centro di Educazione Ambientale

Tra le colline del Parco delle Madonie, vicino Cefalù in Sicilia, un borgo abbandonato e poi recuperato ospita oggi il Centro di Educazione Ambientale Serra Guarneri. Immerso nel bosco di Guarneri e aperto a tutti, ma in particolare a bambini e ragazzi, il Centro è un luogo dove ritrovare il contatto con la natura, riscoprendo il senso di comunità e appartenza. Ripercorriamo insieme la storia di Serra Guarneri, dove il tempo non esiste e i visitatori sono abitanti veri e propri del posto. “Ho sentito parlare di un posto dove il tempo cammina e non corre, dove sei sempre in buona compagnia, dove tutti i sensi possono essere appagati e dove cielo e mare si fondono in una vista splendida”.

Arrivati nella zona di Cefalù, in Sicilia, questo luogo lo abbiamo trovato: è il Centro di Educazione Ambientale Serra Guarneri, un borgo recuperato dall’abbandono immerso tra le colline del Parco delle Madonie, circondato da un fiabesco bosco di lecci misti a sugheri e pregno di un’energia vitale difficilmente descrivibile a parole.

Serra Guarneri è un centro di educazione ambientale che ospita soprattutto bambini e ragazzi ma aperto a tutti, per periodi più o meno lunghi, alla riscoperta del (vero) contatto diretto con la natura; pratica una “piccola ospitalità” che si pone gli obiettivi di far sentire gli ospiti come parte di un progetto e di praticare l’educazione ambientale, soprattutto con i sensi piuttosto che con le spiegazione teoriche. Oltre all’area riservata ai soggiorni, Serra Guarneri è anche un’azienda agricola (a scopo educativo) con la presenza di orti sinergici e tradizionali, alberi da frutto e ulivi. Tutto nasce nel 1983 quando Valeria Calandra, co-fondatrice della Cooperativa Palma Nana che gestisce Serra Guarneri, scopre questo borgo che al tempo era abbandonato: “Ho scoperto Serra Guarneri negli anni Ottanta, mentre lavoravo su alcuni studi per la perimetrazione del nascente Parco delle Madonie. Finimmo insieme a mio marito, che era un fotografo, in questo meraviglioso bosco, un vero e proprio paradiso terrestre: esplorando per bene l’area, abbiamo inoltre scoperto l’esistenza di alcune case abbandonate.centro-serra-guarneri

Esplorando maggiormente, siamo giunti nel luogo in corrispondenza di quella che è oggi la casa madre di Serra Guarneri e, pulendo le porte, abbiamo scoperto un cartello dove c’era scritto ‘si vende’. Nella ricerca del proprietario, scoprimmo che questo luogo era stato, a partire dalla fine del milleottocento, un piccolo borgo destinato all’attività di transumanza ed era stato abbandonato nel periodo della guerra; gli abitanti erano emigrati tutti negli Stati Uniti”.

Dopo il progressivo acquisto dell’area, insieme alla Cooperativa Palma Nana, sono iniziati i lavori che hanno permesso oggi a Serra Guarneri di divenire un centro di educazione ambientale e un luogo di ospitalità, anche grazie al contributo di tutte le persone che hanno vissuto qui nel corso degli anni. La Cooperativa è stata fondata nel 1983 e da sempre si occupa di ecologia e attenzione all’ambiente; nel corso degli anni si è sempre più specializzata, in virtù anche della gestione di Serra Guarneri, nell’attività di educazione ambientale e nel turismo naturalistico e sostenibile.serra-guarnieri

Serra Guarneri: l’educazione ambientale e l’ospitalità partecipata

Fabrizio Giacalone è oggi il responsabile della Cooperativa Palma Nana: “La quasi totalità delle esperienze che noi raccontiamo hanno come attori principali i bambini e i ragazzi attraverso varie attività, che si svolgono nel cuore del Parco Naturale delle Madonie, a pieno contatto con la natura: il messaggio più importante che vogliamo trasmettere è che noi facciamo parte della natura. Che sia tramite una gita, un campo scuola o un campo avventura estivo noi vogliamo proporre l’educazione ambientale nella maniera più esperienziale possibile: ad esempio non facciamo solo una lezione teorica sul leccio, una delle piante del bosco di Guarneri, ma glielo facciamo abbracciare. Per la cucina, non raccontiamo solo la storia delle farine di grani antichi siciliani, ma i ragazzi impastano direttamente un dolce o il pane, lo mettono nel forno in terra cruda e lo cuociono. Nel mentre raccontiamo anche la storia del luogo, il suo habitat, le sue tradizioni e le sue usanze”.

La struttura ricettiva di Serra Guarneri dispone di un massimo di ventiquattro posti letto e sono previsti diverse opzioni per bambini, ragazzi, famiglie e adulti. Con una specifica importante: “Chi arriva a Serra Guarneri non è un ospite ma è un abitante. Che lo sia soltanto per un giorno o per sempre, vive il luogo partecipando attivamente alla vita del borgo in tutti i suoi aspetti. Ci sono molte storie al riguardo, come il bambino che ha piantato l’albero di ciliegio, oppure quello che ha costruito la casa sull’albero, così come la storia di bambini italiani e di altri luoghi d’Europa che insieme costruiscono. Tutte le persone che dalla fondazione di Serra Guarneri fino ad oggi sono passate di qui hanno lasciato una loro traccia donato qualcosa a questo posto, che possono considerare la loro casa”.serra.guarnieri

L’educazione ambientale oggi

Concludiamo il nostro incontro con Fabrizio e Valeria con una riflessione sul ruolo dell’educazione ambientale e di come si sia trasformato, nel corso degli ultimi anni, il ruolo di questa nella nostra società: “Noi, oggi, dobbiamo assolutamente rivedere i nostri stili di vita, dobbiamo rimettere in discussione tutto! Quindi oggi, secondo noi, fare educazione ambientale non si limita più a far conoscere il nome di una pianta o di un animale, ma è capire insieme cosa stiamo mangiando, cosa compriamo quando facciamo la spesa e dove, con quale mezzo andiamo a scuola. Tutto questo si inserisce in una visione che deve essere globale, dove ognuno ha il proprio ruolo nelle decisioni assunte nella vita di tutti i giorni”.

Intervista: Daniel Tarozzi

Realizzazione video: Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/06/io-faccio-cosi-217-serra-guarneri-borgo-abbandonato-diventa-un-centro-educazione-ambientale/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

La nuova vita di Antonella, ambasciatrice della Sicilia più vera

Abbiamo intervistato Antonella, architetto palermitano, innamorata della sua Sicilia e in particolare del borgo di Petralia Soprana. Dopo la crisi edilizia ha ristrutturato la vecchia casa di famiglia trovandoci dentro curiosità e testimonianze che ha voluto condividere con tutti, trasformando questo luogo in un b&b-museo. Succede spesso che un nuovo, entusiasmante percorso di vita scaturisca da un momento di difficoltà. Così è successo ad Antonella, che grazie a una crisi lavorativa ha riscoperto l’amore per la sua Terra – la Sicilia –, condividendolo con le persone che la vanno a trovare nella vecchia casa di famiglia, ristrutturata a trasformata in b&b, oggi parte della rete di Destinazione Umana.

Com’era la tua vita prima del b&b e com’è cambiata adesso?

Sono un architetto libero professionista palermitano e per 30 anni ho sempre lavorato con passione nel settore degli appalti pubblici, progettando e dirigendo anche opere importanti in giro per tutta la Sicilia. Dal 2011 è iniziata una profonda crisi che ha colpito in particolare questo settore, il lavoro si è ridotto, molti architetti hanno chiuso gli studi, alcuni addirittura per la disperazione si sono suicidati. Anche io ho rischiato di cadere nella depressione. Ho capito subito che dovevo mettere in atto una strategia di rinascita per non sprofondare. Dovevo valorizzare e capitalizzare ciò che avevo. Ritrovare e riattivare anche in me stessa le energie e i talenti che a volte rimangono sopiti quando “ tutto va bene”.

Ed ecco che nel 2015 ho deciso di trasformare la casa di famiglia in montagna in un luogo di accoglienza e di narrazione, non quindi un semplice B&B , ma un luogo propulsore di energia positiva, una fucina di creatività per me e per chi vi alloggia, un nido dove rifugiarsi. Ho curato ogni cosa nei particolari per fa si che ogni angolo della casa potesse trasmettere questo messaggio. In questa casa ho ricominciato a dipingere, a scrivere poesie, comporre racconti e stare nuovamente bene con me stessa, con la mia famiglia e con tutti “ i nuovi amici” che scelgono di trascorrere qualche giorno nel mio B&B.petralia1

Raccontaci in due parole la “tua” Sicilia e come cerchi di trasmetterla ai visitatori.

Io amo profondamente la mia Sicilia, in particolare il suo essere un microcosmo agro-dolce, sono proprio i contrasti di questa terra che affascinano i viaggiatori. In particolare amo Palermo, magnifica città dove sono nata e vivo, adoro la moltitudine di stili architettonici che la caratterizzano, il sincretismo culturale generato da secoli di dominazioni, il magico clima mediterraneo che ti permette di pranzare in riva al mare a gennaio e fare il bagno di notte sotto le stelle a ottobre. La grande risorsa della Sicilia è il valore delle relazioni umane che ancora fortemente lega le persone. E poi Petralia Soprana, piccolo borgo immerso nel Parco delle Madonie, per me è come un gioiello delicato dove rifugiarsi, dove, dall’alto (ci troviamo a 1117 metri ) osservare il mondo, dove respirare a pieni polmoni. Qui i ritmi rallentano rispetto alla città, il Silenzio ti avvolge e lo sguardo si allunga felice verso l’orizzonte. Palermo e Petralia Soprana si fondono in me come in uno yin e yang. Tutto questo cerco di trasmetterlo ai miei ospiti, portandoli in giro con me o consigliandoli su cosa visitare.

Hai detto che Petralia rappresenta il femminile e Palermo il maschile, in un perfetto equilibrio fra uomo e Natura. Ma come vedi questo equilibrio nella società moderna?

Ho detto che Palermo e Petralia sono per me come uno yin e yang , una coincidenza oppositorum , dove la grande città può rappresentare la forza, la velocità e quindi un luogo dove emerge una componente simbolicamente maschile, mentre Petralia, piccolo borgo di montagna immerso nella Natura, può rappresentare la delicatezza, la lentezza, caratteristiche più tipicamente femminili, ma è nella loro fusione che si genera l’armonia e l’equilibrio. Oggi , grazie anche alla crisi, si è più consapevoli che un ritorno ai valori originari nel rispetto della Natura è l’unica strategia di salvezza.

Chi era il pittore di Petralia?

In questa casa, che era la casa dei nonni di mio marito ha vissuto uno degli zii, Vittorio Cerami; si era imbarcato come giovane marinaio nella Reale Marina Militare Italiana e ha vissuto una delle battaglie navali più disastrose della II Guerra Mondiale, infatti l’intera flotta della Marina Italiana fu affondata e distrutta dalla Marina inglese durante la notte del 28 marzo 1941 sulla costa dell’Egeo vicino Capo Matapan. Lo zio Vittorio fu uno dei pochi sopravvissuti, ma quella terribile esperienza lo segnò profondamente. Appena arrivato a casa, pur non avendo le nozioni nelle arti della pittura, iniziò a dipingere. È stato sicuramente un mezzo catartico, come le arti in generale, per raccontare e liberare dalla propria anima le sofferenze vissute in quella notte. Ha dipinto tanti quadri fra cui proprio quello della notte della battaglia. Quando io ho ristrutturato questa casa , ho trovato quasi 50 quadri e ho deciso di dedicare la casa a questa storia. Si chiama “ la casa del pittore di Petralia” proprio perché racconta la questa storia attraverso i suoi quadri.petralia3

Perché è importante la narrazione per stabilire un legame umano?

La narrazione, che non è la stessa cosa di raccontare semplicemente una storia, è un mezzo importante per entrare in connessione con l’altro. È indispensabile che la narrazione abbia origine da una forte passione da comunicare e che si utilizzino tutti i sensi per trasmettere le emozioni.  Se i luoghi hanno un’anima, se chi ti accoglie ha una vera passione, la narrazione diventa il mantra attraverso il quale entrare in sintonia.

Cosa consiglieresti a chi vorrebbe seguire un percorso simile al tuo, cambiando vita e riscoprendo passioni e luoghi?

È importante cercare la propria passione interiore e da quella generare una “storia“ da raccontare riconnettendosi con le proprie origini e con i propri talenti.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/02/nuova-vita-antonella-sicilia-vera/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni