Approvata la norma dell’indicazione europea dei prodotti

Il Parlamento europeo ha approvato la norma sull’indicazione di origine obbligatoria per i prodotti europei tranne alimentari e medicinali. «Si tratta di una boccata d’ossigeno per le tante piccole e medie imprese italiane soffocate dalla crisi e attaccate quotidianamente dalla contraffazione. Il Made In Europe contribuirà in questo modo nei fatti e non a parole a rilanciare la nostra economia e la creazione di posti di lavoro» ha detto l’eurodeputato Andrea Zanoni.madein

Il Parlamento europeo ha approvato la norma sull’indicazione di origine obbligatoria per i prodotti europei tranne alimentari e medicinali. «Si tratta di una boccata d’ossigeno per le tante piccole e medie imprese italiane soffocate dalla crisi e attaccate quotidianamente dalla contraffazione. Il Made In Europe contribuirà in questo modo nei fatti e non a parole a rilanciare la nostra economia e la creazione di posti di lavoro» ha detto l’eurodeputato Andrea Zanoni.
La settimana scorsa a Strasburgo è stato approvato il Regolamento per la Sicurezza dei prodotti al consumo incluso il marchio Made In. «Si tratta di una grande vittoria per il settore manifatturiero di qualità italiano contro gli interessi della grande distribuzione difesa ad oltranza da alcuni Paesi del Nord Europa – ha spiegato l’eurodeputato Zanoni –  Adesso l’auspicio è che l’Italia faccia sistema e sfrutti l’occasione della Presidenza di turno dell’Ue, il cosiddetto semestre italiano che inizierà il prossimo 1 luglio, per far approvare questo importantissimo regolamento in sede di Consiglio».
Il nuovo regolamento, comprensivo della norma sul Made In su tutti i prodotti europei ad esclusione di alimentari e medicinali, è stato approvato dopo un’accesa battaglia tra chi sosteneva gli interessi dei piccoli produttori di qualità e delle piccole e medie imprese dell’artigianato e chi invece si è schierato con la grande distribuzione tipica del Nord Europa. Le migliaia di piccoli produttori di qualità, come artigiani e piccoli imprenditori, di cui è ricca l’Italia, hanno bisogno di protezione dalla concorrenza sleale e di misure che valorizzano la loro attività. «Il marchio Made In può costituire un forte incentivo anche per la creazione di posti di lavoro in quanto è in grado di dare una forte boccata di ossigeno alle tante Pmi italiane oggi stritolate dai grandi mercati e dalla crisi – ha aggiunto Zanoni – Questo è un esempio concreto di quanto si possa fare a Bruxelles al servizio dei cittadini e di chi lavora con onestà. È in questo modo che si valorizza il lavoro e si tutelano i lavoratori. Il resto sono chiacchiere».

Fonte: il cambiamento.it

Il Cibo Impazzito
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Cicloturismo: in Italia pedalano in 130mila. Ma gli errori non mancano

L’impegno della Fiab non è sufficiente a creare un sistema cicloturistico degno dei Paesi del Nord Europa. Ecco perché ci vorrebbe una rivoluzione della ricettività alberghiera

La Fiab, Federazione Italiana Amici della Bicicletta, ha diffuso i dati sul cicloturismo in Italia, in maniera più specifica quelli legati all’associazionismo, ai suoi 20mila soci distribuiti in 142 associazioni amiche della bicicletta che organizzano sul territorio italiano 4200 escursioni e viaggi che movimentano 130mila persone per un totale di 6.300.000 km percorsi. Fiab sottolinea anche come il 2013 sia stato un anno storico, il primo, dal dopoguerra a oggi, nel quale siano state vendute più bici che automobili. Scomodare toni trionfalistici per questi risultati sicuramente positivi sarebbe sbagliato: vuoi perché la crisi ha rallentato pesantemente le politiche infrastrutturali, vuoi perché il nostro Paese continua a pagare un ritardo di decenni sulle norme del codice stradale a tutela delle categorie deboli. I casi esemplari delle ciclovie dell’Alto Adige restano, purtroppo, un unicum. VenTo, il progetto di ciclabile che dovrebbe unire Venezia e Torino è fermo alla fase progettuale. Uno degli strumenti più utili per chi organizza un viaggio in bicicletta è la directory Albergabici che raccoglie 2.000 alberghi, b&b, agriturismi e strutture ricettive di ogni tipo che offrono servizi dedicati ai cicloturisti, come la possibilità di pernottare per una singola notte, trovare un ricovero coperto e sicuro per le biciclette e un kit per le eventuali riparazioni, un menu adatto all’attività fisica e una mappa dei migliori itinerari ciclabili della zona.

Per l’Italia il cicloturismo rappresenta senz’altro un segmento strategico da incoraggiare e sviluppare adeguatamente, attraverso una serie di politiche ad hoc, che tengano conto delle esigenze dei ciclo viaggiatori. Per questo motivo siamo da sempre impegnati in una forte attività di ricerca, informazione e sensibilizzazione sui temi della mobilità sostenibile, del miglioramento della ciclabilità del territorio e dell’interscambio tra bici e altri mezzi di trasporto pubblici, per rendere l’Italia una meta sempre più competitiva e attraente per i tanti appassionati, anche stranieri, che sognano di organizzare il loro prossimo viaggio nel Belpaese, ovviamente in sella a una bici,

spiega Giulietta Pagliaccio, presidente FIAB.

Agli investimenti fatti nella rete infrastrutturale non sono, purtroppo, corrisposti investimenti di tipo strategico. L’elemento che rende difficile, se non impossibile, il cicloturismo itinerante nel nostro Paese è il malcostume di richiedere agli ospiti un minimo di due, tre o addirittura sette notti di pernottamento nei periodi di alta stagione. Una richiesta controproducente che vanifica ogni pianificazione a tappe, frustrando l’iniziativa dei privati e indirizzando i cicloturisti verso i (pochi) tour operator del settore. Il territorio italiano, fatto di un’infinità di città d’arte a breve distanza fra di loro, sarebbe ideale per questo tipo di turismo slow. Ma purtroppo il cicloturismo è un argomento che viene tirato fuori per fare green washing prima delle elezioni (politiche o amministrative, fa lo stesso), ma su cui nessuno ha mai voluto investire in maniera sistemica. E così Paesi con un decimo del nostro patrimonio artistico ci sorpassano pedalando a doppia velocità.

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Fonte: ecoblog

Asparagi in anticipo di un mese: preoccupazione degli agricoltori

La primavera anticipata con le sue temperature calde porta gli asparagi a essere pronti con un mese di anticipo: ma gli agricoltori non esultano

La finta primavera che abbiamo avuto a gennaio con un mese particolarmente caldo ha ingannato le piante e ecco che nei supermercati arrivano già gli asparagi con un mese abbondante di anticipo rispetto ai tempi normali. I prezzi sono decisamente interessanti per questo prodotto che per ragioni commerciali rientra tra le primizie ma che di fatto ha anticipato la sua naturale stagione di maturazione a causa del caldo. Per ora parliamo di modesti quantitativi provenienti da Campania e Puglia che però hanno già trovato spazi sui banchi dei supermercati e etichettati a 4-4,50 euro al chilo. Mediamente gli asparagi costano nel pieno della stagione 2 euro al chilo.US-LIFESTYLE-FOOD-BEEF

Come ha spiegato a ItaliaFruit Natale De Martino della Ortofrutta De Martino della provincia di Foggia:

Abbiamo iniziato a raccogliere a metà febbraio e le prime “partite” sono state collocate in maniera ottimale: il mercato è molto ricettivo, la domanda notevole. Distribuiamo soprattutto all’estero, nel Nord Europa, ma in questa fase stiamo ottenendo buoni risultati nei Mercati all’ingrosso locali e nelle catene della grande distribuzione. L’auspicio è che la campagna prosegua con questa intonazione; le operazioni di raccolta solitamente proseguono sino a fine giugno ma quest’anno visto l’anticipo, si potrebbe chiudere prima.

Anche al Nord per l’asparago bianco la raccolta si è presentata in anticipo per cui la raccolta sotto-serra è partita molto prima del solito. Lo scorso anno la raccolta era iniziata al 20 febbraio ma i coltivatori non sono contenti. Il radicchio in campo ha sofferto per il caldo e il raccolto è stato quasi tutto perso, mentre gli asparagi in anticipo, nonostante i buoni prezzi non sono sufficienti a coprire le perdite già realizzate.

Fonte:  Italiafruit

Fotovoltaico, la grid parity europea è possibile e costa poco

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Integrare in maniera massiccia il fotovoltaico alla rete elettrica europea non solo è tecnicamente possibile ma avrebbe dei costi ragionevoli e sostenibili. Sopratutto in Italia che, stando ai dati 2012, copre il 7% della sua domanda annua di elettricità con il solare a un costo di 10 euro al MWh e se si arrivasse a un 18% di fotovoltaico, i costi aggiuntivi di rete potrebbero essere mitigati con una gestione adeguata della domanda (implementando il cd sistema DR), sopratutto nei periodi invernali. Questi sono i dati diffusi dal report “Grid Integretion Cost of Photovoltaic Power Generetion” che, redatto dal gruppo di ricerca inglese del PV Parity, ha analizzato e quantificato i costi di integrazione dei sistemi fotovoltaici in 11 mercati chiave europei. L’obiettivo era quello di verificare la possibilità di installare fino a 480 GW di fotovoltaico entro il 2030, che coprirebbe circa il 15% della domanda di energia elettrica europea. Ma prima di entrare nel dettaglio dei risultati del report è bene chiarire, come lo studio fa in premessa, cosa significa grid parity e sopratutto da quali costi e parametri è influenzata. Secondo i ricercatori è necessario abbandonare un approccio classico (e limitato) secondo cui si guarda solo al prezzo del solare e della rete, per abbracciare una visione d’insieme, di sistema. Che comprende anche il ruolo delle tecnologie che possono essere usate per abbattere i costi, aumentando al contempo l’efficacia degli impianti, come i sistemi di stoccaggio e accumulo. Appurato questo aspetto, lo studio si sofferma sui vari costi annessi e connessi all’integrazione.

Capacità di back-up
Un’adeguata capacità di back- up è una componente importante dei costi di integrazione del fotovoltaico, in particolare nel Nord Europa (dove si attesta a circa € 14.5/MWh).

Reti di distribuzione
Rafforzare le reti di distribuzione per ospitare il fotovoltaico costerebbe circa € 9/MWh entro il 2030. Questo costo di solito si riduce quando il consumo di picco coincide con picco di produzione fotovoltaica, così come avviene nell’ Europa meridionale.

Trasmissione
I costi di trasmissione legati all’integrazione di 480 GW fotovoltaici sono stati stimati intorno a circa € 0.5/MW nel 2010. E di € 2.8/MWh nel 2030.

Bilanciamento
I costi di bilanciamento si attestano su circa € 1/MWh nel 2030, assumendo la piena integrazione dei mercati europei di bilanciamento.

In sintesi, lo studio riferisce che i costi di integrazione dei sistemi fotovoltaici sono relativamente modesti e nel 2030 dovrebbero crescere fino a € 26/MWh entro il 2030, un dato che potrebbe scendere del 20% se ci fossero dei miglioramenti in termini di sistemi di stoccaggio e DR (Demand Response). Per ciò che riguarda il nostro paese, il solare, come ben noto, è molto diffuso. E i costi di integrazione sono relativamente bassi: vanno da 5,2 €/MWh con una penetrazione del 2% a 15,9 €/MWh con una penetrazione del 18%. Al valore di penetrazione attuale, circa il 7%, siamo sui 10 €/MWh. Un costo che, sottolinea il report, potrebbe essere dimezzato attraverso adeguate politiche di gestione della domanda (DR).

Fonte: Casa&Clima.com

 

Campania inquinata, De Biase: «Impresa proibitiva la bonifica»

L’ISS Istituto superiore di Sanità sta svolgendo nell’area ex Resit a Giugliano i campionamenti e test per stabilire l’inquinamento e se ortaggi e frutta sono pericolosi per la salute umana106418347-594x350

Immaginate un’are tra le più fertili d’Italia con di fronte il mare, bellissimo e pescoso e pieno di telline. Poi Immaginate che questa terra pari a 2600 campi di calcio, 220 ettari, sia stata inquinata in circa 40 anni ogni giorno, ogni anno. Ebbene in questa zona così ampia il terreno è talmente inquinato, che ha contaminato anche la falda acquifera. La gente intorno, intanto, si ammala sempre più di cancro ma le istituzioni rispondono che la causa va ricercata nei loro stili di vita. Eppure non siamo in un area fortemente industriale ma nella Campania felix con tanti campi intorno agricoli. A inquinare la camorra e le ecomafie che solidali hanno preso i veleni del Nord Italia, Acna di Cengio ad esempio, e dal Nord Europa e li hanno sversati nel ventre Meridionale. D’altronde Carmine Schiavone lo ha appena ricordato 20 giorni fa che nelle zone note a tutti ci sono i veleni. Quali sono? Area Asi verso Novambiente, San Giuseppiello e tra la Resit e Masseria del Pozzo. Scrivono gli esperti dell’ISS:

Alla luce dei dati disponibili ottenuti con le procedure analitiche selezionate si evince che al momento la presenza dei composti organici volatili, maggiormente rilevati nelle acque dei pozzi, non influenza le matrici ortofrutticole coltivate nell’area oggetto dello studio. Quanto detto lascia presupporre che non ci sia per i COV (sostanze volatili cancerogene) un passaggio diretto di contaminazione dalle acque alla pianta e di conseguenza alla parte edibile della pianta stessa. Questa spiegazione diventa necessaria dopo che comitati cittadini e associazioni e anche una testata on line Parallelo 41 hanno proposto a politici e amministratori un banchetto a base dei frutti e ortaggi della terra avvelenata il prossimo 2 novembre. Risponde perciò Mario De Biase commissario di Governo che dalle colonne de Il Mattino di oggi (pag. 53) dice:

Realisticamente la bonifica appare impossibile. Per legge bisognerebbe raccogliere tutti i materiali e rimuoverli e trasportarli altrove. Stesso discorso per le acque. Un impresa proibitiva. Ciò che invece è necessario fare è la messa in sicurezza per fermare l’avanzata di percolato e biogas. E in parallelo bisogna pensare a una massiccia riconversione “no food” sostituendo alberi da frutta con pioppi, boschi e essenze arboree. Immaginiamo che la bonifica sia proibitiva in termini economici proprio come ha sostenuto Carmine Schiavone?

Fonte:  Il Mattino 12 settembre 2013 pag. 53