Banca Mondiale, Giano Bifronte

La Banca Mondiale gioca due ruoli: quello di banca (e come tutte le banche moderne tende sempre più a finanziarizzarsi, cioè a guadagnare denaro comprando e vendendo denaro) e quello di agenzia di sviluppo (sottraendo funzioni ad altre agenzie di sviluppo che si occupano degli stessi settori, la salute in questo caso). Quanto sono conciliabili questi due ruoli, senza che uno sia svolto a discapito dell’altro?9804-10590

Idee con i denti: questo è il termine colloquiale con cui si riferisce alla Banca Mondiale (BM) l’incipit del primo dei 5 articoli di una serie dedicata recentemente alla stessa dal British Medical Journal (BMJ), in collaborazione con alcuni ricercatori dell’Università di Edimburgo. Idee con i denti perché la BM combina prestigio intellettuale e potere finanziario, due elementi necessari per garantire che ciò che i suoi vertici decidono si traduca in realtà. In questo primo articolo, gli autori analizzano in dettaglio le politiche di credito al settore salute della BM, credito quasi sempre accompagnato da un sostegno “tecnico” su come usare il denaro e da alcune condizioni.

Condizioni che chi, come me, ha attraversato gli ultimi 4 decenni di politiche sanitarie internazionali conosce bene: piani di aggiustamento strutturale, tagli ai finanziamenti pubblici, pagamenti a prestazione, privatizzazione dei servizi sanitari. Il tutto imposto per circa 2 decenni dall’inizio degli anni ’80 del secolo scorso. Le chiamavano riforme, e credo che risalga a quell’epoca il cambiamento semantico che ha trasformato il termine “riforma” da positivo a negativo. Attualmente, quando sentiamo parlare di riforme, ci mettiamo a tremare, perché sappiamo ciò che ci aspetta.

La BM poteva imporre le sue riforme, perché controllava i cordoni della borsa. Per lungo tempo è stata il maggiore finanziatore di programmi e progetti sanitari a livello globale. E lo è ancora, anche se in proporzione un po’ meno dopo l’entrata di altri attori nel mercato dei fondi per la salute. All’inizio della sua storia, dalla sua fondazione nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods fino al 1968, quando è stato nominato alla presidenza Robert McNamara, già ministro della difesa negli USA della guerra in Vietnam, la BM non spendeva in salute; tutti i fondi andavano in grandi progetti infrastrutturali (dighe, strade, industria, agricoltura). Fu McNamara il primo ad investire in salute, cominciando dalla pianificazione familiare e dal controllo dell’oncocerchiasi. Ma ancora nel quinquennio 1985-89 gli investimenti per la salute ammontavano a poco meno di 1.4 miliardi di dollari, l’1% del totale investito. Da allora però la crescita è stata impressionante, fino ad arrivare agli oltre 32 miliardi del quinquennio 2010-14, il 12% del totale investito. E se all’inizio la totalità dei fondi per la salute andava a programmi verticali, il sostegno ai bilanci nazionali per la salute è andato progressivamente aumentando, fino a raggiungere la percentuale del 32% dei fondi per la salute nel quinquennio 2010-14. La svolta si è verificata all’inizio di questo secolo, ma si è avuta un’accelerazione con la nomina a presidente, nel 2012, di Jim Yong Kim, un medico statunitense (ma nato a Seoul) impegnato in attività umanitarie e un attivista per il diritto alla salute. È con la sua presidenza che la BM rinnega definitivamente la politica dei pagamenti a prestazione e, al contrario, appoggia programmi e progetti che hanno per obiettivo l’accesso universale alle cure.

Come risulta chiaro da quanto scritto sopra, la BM può condizionare il bello e il cattivo tempo nel settore salute. Lo può fare perché tratta direttamente con i ministri delle finanze, in generale molto più potenti dei ministri della salute. Perché coopera strettamente con gli altri importanti attori nella salute internazionale: l’OMS, la Fondazione Bill e Melinda Gates (BMGF), il Fondo Globale per AIDS, Tubercolosi e Malaria (GFATM), il GAVI (l’alleanza per le vaccinazioni), che spesso sono solo dei gestori di fondi detenuti dalla BM. Perché ha ottimi rapporti con l’industria e il mercato della salute. E perché dai suoi uffici transitano i migliori tecnici della salute, che poi spesso vanno a ricoprire ruoli centrali nei ministeri e nelle istituzioni nazionali.

Il peso della BM nell’espansione dell’accesso alle cure (UHC, Universal Health Coverage) e nel rafforzamento dei sistemi sanitari è al centro del secondo articolo della serie. Come evidenziato in precedenza, il ruolo storico della BM in termini di UHC è stato sicuramente regressivo. E regressive sono state anche le sue politiche di Primary Health Care (PHC) selettiva imposte con la pubblicazione, nel 1993, del rapporto annuale dal titolo “Investing in Health”. Politiche che, assieme a quelle sul pagamento a prestazione, hanno diminuito l’accesso a cure integrate per i più poveri, contribuendo ad aumentare diseguaglianze ed iniquità. Tutto il contrario di quanto previsto dalla PHC comprensiva ed integrale della Dichiarazione di Alma Ata nel 1978. E tutto il contrario anche di quanto preconizzato negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG), di cui l’UHC è uno dei targets. La BM avrebbe sicuramente i mezzi e il potere per invertire le politiche di molti paesi in direzione UHC. Ma lo farà? Le strategie che sta mettendo in atto a questo scopo, come per esempio la Global Financing Facility (GFF), non sembrano offrire garanzie. Si basano infatti, tra gli altri principi, su quello per cui bisogna “rafforzare le partnerships pubblico-privato”, stabilendo i “giusti meccanismi di pagamento”. L’impressione è che il mandato per la BM di creare nuovi mercati abbia sempre la prevalenza sul principio secondo il quale la salute è un diritto. Nonostante un presidente che si professa campione dell’aiuto umanitario.

Il terzo articolo della serie analizza le diverse modalità di finanziamento alla salute della BM e ne discute rischi e benefici. Negli ultimi anni, la BM ha modificato i suoi meccanismi di finanziamento. Se prima i principali canali erano le sue banche regionali per lo sviluppo, ora usa soprattutto i fondi fiduciari, nei quali accumula i contributi versati dai governi, cioè dai suoi azionisti, dagli organismi, come BMGF, GFATM e GAVI, che affidano alla gestione della BM i fondi destinati ai propri progetti, e da donatori privati tra cui, per esempio, alcune multinazionali farmaceutiche. I meccanismi per la gestione sul campo variano: dalla gestione diretta da parte della BM, a quella totalmente affidata ai governi o ad organismi non governativi (ONG), a forme ibride di vario tipo, compresa l’assegnazione a servizi sanitari privati profit e non-profit. Circa il 40% di questi fondi fiduciari è usato per programmi e progetti di salute; nel 2013, ciò corrispondeva a circa 5 miliardi di dollari. Una particolarità di questi fondi fiduciari è di essere molto flessibili, di permettere cioè di finanziare rapidamente nuovi programmi e progetti, ove necessario. Un’altra particolarità è di essere earmarked, cioè destinati ad attività scelte dal donatore. La BMGF, per esempio, preferisce spendere buona parte dei fondi gestiti dalla BM in innovazione tecnologica. Il rischio di questa particolarità è che i donatori possano influenzare le politiche e le priorità della BM, che tra l’altro non sempre corrispondono con i bisogni dei paesi più poveri e che sono stabilite dai maggiori azionisti (in pratica i governi dei paesi più ricchi, con potere di veto da parte del più grande di tutti, gli USA). Per completare il quadro, la gestione di questi fondi fiduciari da parte della BM è tutt’altro che trasparente.

Gli ultimi due articoli descrivono e analizzano i meccanismo di investimento della BM per due specifici programmi: la salute riproduttiva (madre, neonato, bambino e adolescente) e la nutrizione, e il miglioramento della preparazione necessaria per gestire le pandemie globali. Per il primo, la BM propone un GFF con il quale si impegna a moltiplicare fino a 5 volte ogni dollaro investito dai finanziatori; secondo la BM, questo è l’unico modo per colmare il gap nei fondi per salute riproduttiva e nutrizione e poter quindi raggiungere i targets per il 2030 previsti dagli SDG, stimato in circa 33 miliardi di dollari l’anno. Questo GFF è partito nel 2015 con attività in 7 paesi e con una dotazione iniziale di oltre un miliardo di dollari forniti da Norvegia (600 milioni), Canada (220), USA (200), Giappone (100) e BMGF (75); vi è anche un contributo di 10 milioni da parte della multinazionale Merck Sharp & Dohme. Le redini del GFF, tuttavia, restano nelle mani della BM e degli investitori; gestendo l’erogazione dei fondi, questi influenzano anche le decisioni strategiche dei governi coinvolti. I quali, inoltre, proprio perché hanno un grande carico di malattia legato a salute riproduttiva e nutrizione, hanno anche dei sistemi sanitari non sempre in grado di gestire le attività e mostrare risultati e, soprattutto, a rendere i programmi sostenibili nel tempo.

Per quanto riguarda le pandemie globali, l’interesse della BM è stato suscitato dall’epidemia di Ebola in alcuni paesi dell’Africa Occidentale nel 2014 e dalla dimostrata incapacità della comunità internazionale di farvi fronte in maniera tempestiva. In linea con il suo mandato – creare nuovi mercati – la BM propone un nuovo tipo di sistema assicurativo che, partendo da un investimento iniziale di un gruppo di donatori, attiri capitali privati. Nel maggio del 2016 la BM ha annunciato la creazione del PEFF (Pandemic Emergency Financing Facility), uno schema assicurativo destinato ai paesi più poveri e alle agenzie e organizzazioni internazionali che si occupano di interventi in caso di pandemia, con una copertura delle spese che inizialmente può arrivare a 500 milioni di dollari, sborsabili rapidamente a pandemia certificata. Ma il premio per questa assicurazione non è pagato dagli attori di cui sopra, bensì da investitori pubblici e privati. Questo meccanismo, secondo la BM, trarrebbe vantaggi sia per i beneficiari dell’assicurazione, motivati a stabilire dei sistemi di allarme e pronto intervento per poter godere della copertura assicurativa, sia agli investitori pubblici e privati, che perderebbero sì una parte dei loro investimenti in caso di scoppio di una pandemia, ma otterrebbero alti interessi sugli stessi se non scoppiasse nessuna pandemia entro 3 anni dal loro investimento iniziale. Gli investitori potrebbero trarre ulteriori benefici dall’eventuale mercato delle obbligazioni che sarebbero emesse per finanziare il PEFF. Da notare che l’idea e lo sviluppo di questo strumento finanziario provengono da BM e OMS, in collaborazione con 3 grosse compagnie di assicurazioni, con intrinseci conflitti d’interesse. Ovviamente non sappiamo se il PEFF funzionerà, dato che finora non c’è stata ancora occasione di metterlo alla prova.

Alcune considerazioni finali:

. Cercando di capire come funzionano i complessi meccanismi finanziari che la BM ha messo, mette e metterà in atto per finanziare la salute, mi sembrava di avere in mano Il Sole 24 Ore, non il BMJ. E confesso di non aver molta fiducia sul fatto che la finanza possa dare una mano a risolvere i problemi di salute globale, soprattutto quelli dei gruppi più poveri e impoveriti nei vari paesi. Difficile pensare ad un sistema finanziario che abbia come obiettivo l’equità.
. È evidente che la BM gioca due ruoli: quello di banca (e come tutte le banche moderne tende sempre più a finanziarizzarsi, cioè a guadagnare denaro comprando e vendendo denaro) e quello di agenzia di sviluppo (sottraendo funzioni ad altre agenzie di sviluppo che si occupano degli stessi settori, la salute in questo caso).

. Quanto sono conciliabili questi due ruoli, senza che uno sia svolto a discapito dell’altro? Molte persone, e sicuramente la maggioranza degli operatori sanitari, considerano la salute un diritto. Il mandato di una banca, e della BM in particolare, è creare nuove occasioni di mercato e ottenere un buon ritorno sugli investimenti. Queste due visioni mi sembrano del tutto inconciliabili (senza punto interrogativo).

Si ringrazia Salute Internazionale

Fonte: ilcambiamento.it

Secondo l’OMS il 92% popolazione mondiale respira aria inquinata

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Secondo quanto emerge da un rapporto elaborato dall’Università di Bath, nel Regno Unito, e pubblicato recentemente almeno il 92% della popolazione mondiale vive in luoghi in cui i livelli della qualità dell’aria non soddisfano i limiti stabiliti dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). La stessa OMS chiede da tempo un’azione rapida per affrontare l’inquinamento atmosferico, causa principale di numerose malattie, croniche e non, sia respiratorie che cardiache. I livelli di smog sono “particolarmente alti” nelle aree del Mediterraneo orientale, del Sud-Est asiatico e del Pacifico occidentale.

“Esistono delle soluzioni, come un sistema di trasporti più sostenibile, una miglior gestione dei rifiuti solidi, l’uso di stufe e combustibili meno inquinanti per gli usi domestici, coniugati a energie rinnovabili e alla riduzione delle emissioni industriali”

ha sottolineato Maria Neira, direttrice del dipartimento di Salute pubblica dell’Oms. Stando a quanto riferisce Askanews il rapporto si fonda su dati provenienti da tremila località internazionali, per lo più città, ed è stato elaborato in collaborazione con l’università di Bath, in Gran Bretagna. Lo studio conclude che il 92% della popolazione mondiale vive in luoghi in cui la qualità dell’aria non corrisponde ai livelli minimi fissati dall’Oms per le particelle sottili, il cui diametro è minore di 2,5 micron e i cui limiti devono essere inferiori a una media annuale di 10 microgrammi per metro cubo. Gli inquinanti di queste particelle, solfati, nitrati e carbone, penetrano in profondità nei polmoni e da qui si riversano nel sistema cardio-vascolare causando gravissimi danni per la salute umana. Secondo le stime del 2012, almeno 6,5 milioni di decessi, cioè l’11,6% di quelli complessivi, sono associati al degrado della qualità dell’aria respirata.

Fonte: ecoblog.it

 

Fiab e Rete Città Sane OMS firmano il protocollo Nazionale per promuovere l’uso della bici

La Rete Città Sane OSM, network di circa ottanta città italiane che lavora sui temi della salute e della prevenzione, e la Federazione Italiana Amici della Bicicletta si impegnano a lavorare insieme per promuovere la mobilità sostenibile386112_1

Muoversi in bici fa bene alla salute e all’ambiente. Si basa su questa premessa il Protocollo nazionale sottoscritto giovedì 1 settembre a Modena da Rete Città Sane OSM e da FIAB-Federazione Italiana Amici della Bicicletta che si impegnano a lavorare insieme per promuovere la mobilità sostenibile in connessione con la salute.
E il primo intervento congiunto per incentivare l’‘uso quotidiano della bicicletta è già stato programmato per il 16 settembre quando si svolgerà la 3^ Giornata Nazionale del BikeToWork promossa da FIAB, l’‘evento che propone a tutti i cittadini di percorrere in bici il tragitto casa-lavoro. Il protocollo fra la Rete Città Sane e FIAB si basa sulla consapevolezza, ormai diffusa e condivisa, che l’‘uso della bici contribuisce ad aumentare i livelli di attività nella popolazione, ridurre l’impatto delle malattie croniche, incentivare il benessere psicologico, ridurre i danni sull’uomo e sull’’ambiente dovuti all’inquinamento.

“La bicicletta è un mezzo concreto e quotidiano per combattere la sedentarietࠖ commenta Giulietta Pagliaccio, presidente nazionale FIAB  ed è un’attività adatta a persone di ogni età, dai bambini, nei quali favorisce lo sviluppo armonico, fino agli anziani, dei quali salvaguarda l’autonomia funzionale aiutando a prevenire le malattie dell’invecchiamento”.

Simona Arletti, presidente della Rete Città Sane, ha ricordato che già nel 2013 a Modena è stato sperimentato, per la prima volta in Italia, “Heat” (Health economic assessment tool for walking and cycling) il sistema sviluppato dall’Oms che permette di tradurre i benefici di un’aumentata ciclabilità, ottenuti ad esempio con la realizzazione di una nuova pista ciclabile, in risparmi economici sul sistema sanitario pubblico, “dimostrando che investire in mobilità sostenibile è sempre molto conveniente nel lungo periodo, in quando permette di guadagnare più di dieci volte quanto è stato speso” La Rete Città Sane OMS è un network di circa ottanta città italiane che lavora sui temi della salute e della prevenzione, seguendo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. La FIAB-Federazione Italiana Amici della Bicicletta, presente in tutta Italia con oltre 150 realtà locali e più di 20mila soci, è un’associazione senza fini di lucro che promuove la mobilità ciclistica e realizza interventi che incentivano stili di vita sani a favore della salute individuale e collettiva. Entrambe le associazioni seguono i dettami della Carta di Toronto per l’attività fisica.

Fonte: ecodallecitta.it

L’unico futuro possibile è quello senza carne

“Il report dell’OMS conferma quanto già era noto dal 2007, il consumo di carne favorisce il cancro. Già otto anni fa le indicazioni di eliminare la carne rossa e quella trasformata erano chiare. Come sono chiare oggi molte altre raccomandazioni alimentari che, purtroppo, però, vengono ignorate”. Intervista alla dottoressa Michela De Petris, specializzata nell’alimentazione terapeutica in oncologia.carne_rossa_iarc

Dopo che lo IARC (International Agency for Research on Cancer) ha inserito le carni lavorate nel gruppo 1 delle sostanze che causano il tumore, mettendole di fatto allo stesso livello del fumo, alcol, arsenico e benzene e le carni rosse non lavorate nel gruppo 2A, quello delle sostanze “probabilmente cancerogene“, allo stesso livello del glifosato, ingrediente attivo in molti diserbanti, il dibattito nei media, nei social e a tavola, non sembra placarsi. Da un lato c’è chi denuncia l’eccessivo allarmismo creato attorno alla questione, dall’altro chi invece invece appoggia ed enfatizza gli studi condotti dall’Organizzazione.
Per cercare di fare chiarezza e di avere un ulteriore punto di vista sulla faccenda, il Cambiamento dopo l’intervista alla Dottoressa Simona Mezzera, ha contattato anche Michela De Petris, specializzata nell’alimentazione terapeutica in oncologia. membro della Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana (SSNV) e dell’Istituto per la Certificazione Etica ed Ambientale (ICEA). Già ricercatrice in studi di intervento alimentare presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e docente di nutrizione clinica in diversi corsi indetti dalla Provincia di Milano e dalla Regione Lombardia.

Dottoressa De Petris, cosa significano i dati emanati dall’OMS in merito alla correlazione tra il consumo di carne rossa e lavorata e il rischio di tumori? 

Il report dell’OMS conferma quanto già era noto dal 2007, e cioè che il consumo di carne favorisce il cancro. Già otto anni fa, infatti, il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro (WCRF) affermava che l’aumento del rischio del cancro al colon-retto era riconducibile al consumo di carni rosse e trasformate. E le indicazioni di abolire, eliminare, limitare erano già chiare da allora.

Evitare totalmente o ridurre come sostengono alcuni?

Le indicazioni parlano chiaro: “Limitare il consumo di carni rosse ed evitare il consumo di carni trasformate”. Certo è che ogni medico, specialista, nutrizionista può sostenere quello che vuole, ma queste raccomandazioni sono molto chiare e lo erano da tempo. Per esempio: fumare una sigaretta fa bene o male? C’è chi sosterrà che dieci sigarette fanno più male che una ma non per questo una sigaretta non fa male. Lo stesso vale per le carni trasformate, quelle non trasformate e per molti altri cibi.

A quali altri cibi bisogna stare attenti? 

A tutti i cibi di origine animale: al latte, i formaggi, soprattutto se stagionati, alle uova, correlate al rischio di tumore al seno, alle ovaie e alla prostata, al pesce, che comunque è carne e che è uno degli alimenti più inquinati di metalli pesanti come mercurio e piombo, sul mercato, ricchissimo di grassi saturi e colesterolo e, nel caso di pesce di allevamento, ricco di antibiotici promotori della crescita. E poi grande attenzione alla carne tutta in generale e, soprattutto, ai salumi. I cibi di origine animale fanno male e ormai di evidenze scientifiche a confermarlo ce ne sono in abbondanza. Poi che ci siano in ballo altri interessi è fuori discussione…

Di che genere di interessi parla?

Purtroppo, come si può vedere anche in questi giorni, di interessi in gioco ce ne sono molti. Quelli dell’industria della carne, ovviamente, che si è affrettata fin da subito a negare persino l’evidenza proveniente dall’OMS. Ma anche quelli dell’economia italiana, del mercato, delle case farmaceutiche… Non si può lasciare che queste informazioni spaventino la popolazione, perché l’unico rischio che sta a cuore a certi settori è quello che calino i consumi, non certo quello per la salute umana. Per questo sia io che la Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana che molti colleghi esortiamo tutti i consumatori a informarsi per non assistere impotenti a questa nuova mistificazione, che vede ancora la salute sottomessa al profitto, esattamente come già accaduto per il fumo di sigaretta. Ci dicevano che bastava fumarla con il filtro, proprio come ci dicono che basta consumare carne italiana, e stare tranquilli… come se potesse fare differenza il dove la carne è prodotta. E’ imperativo non fidarsi delle rassicurazioni dei produttori, visto il loro palese conflitto di interessi, e occuparsi invece in prima persona della propria salute.

In molti sostengono che il problema non sia la carne in sé ma il metodo di lavorazione e il luogo in cui questa viene prodotta. Cosa ne pensa?

La cosa vera è che l’Europa e l’Italia sulla carne hanno controlli più stretti, più precisi e più efficaci. Per questo siamo maggiormente tutelati. Ma ciò non significa che, in Italia come altrove, la carne non sviluppi sostanze cancerogene dannose e, soprattutto, non significa che la frequenza di consumo, più che la provenienza, non siano incisive. E poi sfido qualsiasi consumatore di carne a vedere con certezza da dove la carne è arrivata, dove è stata prodotta o lavorata… C’è tantissima ignoranza, disinteresse e disinformazione in merito.

Perché secondo lei?

Interessi economici, gola e abitudini alimentari scorrette delle persone credo che siano i fattori maggiori. Sicuramente la non voglia di prendere coscienza, di cambiare per sé stessi, per la propria salute ma anche per la tutela degli animali e del pianeta. L’industria della carne e dei derivati è uno dei maggiori inquinanti in ambito ambientale.

In tanti sostengono che è normale, invece, che sia così. Che l’uomo è da sempre onnivoro e che i nostri nonni sono arrivati a novant’anni grazie a questa alimentazione. Cosa risponde?

Rispondo che non è assolutamente così. L’uomo nasce frugivoro non onnivoro. Nasce raccoglitore di frutta, bacche, radici, ortaggi… La carne la mangiava quando riusciva a raggiungere, catturare e uccidere un animale. Quindi sicuramente non spesso e comunque con un grande dispendio calorico. Anche i nostri nonni mangiavano carne molto raramente e quella che mangiavano non era di certo prodotta come al giorno d’oggi. Un tempo l’animale era libero, si cibava di alimenti sani, non era costretto a vivere in allevamenti intensivi, a cibarsi artificialmente e ad essere imbottito di sostanze chimiche.

Dopo la notizia dell’Oms, secondo lei, cambierà qualcosa?

Di certo questi dati hanno dato una bella scoccata all’industria della carne. Sempre più persone oggi, vuoi per paura o per maggiore consapevolezza, stanno iniziando a informarsi. Sempre più gente decide ogni giorno di intraprendere una dieta a base vegetale perché più sana, meno costosa, più etica o perché meno dannosa per l’ambiente. I motivi sono tanti… ma sta di fatto che, ormai, per fortuna, i prodotti vegani sono ovunque e anche la ristorazione tradizionale si sta adeguando a questo. Stiamo facendo passi da gigante.

Lei è ottimista?

Certo che sì! Quello di portare le persone verso un’alimentazione consapevole e sana è il mio lavoro. E sono totalmente convinta che l’alimentazione del futuro sia quella a base vegetale. L’unica alimentazione in grado di migliorare lo stato di salute delle persone, del pianeta e degli animali è quella vegana.

Fonte: ilcambiamento.it

L’erbicida glifosato è probabilmente cancerogeno

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È guerra tra la multinazionale Monsanto e l’Organizzazione mondiale della sanità, dopo l’annuncio dell’inclusione del glifosato, un diserbante di cui la società possedeva il brevetto fino al 2001, tra le sostanze classificate come probabilmente cancerogene. La decisione è arrivata negli scorsi giorni, con la pubblicazione di uno studio dell’International Agency for Research on Cancer (Iarc) (presente per ora anche su Scribd), un panel di esperti che valuta per conto dell’Oms le conoscenze scientifiche disponibili sui rischi che una determinata sostanza possa provocare l’insorgenza di tumori. Il glifosato è un cosiddetto erbicida totale, ovvero un diserbante non selettivo, sviluppato dalla Monsanto, che ne ha detenuto il brevetto fino al 2001. Oggi è commercializzato da diverse aziende, tra cui proprio la Monsanto, che continua a venderlo sotto il nome commerciale di Roundup. Secondo le stime dello Iarc, sarebbe contenuto in almeno 750 prodotti disponibili nel mondo, e la sua presenza nelle zone agricole è riscontrabile non solo nel suolo, ma anche nell’atmosfera, nell’acqua e nel cibo. Le vendite del glifosato (già estremamente alte) sarebbero inoltre in aumento negli ultimi anni grazie al diffuso utilizzo negli Stati Uniti di colture ogm resistenti a questa sostanza, e oggi rappresenta una buona fetta degli utili annuali della Monsanto. L’analisi dello Iarc ha valutato gli studi esistenti sull’associazione tra esposizione al glifosato e l’insorgenza di tumori nell’uomo, e quelli svolti su animali e cellule per verificarne la sicurezza. Le ricerche svolte sull’uomo non avrebbero prodotto risultati che confermino la presenza di rischi apprezzabili, se non in tre studi che avrebbe evidenziato un piccolo aumento di incidenza di linfomi non Hodgkin tra gli agricoltori statunitensi, canadesi e svedesi. Per questo, nello studio dello Iarc, le prove di carcinogenicità sull’uomo (così come quelle sugli animali) vengono definite limitate. Dati più preoccupanti arriverebbero però dagli studi di laboratorio, da cui emergerebbe che il glifosato induce nelle cellule danni a livello genetico e stress ossidativo, entrambi fattori di rischio importanti per lo sviluppo di tumori. Per questo, lo Iarc ha deciso di inserire il glifosato tra le sostanze classificate come 2A, ovvero probabilmente carcinogene. La risposta della Monsanto ovviamente non si è fatta attendere. In una dichiarazione, la società americana ha replicato assicurando che: “Tutti gli utilizzi indicati del glifosato sono sicuri per l’uomo e certificati dal più ampio database mai compilato per gli effetti di un prodotto agricolo sulla salute umana. In effetti, ogni diserbante contenente glifosato presente sul mercato aderisce i rigorosi standard decisi dalle agenzie regolatori e dalle autorità sanitarie per proteggere al salute umana”. A supporto della sicurezza del glifosatoMonsanto cita diversi studi (il più recente svolto in Germania) che non avrebbero evidenziato un collegamento tra la sostanza e lo sviluppo di patologie tumorali, e ricorda come nessuna agenzia regolatoria abbia stabilito la presenza di rischi per la salute. Entrando nel merito della decisione dello Iarc, l’azienda americana ricorda inoltre che la classificazione nel gruppo 2 non comporti la prova di un legame tra la sostanza e i tumori. Di questo gruppo farebbero infatti parte anche il caffè, le verdure sottaceto, l’aloe vera e i cellulari. In questo caso però va sottolineato che l’affermazione di Monstanto non è del tutto corretta, perché le sostanze citate nella risposta fanno parte della classificazione 2B, ovvero sostanze che “potrebbero” essere carcinogene, mentre il glifosato è stato inserito tra le 2A, cioè sostanza “probabilmente” carcinogene.

Fonte : Wired.it

Credits immagine: Chafer Machinery/Flickr CC

Il “regime” Monsanto: la multinazionale che si permette di dichiarare guerra a Iarc e Oms

Lo Iarc attesta che il glifosato è un probabile cancerogeno e la Monsanto, che il glifosato lo utilizza per produrre l’erbicida RoundUp, dichiara guerra a Iarc e Oms mettendo in dubbio il rapporto pubblicato dell’Agenzia per la ricerca sul cancro e lanciando un messaggio che suona minaccioso: «L’Oms ha qualcosa da spiegare».monsanto_glifosato_iarc

L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, lo Iarc (agenzia dell’Oms), pubblica da anni periodicamente monografie con le revisioni e gli aggiornamenti sulle sostanze ritenute sicuramente cancerogene e probabilmente cancerogene per l’uomo. Tali monografie rappresentano l’analisi compiuta dell’evidenza scientifica esistente e sono redatte da quella che viene ritenuta una delle fonti più autorevoli al mondo. Nel rapporto reso pubblico lo scorso 20 marzo lo Iarc ha commesso il “reato di lesa maestà”, secondo la potentissima multinazionale Monsanto. Ha cioè inserito il glifosato tra le sostanze probabilmente cancerogene per l’uomo e sicuramente cancerogene per gli animali (leggi qui il comunicato stampa diffuso dallo Iarc).  Il glifosato è il principio attivo dell’erbicida RoundUp (venduto in 180 paesi) prodotto dalla Monsanto e di centinaia di altri prodotti per l’agricoltura in commercio. Allora Monsanto ha dichiarato guerra attaccando lo Iarc mettendo in discussione la sua autorevolezza. L’azienda statunitense, ha dichiarato il vicepresidente Philip Miller, chiederà all’Oms di far sedere propri esperti ad un tavolo con gli uomini e i consulenti della multinazionale e le agenzie regolatorie per rimettere tutto in discussione. Emerge chiaramente l’obiettivo: pretendere di affermare ed esigere che venga riconosciuto il fatto che consulenti pagati dalle aziende o esperti di parte siedano allo stesso tavolo con scienziati dello Iarc e dell’Oms, con pari autorevolezza e pari voce in capitolo. «Mettiamo in dubbio la qualità di questa classificazione – ha affermato Miller durante una conferenza stampa – l’Oms ha qualcosa da spiegare».  Secondo l’azienda, lo Iarc nella sua analisi ha ignorato gli studi che dimostravano la sicurezza del glifosato, concentrandosi su quelli che la mettevano in dubbio. Ora noi chiediamo: chi ha finanziato gli studi che ne attestano la sicurezza e chi ha finanziato gli studi che ne attestano la pericolosità? Ci sono conflitti di interesse in chi ha fatto parte di gruppi di studio o commissioni piuttosto che di altre? Sapere questo è importantissimo ai fini di un sano esercizio di senso critico.

Tra i primi a chiedere interventi c’è Aiab, Associazione italiana per l’agricoltura biologica.

«L’Italia e l’Unione Europea considerino immediatamente le misure necessarie per proteggere agricoltori e consumatori dal glifosato», ha chiesto Aiab. «Che il glifosato faccia male alla salute dell’uomo e dell’ambiente, che si accumuli nei cibi e nell’acqua, lo sappiamo da anni e da anni combattiamo contro questo e gli altri pesticidi, spacciati per innocui», dichiara il presidente di Aiab Vincenzo Vizioli. «Ora – aggiunge – anche le agenzie dell’Oms indicano vari principi attivi come potenzialmente lesivi della salute in forma grave. Lo studio dello Iarc non solo riporta la probabile cancerogenicità del glifosato, ma rileva la correlazione fortissima con danni riscontrabili sul Dna umano: molti lavoratori esposti hanno sviluppato una alta vulnerabilità al linfoma non Hodgkin».

«Il governo non può ignorare l’allarme lanciato dallo Iarc. Ho presentato un’interrogazione urgente al ministro della salute e a quello delle politiche agricole chiedendo che sia immediatamente recepito il parere dello Iarc e che sia avviata subito un’istruttoria per giungere alla sospensione della distribuzione del pesticida che risulta ampiamente utilizzato nella nostra agricoltura nazionale». Lo ha affermato, in una nota, Loredana De Petris, presidente del gruppo misto e capogruppo di Sel a palazzo Madama.«Questa è la conferma, qualora ce ne fosse stato bisogno – conclude la senatrice – della necessità di non consentire l’utilizzo di sementi ogm nel nostro paese dato che le stesse sono commercializzate insieme al glifosato per l’impiego congiunto in agricoltura».

Intanto anche il rapporto Ispra fa riflettere e dà l’idea di quanto urgente sia intervenire sull’avvelenamento dell’ambiente a causa dei pesticidi. «Sono 175 le sostanze trovate nelle acque superficiali e sotterranee italiane nel 2012 – dice l’ultimo rapporto Ispra – in cima alla lista ci sono gli erbicidi: il loro utilizzo diretto sul suolo, spesso concomitante con le intense precipitazioni meteoriche di inizio primavera, ne facilita la migrazione nei corpi idrici. Rispetto al passato è aumentata significativamente anche la presenza di fungicidi e insetticidi». Nel biennio 2011-2012 sono stati esaminati 27.995 campioni per un totale di 1.208.671 misure analitiche. Le informazioni provengono da 19 regioni e province autonome, con una copertura del territorio nazionale incompleta, soprattutto per quanto riguarda le regioni centro-meridionali e in maniera più accentuata per le acque sotterranee. Sono stati trovati pesticidi nel 56,9% dei 1.355 punti di monitoraggio delle acque superficiali e nel 31% dei 2.145 punti di quelle sotterranee.

Fonte: ilcambiamento.it

È possibile una medicina sobria, rispettosa e giusta?

Informazione unilaterale, qualità poco misurabile, corruzione, conflitti di interesse, scarsa trasparenza nelle scelte e nelle decisioni. Questa è oggi la sanità, soprattutto nei Paesi industrializzati, il settore economico a più largo consumo di beni e servizi. Ospitiamo l’editoriale del dottor Antonio Casella.buona_medicina

Nella realtà di oggi, almeno nei Paesi industrializzati, quello sanitario è probabilmente il settore economico a più largo consumo di beni e servizi. Si tratta di un settore molto particolare, che si configura come un sistema complesso, caratterizzato dall’incertezza, dall’asimmetria informativa, dalla qualità poco misurabile, dalla variabilità delle decisioni. Questo facilita e rende possibile fenomeni di corruzione, di conflitti di interesse, di scarsa trasparenza nelle scelte e nelle decisioni da cui dipendono sia il funzionamento sia i costi di quel complesso sistema. Tutto è cominciato con un lento ma inarrestabile progresso. In medicina, il progresso ha cambiato radicalmente il destino degli ammalati: pensiamo alla penicillina, e poi agli antibiotici; ai raggi x e alla possibilità di vedere dentro il corpo per scoprire cosa non va. E tutto quello che è seguito: la realizzazione di farmaci capaci di arrestare, curare, guarire malattie che solo pochi decenni prima rappresentavano una condanna certa; l’invenzione di tecnologie diagnostiche sempre più raffinate, che fanno pensare che, entro breve, sarà possibile individuare qualsiasi malattia prima che abbia avuto la possibilità di danneggiarci, e poi di eliminarla, e di vivere sempre più a lungo, sani e forse eternamente giovani. Ecco: ad un certo punto il progresso ha generato illusioni, si è staccato dalla realtà. Fra i cittadini si è diffusa la convinzione che sia meglio un farmaco in più che uno in meno; che qualsiasi esame diagnostico sia utile, meglio ancora se nuovo e molto tecnologico; che in qualunque evento della vita di un essere umano sia più sicuro un intervento medico che l’evoluzione naturale della situazione. Un’inchiesta svolta in Svizzera rileva che la quasi totalità della popolazione (tra il 70 e l’80%) è dell’opinione che la medicina sia una scienza esatta, quindi non soggetta a dubbi, incertezze, percentuali di errore. Alcuni anni fa tre studiosi della qualità dell’assistenza sanitaria e della medicina basata sulle prove di efficacia (Domenighetti G., Grilli R., Liberati A. “Promoting Consumer’s Demand for Evidence-Based Medicine”,International Journal of Technology Assessment Care1998; 14: 97-105) si chiesero come promuovere presso i cittadini una domanda di cure e prestazioni sanitarie scientificamente più fondata di quella che viene utilizzata abitualmente, che si basa in gran parte su convinzioni non verificate e su necessità indotte dal mercato, che poco hanno a che fare con la salute  correttamente intesa. La domanda continua ad essere attuale: esiste un modo per permettere ai cittadini di valutare in maniera corretta e non manipolata la qualità delle cure che vengono loro proposte? La risposta non è facile. Da un lato, si direbbe che per la maggior parte delle persone il sistema sanitario sia una sorta di “scatola nera” i cui contenuti sfuggono agli occhi ed alla comprensione dei non addetti ai lavori: i cittadini non hanno alcun modo di sapere che l’80% dei nuovi farmaci sono copie di farmaci già esistenti, ad eccezione del prezzo che di solito triplica in nome della novità; e che soltanto il 2,5% di quei farmaci rappresenta un progresso terapeutico reale. Oppure che secondo l’ OMS (Organizzazione mondiale della Sanità) le prestazioni che non danno nessun beneficio ai pazienti incidono per una percentuale fra il 20 ed il 40% sulla spesa sanitaria. Che il consumo pro-capite di antibiotici, nel nostro Paese è uno tra i più alti tra i Paesi OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). Che le tecnologie medicali: per esempio il numero di RMN (Risonnze Magnetiche Nucleari) e TAC (Tomografia Assiale Computerizzata) presenti nel nostro Paese rispetto ad altri paesi sviluppati ha un rapporto rispetto al numero di abitanti tra i più alti; e che le stime sul numero di esami radiologici effettuati ci pongono ancora ai primi posti tra i Paesi OCSE. Ed inoltre, chi ha tentato di valutare lo spreco economico rappresentato dalla corruzione e dalla frode nei sistemi sanitari d’Europa ha stimato questo impatto in 153 milioni di euro al giorno. I cittadini hanno ancora troppo poche possibilità di accedere a informazioni di questo tipo, di comprenderle in maniera corretta e di utilizzarle nella loro relazione con il sistema sanitario e nell’orientamento delle  loro richieste. Il problema è l’inquinamento dell’informazione scientifica.

Come scrive Richard Smith, direttore per molti anni del British Medical Journal (una delle più importanti riviste mediche internazionali), ogni tanto bisognerebbe ricordare all’opinione pubblica che la morte è inevitabile, che la maggior parte delle malattie gravi non può essere guarita, che le protesi qualche volta si rompono, che i farmaci hanno anche effetti negativi, che molti interventi medici offrono benefici marginali o non funzionano affatto e che ci sono modi migliori per spendere soldi che acquistare tecnologia sanitaria. La presa di coscienza e la collaborazione dei professionisti dell’informazione e della sanità è fondamentale per moderare le aspettative  dei cittadini e riportarli ad atteggiamenti più realisti e più critici di fronte alla promessa di nuove cure “miracolose”. Per esempio, è convinzione comune che quanto prima è individuata una malattia, tanto più favorevole è la prognosi, cioè tanto maggiori sono le probabilità di guarigione; effettivamente in molti casi è così, ma non sempre. Studiando l’evoluzione naturale delle malattie ci si è accorti che le cose non vanno sempre in modo così semplice e lineare; per nostra fortuna un numero significativo di malattie regredisce spontaneamente prima di avere dato sintomi che mettano in all’arme la persona. Malattie anche gravi, come i tumori, possono guarire da sole o non manifestarsi mai, grazie alle prodigiose difese naturali messe in campo dal nostro organismo. Per esempio risulta che il 30% dei tumori della mammella riscontrati con gli screening attualmente in uso non si sarebbero manifestati comunque anche se non trattati. Negli ultimi trent’anni con il progredire delle capacità diagnostiche, il numero di diagnosi di cancro della tiroide e della prostata è molto aumentato ma, nonostante tutte queste diagnosi precoci, la mortalità è rimasta pressoché immutata. Ciò significa che si è registrato un eccesso di diagnosi, che ha portato a classificare come malate persone le quali, con ogni probabilità, sono state poi sottoposte  a interventi medici che non hanno modificato gli esiti della malattia. Negli ultimi anni le soglie di molti parametri biologici (come il tasso di colesterolo, la glicemia, la lipidemia, la pressione arteriosa, la densità ossea….) sono state riviste al ribasso, cosicché i confini dei valori considerati patologici si sono allargati moltissimo. Risultato? Tutti gli adulti viventi sono virtualmente affetti da una “malattia” cronica. Chi ha interesse ad aumentare artificiosamente il numero di persone che necessiterebbero di cure, di farmaci, di controlli, di interventi? E’ stato dimostrato, purtroppo, che i criteri diagnostici sono sempre più spesso definiti da gruppi e commissioni che ricevono cospicui finanziamenti da case farmaceutiche direttamente interessate all’espansione del mercato. “Quando visitate un paziente anziano pensate per prima cosa a quali farmaci togliergli, non a quali farmaci dargli”,ripeteva Fabrizio Fabris, grande geriatra e maestro di geriatri.

Medici, cittadini e anche professionisti dell’informazione dovrebbero puntare soprattutto all’assunzione di stili di vita equilibrati e sobri, cioè mangiare con moderazione, non eccedere nell’alcol, non fumare, coltivare interessi diversi. Farmaci ed esami? Solo quando è davvero necessario.

Per uscire dall’illusione pericolosa che una buona sanità coincida con la certezza di diagnosi immediate ed infallibili, di interventi e di cure risolutive per ogni sintomo, compresi quelli legati alla naturale instabilità del benessere  psicofisico e all’invecchiamento, è indispensabile che la “scatola nera”, di cui accennavo prima, diventi più trasparente: i cittadini devono informarsi ed essere informati su come funziona l’organizzazione sanitaria; su cosa c’è dietro l’offerta di farmaci e di interventi più o meno miracolosi; su cosa significa realmente prevenzione, su cosa è la diagnosi, su cosa significa curare e cosa, invece, guarire, e che differenza c’è tra le due cose.

Come aumentare la trasparenza?

La trasparenza passa essenzialmente dalla comunicazione e dall’informazione, in particolare da quella che è stata definita “health literacy” (alfabetizzazione sanitaria): indica la capacità delle persone di ottenere e comprendere le informazioni necessarie per accedere correttamente alle prestazioni sanitarie, per adottare e mantenere stili di vita adeguati, per utilizzare in modo appropriato ciò che il mercato della salute mette a disposizione.

Un cambiamento culturale

L’obbiettivo principale del cambiamento nella cultura della salute è quello di riportare le attese dei cittadini alla realtà, attraverso informazioni più corrette e non influenzate da interessi economici, da parte sia dei professionisti sanitari sia dei mezzi di informazione; di promuovere l’autonomia decisionale degli individui e di ridurre il consumismo inadeguato da parte della popolazione.

La nascita e i principi che ispirano il movimento SLOW MEDICINE

Mentre nel 2012 negli Stati Uniti muoveva i primi passi il progetto Choosing Wisely, in italiano “scegliere con saggezza” promosso  dalla Fondazione ABIM (American Board of Internal Medicine Foundation), in Italia nasceva Slow Medicine, frutto dell’incontro fra due realtà che si muovevano da tempo nella stessa direzione: un gruppo di medici della Società Italiana  per la Qualità nell’Assistenza Sanitaria, che al XX Convegno della SIQuAS di Grado, il 29 maggio 2010, avevano prodotto il Primo Manifesto per una Slow Medicine che contiene le linee di direzione del futuro movimento; e due dei fondatori dell’Istituto CHANGE di Torino (www. Counseling.it), da 25 anni impegnato nella diffusione di una cultura della comunicazione e della qualità della relazione nell’intervento sanitario. Alla stesura del manifesto seguì un atto più ufficiale, la creazione dell’Associazione Slow Medicine nel gennaio 2011.

La medicina slow si propone di promuovere una medicina sobria, rispettosa e giusta.

Sobria significa rifiutare gli spechi. La Slow Medicine riconosce che fare di più non vuol dire fare  meglio. La diffusione e l’uso di nuovi trattamenti sanitari e di nuove procedure diagnostiche non sempre si accompagnano a maggiori benefici per i pazienti. Interessi economici e ragioni di carattere culturale e sociale spingono all’eccessivo consumo di prestazioni sanitarie, dilatando oltre misura le aspettative delle persone, più di quanto il sistema sanitario sia poi in grado di soddisfare.

Rispettosa perché accoglie e tiene in considerazione i valori, le preferenze e gli orientamenti dell’altro in ogni momento della vita; incoraggia una comunicazione onesta, attenta e completa con i pazienti.

Giusta perché promuove cure appropriate, cioè adeguate alla persona e alle circostanze, di dimostrata efficacia e accessibili sia per i pazienti sia per i professionisti della salute.

Chi è Antonio Casella.

Laureato a Pavia alla Facoltà di Medicina e Chirurgia nel 1988. Halavorato per anni  all’Asl di Pavia e presso alcune RSA di città e provincia, dove ha svolto prevalentemente attività clinica.

Dal 2000/2001 ha iniziato ad interessarsi di aspetti gestionali delle Organizzazioni Sanitarie e Sociosanitarie; ha frequentato il “Master of advanced studies in economia e gestione sanitaria e sociosanitaria”presso l’Università di Lugano, nell’ambito della Swiss School of Public Health (SSPH+), network di sei Università Svizzere (Basilea, Berna, Ginevra, Losanna, Lugano, Zurigo). In Toscana ha collaborato con la AUSL Versilia e con le Confraternite delle Misericordie di Pisa, Viareggio e Lucca. Ha  frequentato  il “Master di II livello in telemedicina” presso il Dipartimento di Chirurgia  della Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Pisa. Ha approfondito alcune aree specifiche come:

  • quella relativa al  Governo Clinico in ambito sanitario, frequentando il corso annuale e conseguendo il Clinical Governace core-curriculum presso il Centro Studi GIMBE (Gruppo Italiano per la Medicina Basata sull’Evidenza) di Bologna, del quale sono diventato docente accreditato per l’area della Clinical Governance;
  • quella relativa alla Metodologia di Rete nell’ambito del sociale, frequentando il corso annuale e conseguendo l’Attestato di Formazione su “La metodologia di rete. Gestione di progetti nel sociale.” presso il Centro Studi Erickson di Trento;
  • ha conseguito, sempre presso il Centro Studi GIMBE, l’Health Education core-corriculum (la nuova ECM: formazione, training e sviluppo professionale; strategie per migliorare la pratica professionale; la valutazione della competence professionale).

Da anni collabora come consulente libero-professionista presso RSA della Regione Lombardia.

È socio della Fondazione GIMBE, dell’Associazione ALESSANDRO LIBERATI (NIC), di SLOW MEDICINE, della SIHTA e di SIMPIOS.

Fonte: ilcambiamento.it

British Medical Journal: “Inquinamento e cambiamenti climatici, l’OMS dichiari lo stato di emergenza”

I cambiamenti climatici rappresentano anche un problema sanitario, così rilevante che l’Oms “dovrebbe dichiarare lo stato di emergenza per la salute pubblica”. E’ l’appello lanciato dal direttore editoriale del British Medical Journal, Fiona Godlee380487

cambiamenti climatici rappresentano anche un problema sanitario, così rilevante che l’Oms “dovrebbe dichiarare lo stato di emergenza per la salute pubblica“. E’ l’appello lanciato dal direttore editoriale del British Medical Journal (BMJ), Fiona Godlee, che sottolinea come ci sia consenso scientifico sulla minaccia del riscaldamento globale sulla salute e sulla sopravvivenza del genere umano. Godlee ricorda che l’Ipcc, l’organizzazione intergovernativa sui cambiamenti climatici, ha concluso che il pianeta sta diventando più caldo e che il primo responsabile e l’attività umana. “La temperatura media globale – scrive – è aumentata di circa mezzo grado negli ultimi 50 anni. Gli effetti di questo aumento sulle condizioni meteo sono già visibili. I livelli del mare stanno aumentando, le calotte polari si stanno sciogliendo”. L’Ipcc ammonisce che anche con un taglio radicale, e quasi immediato, delle emissioni dei gas serra, il riscaldamento globale continuerebbe, mentre se le emissioni non saranno ridotte le temperature potrebbero aumentare di più di 4 gradi entro il 2100 rispetto ai livelli dell’era pre-industriale.
I benefici per la salute delle azioni di contrasto ai cambiamenti climatici, rileva Godlee, sarebbero peraltro sostanziali, se si considera, ad esempio, che l’utilizzo di combustibili fossili causa circa 7 milioni di morti premature dall’inquinamento indoor e outdoor. “I benefici di stili di vita a basso utilizzo di carbonio – sostiene il direttore editoriale del BMJ – sono tassi più bassi di obesità, diabete e tumori”. Godlee conclude con l’appello all’Oms: “le morti di Ebola, sebbene tragiche e spaventose, sembreranno insignificanti se paragonate al caos che possiamo attenderci per i nostri bimbi e nipoti se il mondo non farà nulla per controllare le proprie emissioni di carbonio”.

Fonte: ecodallecitta.it

OMS: “A causa dello smog 7 milioni di morti nel 2012” | La Conferenza Clima e Salute di Ginevra

 

L’allarme dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dalla Conferenza Salute e Clima di Ginevra: inquinamento atmosferico e cambiamenti climatici provocano milioni di decessi l’anno, influendo negativamente anche sulla diffusione di malattie infettive mortali come il colera e la malaria380093

Ginevra, in chiusura la prima Conferenza mondiale sulla Salute e sul Clima, in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha fatto il punto sulle gravissime conseguenze dell’inquinamento sulla popolazione mondiale. Inquinamento atmosferico prima di tutto: nonostante l’ingente mole di studi e documentazioni, e la crescita di consapevolezza fra i cittadini, lo smog resta il killer perfetto, la cui responsabilità nei decessi è tanto certa quanto invisibile. “L’inquinamento atmosferico nel 2012 è stato responsabile per 7 milioni di morti – ha denunciato la Direttrice del Dipartimento di Sanità Pubblica dell’Oms Maria Neira – 1 su 8 di tutti i decessi a livello mondiale”. E tuttavia, ancora si fatica ad attribuire alla questione smog l’urgenza e l’importanza che merita. Le soglie massime di concentrazione per gli inquinanti vengono superate incessantemente all’interno della sola Unione Europea senza che si riesca a mettere in atto misure di contenimento obbligatorie e condivise da tutti gli Stati membri. Una situazione che peggiora ancora volgendo lo sguardo al di fuori dell’UE, e in particolare ai giganti asiatici, India e Cina, dove l’industrializzazione pesante e il boom di motorizzazione hanno portato con sé concentrazioni di inquinanti in atmosfera assolutamente insostenibili per la salute umana. E non si tratta solo delle conseguenze dirette: come è noto, le emissioni inquinanti causate da industria e trasporti sono responsabili dei cambiamenti climatici, che a loro volta influiscono pesantemente sull’andamento di alcune delle più gravi malattie infettive al mondo. Il colera, la malaria e la dengue sono malattie infettive molto sensibili alle mutazioni del clima. Eventi come le ondate di calore e le inondazioni – in gran parte effetti delle trasformazioni dell’ambiente dovute all’impatto industriale – causano ogni anno decine di migliaia di morti”.  Secondo le stime diffuse dall’OMS le trasformazioni del clima stanno causando infatti oltre 60 mila morti ogni anno per via dei disastri naturali legati al clima, più che triplicati dal 1960. Come ha ricordato Flavia Bustreo, Direttrice generale del settore Famiglia dell’Oms “I poveri, le persone svantaggiate e i bambini sono tra coloro che soffrono il peso maggiore degli impatti legati al clima e le malattie conseguenti, come malaria, diarrea e malnutrizione”. Se non verranno messe in atto azioni concrete per limitare la produzione di emissioni inquinanti, avverte l’OMS, tra il 2030 e il 2050 il conto dei morti salirà di 250.000 vittime ogni anno.

I documenti della Conferenza: WHO Workplan on climate change and health

Climate change and health: key facts

Fonte: ecodallecitta.it

Tutte le morti dell’inquinamento

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Sette milioni: tante sono state le morti legate all’inquinamento per il 2012. Un dato allarmante, fanno sapere dall’Organizzazione mondiale della Sanità che ha appena rilasciato le stime, e che classifica l’inquinamento atmosferico come il più grande fattore di rischio ambientale per la salute. Ad essere più colpite sono le regioni a basso e medio reddito del Sud-est asiatico e del Pacifico Occidentale, con un totale di 5,9 morti per il 2012. I dati rilasciati dall’Oms – che combinano informazioni sulla mortalità, i livelli di inquinanti e le evidenze dei rischi per la salute legati al fenomeno – riportano anche le cause di morte legate all’inquinamento indoor e outdoor. Malattie cardiovascolari, come cardiopatie ed ictus, sono in cima alle classifiche per entrambi i tipi di inquinamento, seguiti da bronco pneumopatia cronica ostruttiva (Bpco). Cancro al polmone ed infezioni respiratorie acute sono le altre due cause principali di morte: la prima più legata all’inquinamento esterno e la seconda più legata a quello interno. “I rischi derivanti dall’inquinamento atmosferico sono ormai di gran lunga molto maggiori di quanto si pensasse o si era capito, in particolare per le malattie cardiache e ictus”, ha commentato Maria Neira, direttore Department for Public Health, Environmental and Social Determinants of Health dell’Oms: “Pochi fattori di rischio hanno oggi maggiore impatto sulla salute globale che l’inquinamento atmosferico; l’evidenza segnala il bisogno di un’azione concertata per ripulire l’aria che tutti respiriamo”.

Riferimenti: Oms

Tratto: galileonet.it