Obama vara il Clean Power Plan: che cos’è e quali obiettivi ha

Barack Obama pronto a varare il provvedimento incentrato sulla riduzione dei gas serra e lo sviluppo delle rinnovabiliObama

Dopo anni di promesse su energie rinnovabili e green economy, il presidente Usa,Barack Obama, sembra finalmente pronto a varare un provvedimento per la riduzione dei gas serra che sarà incentrato sulle centrali a carbone responsabili del 31% delle emissioni nocive degli States, ma anche sul potenziamento delle energie rinnovabili. Agli Stati dell’unione verrà chiesto di ridurre le emissioni degli impianti a carbone. Dicono i quotidiani che sarà “l’azione più significativa che un presidente americano abbia mai preso per limitare i gas nocivi”, ma d’altronde nessuno dei suoi predecessori, né tantomeno il “petroliere” George W. Bush, aveva mai mosso un dito contro l’industria delle energie fossili. Il Clean Power Plan prevede un aumento delle rinnovabili del 28% entro il 2030 (sei punti percentuali in più rispetto al 22%) e una riduzione delle emissioni di gas nocivi. Inoltre l’inquinamento provocato dalle rinnovabili dovrà essere ridotto del 30% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005, con una maggiorazione del 9% rispetto a quanto previsto inizialmente. Gli stati che faranno i migliori progressi in termini di investimenti in energia solare ed eolica verranno premiati con incentivi.

Il risparmio per le famiglie americane, in termini di bollette dell’energia elettrica è stato quantificato in 85 dollari per famiglia all’anno, dopo il 2030. Nei prossimi mesi Obama dovrà affrontare due importanti appuntamenti: a settembre l’incontro con Papa Francesco che con la sua enciclica Laudato Si’ ha rivolto un appello globale a prendersi cura della Terra, a dicembre il summit sui cambiamenti climatici di Parigi. Nel video diffuso quest’oggi, Obama spiega che

le centrali sono la principale fonte di inquinamento che contribuisce ai cambiamenti climatici. Ma fino a ora, non ci sono stati limiti federali alla quantità di inquinamento che questi impianti possono rilasciare nell’aria. Pensateci.

Un buon punto di partenza, ma perché il Clean Power Plan possa avere chance di raggiungere i propri obiettivi sarebbe meglio che il nuovo presidente non fosse il rampollo di una famiglia di petrolieri o un liberista scatenato. Insomma Jeb Bush eDonald Trump non sono esattamente la migliore scelta se l’America vuole intraprendere un new deal energetico. Il Clean Power Plan, insomma, da una parte è un atto dovuto agli elettori, dall’altra un assist non indifferente per chi uscirà vincitore dalle primarie “dem”.

Fonte:  Daily Mail

Oleodotto Keystone XL: Obama si oppone alla decisione del congresso e mette il veto

Il veto presidenziale blocca un colpo di mano dei repubblicani che intendevano accelerare l’iter dell’oleodotto senza le consuete procedure di impatto ambientale. Per la prima volta in cinque anni, il presidente Barack Obama ha posto il veto ad un atto approvato dal congresso a maggioranza repubblicana per accelerare la costruzione del controverso oleodotto Keystone XL, che dovrebbe trasportare il petrolio delle tar sands canadesi fino al Golfo del Messico.

Scrive il Presidente ai senatori:

«Il “Keystone XL Pipeline Approval Act.” ritorna indietro senza la mia approvazione. Con questa legge il Congresso tenta di aggirare i consueti e consolidati processi per determinare se la costruzione e gestione di un oleodotto internazionale serva o meno agli interessi nazionali. Prendo con molta serieta’ il potere di veto presidenziale, ma prendo con molta serieta’ anche la mia responsabilita’ nei confronti del popolo americano e poiche’ questo atto entra in conflitto con le procedure stabilite e vorrebbe tagliare fuori le preoccupazioni legate alla sicurezza e all’ambiente, ho deciso di porre il veto.»

Cosa accadra’ ora? I repubblicani non hanno voti sufficienti per ribaltare il veto presidenziale, per cui il loro colpo di mano per accelerare forzosamente le procedure di impatto ambientale e fare un regalo ai petrolieri e’ definitivamente fallito. Questo non significa che il progetto dell’oleodotto lungo 1900 km sia definitivamente morto. Tuttavia altri due ostacoli si frappongono alla sua costruzione, la mancanza di un tracciato definitivo in Nebraska e la mancanza di un permesso per il South Dakota. Il progetto dal costo di oltre 7 miliardi di dollari, e’ da anni ampiamente osteggiato dalle associazioni ambientaliste e dai sostenitori di Obama, non solo per l’ impatto ambientale sulle zone attraversate dal progetto, ma anche e soprattutto perche’ darebbe un ampio sbocco commerciale all’ultra inquinante petrolio canadese da sabbie bituminose, sia a livello locale, con aumento dei livelli di mercurio e del rischio di leucemia, ma anche a livello globale, visto che per ricavare una tonnellata di petrolio (prima ancora che venga bruciata) si emettono infatti 0,58 t di CO2.Keystone

Fonte: ecoblog.it

Barack Obama chiede che l’Alaska sia protetto come riserva naturale

Obama promette che l’Alaska diventerà riserva naturale.

La questione è poco ambientalista e molto economica: rendere l’Alaska riserva naturale impedirà ai russi di prendere il prezioso petrolio. L’Alaska è una terra ricca di risorse naturali contese da Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna e Russia. D’altronde il presidente Obama è impegnalo a lasciare dietro di sé il miglior ricordo possibile e rivendicando la scelta di intervenire con rigore nella lotta ai cambiamenti climatici (salvo poi investire nel fracking) Ogni anno, con l’arrivo della primavera e e lo sciogliersi della neve, decine di migliaia di caribù iniziano la loro grande migrazione – viaggiano per circa 1.500 chilometri attraverso l’Artico fino all’Alaska National Wildlife Refuge dove le femmine partoriranno. Questa regione è conosciuta dalle comunità native dell’Alaska come: “Il luogo Sacro dove la vita comincia”. Al Rifugio, che copre un’area di 12 milioni di acri, giungono le più diverse varietà di fauna selvatica da tutta la regione artica, come orsi polari, lupi grigi, buoi muschiati e tutte le specie uccelli che migrano alla pianura costiera dai 50 stati del Paese.alaska-refuge-611x350

La maggior parte del Rifugio non è protetto. Per più di tre decenni è stato chiesto a gran voce di stabilire una protezione che allontani le trivellazioni per il petrolio dalla pianura costiera che rientra nella Riserva. Oggi, il Dipartimento degli Interni ha pubblicato la revisione finale del Comprehensive Conservation Plan progetto per sostenere e gestire meglio l’intero Arctic National Wildlife Refuge e il presidente Obama ha intrapreso un ulteriore passo avanti annunciando che intende chiedere al Congresso di chiedere che la pianura costiera e altri settori chiave del rifugio siano lasciati allo stato naturale. Gli Stati Uniti oggi sono il primo produttore di petrolio e gas naturale al mondo e importano meno greggio rispetto a 30 anni fa. L’amministrazione Obama ritiene che le risorse di petrolio e gas naturale possono essere sviluppate in modo sicuro, anche se purtroppo, incidenti e sversamenti possono ancora accadere e gli impatti ambientali a volte possono perdurare per anni. Il Coastal Plain of the Arctic Refuge è a oggi uno dei pochi posti rimasti incontaminati nel Paese, così come lo era quando le più antiche comunità dei nativi dell’Alaska lo hanno abitato. Scrivono sul sito della Casa Bianca:

E’ una zona troppo preziosa per essere messa a rischio e riconoscere l’area come selvatica significa preservare questo posto selvaggio, libero e bello e far si che sia custodito non solo per i nativi ma per tutti gli americani.

E’ curioso immaginarsi il Congresso essere ispirato come gli attivisti di Greenpeace.

Fonte: White House
Foto | Alaska Federal Subsistence Management Program@facebook

Obama, stato dell’Unione: nessuno ha fatto come noi contro i cambiamenti climatici

Il presidente USA rivendica la leadership nella lotta ai cambiamenti climatici, celebrando i traguardi raggiunti nella produzione di energia eolica e fotovoltaica. Nel suo discorso sullo stato dell’UnioneBarack Obama ha affrontato con determinazione il tema del global warming: «Nessuna sfida pone una maggiore minaccia alle generazioni future dei cambiamenti climatici». Il presidente ha affermato  che la sua amministrazione si e’ impegnata piu’ di ogni altra in passato per combattere i cambiamenti climatici, «dal modo in cui produciamo l’energia al modo in cui la usiamo».  In effetti, dall’inizio della presidenza di Obama gli Stati Uniti sono diventati i maggiori produttori di energia eolica del pianeta167 TWh nel 2013 contro i 138 della Cina (1). «Ogni tre settimane, ha aggiunto Obama, mettiamo on line tanta energia solare quanto abbiamo fatto in tutto il 2008». Nel 2014 gli USA hanno installato 7 GW di fotovoltaico, portando il totale a oltre 17 GW, superando quindi l’Italia (rimasta al palo per le miopi politiche filo-petrolifere nostrane). Dutante la sua visita a Pechino, Obama aveva annunciato che gli USA raddoppieranno i loro sforzi contro i cambiamenti climatici, ottenendo per la prima volta l’impegno cinese ad una riduzione delle emissioni. Nel discorso, il presidente ha anche avuto parole dure contro i negazionisti e tutti quelli che vogliono portare indietro l’orologio della storia:

Ho sentito alcuni cercare di negare l’evidenza dicendo che non sono scienziati e che non abbiamo abbastanza informazione per agire. Bene nemmeno io sono uno scienziato, ma, sapete, conosco un sacco di ottimi scienziati alla NASA, NOAA e nelle nostre maggiori universita’. I migliori scienziati del mondo ci stanno dicendo che le nostre attivita’ stanno cambiando il clima e che se non agiamo con forza continueremo a vedere i mari che si alzano, maggiori ondate di calore, sempre piu’ pericolose siccita’ ed inondazioni, e altre catastrofi di massa che potrebbero scatenare migrazioni, conflitto e fame in tutto il globo.

L’alternativa tra una scelta politica conservatrice ed una progressista e’ molto chiara nelle parole del presidente e rimarra’ come monito per gli anni futuri:

Vogliamo affrontare il mondo impauriti e di rimessa, trascinati in conflitti costosi… oppure vogliamo guidare saggiamente, usando tutti gli elementi in nostro potere per sconfiggere le nuove minacce e proteggere il nostro pianeta?Obama-620x465

(1) La Cina ha una maggiore potenza installata (90 GW rispetto ai 60 degli USA), ma una minore produzione di energia dovuta al minore flusso di vento.

Fonte: ecoblog.it

Keystone XL, la Corte Suprema del Nebraska approva il tracciato dell’oleodotto: cosa farà Obama?

La Corte Suprema del Nebraska ha rimosso un grande ostacolo alla proposta di oleodotto Keystone XL. Il presidente Barack Obama dovrà rendere noto nei prossimi mesi la sua decisione su questa opera giudicata inutile da molti americani. Per tre dei sette giudici della a Corte Suprema del Nebraska, le motivazioni contro l’oleodotto Keystone XL presentati da tre proprietari terrieri non erano sufficienti a fermare il mega progetto nato sotto la presidenza Obama. L’oleodotto dal Canada arriverà in Texas passando per lo Stato del Nebraska anche se l’ultima parola spetterà proprio al presidente Barack Obama. Questa mega opera nasce con l’intento di portare le sabbie bituminose dal Canada al Texas attraverso un oleodotto lungo 1.897 Km. E’ considerato altamente inquinante sia per i terreni che solca sia per le emissioni di CO2. L’opera che dovrebbe portare oltre 700 mila barili di petrolio e rendere ancor più indipendente gli Usa dall’approvvigionamento di petrolio, è combattuta da sei anni dagli ambientalisti. Jane Kleeb dell’associazione Bold Nebraska impegnata a contrastare l’oleodotto ha detto:

Siamo fiduciosi e crediamo che il presidente starà con gli agricoltori, allevatori e le comunità tribali e respingiamo Keystone XL una volta per tutte.Activists Rally In Washington Against Keystone XL Pipeline

Il Congresso, nel frattempo, si sta già muovendo per porre fine al dibattito e far partire il progetto dell’oleodotto contestato. La sentenza della Corte Suprema del Nebraska si è avuta a poche ore dal disegno di legge che la Camera andrà a votare mentre al Senato sarà votato la prossima settimana: il Keystone XL potrebbe ottenere il riconoscimento federale il che porrebbe la decisione finale nelle mani del Presidente Obama. Nel merito fa sapere Eric Schultz portavoce della Casa Bianca:

Il Dipartimento di Stato sta esaminando la decisione della Corte come parte del suo processo. Come abbiamo chiarito indipendentemente dalla sentenza emessa in Nebraska oggi abbiamo da seguire ancora una serie di procedure che impediscono al momento un esame approfondito delle questioni più complesse.

La questione dell’oleodotto discussa in Nebraska ha posto il Keystone XL al pari di una linea ferroviaria o telefonica e dunque è stata esaminata la legittimità dei proprietari terrieri di fare ricorso contro questa grande opera. I giudici hanno dovuto valutare se fosse costituzionale o meno imporre il passaggio dell’oleodotto nel terreno dei tre proprietari. Tre dei sette giudici hanno rifiutato di affrontare la costituzionalità della legge in questione, perché non erano d’accordo con la maggioranza, condannando praticamente i proprietari terrieri. A riprova che l’opera potrebbe essere dannosa e non solo dal punto di vista costituzionale, è uno studio ambientale commissionato dal Dipartimento di Stato, rappresentato da John Kerr e pubblicato nel gennaio 2014 che prende in esame l’economia, la sicurezza energetica e le relazioni degli Stati Uniti con il Canada. Ebbene, alla luce di queste varie considerazioni il Keystone XL risulta avere un basso impatto ambientale poiché il Canada continua a estrarre petrolio con o senza oleodotto. Studi ambientali del Dipartimento di Stato, tra cui una finale pubblicato nel gennaio 2014, ha scoperto che il gasdotto avrebbe poco impatto sui cambiamenti climatici, perché il Canada continua a produrre olio, indipendentemente dal fatto che il Keystone XL sia costruito.

I gruppi ambientalisti hanno già annunciato che sfideranno nei tribunali americani qualsiasi permesso e che metteranno in scena azioni di disobbedienza civile.
fonte:  Politico

© Foto Getty Images

Obama blocca sondaggi e trivellazioni nella Bristol Bay

Il presidente Usa ha vietato le esplorazioni per gas e petrolio e le trivellazioni in un’area di 52 miglia quadrate al largo dell’Alaska. Martedì 16 dicembre Barack Obama ha vietato le esplorazioni per ricercare gas e petrolio nella Bristol Bay, in Alaska. Niente esplorazioni significa niente estrazioni, una misura che è stata motivata dalla necessità di preservare le industrie del turismo e della pesca in questa zona ancora incontaminata. Con questa decisione il presidente degli Stati Uniti d’America a escluso il progetto di estrazione degli idrocarburi fino a data da definirsi. Un temporaneo blocco del progetto era già stato deciso nel 2010.

Ho preso questa decisione per essere sicuro che una delle regioni più belle d’America e uno dei motori dell’economia, non solamente per l’Alaska, ma per tutta l’America, sia preservata per le generazioni future. Si tratta di qualcosa di troppo prezioso per noi per metterlo a disposizione del miglior offerente,

ha detto Obama in un video. Il divieto proteggerà alcuni milioni di ettari di costa e terreni selvaggi. La Bristol Bay, situata nel sud ovest dell’Alaska, fornisce, da sola, il 40% del pesce non allevato consumato negli Stati Uniti, realizzando un volume d’affari di circa 2 miliardi di dollari (secondo i dati forniti dalla Casa Bianca). Inferiore ma comunque molto interessante è il volume d’affari dell’industria del turismo che si assesta sui 100 milioni di dollari. Nella Bristol Bay si trovano molte specie selvatiche di salmoni, lontre, foche, trichechi, balene, beluga e orche. La baia ha una lunghezza di 400 km e una larghezza di 290 km, ed è la più orientale estensione del mare di Bering.Obama Gives Major Speech On Climate Change And Pollution

Fonte:  Ansa

© Foto Getty Images

America: tattiche di una guerra infinita

Un altro fronte di guerra per l’America di Obama che va a bombardare il neonato Stato Islamico (Isis) in territorio siriano, violando la sovranità della stessa Siria. Una nazione il cui presidente, Bashar al-Assad, da lungo tempo non piace all’America. Le bombe sono indirizzate ad un autoproclamato califfato islamico estremista che gli Usa stessi hanno contribuito a creare e che ora, diventato scomodo e ribelle, va ritrasformato in una “faccenda gestibile”. Un califfato che se ne esce sulla scena occidentale diffondendo un film-propaganda, “Flames of war”, che sembra uscito da Hollywood. Cos’è che non quadra?raid_america_isis

Barack Obama…e pensare che nel 2009 il comitato di Oslo gli aveva conferito il premio Nobel per la pace. Ora, è ufficiale, ha aperto un altro fronte di guerra. Dopo avere scalzato Gheddafi dalla Libia e aver comandato di sganciare bombe in Somalia e nello Yemen, Obama ha iniziato i raid aerei nella fascia tra Iraq e Siria, dichiarando guerra allo Stato Islamico, «una decisione che vìola la sovranità della Siria» spiega Brahma Chellaney, docente di studi strategici al Center for Policy Research di Nuova Delhi e saggista. «Zelante nell’intervento, non ha perso tempo ma così facendo ha calpestato anche la legge internazionale e quella americana, poiché non ha cercato né ottenuto l’approvazione né del Congresso né del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Il suo predecessore,  George W. Bush, era stato il promotore della cosiddetta “war on terror”, la guerra al terrore dalla quale Obama aveva cercato (chissà con quanta convinzione) di prendere le distanze e che puntava a sconfiggere quei gruppi che volevano istituire un impero islamico radicale. Ma l’invasione e l’occupazione dell’Iraq aveva sollevato tali e tante controversie da disgregare il consenso globale alla guerra, consenso che ne doveva costituire il fondamento. Poi si sono aggiunte le detenzioni e le torture a Guantanamo a simboleggiare gli eccessi». I proclami post-Bush sono rimasti evidentemente retorica, «visto che l’amministrazione Obama ha usato le attività anti-terroristiche per portare avanti gli interessi geopolitici degli Usa» aggiunge Chellaney. «Anziché considerare l’eliminazione di Osama Bin Laden come il culmine della guerra contro il terrore, Obama ha incrementato gli aiuti ai ribelli “buoni” (come quelli in Libia), perseguendo ancora più duramente quelli “cattivi”, i terroristi, ricorrendo anche a un programma di uccisioni mirate». «All’inizio Obama aveva messo lo Stato Islamico nella categoria dei “buoni”, poiché minacciava gli interessi del presidente siriano Bashar al-Assad e quelli dell’Iran. La sua posizione è cambiata quando lo Stato Islamico ha iniziato a minacciare di invadere Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, dove erano di casa l’esercito e i diplomatici americani e dove giravano gli affari. Aggiungete a ciò la decapitazione di due giornalisti americani diffusa con video ed ecco che arriva la dichiarazione di guerra in stile Bush». Quello che si rischia è che la guerra al terrore dell’America «diventi una guerra permanente contro una lista di nemici in continua espansione, spesso creati dalla stessa politica americana – prosegue Chellaney –  Così come gli aiuti forniti ai ribelli afghani anti-russi hanno contribuito alla nascita di Al Qaeda (cosa che Hillay Clinton sapeva benissimo quando era segretario di Stato di Obama), allo stesso modo gli aiuti forniti dagli Usa e dai suoi alleati agli insorti siriani dal 2011 hanno contribuito alla nascita dello Stato Islamico. Gli Usa sono tornati in Afghanistan nel 2001 per combattere una guerra infinita contro gli jihadisti, ora muovono guerra allo Stato Islamico perchè minaccia i piani americano in Iraq e Siria”. E l’esperto indiano lancia l’affondo affermando anche che «Obama è più interessato a confinare il terrorismo nel Medio Oriente piuttosto che a eliminarlo» e ricorda come la guerra che il Pakistan sta conducendo contro l’India sia proprio una conseguenza dell’operazione americana anti-Russia in Afghanistan. Non a caso il presidente americano, rispondendo a un reporter che gli chiedeva chiarimenti, ha detto che il suo vero obiettivo è riportare lo Stato Islamico ad un “problema gestibile”. «Ma a peggiorare le cose in questa nuova guerra ci si mette la tattica che viene usata, cioè la stessa che ha portato alla nascita dello Stato Islamico: autorizzare la Cia, aiutata da qualche sceicco delle regioni del petrolio, ad armare migliaia di ribelli siriani». Poi, non certo di minore importanza è la questione della legittimità o meno dell’intervento americano ai sensi del diritto internazionale e del diritto interno statunitense e su questo ci sono molti, molti dubbi.Intanto gira in tutto il mondo un film-propaganda dell’Isis, realizzato hollywoodianamente in stile “Die Hard” con slow motion, dissolvenze ed esplosioni. C’è chi si limita a indignarsi e intimorirsi per le scene di ammazzamenti, ma ci sono anche quelli, e sono tanti, che si pongono più di una domanda. Qualcosa non quadra? “Flames of War, fighting has just begun”, è questo il titolo del film (passatemi il termine, ma è azzeccato), va oltre, mette un’ipoteca sul futuro di tutti, annuncia altro terrore con avvertimenti costruiti sulle immagini di impatto. Saranno in molti a ricordare i filmati di Bin Laden che parlava in arabo, scarsa qualità, inquadratura fissa, immagine sgranata. Ebbene la nuova strategia hollywoodiana dell’Isis non ha nulla a che fare con questo. Evidentemente un salto tecnologico e di mentalità non da poco, se vogliamo intenderla così. Per non parlare dei militanti addetti ai social network che twittano e postano su Facebook! La Abc ha detto che dietro tutto ciò ci sarebbe Ahmed Abousamra; doppia cittadinanza americana e siriana, ha frequentato il college a Boston e avrebbe collaborato con l’Fbi. Poi ci sono le tante notizie choc passate sui media, roboanti, spesso contraddittorie e non verificate, grazie alle quali è stata mantenuta sempre accesa l’attenzione sull’Isis.

Allora: qualcosa non quadra o quadra tutto?

Fonte: ilcambiamento.it

Perchè ci Odiano

Voto medio su 6 recensioni: Da non perdere

€ 11

Obiettivo Siria - Libro

Voto medio su 1 recensioni: Da non perdere

€ 11.5

La svolta di Obama: dare un prezzo al Carbonio per lasciare i fossili sotto terra

Dare un prezzo al carbonio è secondo il presidente USA il metodo più efficace per lasciare i fossili sotto terra, in modo da limitare il riscaldamento globale a soli 2°C. Chi inquina paga, insomma, anche in ambito energetico

La politica climatica di Obama segna decisamente una svolta; anche se si tratta di un’intervista alla televisione e non di un discorso ufficiale, per la prima volta il presidente USA ha riconosciuto la necessità di dare un prezzo al carbonio emesso, in modo da limitare gli effetti dei cambiamenti climatici. L’intervista verrà trasmessa oggi nel programma Years of living dangerously, dedicato specificatamente ai cambiamenti climatici, ma il conduttore Thomas Friedman ha fornito alcune anticipazioni sul NYT:

Friedman: «Secondo l’IEA solo un terzo delle riserve possii potrà essere bruciato prima del 2050, per non superare il limite di 2°C nel riscaldamento globale (1)… è d’accordo con questa analisi?»

Obama:  «La scienza è scienza, e non c’è dubbio che se bruciassimo tutti i combustibili fossili che si trovano sotto terra, il pianeta diventerebbe troppo caldo e le conseguenze sarebbero gravi.»

Friedman: «Allora, non potremo bruciarli tutti?»

Obama: «Non non li bruceremo tutti. Nei prossimi decenni dobbiamo costruire una transizione tra come usiamo l’energia oggi a come avremo bisogno di usarla.»

Friedman: «Qual è la cosa più importante da fare per affrontare i cambiamenti climatici?»

Obama: «Mettere un prezzo al carbonio. Così abbiamo risolto altri problemi, come ad esempio le piogge acide. Abbiamo detto: vi faremo pagare se rilascerete queste sostanze in atmosfera, perché non è possibile. che a pagare siano tutti gli altri. Trovate un modo per mitigare le emissioni.»

Non sarà certo la fine del fracking o delle centrali a carbone, ma per la prima volta si pone chiara la questione: chi inquina paga, anche in ambito energetico. Un programma simile non si potrà probabilmente fare in due anni, ma potrebbe essere nell’agenda del prossimo presidente, anzi forse presidentessa.Obama Gives Major Speech On Climate Change And Pollution

(1) E’ la cosiddetta bolla del Carbonio, di cui abbiamo parlato su Ecoblog più di un anno fa.

Fonte: ecoblog.it

Due terzi degli americani sostengono le misure di Obama per la riduzione della CO2

Il provvedimento è fortemente osteggiato dai repubblicani, ma secondo un sondaggio dell’Università di Yale godrebbe di un supporto trasversale da parte dei cittadini USA. I due terzi degli americani sostengono la politica del presidente Barack Obama per la riduzione della CO2, che prevede una diminuzione del 30% rispetto al 2005 delle emissioni da parte degli impianti di produzione di energia entro il 2030. Il sondaggio è stato svolto dall’università di Yale e mostra che il 68% degli intervistati è a favore di una qualche regolazione nelle emissioni; è interessante notare che il sostegno è trasversale, perchè attraversa tutti i partiti politici, anche se è naturalmente più alto tra i democratici (80%) che tra i repubblicani (54%). La decisa ostilità del Grand Old Party alle misure antinquinamento sembrerebbe riflettere più il suo legame con l’industria fossile che l’opinione dei suoi elettori. Esiste inoltre una maggioranza (64%) a favore di una più stretta regolamentazione degli impianti alimentati a carbone, anche se in questo caso ta gli elettori repubblicani prevale la contrarietà. Attraverso la regolamentazione delle omissioni Obama realizza il programma annunciato lo scorso anno di un new deal per l’ambiente. Secondo i commentatori di Climate Progress si tratta dell’azione più significativa effettuata da un presidente USA per controllare l’inquinamento. Le cinquanta centrali a carbone più inquinanti degli USA emettono ogni anno oltre 650 Mt di CO2, pari a una volta e mezza le emissioni italiane.Sondaggio-CO2-USA

Fonte: ecoblog.it

Accordi TTIP, in un documento segreto tra Usa e UE l’apertura a fracking e shale gas in Europa

L’HP ha pubblicato ieri un documento segreto che rientra nel Patto TTIP in cui USA e UE si accordano per liberalizzare lo shale gas e il fracking

Gli accordi TTIP che piacciono tanto all’Italia portano anche shale gas e fracking. Questo è infatti il contenuto del documento riservato e pubblicato ieri da HP dove si evince la pressione a cui è sottoposta l’Unione Europea da parte dell’amministrazione Obama affinché possano essere effettuate nuove trivellazioni alla ricerca di petrolio e gas naturale così. Il documento è in sostanza una prima bozza che prospetta la politica energetica che i negoziatori europei sperano di vedere adottata nell’ambito del TTIP- Transatlantic Trade and Investment Partnership in fase di negoziazione a Arligton in Virginia. Il testo è stato condiviso con funzionari americani nel mese di settembre e l’Ufficio del US Trade Representative ha rifiutato di commentare il documento. Gli Usa vogliono esportare il loro shale gas in Europa e anche petrolio. D’altronde Assoeletterica puntuale lo scorzo mese di marzo dopo il vertice sull’Energia presidente Obama così commentava:

In sostanza, il meta-messaggio di Obama agli europei è togliete la moratoria sullo shale gas. Altro che mulini a vento e raggi del sole, la questione energetica europea si riassume a prendere una posizione netta sul fracking, l’estrazione di gas attraverso la frantumazione delle rocce. Perché come riassume più liricamente, Paolo Scaroni, amministratore dell’Eni, “o siamo disposti come gli americani ad abbracciare lo shale gas, oppure saremo costretti ad abbracciare Putin”. Secondo le stime dell’ente statunitense Energy Information Administration, l’Europa avrebbe riserve per 450 trilioni di piedi cubi pari a circa 80% delle risorse disponibili nel sottosuolo americano. L’Europa però è spaccata e alla guidare di ciascun schieramento ci sono proprio i due paesi che concentrano il massimo delle risorse stimate. La Francia con 137 trilioni di piedi cubi ne ha vietato l’estrazione e la Polonia con 148 trilioni di piedi cubi che conta oltre 50 pozzi. Chi ha colto al balzo l’ammonimento di Obama per rilanciare sulla necessità di guadagnare l’indipendenza energetica per poter manovrare liberamente le leve della politica estera è David Cameron, che incontra notevoli resistenze a casa sua contro lo sviluppo estrattivo di shale gas anche dopo aver tolto la moratoria sul fracking nel dicembre 2012.

La questione non è prosaicamente ambientalisti contro petrolieri, ma essere sicuri che l’estrazione di shale gas non produca più danni che benefici non solo al suo ma anche al clima e le conoscenze che abbiamo ci portano a valutare che l’impatto ambientale è troppo pesante sia per il Pianeta sia per noi che lo abitiamo. Francia e Polonia hanno una struttura del suolo certamente diversa da quella statunitense e in più non sono altrettanto estese. Nel vecchio continente dovremmo affrontare molti più problemi. Ma in sostanza il succo del TTIP è tutto concentrato sulle politiche energetiche anche se poi analizza questioni che riguardano il comparto agroalimentare (l’oro italiano) ad esempio se i caseifici americani possono chiamare alcuni dei loro prodotti “Feta” o “Parmigiano”. Commentano così i francesi di France attac:BELGIUM-EU-US-TRADE

Questo documento non menziona le questioni climatiche o sfide in merito alla scarsità di risorse. Incoraggiare l’espansione del commercio dei combustibili fossili non fa altro che aumentare lo sfruttamento e il consumo sostenibile di idrocarburi e rafforza la nostra dipendenza. Tutto a spese del clima e di una vera transizione energetica e solo per un obsoleto fondamentalismo del libero mercato.

Insomma, leggendo il documento, il punto di vista americano è questo: se si incoraggiano le esportazioni dagli Usa all’Europa di greggio e shale gas allora si stimola anche la trivellazione in casa europea il che però scoraggerebbe lo sviluppo dell’Energia rinnovabile. Gli Stati Uniti hanno vietato le esportazioni di petrolio greggio nel 1975 e sono in atto una serie di restrizioni all’esportazione di gas scisto sia per ragioni di sicurezza economica e nazionale. Ma il presidente può rilasciare licenze speciali per esentare alcune esportazioni di greggio e il ministro dell’Energia Ernest Moniz ha detto questo mese che è intenzionato a valutarne la possibilità. A innescare la spinta a allentare i vincoli sulle esportazioni di gas naturale dagli Stati Uniti verso l’Europa il conflitto tra Russia e Ucraina ma le proposte non sembrano essere in linea con e norme ambientali europee che limitano lo sviluppo nel settore dei combustibili fossili .

Fonte: HuffingtonPost

© Foto Getty Images