Navi dei veleni, Greenpeace pubblica gli elenchi degli atti secretati

Continua la battaglia dell’associazione ambientalista contro il segreto di Stato apposto sui dossier Ilaria Alpi e navi dei veleni

Il 20 marzo cadrà il ventesimo anniversario della morte della giornalista italiana Ilaria Alpi e del suo cameraman Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio mentre erano sulle tracce di veleni, sangue, armi e petrolio, che dall’Italia viaggiavano verso il Corno d’Africa con il beneplacito dei nostri servizi segreti e la scorta d’eccellenza dei caschi blu Onu. Un omicidio drammatico che resta avvolto, dopo 20 anni, in una nube di mistero mantenuta tale dall’insopportabile segreto di Stato, quello strumento giuridico di derivazione diretta da quella “ragion di Stato” che consegna l’Italia ai principi dell’antidemocrazia internazionale. Da mesi Ecoblog vi riporta puntualmente le richieste di Greenpeace, e non solo, al governo, affinchè vengano desecretati (sulla scia dei verbali di Schiavone sulla Terra dei fuochi) tutti gli atti sotto segreto di Stato contenenti le verità nascoste sulle navi dei veleni, uno degli scheletri nell’armadio d’Italia più difficile da tirar fuori. La relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta, redatta e pubblicata un anno fa, non può essere ritenuta soddisfacente perchè, di fatto, non rivela nulla: pomo della discordia l’omicidio misterioso del capitano di corvetta Natale De Grazia che, mentre indagava sulle navi affondate dalla ‘ndrangheta nel Tirreno, morì per un caffè avvelenato bevuto in Autogrill. Anche questo, un caso mai risolto per il quale gli ambientalisti chiedono la riapertura dei processi e la desecretazione dei documenti riservati. Greenpeace, per esercitare maggior pressione sulle istituzioni (in questo caso è la Presidenza della Camera dei Deputati, rappresentata da Laura Boldrini, ad aver assunto un impegno chiaro)ha pubblicato oggi l’elenco dei documenti sotto segreto di Stato relativi alle navi dei veleni ed al caso Ilaria Alpi: l’estratto deriva dagli archivi parlamentari ed è datato al settembre 2012.

“Uno dei documenti secretati è di provenienza Greenpeace e riguarda il tema del caso delle ricerche a mare relative alla nave affondata al largo di Cetraro (2009) che, secondo il pentito Fonti, sarebbe stata la Cunski, una delle navi sospettate di traffici di rifiuti, mentre, secondo le ricerche condotte per conto del Ministero dell’Ambiente, sarebbe la nave “Catania” affondata nella prima guerra mondiale. Su questa ipotesi sia Greenpeace che altre associazioni hanno espresso i loro dubbi.”

scrive Greenpeace.

Quello delle navi dei veleni è un tema tanto attuale (basta ricordarsi della vicenda delle armi chimiche provenienti dalla Siria verso Gioia Tauro) quanto misterioso. Oltre un centinaio di documenti contenuti nell’elenco diffuso da Greenpeace riguardano esplicitamente il ruolo del faccendiere Giorgio Comerio e dell’ODM (Oceanic Disposal Mangment), una settantina più generalmente i traffici di rifiuti tossici e radioattivi, oltre un centinaio le cosiddette “navi a perdere” e una sessantina riguardano la Somalia.

Ufficialmente la tutela delle fonti grazie alle quali lo Stato persegue questi reati è alla base delle motivazioni per cui viene apposto il segreto di stato: in barba al principio einaudiano “conoscere per deliberare”.

Intervista a Luciana Alpi su La StampaFoto-Ilaria-Alpi

Vi riportiamo di seguito il testo dell’intervista, pubblicata il 16 marzo, del giornalista Nicolò Zancan del quotidiano LaStampa a Luciana Alpi, la madre della giornalista Rai Ilaria Alpi uccisa a Mogadiscio nel 1994: la donna racconta 20 anni di dolore e silenzi, di segreti di Stato e di una verità che continua a mancare, forse uccisa anch’essa a Mogadiscio assieme alla figlia ed al cameraman Miran Hrovatin.

«Cinque magistrati, vent’anni di indagini, un solo colpevole, sicuramente innocente».

Signora Alpi, cosa la indigna di più? 

«Questa mancanza di verità. Il modo di lavorare della Procura di Roma, che non saprei come definire. Non hanno fatto niente, a parte depistaggi a tutto spiano. Si arrabbieranno, lo so. Ma la mancanza di rispetto per due persone morte in modo così bestiale fa arrabbiare me».

Ricorda ancora la voce di Ilaria? 

«Ha telefonato due ore prima dell’agguato. “Sono molto stanca – ha detto – adesso faccio la doccia, mangio qualcosa, poi devo preparare il servizio per il telegiornale alle 19”. Io e mio marito eravamo sollevati, perché dopo essere stata a Bosaso, finalmente era tornata a Mogadiscio, dove conosceva tutti. Due ore più tardi abbiamo ricevuto un’altra telefonata. Era la Rai…».

Quante volte ha riguardato l’ultima intervista di sua figlia al sultano di Bosaso? 

«Centinaia. In Italia sono arrivati 35 minuti di girato, 13 minuti di domande. Ma è stato lo stesso sultano Bogor a dichiarare che quell’intervista, in realtà, era durata più di due ore. Tagliati i nastri, scomparsi anche i taccuini degli appunti…».

In quel lavoro occultato c’è la chiave per capire? 

«Io credo di sì. Lo ha detto il sultano stesso: Ilaria cercava conferme. Sapeva del traffico di armi e rifiuti. Voleva andare a vedere la nave della Shifco, donata dalla cooperazione italiana. Di questo si stava occupando quel giorno».

Per la commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Carlo Taormina, è stata un tentato rapimento. 

«Ilaria e Miran sono stati uccisi con un solo colpo sparato da distanza ravvicinata. Strano sequestro, quello che prevede l’esecuzione dell’ostaggio…».

Sempre Taormina ha dichiarato che non c’era nessuno scoop da fare in Somalia. Perché è risaputo che la Somalia era un grande mercato d’armi a cui l’Italia partecipava attivamente. Cosa ha pensato di fronte a questa affermazione? 
«Sono rimasta sbigottita. Persone delle nostre istituzioni che si permettono di dire cose del genere, nella totale indifferenza…».

Taormina è arrivato a dichiarare che sua figlia era lì in vacanza. 

«Una cosa talmente volgare, che non gliela perdono. Poteva dire: mi dispiace, non abbiamo trovato niente, l’inchiesta era difficile. Avrei capito…».

Nel 1995, la procura di Reggio Calabria indaga su un traffico internazionale di rifiuti tossici. Fa una perquisizione a Milano a casa dell’ingegnere Giorgio Comerio. Dentro una cartellina gialla con sopra scritto «Somalia», trova il certificato di morte di sua figlia. E poi? 

«Nulla. Quel certificato non si è più trovato. Sparito. E adesso dicono che non era vero niente».

Era vero? 

«Il mio avvocato ed io siamo stati chiamati dal pm Francesco Neri, il titolare dell’inchiesta. Ha voluto incontrarci alla Galleria Umberto Sordi. Le sue parole non erano fraintendibili».

Per l’assassino di Ilaria e Miran c’è un solo condannato, Hashi Omar Hassan. È stato lui?

«Al contrario, è innocente. Non ci sono dubbi. È tornato in Italia dopo l’assoluzione in primo grado, dimostrando la sua buona fede. Non c’entra niente in questa storia. E adesso, la situazione è da Grand Guignol…».

Perché?
«L’unico condannato per l’omicidio di mia figlia, mi ha telefonato pochi giorni fa da Padova, al primo permesso fuori dal carcere. “Ciao mamma, come stai? Volevo ringraziarti. Il magistrato mi ha fatto uscire perché tu racconti in giro che sono innocente”».

È vero?

«Certo. Vorrei la verità sulla morte di Ilaria e Miran anche per Hashi, definito nella sentenza di primo grado esattamente per quello che è: un capro espiatorio».

Ci sono ancora 8 mila documenti secretati sul caso Alpi-Hrovatin.

«Aspettiamo le decisioni della Camera e del Copasir. Ma il problema è capire, alla fine, cosa effettivamente ci lasceranno leggere. Troppi pezzi di questa storia sono scomparsi».

Non si fida delle istituzioni? 

«Ci hanno mollati alla grande…».

Perché non si vuole la verità? 

«Collusioni. Probabilmente sono implicati personaggi importanti, forse aspettano che muoiano. Ma temo che morirò prima io, il che mi secca parecchio…».

Dopo vent’anni ci spera ancora? 

«Il 6 marzo abbiamo incontrato il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Mi ha detto che andranno avanti. È stato molto gentile, devo dargliene atto. Non tutti lo sono stati…».

Cosa vuole dire ai ragazzi e alle ragazze che sognano di diventare giornalisti? 

«Non voglio mettere Ilaria su un piedistallo. Era una giovane donna, che aveva sempre studiato molto. Era diligente, faceva le cose in modo serio. Prima di un servizio si documentava a fondo».

Cosa le manca di più? 

«Il suo sorriso, era molto spiritosa».

Ilaria Alpi non ha avuto giustizia, però non è stata dimenticata. 

«Al contrario, le hanno dedicato canzoni, strade, articoli, film, libri. Molti giornalisti ancora lottano per lei. Presto le verrà intitolato il parco di Follonica. E un ragazzo di 28 anni chiamerà “Ilaria” un nuovo tipo di rosa, che verrà piantato all’orto botanico di Roma. Mi commuove molto».

Alla fine delle celebrazioni, quando si spegneranno le luci, cosa farà? 

«È morto mio marito. È morta anche Jamila, la gattina che Ilaria aveva raccolto in mezzo alla strada. Ormai mi trattano come una vecchia mamma rompiscatole in preda all’Alzheimer, ma non mi arrendo. Continuerò a combattere per la verità. Cos’altro potrei fare?».

Fonte: ecoblog.it

Porto di Gioia Tauro, il potere delle cosche tra navi e veleni

Le ecomafie nel porto di Gioia Tauro continuano a fare affari d’oro. Secondo Wikileaks “ci sono occhi dappertutto”ITALY-SYRIA-CHEMICAL-WEAPONS

Il porto di Gioia Tauro è, gloriosamente, il più grande terminal per trasbordo di tutto il mar Mediterraneo e lo scalo merci principale lungo l’asse America-Europa-Medio Oriente: a Gioia Tauro transita di tutto, solo nel 2011 sono stati 2.300.000 i container movimentati in questo porto (nel 2007 oltre 3 milioni), dai beni alimentari alla cocaina, dai materiali d’importazione ai rifiuti tossici. Nel porto di Gioia Tauro giungeranno le armi chimiche provenienti dall’inferno siriano.

L’importanza di Gioia Tauro, la sua posizione e il volume d’affari di questo grande porto, è legata a doppio filo con traffici che di etico hanno ben poco: controllato storicamente dalla cosca Piromalli-Molè, gli affari nel porto di Gioia Tauro vanno avanti ininterrotti (con qualche lieve disturbo) già dai primi anni ‘80, ma è nell’ultimo decennio del “secolo breve” che i soldi veri, e i traffici seri, hanno creato il valore criminale intrinseco di questo enorme porto del sud. L’Operazione Decollo del 2004, ad esempio, portò alla luce il traffico di droga che dalla Colombia arrivava al cuore dell’Europa, passando (per l’80% del volume totale) proprio da Gioia Tauro: un crocevia che non ha riguardato solo il mercato degli stupefacenti ma anche merci contraffatte di vario genere e rifiuti tossici. In una drammatica relazione del 2008 della Commissione parlamentare Antimafia si descrive come la ‘ndrangheta

“controlli o influenzi gran parte dell’attività economica intorno al porto e utilizza l’impianto come base per il traffico illegale. […] è legittimo effettivamente affermare che la malavita ha eliminato la concorrenza di società non controllate o influenzate dalla mafia nella fornitura di beni e servizi, eseguire lavori di costruzione e di assunzione di personale. E che ha gettato un’ombra sul comportamento del governo locale e altri organismi pubblici.”

Nella relazione del 2004 a Gioia Tauro viene invece dedicato un capitolo intero, che potete consultare qui da pagina 89. Il primo terminal per il transhipment del Mediterraneo, a soli 70km dal capoluogo calabrese, garantisce alle cosche di agire all’interno di un tessuto criminale talmente vasto da rendere complicatissime indagini e scoperte sulle attività criminali nel porto: trovare container “particolari” su di una banchina ove ogni anno ne vengono movimentati oltre 2 milioni è come cercare un albero in Islanda: solo nel 2009 furono settemilaquattrocento le tonnellate di rifiuti sequestrati dalle autorità italiane. Gioia Tauro è l’ultima pista seguita in Italia dalla giornalista Ilaria Alpi, morta in circostanze misteriose a Mogadiscio mentre camminava sul filo dei veleni che unisce l’Italia all’Africa subsahariana: un fenomeno, quello dei traffici di veleni tra Italia ed Africa (Nigeria, Somalia ed Etiopia in particolare), ancora oggi poco chiaro, sommerso come un iceberg nell’omertà delle cosche e del segreto di Stato. Le ‘ndrine reggine, compresi i Piromalli, offrono un servizio di brokeraggio rifiuti economico e efficace, in tutta Italia, in tutta Europa: da sempre grandi quantità di rifiuti tossiconocivi transitano dalle banchine di Gioia Tauro per sparire nel profondo blu del Mediterraneo.

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Nel 2008 un’operazione dei Carabinieri del NOE dimostrò come ingenti quantitativi di materie plastiche tossiche, scarto di lavorazione di molte aziende italiane, venissero imbarcate a Gioia Tauro direzione Hong Kong e, una volta attraccate al porto cinese, venivano spedite agli schiavi delle fabbriche di giocattoli, per tornare infine in Europa sotto forma e colore di balocco per bambini. La seconda legge della termodinamica:

“Noi forniamo la materia prima per auto-inquinarci di ritorno: questo è veramente assurdo.”

diceva l’ex procuratore nazionale antimafia, oggi Presidente del Senato, Pietro Grasso. Se prendiamo i cablogrammi di Wikileaks le tinte del quadro sul porto più grande del Mediterraneo si fanno ancora più fosche: persino il presidente Obama, nel 2010, esprimeva preoccupazioni sulle infiltrazioni mafiose nei traffici marittimi del porto di Gioia Tauro; scriveva L’Espresso:

“Una delle più grandi preoccupazioni dell’America di Obama: il traffico di materiale nucleare clandestino utilizzabile dai terroristi che potrebbe essere movimentato attraverso porti come Gioia Tauro, descritto come una falla nei controlli europei.”

La ‘ndrangheta, che nel porto avrebbe “occhi dappertutto” e “funzionari disponibili a guardare dall’altra parte mentre si commettono illegalità”, è una presenza che emerge sempre più grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie (come gli scanner), che a Gioia Tauro fanno fatica a prendere piede. Una “pistola fumante” è la nave cargo fermata al porto di Genova nel 2010 e proveniente proprio da Gioia Tauro con a bordo un container contentente cobalto-60 o le 7 tonnellate di esplosivo T4 sequestrate, sempre nel 2010, proprio nel porto Calabrese (secondo Wikileaks sarebbero potuti essere utilizzati per la costruzione di una “bomba sporca”, ma i cablogrammi non chiariscono chi potesse avere questo tipo di obiettivo). Va sottolineato come le operazioni di polizia e le nuove tecnologie abbiano ridimensionato i traffici illeciti nel porto di Gioia Tauro (rispetto al 2012 il traffico di container l’anno scorso ha visto una flessione in negativo di quasi il 20%, segno che le cosche dirottano in altri porti, in Italia e in Europa, una parte dei loro traffici), ma certamente non si può definire “il porto più sicuro” del Mediterraneo, come qualcuno al Ministero delle Infrastrutture ha tentato di raccontare. Anche perchè dove non arriva la ‘ndrangheta arriva lo Stato, come testimonierebbe un documento citato da Terra e coperto in parte da segreto di Stato (consultabile nella relazione della Commissione Pecorella a questo link), che rivelerebbe come il porto di Gioia Tauro sia stato un luogo sicuro anche per i traffici di veleni coordinati dai servizi segreti, la stessa pista seguita da Ilaria Alpi: centinaia di milioni di euro stanziati ai servizi per provvedere allo “stoccaggio di rifiuti radioattivi ed armi”.

Fonte: ecoblog

Una nave a caccia della plastica in mare: nel Mediterraneo arriva Plastic Busters

Il progetto dell’Università ambisce a mappare le aree maggiormente inquinate dalla plastica nel Mar Mediterraneo

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C’è sempre più plastica nei mari e negli oceani di tutto il mondo. Plastica che crea uno “Stato” fittizio in mezzo all’Oceano Pacifico, plastica sminuzzata che entra nel corpo dei pesci e risalendo nella catena alimentare finisce nel nostro intestino. Nel Mar Mediterraneo a plastica è ormai il fattore più inquinante. A Saida, paese alle porte di Beirut, una discarica alta 40 metri e posizionata in riva al mare continua a inquinare il Mediterraneo orientale raggiungendo persino le coste greche ed italiane. Lo stesso accade in Siria, sulle spiagge di Latakia divenute discariche abusive che rilasciano rifiuti che finiscono sulle coste turche. Ora quello che i latini chiamavano Mare Nostrum (e che pessimo esempio di autoconservazione abbiamo dato…) verrà solcato da Plastic Busters, un’imbarcazione ecologica fornita di strumentazioni per mappare i macro e micro rifiuti del Mediterraneo e che ospiterà un team di ricercatori che farà il campionamento delle acque, svolgendo analisi tossicologiche su balene, squali e tartarughe, specie “sentinella” in grado di far comprendere quanto grave sia la situazione nelle varie aree marine. Il progetto dell’Università di Siena, presentato durante la conferenza internazionale First Siena Solutions Conference Sustainable Development for the Mediterranean Region, è diretto dalla professoressa Maria Cristina Fossi. La partenza avverrà dalla Toscana per poi toccare Gibilterra, la Tunisia, l’Egitto, la Grecia e risalire l’Adriatico fino all’attracco di Venezia, dopo un viaggio di circa tre mesi. Trenta gli enti per la salute marina che hanno dato la loro adesione per collaborare con il progetto.  

Fonte:  Wired