Prendendo spunto dai segnali lanciati dalla pandemia e dal conseguente lockdown, Paolo Piacentini riflette sui possibili modelli di città del futuro. La necessità è riappropriarsi degli spazi togliendoli al cemento e alle auto, non solo per abbattere i livelli mortali di inquinamento, ma anche per offrire alle persone nuovi luoghi di socialità.
“L’emergenza di agenti patogeni zoonotici è correlata al deterioramento dell’ambiente e alle interazioni tra uomo e animali nel sistema alimentare”. È l’Agenzia Europea per l’Ambiente a dirlo. Che facciamo dunque? Le diamo credito o no? È arrivata l’ora di smettere di mettere la testa sotto il cuscino e continuare a far finta di nulla. Non si muore di solo covid, anzi, si muore soprattutto di inquinamento in un ambiente insalubre dove, per di più, il virus ha maggiori possibilità di sviluppo e diffusione. Non è certo la prima volta che l’Agenzia Europea per l’Ambiente ci fornisce questi dati, ma non c’è nulla da fare, le priorità sembrano essere sempre altre.
È dimostrato che gli spazi verdi in città aiutano a mitigare le temperature e ad abbattere gli inquinanti. È dimostrato che le città senz’auto sono più salubri, ma la salute di un agglomerato urbano si costruisce creando una condizione di benessere diffuso che va dalle periferie più degradate fino al centro. Il compito più nobile della politica, oggi più che mai, dovrebbe essere quello di costruire benessere psico-fisico e sociale, attento anche alle persone e alla comunità. Una città che vive la salute come dimensione pubblica vede i cittadini partecipi nella cura quotidiana degli spazi collettivi che le istituzioni devono impegnarsi a riconsegnare come bene comune.
Spazi collettivi generatori di salute urbana sono i giardini, i parchi, gli spazi ciclabili. Deve essere garantita la fruizione pedonale dei luoghi, la prossimità dei servizi alla persona. Una città che si libera dal dominio dell’auto privata, che si fa prossima alle persone, che riorganizza e amplifica gli spazi verdi è una città che costruisce la sua salubrità. Una città solidale è una città che non crea distanze sociali ma che cresce in una nuova dimensione comunitaria legata a uno stato di benessere che non esclude la malattia, ma la confina nell’ineluttabile finitezza e fragilità della condizione umana.
Una città in salute è anche quella che rimette al centro lo spazio pubblico e costringe in un angolo una finta rigenerazione urbana padroneggiata dalla speculazione privata. Quello che sta accadendo a Roma in questi giorni, con l’ennesimo minacciato sfratto a Scup Sportculturapopolare, rientra in un modello economico che intacca la salute pubblica. Un centro sociale che diventa punto di riferimento per un intero quartiere, che organizza spazi di socialità popolare, che porta in città cibo pulito e a chilometro zero, che assiste persone disabili, determina benessere diffuso.
La salute, come ci ricorda l’OMS, è uno stato di benessere psico-fisico generale che va dalla persona alla comunità. Se la politica decide di sposare un patto per la salute tra istituzioni e cittadini, l’atto che ne consegue è la costruzione di un nuovo modello di città in cui lo spazio pubblico diffuso viene rimesso al centro.
La città delle persone e per le persone dovrebbe essere la grande rivoluzione del futuro. Bisogna avere tanto coraggio per contrastare un potere economico e finanziario che va in direzione opposta, ma che con il covid ha mostrato – a chi ha occhi per vedere – le sue enormi contraddizioni. Questa è la grande sfida di cui mi sento parte con passione, tutto il resto rischia di essere noia e le città moriranno.
24 Milioni di italiani condividono la loro vita
con un compagno animale: un rapporto affettivo stretto e arricchente. Ma che
accade quando la vita di un amico animale volge al termine? L’eutanasia animale
è sempre davvero l’unica soluzione per evitare che soffrano? Quando ci lasciano
come affrontare un dolore che gli altri sembrano non capire? Ne parliamo con il
medico veterinario Stefano Cattinelli, tra i fondatori di Armonie Animali e
autore del libro “Tenersi per zampa fino alla fine”, pubblicato da Amrita
Edizioni. Stefano Cattinelli è un medico
veterinario, diplomato in Omeopatia veterinaria unicista ed esperto
nell’Antroposofia di Rudolf Steiner. Propone da anni un’alternativa
all’eutanasia, con un approccio empatico, che non solo aiuti l’animale, ma
anche la persona che gli sta accanto. Ha scritto molti libri su questi temi, è
tra i fondatori di Armonie Animali, si occupa di Floriterapia e conduce seminari di
Costellazioni Sistemiche Familiari per Animali. Lo abbiamo incontrato per
approfondire le riflessioni intorno ad un tema quanto mai spinoso: l’eutanasia
per gli animali.
Stefano, tra gli
altri, hai scritto con Daniela Muggia “Tenersi per zampa fino alla fine”, pubblicato da Amrita Edizioni. Di cosa parla questo
libro?
Il libro affronta
il momento più importante e più difficile della relazione tra una persona e il
proprio animale: quello in cui l’animale se ne va. Mi occupo di questo tema da
una ventina d’anni e sono molto sensibile all’argomento perché essendo un
veterinario so quanto sia importante il nostro ruolo in questa fase. La
professione che ho scelto, ha la grande responsabilità di consigliare gli umani
nella fase terminale di vita di un animale, cercando di capire quanto questo
soffra e come si possa affrontare l’inevitabile declino. Ho sempre vissuto con
difficoltà le prassi tradizionali che vedono un percorso precostituito per gli
appartenenti alla mia categoria; ho sempre provato una pesantezza che non
riuscivo a gestire. Quando mi trovavo a dover praticare o immaginare di
praticare l’eutanasia, capivo che l’animale non voleva me al suo fianco, bensì
il suo punto di riferimento esistenziale (una singola persona o un’intera
famiglia). Ho quindi sviluppato una consapevolezza crescente della sacralità
della morte: l’ingresso in questa dimensione richiede determinate qualità,
attenzioni e rispetto che sono ovviamente diverse dalla routine ambulatoriale
veterinaria. Mi sono impegnato a creare, quindi, anni fa un reale spazio sacro,
in cui ci si possa muovere secondo dinamiche molto più complesse di quelle che
razionalmente possiamo percepire: solitamente stacco il telefono e cerco di
aprire un dialogo a vari livelli con la persona che assiste l’animale, dando la
possibilità a quest’ultimo di spegnersi con i suoi tempi e le sue modalità,
differenti l’uno dall’altro. Credo infatti che ogni animale decida di andarsene
in modo assolutamente unico e “personale”. In venti anni, ho accompagnato
centinaia di “individui” e non c’è stato un caso uguale all’altro. Mi sono
quindi reso conto che più approfondivo questo percorso più il concetto di
eutanasia si allontanava. Mi sono trovato ad entrare in una fluidità
esperienziale unica. Ho notato che quando le persone si mettono davvero in
gioco durante il percorso di accompagnamento dell’animale, riescono a cambiare
il proprio ruolo nella relazione, vedendo poi – durante la fase finale –
l’animale diventare “guida” dell’umano.
Nel caso in cui un
animale soffra troppo, che tipo di percorso proponete?
È uno spazio
complesso dove ogni cultura propone la propria visione. In questo tipo di
esperienza possiamo vedere il dolore come parte di questa complessità. Per
quanto riguarda il dolore fisico dell’animale, si possono adottare cure
palliative che permettono di eliminare o ridurre al massimo il disagio fisico
dell’animale. Per quel che riguarda il dolore emozionale, frutto del legame
instaurato tra umano e animale, ci si sposta sul piano animico. Si possono
quindi utilizzare i fiori di Bach o mille altri rimedi analoghi. Infine, non va
dimenticato il dolore dell’umano, che ha un’influenza importantissima
sull’evolversi degli eventi. Il dolore umano non è esclusivamente legato a quel
singolo momento, ma appartiene a una storia biografica: quando l’animale entra
in relazione con l’essere umano, subentra in un momento preciso dell’esistenza
della persona, rispondendo a un bisogno di quest’ultima (lo si può comprendere
anche dal nome che viene affidato all’amico peloso o alla tipologia di animale
scelto) e tutto ciò inevitabilmente influisce, rafforzando ulteriormente il
vuoto che si crea quando l’animale se ne va. Vi sono diverse modalità di
reazione al distacco: c’è chi prende subito un altro animale con sé, e chi non
ne vuole più. Credo che la cosa migliore sia imparare a stare un po’ nel
dolore, prendere confidenza con tale esperienza e poi riuscire a guarire anche
rispetto alle proprie esperienze precedenti.
Chi vuole
avvicinarsi a questo genere di percorso, oltre a leggere il libro, cosa
può fare?
Propongo un
percorso sull’accompagnamento a Treviso (scopri di più) che dura tre
fine settimana e affronta tre temi fondamentali: il lasciare andare, il cambio
di ruolo e il saper entrare nella fluidità. Sono passaggi interiori che
preparano le persone ad essere più consapevoli nel momento del passaggio. A
questo proposito, vi racconto un aneddoto che mi è capitato un paio di giorni
fa: mi ha chiamato una ragazza che ha seguito questo percorso con me quattro
anni fa, raccontandomi che la sua cagnolina se n’era andata da qualche giorno.
Mi ha detto di aver fatto tutti gli esercizi imparati, di aver letto tutti i
miei libri ma quando poi si è trovata a dover gestire la situazione è entrata
nel panico, si è sentita sola. Con il passare del tempo, però, le si sono
attivate risorse che non sapeva di avere, che hanno permesso alla cagnolina di
andarsene via serena, accompagnata dalla proprietaria e dal suo compagno. Mi ha
raccontato che c’è stato un momento preciso particolare, probabilmente scelto
dalla coscienza della loro relazione, in cui se n’è andata nel migliore dei
modi.
Hai scritto questo libro con Daniela Muggia: come mai avete deciso di
scriverlo insieme e in che modo vi siete “completati a vicenda”?
È stata proprio
Daniela a contattarmi: attraverso il lavoro svolto dalla sua associazione (Associazione Tonglen onlus) per l’accompagnamento empatico di persone morenti,
lei e i suoi collaboratori con cui porta avanti le attività, avevano ricevuto
richieste di aiuto da parte di famiglie che avevano animali in fin di vita. Mi
ha proposto quindi di scrivere un libro insieme, ed è stata un’avventura
bellissima e difficilissima, essendo noi molto diversi. È nato così questo
testo che mi piace davvero molto: Daniela porta un contributo importante sulla
fisica quantistica, creando un legame con la dimensione scientifica e un
approfondimento sulle cure palliative.
Cosa pensano i tuoi
colleghi di questo approccio?
Molti colleghi sono
convinti che l’unica possibilità di togliere il dolore sia togliere la vita
all’animale. Mi sono dovuto allontanare da diversi gruppi web, perché venivo
spesso attaccato per la mia visione non tradizionale. Armonie Animali, il network di veterinari di cui faccio parte, è un
ambiente molto più sereno da questo punto di vista; magari non tutti sanno bene
nel merito di cosa mi occupo, ma rispettano il mio lavoro.
Vorremmo parlare
dell’impatto dell’eutanasia sui veterinari: pare che ci sia un tasso di
depressione molto alto. Cosa ne pensi?
È un aspetto
completamente sottovalutato. Noi veterinari nasciamo professionalmente per
salvare l’animale, ogni cosa che impariamo e facciamo va verso la vita. Di
conseguenza l’esperienza della morte viene vissuta come una sconfitta, doppia
essendo, in caso di eutanasia, noi ad indurla. Animicamente credo che si crei
una frattura all’interno del veterinario, come un attrito. A questo punto il
veterinario in questione ha due possibilità: o si separa da questa frattura
eliminando la valenza emozionale per proteggersi (a costo di ledere il senso
della professione), o – in caso di persone più sensibili – al ripetersi di
questa azione subisce una destabilizzazione interiore sempre maggiore.
Considerando che l’attività media di un veterinario conta statisticamente un
paio di casi di eutanasia la settimana, diventa un vero e proprio meccanismo di
non senso. La morte in natura è inserita in un contesto armonico, ed è ovvio
che quando l’animale entra nella vita della famiglia le cose si complichino, ma
ci sono delle possibilità di uscita da questa situazione. Purtroppo, nelle
facoltà veterinarie, il tema della morte non viene mai affrontato, nonostante i
dati statistici dimostrino che è un tema delicato e sempre più di attualità. Ma
le cose stanno cambiando, la sensibilità collettiva è in aumento. Da circa
dieci anni infatti è nato anche un comitato bioetico che ha cercato di inserire
delle regole per gestire questo fenomeno.
Boschi Vivi è una cooperativa e un progetto di economia circolare: si tratta dell’unico servizio di interramento delle ceneri che opera in area boschiva in Italia e che reinveste i propri utili in progetti di salvaguardia dei boschi e dei paesaggi. Nata nel marzo 2016, Boschi Vivi si pone inoltre l’obiettivo di rendere il bosco prescelto per l’interramento un luogo partecipato, organizzando all’interno attività ludiche e ricreative e rivoluzionando di fatto il sistema dei servizi cimiteriali.
Non vorremmo mai parlarne. Anzi, non ci pensiamo e se lo facciamo dobbiamo spesso superare una sensazione di vuoto e di disagio abbastanza spiccato. Ma come diceva lo scrittore argentino Jorge Louis Borges, “la morte è un’usanza che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare”. Perché non provare a renderlo un avvenimento che possa migliorare le condizioni di chi rimane? A questo interrogativo prova a dare una risposta e una soluzione la Cooperativa Boschi Vivi, nata nel marzo 2016 e formata da quattro soci: Anselma Lovens, Camilla Novelli, Riccardo Prosperi e Giacomo Marchiori.
Si tratta dell’unico servizio di interramento delle ceneri che opera in area boschiva e reinveste in progetti di cura dei boschi. Tramite l’acquisizione o la presa in gestione di un’area boschiva da Enti sia pubblici che privati, Boschi Vivi provvede a restituirla alla comunità, con la rigenerazione dell’area in oggetto, sia per quanto riguarda il recupero ambientale e vegetazionale sia per il miglioramento della fruibilità. L’area dove viene attuato il servizio viene monitorata e gestita nel tempo e l’accesso è libero per tutti.
Perché il recupero dei boschi?
Mentre la formazione di Riccardo è di natura giurisprudenziale, le altre due socie e l’altro socio di Boschi Vivi hanno una formazione tendenzialmente forestale connessa alla tutela del paesaggio. Provengono dalla Liguria, regione teatro di una forte frammentazione della proprietà boschiva e che spesso viene abbandonata: “L’abbandono dei boschi in Liguria è un problema forte” ci racconta Anselma Lovens “e più dell’ottanta per cento dei boschi è di proprietà privata, ma è una proprietà molto frammentata e a volte anche inconsapevole: ci sono persone che ereditano boschi e nemmeno sanno di esserne i proprietari. Bisogna in realtà occuparsi dei boschi, perché per molto tempo questi ambienti sono stati antropizzati dall’uomo per diversi utilizzi, hanno bisogno di essere gestiti per evitare il rischio idrogeologico, di frane e di incendi e sono competenze che stanno venendo sempre più a mancare. Sono equilibri che, in caso di abbandono, sarebbero persi con conseguenze negative per tutti”.
Come funziona il progetto: perché Boschi Vivi?
Parlare di “Boschi Vivi” rispetto a quello che stiamo trattando può suonare paradossale, ma di fatto questo progetto vuole ripensare anche il modo di utilizzo del nuovo cimitero naturale. La scelta di aderire al progetto di Boschi Vivi presuppone la volontà di cremazione e dispersione delle ceneri da parte della persona interessata. Chi vuole aderire “prenota una visita informativa nella quale una guida spiega come funziona il progetto, la persona sceglie così l’albero nei cui pressi, a suo tempo, verranno interrati i resti con una piccola targa commemorativa”, ci spiega Anselma “Siamo arrivati dunque con questa idea che mette a sistema una scelta che in realtà nella normativa è già inquadrata, noi ci occupiamo di tutto l’iter burocratico per renderla effettiva. La proposta, inoltre, è aperta anche per gli animali”. Le persone hanno a disposizione più opzioni, che variano a seconda della disponibilità economica: si va dall’albero di comunità, che rappresenta il prezzo più basso e consiste nell’essere dispersi insieme ad altre persone sotto un albero, a progetti più onerosi e personalizzati per famiglie o singoli. Si paga una sola volta, una tantum, e il diritto vale per novantanove anni dall’inizio del progetto. Nessuna lapide né fiori recisi: il bosco si presenterà in modo molto simile a come sarebbe in assenza dell’attività commemorativa: “Il bosco è già di per sé una scenografia naturale meravigliosa e rasserenante”.
Il nome Boschi Vivi è sinonimo anche di un’altra volontà dei quattro soci: “L’idea nostra è mantenere il bosco vivo in tutti i sensi: abbiamo intenzione di organizzare all’interno corsi di yoga, letture, laboratori per i bambini”, ci racconta Giacomo Marchiori. “Abbiamo fatto dei questionari alle persone propedeutici alla nostra attività, dove è emerso un aspetto importante: anche chi non è interessato a farsi cremare o disperdere, comunque utilizzerebbe un bosco adattato a questa attività per poterci fare le sue attività quotidiane come passeggiare o ad esempio andare a funghi. Per questo progetto noi ci siamo ispirati ad alcune esperienze già attive da tempo nei paesi anglosassoni, in Germania, Austria e Svizzera, ma nessuno di questi finora ha la particolarità del fine del recupero e della tutela del paesaggio. Questo è dovuto al nostro background di pianificatori forestali, che ci ha fatto osservare la realtà italiana e il problema dell’abbandono dei nostri boschi. È un forte valore aggiunto del progetto, una possibile soluzione al problema e pensiamo che oggi l’Italia sia pronta per accoglierla”. Dopo aver vinto diversi bandi, il progetto è partito in un bosco divenuto di proprietà della Cooperativa, nel comune di Martina-Urbe in provincia di Savona. Per migliorare il recupero e il ripristino di alcune aree del bosco in questione, da martedì 9 ottobre Boschi Vivi ha dato vita ad una campagna di crowfunding che scadrà tra circa un mese, allo scopo di sostenere le spese di riqualificazione del bosco stesso.
“Il servizio cimiteriale è rimasto inalterato a livello di offerta dai periodi napoleonici”, conclude Anselma. “È un sistema cristallizzato e aveva bisogno di uno stimolo secondo noi votato all’innovazione. Abbiamo sentito un trasporto verso questa nuova consapevolezza che l’Italia sta avendo della necessità di tutela paesaggistica e ambientale e crediamo di poter porre le basi per creare rete e diffondere altri boschi vivi non solo in Liguria, ma in tutto il territorio italiano”.
Pesticidi: causano 200 mila morti all’anno, la quasi totalità nei Paesi in Via di Sviluppo. Il rapporto dell’Onu che conferma gli effetti di queste sostanze sulla salute e sui diritti umani.
I pesticidi usati in agricoltura provocano 200mila morti l’anno. Quasi tutti nei Paesi in via di sviluppo: è questo il grido di allarme lanciato dall’Onu. La stima è contenuta in un rapporto realizzato dagli inviati speciali dell’Organizzazione per il Diritto al cibo, Hilal Elver, e per le Sostanze tossiche, Baskut Tuncak. Nei giorni scorsi, il report è presentato al Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra. C’è di più. Secondo i Relatori Speciali, non solo fanno male alla salute e all’ambiente. Non sono nemmeno necessari per garantire l’aumento della produzione agricola finalizzata al nutrimento della popolazione mondiale in crescita.
Pesticidi: dannosi e non necessari
Il rapporto è molto chiaro. Non solo i pesticidi sarebbero responsabili di un aumento stimato di 200mila decessi all’anno per avvelenamento acuto, ma non sono nemmeno necessari. Secondo gli inviati ONU, “nei 50 anni passati, la popolazione globale è più che raddoppiata, mentre la terra arabile disponibile è aumentata solo del 10%”.
Generalmente, affermano gli inviati, si ritiene che l’agricoltura intensiva industriale sia necessaria per aumentare i raccolti. E quindi per sfamare una popolazione mondiale in continua crescita. I dati confermano che, però, non è così. Anzi. È stato già ampiamente dimostrato, infatti, che i pesticidi causano danni ambientali, uccidono o fanno ammalare le persone, destabilizzano l’ecosistema e limitano la biodiversità. Altrettanto vero, inoltre, è che le aziende del settore hanno ormai adottato “una negazione sistematica della grandezza del danno portato da queste sostanze chimiche”. Hanno inoltre attuato “tecniche di marketing aggressive e non etiche” per promuovere i propri prodotti. Strategie che non sarebbero state contrastate a sufficienza. L’industria chimica, affermano gli inviati, tende infatti ad attribuire la colpa dei danni dei pesticidi all’uso improprio fatto dagli agricoltori. Spendono quindi enormi quantità di denaro per influenzare i decisori politici e contestare le prove scientifiche.
La risposta di Agrofarma al rapporto dell’Onu
Non si è fatta attendere la risposta di Agrofarma, l’Associazione nazionale imprese agrofarmaci che fa parte di Federchimica.
Secondo l’associazione, “gli agrofarmaci sono strumenti indispensabili per ottenere livelli di produttività delle coltivazioni sufficienti a sostenere la crescente popolazione mondiale; sforzi per una migliore distribuzione degli alimenti e per la riduzione degli sprechi sono doverosi, ma senza l’impiego degli agrofarmaci non si avrebbe abbastanza cibo per tutti. L’esempio virtuoso dell’agricoltura italiana ed europea conferma che l’agricoltura integrata, che prevede l’utilizzo della chimica, può essere pienamente sostenibile. Il problema non sono dunque i prodotti fitosanitari in sé stessi, ma il loro scorretto utilizzo”.
Affermazioni che cozzano con il rapporto che evidenzia come “alcuni pesticidi possano persistere nell’ambiente per decenni arrivando all’effetto controproducente di ridurre il valore nutrizionale degli alimenti oltre che a uccidere animali che non sono propriamente dei parassiti”.
Per l’Onu è necessario colmare il vuoto dell’assenza di un trattato generale che regoli i pesticidi altamente pericolosi. Produrre cibo nutriente, più sano e rispettoso dell’ambiente non solo è possibile: è necessario.
Secondo lo studio internazionale presentato nel corso dell’American Association for the Advancement of Science, più di metà dei decessi è avvenuta in India e in Cina. I ricercatori hanno paragonato il problema dell’inquinamento dell’aria alle condizioni di vita durante la rivoluzione industriale
L’inquinamento atmosferico ha causato più di 5 milioni e mezzo di morti premature durante il 2013. È quanto sostiene una ricerca presentata nel corso dell’incontro annuale dell’American Association for the Advancement of Science (AAAS – Associazione Americana per l’Avanzamento della Scienza) a Washington DC. Più di metà dei decessi sono avvenuti in India e in Cina. Secondo gli scienziati americani, canadesi cinesi e indiani che hanno lavorato allo studio, nel 2013 le cattive condizioni dell’aria hanno ucciso circa 1,6 milioni di persone in Cina e 1,4 milioni di persone in India. “L’inquinamento atmosferico è il quarto fattore di rischio di morte a livello globale e il maggiore fattore di rischio ambientale per la contrazione di malattie”, ha dichiarato Michael Brauer, ricercatore dell’Università della British Columbia. Brauer ha aggiunto che l’inquinamento dell’aria aumenta il rischio di contrarre malattie cardiache, infarto, cancro ai polmoni, bronchite, enfisema e infezioni acute. I ricercatori hanno paragonato il problema dell’inquinamento atmosferico in Asia alla situazione che si era creata durante la rivoluzione industriale in Europa e in America: una crescita economica massiccia frenata dalle nuvole di materiali tossici presenti nell’aria. Nel 2013 l’inquinamento da carbone, da solo, ha ucciso 366 mila persone in Cina, secondo quanto rilevato dal ricercatore Qiao Ma. Il carbone bruciato per produrre energia elettrica è stato il maggiore fattore inquinante nel paese e gli obiettivi che si è posta la Cina di ridurre le emissioni, così come stabilito lo scorso anno a Parigi, secondo gli scienziati non sono sufficienti. “Anche nello scenario più pulito, che dovrebbe verificarsi nel 2030”, ha sottolineato Ma, “la popolazione della Cina, in continua crescita, patirà da 990 mila a 1,3 milioni di morti l’anno. Chanda Venkataraman, ricercatore indiano, attribuisce l’inquinamento che affligge l’aria del suo paese al carbone, al legname e ai fuochi alimentati con letame che rilasciano nell’aria enormi quantità di particelle tossiche e finiscono nelle case delle famiglie più povere. In India, circa 920 mila morti sono state attribuite all’inquinamento atmosferico causato dagli impianti di produzione di energia elettrica e dalle emissioni delle autovetture. Circa 590 mila decessi sono causati dall’inquinamento familiare provocato dal riscaldamento e dai fuochi creati per cucinare. Venkataraman, professore dell’Indian Institute of Technology di Bombay, ha dichiarato che l’India deve confrontarsi con l’inquinamento prodotto da tre fonti: industriale, agricolo e casalingo. I ricercatori hanno guardato con favore ai provvedimenti normativi adottati dai legislatori americani, canadesi, europei e giapponesi per porre un freno all’inquinamento negli ultimi cinquanta anni. Dan Greenbaum, ex presidente del dipartimento per la protezione ambientale del Massachusetts, ha affermato che “dopo essere stato incaricato di progettare e migliorare strategie finalizzate a migliorare la qualità dell’aria negli Stati Uniti sa bene quanto sia difficile. La ricerca ci aiuta a scegliere la strada giusta indentificando le azioni che possono davvero migliorare la salute pubblica”. La Corte Suprema degli USA ha fermato alcuni recenti tentativi di frenare le emissioni di carbone, ordinando all’EPA (Environmental Protection Agency – Agenzia per la Protezione dell’Ambiente) di non promulgare le nuove normative per gli impianti alimentati a carbone, almeno fino a quando non verranno stabiliti i limiti legali. Questo ha fatto nascere timori sul fatto che le nazioni che hanno siglato l’accordo di Parigi riescano a mantenersi fedeli ai patti, ma l’amministrazione Obama ha ribadito che l’intesa parigina non sarà toccata.
“La Vita è davvero un miracolo eppure noi la passiamo in gran parte inconsapevoli, inseguendo obiettivi fatui, scappando da problemi apparentemente immensi, ma in realtà spesso futili e sognando un Domani Felice. Un domani che non arriva mai, perché non abbiamo mai tempo per costruirlo veramente, per viverlo Adesso”.
Siamo fatti di carne e ossa. Banale no? Eppure chi ci pensa mai veramente? Ieri notte ero a letto, ho fatto un po’ tardi. Mi sono messo sotto le coperte nella mia casa tra i monti. Ero solo, completamente solo. Ho appoggiato la testa al braccio e ho sentito il battito del mio cuore. Avete presente? quel sottofondo che ci accompagna sempre ma non ascoltiamo quasi mai? Batteva e in un attimo di consapevolezza l’ho visualizzato. Un affare rosso, un po’ impressionante, dentro il mio petto. Mi faceva quasi paura…
Un pezzo di carne a cui non penso mai ma che mi tiene in vita e senza il quale io non sarei più. Ed ecco che il senso di tutte le azioni quotidiane svanisce in un istante. Cazzo, un giorno quel coso smetterà di battere! Nella migliore delle ipotesi saro’ molto vecchio, ma smettera’. E chissa’ quali altre diavolerie contiene il mio corpo. Pezzi di carne a cui non penso mai, ma che mi permettono di essere, fare, pensare.
Che impressione… Siamo così forti e così fragili… La Vita è davvero un miracolo eppure noi la passiamo in gran parte inconsapevoli, inseguendo obiettivi fatui, scappando da problemi apparentemente immensi, ma in realtà spesso futili e sognando un Domani Felice. Un domani che non arriva mai, perché non abbiamo mai tempo per costruirlo veramente, per viverlo Adesso.
Mi sono addormentato con questi pensieri. Addormentato… Che succede quando dormo? Dove vado? Cosa è reale e cosa sogno? Domande banali vero? Solo che a volte penso che a forza di definire banali alcune verità e retorici alcuni valori abbiamo finito per l’allontanarli dalla nostra vita. La morte e la nascita sono eventi straordinari. Eventi a cui non assistiamo quasi mai.
Avvengono in luoghi impersonali, sterilizzati, bianchi, grigi, verdini. I cadaveri, i nostri noi del futuro, vengono seppelliti in bare super resistenti in cimiteri lontani. Vediamo delle croci, vediamo delle foto, ma non vediamo i nostri organi decomporsi. Le guerre, dove scorre il sangue, sono lontane: “Per carità! Non mostriamo i corpi in tv! I bambini si impressionerebbero!”
Sangue? Morte? Corpi? Eliminati, anestetizzati. Si fa l’amore con una busta di plastica che impedisce il contatto con l’altro, si partorisce con il cesareo, si mangiano animali accuratamente sezionati da altri, senza occhi, senza alcun legame apparente tra cadavere e corpo.
E così l’intera vita è virtualizzata. Possiamo vivere 50 o 100 anni, ma li passiamo senza sapere cosa siamo, come siamo fatti, di cosa ci nutriamo, in che mondo siamo immersi. Poi un giorno un pezzo si rompe ed ecco che inizia il calvario negli ospedali. Ecco che improvvisamente siamo pieni di rimpianti, vorremmo Vivere davvero… ma ora sì, rischia di non esserci più tempo. Cosa aspettiamo veramente? Da cosa fuggiamo nel nostro eterno rinviare la Vita? Cosa ci terrorizza così tanto? E perché? Non lo so. Forse potrei approfondire l’argomento, magari cercare di vivere una Vita Consapevole, ma non ho tempo… Ho troppi impegni. Domani forse.
O almeno, questo è quello che mi sono detto fino ad oggi. Ma ora non più. Ora voglio vivere il mio presente.
Malattie cardiovascolari, respiratorie, neoplastiche, disturbi della sfera neuro-comportamentale, disturbi dell’apprendimento e dell’attenzione nei bambini: per l’Associazione italiana medici per l’ambiente sono queste le conseguenze del vivere a distanza ridotta da un aeroporto. “Ridurre il numero dei voli”
Il trasporto aereo provoca inquinamento atmosferico, acustico ed elettromagnetico. Un dato ormai riconosciuto scientificamente e comprovato in modo incontrovertibile da decenni di studi e ricerche. Ad affermarlo è l’Associazione italiana medici per l’ambiente (Isde) di Viterbo. “Le popolazioni che vivono in prossimità degli aeroporti, come quelle residenti a Ciampino, Marino e nel X Municipio di Roma – proseguono gli esperti – pagano pertanto, in termini di malattie e cause di morte correlate anche a questa particolare forma d’inquinamento, il prezzo più alto di scelte che hanno spesso messo al primo posto il profitto di pochi invece che la salute dei cittadini”.
L’Isde, che ha partecipato a Ciampino al convegno ‘Aeroporto, ambiente, salute, territorio’ promosso dal Comitato per la riduzione dell’impatto ambientale dell’aeroporto di Ciampino, cita come riferimenti studi già realizzati e in corso di Arpa-Lazio, delDipartimento di epidemiologia e prevenzione della Regione Lazio, dell’Università Sapienza di Roma e dell’Università Tor Vergata di Roma.
“In questi lavori scientifici – ha indicato nella sua relazione Antonella Litta, rappresentante dell’Isde di Viterbo – sono stati rilevati e studiati molti degli effetti sanitari già noti e generati dal trasporto aereo, soprattutto negli anni che hanno registrato un forte incremento del numero di voli sull’aeroporto di Ciampino, ovvero:malattie cardiovascolari, respiratorie, neoplastiche, disturbi della sfera neuro-comportamentale, disturbi dell’apprendimento e dell’attenzione nei bambini, e – aggiunge – una riduzione della qualità della vita per compromissione della qualità del sonno a causa delle operazioni aeroportuali svolte nelle ore notturne”.
La dottoressa Litta ha poi evidenziato come il trasporto aereo, incrementato dai voli ‘low-cost’ per lo più al servizio del cosiddetto ‘turismo mordi e fuggi’, “provochi gravissimi danni al clima (per i gas serra e le polveri generate dai combustibili utilizzati per la propulsione degli aerei), e come il surriscaldamento climatico e le sue conseguenze (alluvioni, desertificazioni, cicloni sempre più violenti, recrudescenze di particolari malattie infettive, riduzione della disponibilità di acqua potabile), abbiano ricadute drammatiche sull’intera umanità ed in particolare sulle popolazioni più povere del pianeta, quelle che per la stragrande parte non usufruiscono e non possono usufruire del trasporto aereo ma ne subiscono le nocive conseguenze e che vengono costrette a forzate migrazioni sanitarie”.
La rappresentante dell’Isde Viterbo lancia una appello alle istituzioni “affinché subito siano drasticamente ridotti i voli sull’aeroporto di Ciampino, prospettandone anche la possibile chiusura, in considerazione – avverte – della preoccupante situazione sanitaria determinata dalla lunga esposizione della popolazione a molteplici fattori d’inquinamento ambientale, di cui gran parte generata proprio dalle attività aeroportuali”.
Un professore, un ricercatore e un bibliotecario sono deceduti per mesotelioma pleurico. Sul caso il sostituto procuratore Raffaele Guariniello aprì un’inchiesta nel 1999
Dopo un docente di francese, Gianni Mombello, e un ricercatore di economia a Scienze Politiche, Andrea Brero, negli scorsi giorni è deceduto un bibliotecario di Palazzo Nuovo. Sale dunque a tre il numero dei decessi per mesotelioma pleurico nella sede universitaria torinese che, dalla fine degli anni Sessanta, ospita le materie giuridiche e umanistiche. L’uomo, 54 anni, lavorava all’interno di Palazzo Nuovo dal 1982 e il suo caso è entrato nel fascicolo di inchiesta che il sostituto procuratore Raffaele Guariniello ha aperto alcuni anni fa sulla presenza di amianto nell’edificio. Guariniello aveva iniziato a indagare nel lontano 1999 e fra queste tre vittime ci sarebbe un punto di contatto: la frequentazione della stessa biblioteca. La presenza di materiali contenenti amianto è accertata sino al 2003: non solo crisotilo, ma anche amianto blu, quello considerato più pericoloso. Nell’accertamento Asl fatto a cavallo fra 1999 e 2000 si scoprì che “le facciate esterne dell’intero palazzo sono state rivestite con lastre di tamponamento contenenti amianto”, più specificatamente “lastre modello Glasal con amianto” secondo quanto rilevato dall’Arpa: ma a destare preoccupazione furono, nel 1999, soprattutto le condizioni dei materiali: “Le lastre non sono in buon stato di conservazione, presentano spesso deformazioni e rotture”. Quando iniziarono i lavori per la biblioteca universitaria frammenti di lastre di materiale furono trovate ai lati del cantiere. La bonifica avvenne ma con notevoli ritardi: nell’ottobre 1999 i presidi annunciarono “imminenti lavori di rimozione” e l’Arcas, la società incaricata delle rimozione, finì nel mirino dell’Asl per non avere provveduto alla rimozione dei “residui di lavorazione in imballaggi chiusi”. Nel 2001 l’Asl scrive al rettore riguardo al rischio di dispersione di amianto nell’ambiente. Un rischio affrontato in maniera inadeguata, ma non per ignoranza del pericolo. Un verbale del Cda dell’ateneo datato 1990, infatti, testimonia come i vertici dell’Università fossero al corrente della precarietà dei rivestimenti in amianto. Pochi sapevano, ma le informazioni rimasero sotto chiave: professori, amministrativi e studenti respirarono le fibre di amianto. Il caso Eternit lascia supporre che i tre decessi di questi ultimi anni non siano che l’inizio di una lista destinata ad allungarsi in futuro.
Per i medici dello Jiangsu Cancer Hospital la morte di una bambina di 8 anni è stata causata dallo smog
La piccola di 8 anni che viveva in Cina nello Jiangsu si è ammalata di cancro ai polmoni e secondo i medici dello Jiangsu Cancer Hospital il cancro si è sviluppato a causa dello smog. La piccola abitava in un edificio nei pressi di una zona trafficata. I medici cinesi, come d’altronde ha già reso noto l’OMS, hanno sottolineato come il Pm 2,5 sia altamente cancerogeno, ossia le polveri micro sottili.
Come riporta il South China Morning post:
A Pechino le morti per cancro al polmone sono aumentati del 56 per cento dal 2001 al 2010. Un quinto di tutti i malati di cancro soffrono di cancro al polmone rivela il Pechino Health Bureau, e è diventato la principale causa di decessi per cancro tra gli uomini nella capitale e la seconda più grande tra le donne, dopo il cancro al seno, nel 2010.
L’inquinamento atmosferico è per lo più causato dal trasporto, produzione di energia, emissioni industriali o agricole e residenziali e rappresenta un pericolo per la salute simile al respirare il fumo passivo. L’OMS ha dichiarato che nel 2010 sono morte di cancro al polmone 223.000 persone nel mondo a causa dell’inquinamento atmosferico e proprio io cancro al polmone è è il tumore più comune in Asia. L’oncologo Hao Xishan ha spiegato che:
La Cina aveva circa il 20 per cento dei casi di cancro nel mondo ma che recentemente ha diagnosticato che le morti per cancro al polmone, fegato, stomaco, esofago, colon, della cervice uterina, mammella e rinofaringe sono stati responsabili dell’80 per cento delle morti per cancro nel paese.
Ma l’inquinamento da smog non si ferma e proprio oggi a Shanghai è stato dichiarato lo stato di allerta suggerendo agli studenti di evitare attività all’aria aperta.
Una nuova legge dell’IMO, l’Organizzazione Marittima Internazionale, vieta lo scarico in mare della sostanza che a Dorset ha causato la morte di 4000 uccelli di 18 specie diverse
Ad aprile e a gennaio di quest’anno, due diversi incidenti avevano causato la morte di 4000 uccelli di 18 specie differenti sulle spiagge della Cornovaglia, più precisamente a Dorset. Dopo un’indagine compiuta dal governo del Regno Unito, di concerto con la guardia costiera, si è avuta la conferma che a provocare le morti è stato lo scarico nell’ambiente marino del poliisobutilene, una sostanza chimica che finisce in mare dopo la pulizia delle cisterne delle navi e il lavaggio delle acque di zavorra. Anche se molti ambientalisti avevano già denunciato i pericoli connessi al suo utilizzo, finora nessuna norma proibiva di scaricarla in mare in quantità limitate. Ora il giro di vite. In una riunione dell’IMO, l’Organizzazione Marittima Internazionale è stato annunciato che, a partire dal 2014, tutte le PIB ad alta viscosità saranno riclassificate in una categoria che ne vieta il loro scarico in mare e che richiede che i serbatoi siano pre-lavati e residui smaltiti in porto. Ciò si applica anche alle nuove forme “altamente reattive” di poliisobutilene. Queste sostanze chimiche vengono utilizzate per migliorare le prestazioni dell’olio lubrificante e si trovano in prodotti che vanno dagli adesivi ai sigillanti, per finire con le gomme da masticare. Una volta finite in acqua, queste sostanze appiccicose diventano una sorta di trappola per gli uccelli che ne rimangono invischiati: l’incapacità di muoversi porta all’ipotermia, alla fame e, infine, alla morte. Molte associazioni ambientaliste si sono mobilitate e circa 25mila persone hanno firmato petizioni a sostegno del divieto.
Siamo molto soddisfatti per l’iniziativa presa dall’IMO. Il commercio mondiale di prodotti PIB è in aumento e con esso i rischi per il nostro ambiente marino, ecco perché è particolarmente prezioso la messa al bando globale di quest’oggi sullo scarico deliberato di PIB. Si tratta di un vero e proprio passo in avanti per i nostri mari e ci auguriamo che possa porre fine a questo particolare inquinamento che minaccia gli uccelli marini e ogni altra forma di vita marina,
ha dichiarato Alec Taylor, responsabile delle politiche marine dell’associazione ambientalista RSPB.