In Italia orti urbani triplicati in due anni

Dal 2011 al 2013 la superficie urbana coltivata è passata da 1,1 milioni di mq a 3,3 milioni di mq

Dal 2011 al 2013, in Italia, la superficie degli orti urbani è triplicata. Sono i dati di un vero e proprio boom quelli resi noti da un’analisi di Coldiretti sulla base dei dati Istat: 3,3 milioni di mq di terreno di proprietà comunale sono stati divisi in piccoli appezzamenti e utilizzati per la coltivazione ad uso domestico, l’impianto di orti e il giardinaggio ricreativo. Dall’1,1 milioni di metri quadri del 2011 ai 3,3 milioni di mq del 2013 l’escalation della coltivazione in città la dice lunga sul cambio di atteggiamento degli italiani nei confronti dell’agricoltura. Fra chi l’agricoltura la pratica di professione, chi coltiva orti urbani e chi piante commestibili sul balconi, un quarto degli italiani sceglie di autoprodursi in casa frutta, verdura, legumi ed erbe. Gli orti urbani sono forniti in comodato d’uso gratuito con destinazione al consumo familiare e non a scopo di lucro. Inoltre gli orti urbani hanno importanti funzioni sociali: al valore didattico e in alcuni casi terapeutico, infatti, si sommano i benefici per il territorio, con lo sfruttamento di aree interstiziali che sarebbero destinate al degrado e all’abbandono. Sempre secondo Coldiretti, nel 2013 la metà delle amministrazioni comunali capoluogo di provincia hanno messo a disposizione orti urbani per la cittadinanza, con una percentuale che sale all’81% se si considera solamente il Nord Italia. Fra le città “regine” Torino, Bologna e Parma. Un trend virale anche nei giardini privati con pomodori, zucchine e fragole che prendono il posto di roseti e piante ornamentali. E anche gli operatori del settore si stanno adattando con vasi ed attrezzi ad hoc per gli orti pensili.ortourbano-586x391

Fonte:  TmNews

© Foto Getty Images

Campania inquinata, De Biase: «Impresa proibitiva la bonifica»

L’ISS Istituto superiore di Sanità sta svolgendo nell’area ex Resit a Giugliano i campionamenti e test per stabilire l’inquinamento e se ortaggi e frutta sono pericolosi per la salute umana106418347-594x350

Immaginate un’are tra le più fertili d’Italia con di fronte il mare, bellissimo e pescoso e pieno di telline. Poi Immaginate che questa terra pari a 2600 campi di calcio, 220 ettari, sia stata inquinata in circa 40 anni ogni giorno, ogni anno. Ebbene in questa zona così ampia il terreno è talmente inquinato, che ha contaminato anche la falda acquifera. La gente intorno, intanto, si ammala sempre più di cancro ma le istituzioni rispondono che la causa va ricercata nei loro stili di vita. Eppure non siamo in un area fortemente industriale ma nella Campania felix con tanti campi intorno agricoli. A inquinare la camorra e le ecomafie che solidali hanno preso i veleni del Nord Italia, Acna di Cengio ad esempio, e dal Nord Europa e li hanno sversati nel ventre Meridionale. D’altronde Carmine Schiavone lo ha appena ricordato 20 giorni fa che nelle zone note a tutti ci sono i veleni. Quali sono? Area Asi verso Novambiente, San Giuseppiello e tra la Resit e Masseria del Pozzo. Scrivono gli esperti dell’ISS:

Alla luce dei dati disponibili ottenuti con le procedure analitiche selezionate si evince che al momento la presenza dei composti organici volatili, maggiormente rilevati nelle acque dei pozzi, non influenza le matrici ortofrutticole coltivate nell’area oggetto dello studio. Quanto detto lascia presupporre che non ci sia per i COV (sostanze volatili cancerogene) un passaggio diretto di contaminazione dalle acque alla pianta e di conseguenza alla parte edibile della pianta stessa. Questa spiegazione diventa necessaria dopo che comitati cittadini e associazioni e anche una testata on line Parallelo 41 hanno proposto a politici e amministratori un banchetto a base dei frutti e ortaggi della terra avvelenata il prossimo 2 novembre. Risponde perciò Mario De Biase commissario di Governo che dalle colonne de Il Mattino di oggi (pag. 53) dice:

Realisticamente la bonifica appare impossibile. Per legge bisognerebbe raccogliere tutti i materiali e rimuoverli e trasportarli altrove. Stesso discorso per le acque. Un impresa proibitiva. Ciò che invece è necessario fare è la messa in sicurezza per fermare l’avanzata di percolato e biogas. E in parallelo bisogna pensare a una massiccia riconversione “no food” sostituendo alberi da frutta con pioppi, boschi e essenze arboree. Immaginiamo che la bonifica sia proibitiva in termini economici proprio come ha sostenuto Carmine Schiavone?

Fonte:  Il Mattino 12 settembre 2013 pag. 53

 

Smog: 43 miliardi di euro l’anno imputabili all’inquinamento da mezzi pesanti

Lo smog presenta il conto: l’inquinamento prodotto da camion, furgoni, tir, autocarri ci costa tra i 43 e i 46 miliardi di euro l’anno in giorni di lavoro persi e spese sanitarie. Per l’Agenzia Europea per l’Ambiente l’unica via far pagare è i costi esterni dell’inquinamento atmosferico alle compagnie di trasporto, incentivandole a rinnovare il parco mezzi376034

Cento miliardi di euro l’anno, fra giorni di lavoro persi e assistenza sanitaria: è il conto presentato ogni anno dallo smog, secondo le stime dell’Agenzia Europea per l’Ambiente. Di questi cento, almeno 43 miliardi di euro vanno imputati all’inquinamento causato dai mezzi pesanti, che viaggiano su strada. Camion, furgoni, tir, autocarri, sono responsabili del 40-50% dell’inquinamento da ossido di azoto (NOx) proveniente dal trasporto stradale. E poco importa che il passaggio sia al di fuori dei confini urbani: l’inquinamento non conosce frontiere, figuriamoci la classificazione stradale. Ne avevamo parlato, un anno fa, con il Direttore del Settore Ambiente di Amat, Bruno Villavecchia, in un’intervista ancora attuale, di cui vi riproponiamo un passaggio: “La principale fonte di inquinamento atmosferico sono i trasporti, e pur costituendo una parte ridotta del parco veicolare, il trasporto merci, che funziona prevalentemente su gomma, fa la parte del leone. Ci vogliono azioni politiche mirate, giocate su larga scala, e l’adozione di quelle misure strutturali che lo stesso Ministro dell’Ambiente ha richiamato quest’estate, alla presentazione del Decreto sviluppo. La Francia, a due passi da noi guarda da lontano il calvario dello smog che affligge Nord Italia, eppure loro stanno implementando un sistema di regolamentazione del trasporto delle merci su scala nazionale. Si farà uso della tecnologia Rfid e GPS per il tracciamento dei veicoli sopra le 3,5 ton, e ci sarà un sistema di tariffazione che interesserà tutta la rete stradale francese, in base alle percorrenza e anche alle emissioni. Tutto questo facendo uso di tecnologia italiana… Questa regola varrà anche per il traffico transfrontaliero, quindi anche per i mezzi italiani che fanno consegne in Francia. E che dire della Direttiva europea conosciuta come “Eurovignette”? Viene adottata in mezza Europa, e sancisce il principio del “chi inquina paga” imponendo una tassa ai veicoli inquinanti, che si applica al pedaggio autostradale. E noi, che siamo il malato più grave d’Europa, ci permettiamo di avere ancora circa il 32% dei mezzi pesanti in categoria Euro 0?”. Il gasolio, utilizzato dalla maggior parte degli automezzi pesanti, provoca più inquinamento atmosferico per chilometro rispetto ad altri combustibili come la benzina. Non a caso, le emissioni di scarico provenienti dai motori a gasolio sono state recentemente etichettate come cancerogene dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. E, come sempre accade quando parliamo di inquinanti atmosferici, bisogna tener conto del fatto che le conseguenze variano da un ambiente all’altro. Così come per l’Ilva si disse che se lo stabilimento fosse stato costruito nella pianura padana invece che a Taranto avremmo avuto una catastrofe senza precedenti, anche gli scarichi dei mezzi pesanti provocano più danni dove vi è una densità di popolazione maggiore o in regioni senza sbocchi sul mare e aree montuose in cui l’inquinamento non può essere disperso così facilmente. Ed ecco perché, avverte l’EEA, il costo dell’inquinamento atmosferico dovuto ad automezzi pesanti è fino a 16 volte maggiore in alcuni paesi europei rispetto ad altri. “Il costo medio dell’inquinamento proveniente da un autocarro Euro3 da 12-14 tonnellate è più alto in Svizzera e ammonta a quasi € 0,12 per chilometro. I costi sono elevati anche in Lussemburgo, in Germania, in Romania, in Italia e in Austria e ammontano a circa € 0,08/km. All’estremo opposto, lo stesso autocarro che viaggia a Cipro, Malta e in Finlandia provoca un danno di circa mezzo centesimo di euro per chilometro”.
Pedaggi mirati
Per questa ragione, la relazione dell’EEA lancia una proposta: far pagare pedaggi che tengano conto delle effettive conseguenze sulla salute dovute al traffico nei diversi paesi europei. in altre parole, i pedaggi dovrebbero essere più cari in alcuni paesi rispetto ad altri.
Il rinnovamento del parco mezzi conta
In ogni caso, finché il trasporto merci su gomma continuerà a giocare un ruolo così importante nel commercio internazionale, per l’Agenzia europea, l’unica via percorribile per limitare i danni è rinnovare il parco mezzi. “Gli autocarri più nuovi avrebbero un impatto minore e pertanto un costo inferiore. Gli autocarri Euro4, che sono vecchi fino a sei anni, o Euro5, vecchi fino a tre anni, provocherebbero il 40-60% di costi esterni in meno sugli stessi corridoi di trasporto. Far pagare alle compagnie di trasporto i costi esterni dell’inquinamento atmosferico incentiverebbe tecnologie più nuove e più pulite”. Nulla di nuovo dunque. Ora però, bisogna metterlo in atto.
Fonte: eco dalle città

 

Smog, Legambiente al Ministro Orlando: “Si passi in rassegna la Legge Obiettivo nel Nord”

“Se davvero il Ministro Orlando vuole cambiare registro chieda di concertare col ministro delle Infrastrutture il piano delle autostrade previste dalla legge Obiettivo nel Nord Italia, sottoponendo ogni grande progetto ad una revisione indipendente che ne valuti la sostenibilità, cancellando i finanziamenti per i progetti che non superano il vaglio”376046

“Da anni Legambiente sottolinea come per contrastare efficacemente lo smog servano interventi su area vasta, mirati a ridurre le emissioni da traffico, causa prima dell’emergenza sanitaria e ambientale che interessa le nostre regioni”. Lo hanno dichiarato Damiano Di Simine presidente di Legambiente Lombardia, Fabio Dovana, presidente Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta, Lorenzo Frattini, presidente del regionale Emilia Romagna e Gigi Lazzaro, presidente del comitato Veneto, che si sono riuniti per concordare le loro strategie sulla mobilità in vista del vertice convocato domani dal Ministro dell’ambiente Andrea Orlando a Milano per concordare con le regioni del Nord Italia una comune strategia antismog per il bacino padano. “Fa bene il ministro a convocare i governatori delle regioni coinvolte per tradurre in atti concreti la volontà espressa a più riprese di mettere in campo interventi coordinati nella Pianura Padana. Ma non si può prescindere dai controlli. Gli enti locali continuano infatti a fare poco o a procedere in ordine sparso perché manca una pianificazione a livello centrale, c’e’ scarsa disponibilità di risorse ma anche poca lungimiranza e scarso senso di responsabilità”, hanno detto da Legambiente, aggiungendo: “l’appello che rivolgiamo al ministro e ai presidenti di regione e’ di non ripartire ancora una volta da zero nella discussione. Le cause, così come la terapia per uscire dall’emergenza sanitaria e ambientale che affligge la Pianura Padana, sono ben chiare. Quello che serve è una capacità politica nuova, che punti su un altro tipo di mobilità a basso tasso di motorizzazione e con alti livelli di efficienza e soddisfazione”. “Per la prima volta, col tavolo convocato dal ministro Orlando, abbiamo la possibilità di affrontare con maggiore tempestività la questione dei provvedimenti antismog da adottare per la stagione invernale – hanno dichiarato i presidenti regionali di Legambiente -. Speriamo che questo appuntamento sia poi realmente seguito da atti concreti e non più, come avvenuto sinora, da dibattiti sterili incapaci di mettere in campo provvedimenti efficaci”.
“Se davvero il Ministro Orlando vuole cambiare registro – hanno concluso i presidenti regionali di Legambiente -, chieda di concertare col ministro delle Infrastrutture e dei trasporti il piano delle autostrade previste dalla legge Obiettivo nel Nord Italia, sottoponendo ogni grande progetto ad una revisione indipendente che ne valuti sostenibilità e rapporto costi-benefici, cancellando ogni finanziamento per i progetti che non superano il vaglio. Con le risorse risparmiate potremmo finanziare uno dei sistemi di TPL interregionale più avanzati d’Europa, e ottenere una durevole riduzione delle percorrenze automobilistiche e commerciali a beneficio della mobilità collettiva”.

Fonte: eco dalle città

 

Vacanze in campeggio per 3,5 milioni di italiani

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Tre milioni e mezzo di italiani hanno deciso quest’estate di trascorrere la vacanza in tenda, roulotte o camper, per conciliare le esigenze di indipendenza e di flessibilità con quelle del risparmio. È quanto emerge da una analisi della Coldiretti sulla base dell’indagine Ipr Marketing dalla quale si evidenzia che questo tipo di turismo è apprezzato da ben il 9 per cento degli italiani che trascorreranno una notte fuori casa nell’estate 2013. Se i più giovani – sottolinea la Coldiretti – preferiscono la tenda, le persone di età più matura e con maggiori disponibilità finanziarie privilegiano la roulotte e soprattutto il camper sul quale viaggeranno ben 1,5 milioni di italiani. L’offerta turistica Made in Italy ha colto – sostiene la Coldiretti – questa opportunità e lungo tutta la penisola sono disponibili servizi, aree di sosta e campeggi al mare, nelle città d’arte, in montagna ed anche in campagna. Si stima che in Italia – sottolinea la Coldiretti – siano presenti almeno mille agricampeggi che rendono disponibili quasi 8mila piazzole di sosta particolarmente apprezzate dagli amanti della vacanza all’aria aperta come i camperisti. Molte aziende agrituristiche di Terranostra – continua la Coldiretti – si sono attrezzate con l’offerta di colazioni al sacco o con la semplice messa a disposizione spazi per picnic, tende, roulotte e camper per rispettare le esigenze di indipendenza di chi ama prepararsi da mangiare in piena autonomia ricorrendo eventualmente solo all’acquisto dei prodotti aziendali di campagna amica. Le sole aree di sosta camper presenti in Italia al di fuori dei campeggi sono circa 2000, di cui il 69% aree attrezzate, il 18% camper service e il 13% punti di sosta non attrezzati. È il Nord Italia ad ospitare il maggior numero di aree di sosta, con il 45,1% delle aree totali, di cui 21% al Nord Ovest e 24,1% al Nord Est, seguito dal Centro e dal Sud, rispettivamente con il 26,5% e il 28,4%, secondo il Rapporto nazionale sul turismo ‘en plein air’ in camper e in caravan 2013 dell’Associazione Produttori Caravan e Camper.

Fonte: Coldiretti

Allarme botulino: in Italia oltre 500 casi all’anno

Dopo le intossicazioni legate al consumo di un pesto alla genovese, torna alta l’attenzione sul botulino di cui, in Italia, sono già stati segnalati 268 casi nei primi sei mesi del 20131628990682-586x389

Il caso del pesto alla genovese nel quale sarebbero state trovate tracce di botulino ha nuovamente alzato l’attenzione sul tema della sicurezza alimentare. L’allarme lanciato sabato scorso per una partita di ben 14.872 confezioni di salsa al basilico distribuite in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Valle d’Aosta , purtroppo, non è riuscito a evitare che alcuni consumatori condissero la loro pasta con il pesto e in tutto il Nord Italia oltre cento persone si sono fatte visitare dopo avere accusato problemi o a scopo puramente cautelativo, dopo aver mangiato il pesto prodotto dalla fabbrica Bruzzone e Ferrari. I problemi connessi al botulino sono fra i più sottovalutati nella variegata casistica delle intossicazioni alimentari. Eppure in Italia, nel primo semestre del 2013, ne sono stati segnalati ben 268, un numero che contraddistingue un trend in aumento visto che durante tutto il 2013 furono ben 517 i casi rilevati nel nostro Paese. In Italia il sistema di allerta alimentare funziona, tanto che il nostro paese è il primo per quanto riguarda il numero delle segnalazioni di rischi alimentari alle autorità comunitarie nel primo semestre 2013. Da notare che circa l’80% delle segnalazioni riguardavano prodotti alimentari di provenienza straniera. L’estate è una stagione critica poiché, con le alte temperature, i rischi di contaminazioni microbiologiche aumentano in maniera sensibile. Alcuni batteri crescono anche nei frigoriferi a temperatura di refrigerazione e d’estate è meglio spostare il termostato su una temperatura più fredda rispetto all’inverno. È inoltre opportuno assicurarsi che la porta del frigo sia ben chiusa e che gli alimenti crudi siano separati da quelli cotti.

Fonte:  Coldiretti

 

Non solo Ilva: ecco tutti gli impianti a rischio

Sono 1142 gli stabilimenti a rischio di incidente rilevante (Rir) in Italia: ovvero stabilimenti e impianti industriali che, in caso di incidente, potrebbero compromettere e danneggiare irrimediabilmente l’ambiente circostante. E che rappresentano un potenziale pericolo per la sicurezza della popolazione che vive nel territorio. A svelarlo è un rapporto dell’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, elaborato in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente. Il pericolo correlato a questi impianti viene spesso identificato come“rischio Seveso”, richiamando alla mente il disastro ambientale del 1976, che causò la fuoriuscita di una nube tossica di diossina che investì una vasta area di territori della bassa Brianza, in seguito all’esplosione in un reattore chimico. L’incidente indusse i paesi della comunità europea a elaborare una normativa, la direttiva Seveso, volta proprio a evitare che si verificassero simili eventi in futuro. Si sente parlare spesso di Ilva Taranto, ma i comuni italiani con stabilimenti a rischio Seveso sono ben 756, e in 40 di questi ci sono quattro o più impianti Rir, ognuno dei quali rappresenta un potenziale fattore di rischio ambientale. Il 50% degli stabilimenti Rir, spiega il rapporto, si trova distribuito tra quattro regioni del nord Italia, LombardiaEmilia RomagnaVeneto e Piemonte, mentre La Valle d’Aosta, con soli 6 stabilimenti, è invece la regione che ne ha di meno. In quasi tutte le province italiane poi c’è almeno uno stabilimento Rir, ma il primato va a Milano per quanto riguarda il nord Italia, con 69 stabilimenti, nel centro a Roma, con 26 stabilimenti, e al sud a Napoli, che sul territorio ne conta 33. Aree di particolare concentrazione sono state individuate in corrispondenza di tradizionali poli di raffinazione e/o petrolchimici. Per quanto riguarda le tipologie di stabilimenti Rir più diffuse, il primato va a chimici e petrolchimici, che rappresentano il 25% del totale e sono concentrati in particolar modo nel nord Italia, seguiti da depositi di gas liquefatti come il Gpl (24%) soprattutto in Campania e in Sicilia. In prossimità di grandi aree urbane e nelle città con importanti porti industriali, come Genova e Napoli, risultano molto concentrate anche industrie della raffinazione e depositi di oli minerali. Il rapporto non ha analizzato solo il numero di stabilimenti Rir, ma anche le tipologie e le caratteristiche di quelli individuati, quali appunto la distanza da corpi idrici superficiali come fiumi, laghi e torrenti, il rischio sismico associato agli impianti e i quantitativi di sostanze pericolose per l’ambiente detenute. detail-mappe rischi

Emerge così come i prodotti petroliferi come benzina, gasolio e cherosene sono presenti in modo cospicuo su tutto il territorio nazionale, insieme a metanolo, cloro, formaldeide, triossido di zolfo e nitrati di ammonio e potassio lasciati dai fertilizzanti. Circa il 22% degli stabilimenti Seveso notificati inoltre, e soggetti ai controlli previsti dalla normativa, detengono prodotti classificati come pericolosi per l’ambiente in quantità superiore alle soglie consentite. Ma non solo: queste sostanze si trovano entro 100 metri da un corpo idrico superficiale (circa il 46% per i prodotti petroliferi regolarmente notificati). L’edizione precedente del Report analizzava i dati tra il 2007 e il 2012, ed è stata utilizzata per un confronto così da individuare le regioni più virtuose che avevano effettuato le riduzioni maggiori nel numero di stabilimenti Rir. Le vincitrici risultano essere principalmente regioni del centro sud, Lazio e Umbria, a fronte di un Nord che in alcuni casi, come Piemonte, Liguria, Veneto e Friuli Venezia Giulia, ha invece presentato un aumento nel numero di impianti. Rispetto al rapporto precedente, inoltre, è aumentato significativamente il numero di stabilimenti per il trattamento superficiale e la lavorazione dei metalli, dei depositi di esplosivi e degli impianti di trattamento e recupero. Sensibilmente calato infine è il numero dei depositi di oli minerali (da 271 nel 2004 a 110 nel 2012) e delle centrali termoelettriche, che si sono più che dimezzate.

Fonte: galileonet.it