Drop 99, sulla piattaforma di crowdfunding Ulule arriva il progetto italiano che porta acqua pulita nei Paesi in via di sviluppo

Un filtro portatile rivoluzionario, a bassissimo costo, che permette di bloccare il 99,99999% di tutti i batteri contenuti nelle acque inquinate, per garantirne l’assunzione senza il problema di contrarre malattie batteriche: è Drop 99, il progetto made in Italy che, per svilupparsi, cerca i fondi necessari attraverso il crowdfunding su Ulule.com, la piattaforma internazionale con la più alta percentuale al mondo di progetti finanziati con successo. I dati del World Health Organization (WHO) parlano chiaro: entro il 2025 metà della popolazione del mondo vivrà in zone water-stressed e, senza un’inversione di tendenza, 3,4 miliardi di persone potrebbero non avere accesso all’acqua potabile. Ad ora, spiega l’Organizzazione Mondiale della Sanità, quasi 2 miliardi di persone sono costrette a utilizzare, per bere e lavarsi, una fonte di acqua contaminata, rischiando di contrarre malattie mortali come colera, dissenteria, tifo e poliomielite: si calcola che l’acqua potabile contaminata causi più di 500.000 morti ogni anno. Per evitare questo scenario è sempre più necessario sviluppare tecnologie che consentano alle persone di bere senza contrarre malattie provenienti dai batteri. Proprio da questa necessità prende il via il progetto made in Italy Drop 99, un filtro portatile low cost che permette di bloccare il 99,99999% di tutti i batteri contenuti nelle acque inquinate, garantendone l’assunzione in sicurezza, senza contrarre malattie batteriche. Un progetto rivoluzionario per praticità e costo, che ne consentirà la produzione e distribuzione su larga scala. L’idea è stata lanciata dagli inventori Luca Bastagli Ferrari​, Giorgio Ghiselli​, Fabio Caresi​, Pietro Miserendino​ su Ulule, la piattaforma di crowdfunding reward-based con la più alta percentuale di successo per progetti finanziati al mondo. Grazie ad Ulule sono stati infatti raccolti oltre 75 milioni di euro e portate al goal più di 17.000 campagne da oltre un milione e mezzo di utenti in 200 Paesi. Dapprima presente solo sulla piattaforma italiana, ora Drop 99 si sposterà anche su quella internazionale permettendo a migliaia di utenti di contribuire allo sviluppo del progetto. Il filtro garantisce le stesse performance di altri presenti sul mercato ma ad un prezzo così accessibile che ne consentirà una maggiore distribuzione in loco. In più, la società SWP (Sustainable Water Project) che ha lanciato il progetto, intende realizzare la prima campagna educativa per diffondere nelle popolazioni la cultura del ”BERE BENE”, ovvero la corretta educazione alla depurazione dell’acqua. Grazie ai fondi raccolti su Ulule, il team di Drop 99 si recherà infatti in paesi come Nigeria, Kenya, Tanzania, Madagascar, Guatemala, Equador per donare il dispositivo a bambini e famiglie, permettendogli così di bere in totale sicurezza.unnamed

Chi è Ulule:

Ulule è la principale piattaforma di reward-based crowdfunding d’Europa.
Nata in Francia nell’ottobre 2010, ha permesso di finanziare più di 17.000 progetti con una raccolta di oltre 75 milioni di euro, diventando, con il 68% di tasso di successo, il portale di crowdfunding con la maggiore percentuale di raggiungimento del goal al mondo.

Fonte: agenziapressplay.it

Sicurezza alimentare a rischio a causa dei cambiamenti climatici

Numerosi report sottolineano i condizionamenti del clima sulla sicurezza alimentare delle popolazioni dei Paesi poveri e in via di sviluppo.

cambiamenti climatici mettono a rischio la sicurezza alimentare. Se ne parla in questi giorni al Salon de l’agricolture di Parigi, dove scienziati e studiosi cercano di delineare soluzioni che permettano ai sistemi agricoli di adattarsi ai cambiamenti climatici. Il tema della sicurezza alimentare è stato trascurato dai precedenti negoziati sul clima, ma non sarà alla Conferenza mondiale sul clima che si terrà a Parigi nel prossimo dicembre. Se l’obiettivo prioritario resta il contenimento del riscaldamento globale entro i 2° C, i climatologi e gli scienziati sul fronte del contenimento dei cambiamenti climatici riconoscono la necessità di assicurare la resilienza alle popolazioni maggiormente vulnerabili e la sicurezza alimentare e la sussistenza ai Paesi in via di sviluppo. Secondo la Fao, la produzione alimentare dovrà aumentare del 70% nei prossimi trent’anni affinché possano essere nutriti i 9 miliardi di abitanti che il pianeta conterà nel 2050, a fronte degli attuali 7 miliardi. Attualmente circa 805 milioni di persone soffrono la fame e, secondo il Programma Onu per lo sviluppo, da qui al 2080 altri 600 milioni di persone soffriranno la fame, soprattutto a causa dell’effetto dei cambiamenti climatici. Il riscaldamento globale aumenta il margine d’incertezza sulla produzione agricola: in alcune aree del mondo come l’Africa subsahariana e il Sud-Est asiatico l’agricoltura rappresenta l’80% della sussistenza della popolazione. Ciò significa che eventi climatici avversi rischiano di mettere in pericolo la sussistenza per ampie fasce della popolazione. Nel rapporto dell’IPCC pubblicato a novembre si legge che senza un reale sforzo di adattamento da parte dell’agricoltura alle nuovi condizioni climatiche, la produzione delle tre grandi colture globali (grano, riso e mais) potrebbe diminuire del 2% nel prossimo decennio. L’abbassamento della produzione, già presente nelle zone temperate, ha ripercussioni fortemente negative sulla produzione nei Paesi tropicali: gli eventi meteo estremi più frequenti e più estremi hanno come immediata conseguenza il rialzo o, comunque, una maggiore volatilità dei prezzi alimentari. Secondo l’Ong Oxfam il prezzo medio delle derrate base potrebbe più che raddoppiare nei prossimi vent’anni in rapporto ai prezzi osservati nel 2010.Fracking In California Under Spotlight As Some Local Municipalities Issue Bans

Fonte: Le Monde

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Cambiamenti climatici COP20, da Lima l’ing.Natale Caminiti di Enea: “Non ci saranno grandi decisioni”

Abbiamo preso la direzione giusta, ma non basta ancora e da Lima probabilmente non arriveranno grandi decisioni. Ecco l’hangout con Natale Massimo Caminiti, ricercatore per ENEA e tra i partecipanti ai lavori Cop20. Sul piatto della discussione a Lima alla COP20 ci sono gli accordi per la riduzione globale delle emissioni di gas climalteranti. Ma come fa notare l’Ing Natale Massimo Caminiti ricercatore per ENEA a questa tornata probabilmente non si giungerà a grandi risultati poiché si attende il più importante incontro di Parigi nel dicembre del 2015, fissato a Durban durante la COP19 quando dovrebbe essere attivato quel Kyoto 2 che entrerà in funzione dal 2020. Mancano però le firme più importanti quali Cina, Usa, Canada, Russia, Giappone e Brasile. Al centro delle discussioni, lo dico a chiare lettere, ci sono quei 100 miliardi di dollari all’anno che i Paesi ricchi dovrebbero versare ai paesi poveri attraverso il Fondo verde per il clima. A Doha, durante la COP18 si chiusero i negoziati Cina e Usa hanno stretto tra di loro l’accordo che non necessariamente potrà fare la differenza, anche perché al momento slegato da Kyoto2. Per ora a Lima si discute su due documenti: un’allegato su una bozza di negoziato e un allegato che dovrebbe contenere informazioni supplementari., Nel primo si discute di impegni di riduzione; contributi volontari e azioni da effettuare. Il punto da stabilire è chi deve fare che cosa. I Paesi sviluppati dovrebbero assumere impegni quantificati di riduzione delle emissioni e i Paesi in via di sviluppo devono incentrare la loro politica sull’evitare le emissioni seppur puntando a una crescita economica. Il testo negoziale dovrebbe essere legalmente vincolante e definire tra le altre cose anche come comunicare gli impegni e le risorse messe a disposizione; e le risorse devono essere orientate verso interventi di mitigazione o di adattamento? E poi il Fondo verde per il clima, ovvero quel salvadanaio che dovrebbe essere riempito di soldi: da distribuire sopratutto ai Paesi in via di sviluppo chi lo riempie di danaro e con quanto?PERU-COP20-CMP10-KYOTO-PROTOCOL

Dice l’Ing. Caminiti:

Due punti deboli sono il trasferimento tecnologico dai paesi sviluppati ai paesi in via di sviluppo e le disponibilità finanziare. Le risorse ci sono e vanno rioritatate in una economia circolare che tenga conto di una società low carbon. Altro punto debole è la strumentazione. Quello di cui si parla oggi è un sistema di Emission trading che adottiamo nell’Unione europea tale che oltre il tetto di emissioni si passi poi alla compravendita; l’altro è la carbon tax, ovvero tassare i combustibili fossili in base al loro contenuto di carbonio; infine l’ultimo strumento è la defiscalizzazione carbonica dei prodotti servizi che vengono commercializzati a livello mondiale. Probabilmente un strumento che vada a defiscalizzare prodotti che hanno un minor contenuto di carbonio che possa permettere complessivamente la diminuzione delle emissioni.

Fonte: ecoblog.it

Protocollo di Kyoto: che cos’è

Sono passati diciassette anni dalla firma del protocollo di Kyoto, il principale strumento messo in atto dalle Nazioni Unite per limitare i cambiamenti climatici. Fra pochi giorni saranno trascorsi diciassette anni dall’11 dicembre 1997, il giorno in cui 180 Paesi, in occasione della Conferenza COP3 della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, firmarono il protocollo di Kyoto, il principale trattato internazionale in materia ambientale riguardante i cambiamenti climatici e il riscaldamento globale. Ci vollero più di sette anni perché, in seguito alla ratifica da parte della Russia, il trattato entrasse in vigore il 16 febbraio 2005. Il trattato – il cui protocollo è stato prolungato sino al 2020, otto anni in più della scadenza fissata al 2012 – prevede l’obbligo di operare una riduzione delle emissioni di elementi inquinanti quali il biossido di carbonio, il metano, l’ossido di azoto, gli idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafluoruro di zolfo in una misura non inferiore all’8% rispetto alle emissioni registrate nel 1990 nel periodo 2008-2013. La condizione affinché il trattato potesse entrare in vigore era che le nazioni firmatarie fossero almeno 55 e che contribuissero al 55% delle emissioni inquinanti: come anticipato in precedenza solamente grazie alla firma della Russia nel novembre 2004 si è potuto far entrare in vigore il trattato. A oggi, a diciassette anni dalla stesura e a dieci dall’entrata in vigore sono 191 i Paesi che hanno ratificato il protocollo. Il protocollo prevede meccanismi flessibili con i quali i Paesi aderenti possono acquisire crediti: con il Clean Development Mechanism e il Joint Implementation i Paesi industrializzati possono realizzare progetti, nei Paesi in via di sviluppo o in altri Paesi aderenti, atti a produrre benefici ambientali in termini di riduzione dei gas-serra e a far acquisire crediti spendibili autonomamente o insieme ai Paesi partner. Con l’Emission Trading i Paesi industrializzati e quelli a economia in transizione possono scambiarsi i crediti. I Paesi in via di sviluppo non sono stati invitati a ridurre le loro emissioni. Fra i Paesi che avevano firmato il protocollo nel 1997 una delle ratifiche più tardive è stata quella dell’Australia avvenuta solamente il 2 dicembre 2007. Per quanto riguarda l’Italia, il 16 marzo 2012 il ministro dell’ambiente del Governo Monti,Corrado Clini, ha stanziato un Fondo rotativo per Kyoto da 600 milioni di euro per finanziare, attraverso tassi agevolati di interesse, le energie rinnovabili, gli interventi atti a potenziare l’efficienza energetica e le tecnologie di cogenerazione e trigenerazione. Gli Stati Uniti, responsabili del 36,2% delle emissioni mondiali di biossido di carbonio, non hanno mai firmato il Protocollo di Kyoto.Fracking In California Under Spotlight As Some Local Municipalities Issue Bans

© Foto Getty Images

Fonte: ecoblog.it

Sei mosse per ridurre il consumo di acqua

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Avete mai pensato a quanta acqua si risparmierebbe chiudendo il rubinetto ogni volta che ci si lavano i denti? Se non lo avete mai fatto questo è il momento giusto. Secondo una ricerca pubblicata su Nature Geoscience, un utilizzo più parsimonioso nel consumo domestico di acqua, unitamente ad altre “piccole” accortezze, permetterebbe di soddisfare il bisogno idrico globale entro il 2050. Sì, ma come?

La scarsità d’acqua non è un problema che riguarda solo i Paesi in via di sviluppo. In California, per esempio, si sta proponendo un piano di emergenza per il rifornimento idrico di ben 7,5 miliardi di dollari e negli Stati Uniti lo scorso anno i funzionari federali hanno avvertito la popolazione dell’Arizona e del Nevada che entro il 2016 sarà necessario affrontare dei tagli nel rifornimento idrico proveniente dal fiume Colorado. Alla radice del problema, apparentemente insormontabile, non ci sono solo le abitudini domestiche, ma anche le moderne tecniche di irrigazione, l’utilizzo di risorse idriche da parte degli impianti industriali nonché i cambiamenti climatici del pianeta. Lo stress idrico a cui sono sottoposte molte aree è dovuto allo sfruttamento dell’acqua dei fiumi, soprattutto in zone in cui oltre il 40% di tale acqua è già utilizzato; una situazione questa che riguarda circa un terzo della popolazione mondiale e che entro la fine del secolo potrebbe colpirne più della metà, se lo sfruttamento di risorse idriche continuerà a questo ritmo. Per ridurre lo stress idrico, gli autori dello studio hanno quindi individuato sei strategie. Fra le misure “soft” l’introduzione di nuove tecniche di coltura, unitamente ad una maggiore efficienza dei nutrienti agricoli; il miglioramento delle infrastrutture idriche, tramite il passaggio a sistemi di irrigazione a interruttore; l’utilizzo più parsimonioso del consumo di acqua domestica e industriale e, persino, una limitazione nel tasso di crescita della popolazione (da mantenere entro il 2050 al disotto degli 8,5 miliardi), potrebbero diminuire considerevolmente l’utilizzo d’acqua a livello mondiale. Ma i ricercatori hanno individuato anche delle soluzioni “hard” fra cui la possibilità di aumentare lo stoccaggio di acqua nei serbatoi e la desalinizzazione dell’acqua di mare. “Non esiste un unico metodo per affrontare il problema in tutto il mondo”, sostiene Tom Gleeson del Dipartimento di Ingegneria Civile del McGill e fra gli autori dello studio. “Ma, guardando il problema su scala globale, abbiamo calcolato che se quattro di queste strategie sono applicate allo stesso tempo è effettivamente possibile stabilizzare il numero di persone che nel mondo hanno problemi di stress idrico, piuttosto che continuare a consentire a questo numero di crescere, che è ciò che accadrà se continuiamo con il modello di business attuale”. “Riduzioni significative di stress idrico sono possibili entro il 2050”, aggiunge il co-autoreYoshihide Wada del Dipartimento di Geografia fisica dell’Università di Utrecht “ma un forte impegno e sforzi strategici sono necessari perché ciò accada.”

Riferimenti: Nature Geoscience Doi: 10.1038/ngeo2241

Credits immagine: Ian Sane/Flickr

Fonte: galileonet.it

Storie del vento: turbine open source, eolico di comunità… e di monastero!

Dall’Africa, all’America Latina all’Europa, il mini eolico rappresenta un’opportunità per le piccole comunità locali

Oggi è la giornata globale del vento; questa giovane ricorrenza è nata del 2007 sull’onda della crescita globale dell’energia eolica, decuplicata negli ultimi dieci anni. Con la colonna sonora piuttosto appropriata di Wind of change (video qui sopra), vogliamo oggi ripercorre alcune storie del vento, cioè di come l’energia eolica, anche se di media o piccola scala,  ha cambiato la vita di persone e comunità.

Turbine open source in Africa e America Latina

Piet Chevalier è un ingegnere olandese che ha fondato I love windpower, un’associazione che promuove lo sviluppo dell’eolico di piccola scala con progetti che si inseriscono nelle economie locali di paesi in via di sviluppo, sia in Africa (Mali, Tanzania, Malawi) che in America Latina (Messico, Brasile). Sfruttando un progetto di turbina open source sviluppato dall’ingegnere gallese Hugh Piggott, Chevalier sta insegnando a giovani africani e americani come progettare, costruire e installare micro turbine eoliche. Si tratta di impianti di potenza minima, pochi kilowatt di picco, che sono però perfettamente adatti alle disponibilità tecnico-finanziarie e alle esigenze di molti piccoli centri rurali.

Eolico di comunità in Polonia

L’eolico di comunità non è solo esclusiva della Germania. A Kobylnica, un piccolo centro nella vicina Polonia, sono state installate 18 turbine con una produzione annua di quasi 100 GWh; gli agricoltori dicono di aver vinto la lotteria, perché ricevono un significativo affitto dai produttori, ma tutti i cittadini ne beneficiano perché le tasse pagate dalle turbine rappresentano oltre il 10% del bilancio comunale.

Pale eoliche nel monastero ortodosso

Romania, Monastero di San Cassiano (delta del Danubio). Per risolvere il problema del rifornimento energetico, una decina di anni fa i monaci ortodossi hanno costruito una mini turbina eolica utilizzando l’alternatore di un autocarro.  L’impianto permette di alimentare frigorifero, lavatrice, ompa di calore, luci e un laptop, oltre a pompare l’acqua dal pozzo. Altri dieci monasteri hanno seguito l’esempio di San Cassiano e si producono l’energia da sè.

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Fonte: ecoblog.it

Rifiuti tecnologici: la denuncia Onu sull’e-waste nelle nazioni povere

Ogni anno 50 milioni di rifiuti tecnologici prendono la via dei Paesi in via di sviluppo. Ora l’Onu ha deciso di contrastare il fenomeno108037900-586x390

Milioni e milioni di telefoni cellulari, computer portatili, tablet, giocattoli, fotocamere digitali e dispositivi digitali che anche questo Natale saranno le strenne più desiderate da grandi e piccini, diventeranno fra uno, due, cinque, dieci anni rifiuti tecnologici destinati ai Paesi poveri. È una denuncia senza mezzi termini quella che arriva dall’Onu. Il volume globale dei rifiuti elettronici è destinato a crescere del 33% nei prossimi quattro anni: nel 2017 sarà pari a otto piramidi grandi come quelle di Giza e le Nazioni Unite hanno deciso di muoversi per affrontare questo problema in costante crescita. L’anno scorso quasi 50 milioni di tonnellate di di e-waste sono state generate in tutto il mondo, con una media di 7 chilogrammi per ogni persona sul pianeta. I rifiuti tecnologici sono estremamente pericolosi perché contengono piombo, mercurio, cadmio, arsenico e ritardanti di fiamma. Un vecchio monitor, per esempio, può contenere fino a 3 kg di piombo. I danni per l’ambiente sono elevatissimi. Una volta in discarica i materiali tossici fuoriescono nell’ambiente contaminando la terra, l’acqua e anche l’aria e chi smonta questi materiali lo fa senza protezioni ed è esposto alle malattie. L’Interpol ha stimato che un container su tre di quelli diretti verso i Paesi in via di sviluppo, contiene rifiuti tecnologici. La durata degli elettrodomestici si accorcia sempre di più e fra i consumatori è una gara per acciuffare gli ultimi modelli. La nazione che accumula il maggior numero di rifiuti è la Cina con 11,1 milioni di tonnellate, seguita da Stati Uniti con 10 milioni di tonnellate. Per quanto riguarda, invece, i rifiuti pro-capite l’impatto maggiore è quello degli statunitensi che buttano 29 chili e mezzo di rifiuti tecnologici all’anno, contro i 5 kg dei cinesi. Esportare merci di scarto all’estero è legale se possono essere riutilizzati o rigenerati. Se non è così, i carghi che partono per Asia e Africa sono solamente un pretesto per smaltire i rifiuti illegalmente, con una filosofia neo-liberista che vede i Paesi cosiddetti “sviluppati” sfruttare i paesi poveri due volte: prima con la sottrazione delle risorse, dopo con lo smaltimento degli scarti prodotti dal proprio benessere.

Fonte:  The Guardian

Due banche negli USA e in Europa scelgono di non finanziare più impianti a carbone

La banca pubblica USA per l’import-export e la banca europea per lo sviluppo hanno definito nuove linee guida per finanziare gli impianti di produzione di energia ponendo stretti limiti alle centrali a carbone. Per la prima volta si inizia a capire che le attività economiche non sono tutte ugualiCentrale-a-carbone-Asia-586x389

La Export-Import Bank degli Stati Uniti ha deciso di non finanziare più centrali elettriche a carbone nei paesi in via di sviluppo né impianti ad alta emissione di CO2. «Senza limiti o linee guida, un numero crescente di impianti continuerà a emettere inquinamento da carbonio nell’aria che respiriamo», ha detto Fred P. Hochberg, presidente della Ex-Im Bank, che è un organismo ufficiale del governo federale USA e che quindi ha recepito la politica dell’amministrazione Obama per la riduzione dell’inquinamento. La stessa cosa sta avvenendo in Europa dove la European Bank for Reconstruction and Development, una banca pubblica con larga partecipazione dell’UE, sta ponendo limiti stringenti al finanziamento di nuovi impianti inquinanti a carbone. Il suo amministratore, Riccardo Puliti (nomen omen?) ha così commentato: «“Non possiamo usare il carbonio senza pensare al suo impatto sui cambiamenti climatici. Sono un problema e dobbiamo  agire per risolverlo». In passato, questi istituti di credito sono stati piuttosto prodighi nel sostenere il carbone, con circa 3 miliardi di € negli ultimi 20 anni la Ex-Im Bank e con 800 milioni di € negli ultimi 7 la EBRD. Questo non significa che non si faranno più impianti a carbone, perchè le banche private continuano a finanziarli, ma è almeno il primo timido segnale che qualcosa sta cambiando: i banchieri non hanno improvvisamente scoperto un’anima verde, ma sono più che altro terrorizzati dalla bolla del carbonio. L’importante è che si smetta di usare risorse pubbliche per avvelenare il clima.

Fonte: ecoblog

10.Un’impostazione europea sulla sostenibilità

Attraverso una serie di misure legislative, i responsabili politici dell’UE mirano a rendere l’Europa più efficiente sotto il profilo delle risorse. Ma come può l’Europa trovare un equilibrio tra economia e natura? Nell’ambito della conferenza Rio+20, qual è il significato della parola sostenibilità per l’UE e le aree in via di sviluppo? Presentiamo un punto di vista. Intervista con Gerben-Jan Gerbrandy Gerben-Jan Gerbrandy è stato un membro del Parlamento europeo nel gruppo dell’Alleanza dei Liberali e dei Democratici per l’Europa dal 2009. Proviene dal partito liberale olandese «Democrats 66».29

Qual è la sfida maggiore a cui è sottoposto l’ambiente? Come possiamo affrontarla?

«La sfida maggiore è costituita dall’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali. Il consumo umano va ben oltre i limiti naturali del nostro pianeta. Il nostro modo di vivere, più nello specifico il nostro modo di gestire l’economia, semplicemente non è sostenibile. La popolazione mondiale raggiungerà i nove miliardi entro qualche decennio e avrà bisogno del 70% di cibo in più. Di conseguenza, una seconda sfida riguarda i modi per nutrire questa crescente popolazione, dal momento che già stiamo già affrontando il problema della scarsità di numerose risorse. Per affrontare queste sfide, è necessario modificare le basi della nostra economia. Ad esempio, le nostre economie non pongono un valore economico su un’ampia serie di benefici che riceviamo gratuitamente. Il valore di una foresta è preso in considerazione quando la si trasforma in legname, ma non quando viene mantenuta intatta. Il valore delle risorse naturali dovrebbe, in qualche modo, essere riflesso nell’economia.»

Possiamo veramente cambiare le basi della nostra economia?

«Ci stiamo lavorando. Ritengo che presto riusciremo a trovare dei modi per inserire il valore completo delle risorse naturali all’interno dell’economia. Ma, fatto ancora più importante, vi sono tre elementi chiave che stanno costringendo l’industria a diventare più efficiente dal punto di vista delle risorse. Il primo è la scarsità delle risorse. Di fatto, siamo in presenza di ciò che chiamo la «rivoluzione industriale verde». La scarsità delle risorse costringe le imprese a impostare processi per il recupero e il riutilizzo delle risorse o a cercare altri modi per utilizzare le risorse in modo efficiente.  La spinta al consumo costituisce un altro elemento. Guardiamo le pubblicità. I grandi produttori di automobili non parlano più di velocità, ma di prestazioni ambientali. Inoltre, le persone sono notevolmente più consapevoli dell’immagine dell’impresa per cui lavorano. Il terzo elemento è la legislazione. Abbiamo costantemente bisogno di migliorare la legislazione in materia ambientale poiché  non tutto può essere conseguito tramite le pressioni del mercato, la scarsità delle risorse e la spinta dei consumatori.»30

Qual è il fattore più importante che determina le scelte del consumatore?

«Senza dubbio il prezzo. Per ampi segmenti della società, scegliere in base a ragioni diverse dal prezzo costituisce un lusso. È tuttavia possibile scegliere di consumare prodotti alimentari di stagione e locali, oppure prodotti freschi, che spesso sono perfino più economici. Per queste persone, e per la società nel suo complesso, ciò comporta evidenti benefici per la salute. La scelta di un’opzione più sostenibile dipende dall’infrastruttura nonché dalla consapevolezza della gente del loro impatto sull’ambiente. Se non è presente alcuna infrastruttura per il trasporto pubblico, non possiamo aspettarci che la gente smetta di recarsi al lavoro in auto. Oppure, nel caso della legislazione, se non siamo in grado di spiegare il valore di certe norme o leggi, sarà quasi impossibile applicarle. Abbiamo bisogno di coinvolgere e convincere le persone. Ciò richiede spesso la traduzione delle nozioni scientifiche nella lingua di tutti i giorni, a beneficio non solo dei cittadini, ma anche dei responsabili politici.»

Cosa può rendere un «successo» la conferenza Rio+20?

«Abbiamo bisogno di risultati concreti, come un accordo relativo a un nuovo quadro istituzionale od obiettivi specifici sull’economia verde. Ma, anche in assenza di risultati concreti, la conferenza può avere una grande influenza. Sono un convinto sostenitore della creazione di un tribunale internazionale per i crimini ambientali o di un quadro istituzionale che eviti il ripetersi di situazioni di stallo come quelle che abbiamo sperimentato nelle recenti tornate di negoziati sull’ambiente. Indipendentemente dai progressi compiuti nella creazione di tali istituzioni, solamente il fatto che stiamo discutendo e provando a trovare soluzioni congiunte costituisce un enorme passo in avanti. Fino a poco tempo fa, i negoziati globali sull’ambiente dividevano il mondo in due parti: i paesi sviluppati e i paesi in via di sviluppo. Ritengo che ci stiamo allontanando da tale approccio bipolare. A causa della maggiore dipendenza economica dalle risorse naturali, molti dei paesi in via di sviluppo saranno tra i primi a subire le conseguenze della scarsità delle risorse. Se la conferenza di Rio riuscirà a convincere molti di essi ad adattarsi a pratiche più sostenibili, la considererò un grande successo.»

In tale contesto, l’Europa può aiutare il mondo in via di sviluppo?

«Il concetto di economia verde non è importante solamente per i paesi sviluppati. Esso può di fatto prevedere una prospettiva più lunga. Al momento, molti dei paesi in via di sviluppo stanno vendendo le proprie risorse naturali a prezzi molto bassi. Le prospettive a breve termine sono allettanti, ma potrebbero anche significare che i paesi stanno svendendo il loro benessere e la loro crescita futuri. Tuttavia, ritengo che la situazione stia cambiando. I governi si stanno preoccupando maggiormente delle implicazioni a lungo termine delle esportazioni delle risorse. In numerosi paesi in via di sviluppo l’industria ha iniziato a investire anche nella sostenibilità. Così come le loro controparti nei paesi sviluppati, anch’essi affrontano la scarsità  delle risorse. Ciò costituisce un incentivo finanziario molto forte per le imprese di tutto il mondo. Personalmente, ritengo che potremmo contribuire aprendo i nostri mercati agricoli e permettendo a questi paesi di generare più valore aggiunto. Attualmente, le imprese straniere arrivano ed estraggono le risorse e vi è solo un minimo input economico da parte della popolazione locale. L’agricoltura in generale è fondamentale. Se guardiamo alle sfide future connesse alla produzione alimentare globale, è evidente che abbiamo bisogno di più cibo e per fare ciò occorre aumentare l’efficienza produttiva nei paesi in via di sviluppo. Una maggiore produzione agricola nei paesi in via di sviluppo ridurrebbe inoltre le loro importazioni alimentari.»

Come cittadino europeo, cosa significa per Lei «vivere in modo sostenibile»?

«Significa una serie di piccole cose, come indossare un maglione invece di alzare il riscaldamento, utilizzare i trasporti pubblici invece dell’automobile ed evitare di viaggiare in aereo se possibile. Significa anche portare i miei figli, ma anche gli altri, a conoscenza del concetto di sostenibilità e dell’impatto delle loro scelte quotidiane. Non posso affermare che per me è sempre possibile evitare di viaggiare in aereo, data la mia posizione. Ma questo è il motivo per cui dobbiamo rendere il viaggio in aereo più sostenibile insieme ai nostri modelli di consumo non sostenibili. Questa è la sfida dell’economia verde.»

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)