Coca-Cola, “il più grande inquinatore al mondo”, non abbandona la plastica monouso

Prosegue la campagna di Greenpeace per fare pressione sui grandi inquinatori affinché attuino politiche aziendali capaci di contenere la loro impronta ecologica. Alcuni di loro però, come Coca-Cola, rifiutano di farlo, continuando a utilizzare migliaia di tonnellate di plastica usa e getta. Coca-Cola da sempre promuove l’acquisto della sua famosa bevanda: vediamo scene emozionanti, brillanti e che evocano emozioni positive. Ma che emozione si prova sapendo che Coca-Cola è stata classificata, secondo i dati dei brand audit del 2021, per il quarto anno consecutivo come azienda più inquinante del Pianeta? Perché?

Ogni anno Coca-Cola produce 218 miliardi di bottiglie. Bisogna sapere che il materiale di cui è composta la plastica deriva dalla raffinazione di fonti fossili come il gas e il petrolio. È micidiale per il nostro Pianeta perché in ogni fase del suo ciclo di vita – estrazione, trasporto, stoccaggio, raffinazione e smaltimento – può generare un danno ambientale enorme, anche in termini di emissioni di CO2, dirette responsabili del cambiamento climatico a cui stiamo assistendo. Quando questo tipo di plastica si disperde nell’ambiente è per sempre! Non è magia, purtroppo è realtà!

Le pubblicità di Coca-Cola non riusciranno per sempre a nascondere il danno che produce al nostro Pianeta! Pensate che anche una sola bottiglietta di plastica di Coca-Cola, se finisce in natura, ha bisogno di centinaia di anni per degradarsi. Quella stessa plastica dispersa in mare sotto forma di microplastiche, per esempio, una volta ingerita da pesci e crostacei, può entrare nella catena alimentare e arrivare fino sulle nostre tavole. Probabilmente i vostri futuri parenti vedranno ancora meglio di noi il danno che questo tipo di plastica produce al nostro Pianeta e ai suoi abitanti.

L’anno scorso Coca-Cola, come molte altre aziende, ha rifiutato di abbandonare le bottiglie di plastica sostenendo che i suoi clienti vogliono ancora comprarle. Ma questo non è vero! È l’industria dei combustibili fossili, non i consumatori, che vogliono che la Coca-Cola continui a utilizzare la plastica, perché i loro profitti dipendono da essa.

È tempo di fermare le grandi multinazionali come Coca-Cola. Aziende come questa lavorano fianco a fianco con i settori industriali spingendo la produzione petrolchimica per assicurare enormi profitti alle industrie fino a quando l’ultima goccia di petrolio non verrà estratta. L’unico modo per salvare il clima e il mare è quello di metterci alle spalle l’era dei combustibili fossili e dei prodotti che ne derivano, come la plastica di Coca-Cola! Di recente siamo riusciti a fare forti pressioni su aziende come Unilever, che ci ha ascoltato e si è impegnata a ridurre l’uso della plastica monouso. Abbiamo raggiunto milioni di persone con il nostro appello e ottenuto nuove leggi europee per contrastare l’abuso di plastica usa e getta. Ma aziende come Coca-Cola continuano!

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/12/coca-cola-plastica-monouso/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Piantare alberi salverà il mondo, ma attenzione a come lo fate

Da Stefano Mancuso a Simonetta Bagella, sono tantissimi gli addetti ai lavori che testimoniano quanto sia importante piantare alberi per fronteggiare la crisi ambientale. Ma questa azione va svolta con consapevolezza, in tempi e modi progettati accuratamente, per evitare di arrecare all’ecosistema più danni che benefici. Tagliare o piantare alberi? Questa è la questione che si pone di centrale importanza oggi, l’ago della bilancia verso la distruzione o la salvezza del nostro pianeta. Nonostante la battaglia in primo piano oggi sia la pandemia, non bisogna assolutamente mettere in secondo piano una questione altrettanto preoccupante come l’emergenza climatica. Si tratta infatti di due questioni connesse e fondamentali per il futuro del genere umano. Covid e crisi climatica «sono più simili di quanto si pensi», afferma Stefano Mancuso. In realtà ci sarebbe un’azione semplice quanto efficace da compiere, non tanto per risolvere il problema, quanto per evitare la catastrofe: piantare alberi! Alberi come mascherina per tutelare noi stessi e gli altri, restando nella similitudine. Certo, non c’è ancora il vaccino per la crisi climatica, ma esiste una soluzione per ritardare la deadline. Piantare alberi. Questo il farmaco, tanto semplice quanto potente.

«Circa un miliardo a testa per ogni abitante della terra», aggiunge Mancuso parlando di cifre. «Se noi piantassimo alberi in tutti i luoghi della Terra dove è possibile farlo senza generare impatti negativi con le colture agricole o con gli ambienti a elevata biodiversità, si potrebbe riassorbire dai 2 ai 10 miliardi di tonnellate di CO2 ogni anno», gli fa eco Giorgio Vacchiano, ricercatore in gestione e pianificazione forestale presso l’Università Statale di Milano. Certo non è questa l’unica soluzione al problema: «È evidente – prosegue Vacchiano – quanto si dovrebbe lavorare in parallelo alla riduzione delle emissioni gassose che, se continuano con questo trend, non ci sarà più spazio sulla Terra per piantare alberi sufficienti ad assorbirle».

Perciò il cammino è segnato: piantare alberi, smettere di deforestare e ridurre le emissioni di CO2. È così che, di fronte a un problema complesso come la crisi climatica, si dovrebbe procedere con una eguale pluralità di azioni risolutive. «Siamo all’interno di un sistema complesso e come tale va trattato», commenta Simonetta Bagella, docente in Scienze naturali presso l’Università di Sassari.

«Di fronte al taglio indiscriminato di alberi – prosegue la ricercatrice –, l’impiego di petrolio e la diffusione abnorme di emissioni di CO2 in atmosfera, è sempre più urgente innanzitutto riforestare laddove si è tagliato e al contempo ridurre l’inquinamento». Sarà solo invertendo la freccia involutiva che si potrà intravedere un futuro migliore per il pianeta.

Piantare alberi dunque, ma quali? Dove e come? Perché deve essere una piantumazione non casuale, ma ben progettata, affinché da elemento positivo e curativo, l’albero non si trasformi in un nemico dell’ambiente e un’aggravante della situazione. Per esempio, spiega Bagella, «molte specie esotiche invasive, piantate nei nostri habitat, hanno creato solo ulteriori problemi invece di risolverli».

L’ampliamento della superficie boschiva infatti non è sempre felice. Ne è prova anche l’aumento incredibile degli incendi e la distruzione delle foreste, eventi di fronte a cui non basta piantare nuovi alberi, magari a rapido accrescimento. Certo, sembrerebbe l’azione più istintiva e urgente da fare, almeno a livello emotivo, tuttavia andrebbe progettata con cautela e attenzione. Perché il bosco non è solo un insieme indiscriminato di alberi: è un mondo complesso, un universo abitato da una biodiversità interconnessa e resiliente. Bisogna anche avere cura di piantare alberi giusti, al momento e nel posto giusto: è questa la strada per la transizione ecologica che è anche transizione sociale e tecnologica. Piantare alberi subito, con rigore e progettazione. Ne parleranno a novembre i delegati di tutti i paesi della Terra nella discussione sulla messa in atto degli Accordi di Parigi. E tra questi c’è anche il tema della riforestazione.

«Foreste nuove da piantare, vecchie da ripristinare e tutti e tre i miliardi di ettari già esistenti sulla Terra da gestire», prosegue Vacchiano. Questo può fare la differenza per far fronte alla crisi climatica attraverso l’assorbimento della CO2, la mitigazione del clima, la riduzione dell’inquinamenti, specie in città e molte altre potenzialità insite nella piantumazione. A ciò però, deve seguire anche la tutela delle foreste. Perché la foresta bambina ha bisogno di cure e attenzioni per dare il suo massimo e per creare quell’ambiente ricco di biodiversità e intercomunicazione a beneficio di tutti gli esseri viventi. Piantare alberi è anche un’azione che garantisce benefici economici: mette in moto una filiera produttiva etica e positiva; offre lavoro alle persone; ci dà modo di ripensare gli alberi come fonte per la bioedilizia e l’efficienza energetica. Crescere diversamente: crescere nel rispetto degli equilibri ambientali e dei bisogni di tutti gli esseri umani. Più foreste e meno città. Foreste più tutelate e città meno inquinate. È questa la pianificazione del futuro. Un futuro più green e sostenibile, un mondo più ecologico e meno inquinato. Sembrano banalità e luoghi comuni, eppure è questo l’unico futuro possibile.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/10/piantare-alberi-attenzione/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Il mondo ha consumato le sue risorse: da oggi siamo in rosso

Al 1 agosto la popolazione mondiale ha consumato tutte le risorse normalmente prodotte dal pianeta in un anno, ma se vivessimo tutti come i vietnamiti…http _media.ecoblog.it_d_dd9_gfn-country-overshoot-day-info

Benvenuti nel primo giorno di debito mondiale: da oggi il mondo è in riserva, con la giornata di ieri abbiamo consumato tutte le riserve che il mondo ha prodotto e produrrà nel 2018. Si chiama Earth Overshoot Day, lo calcola ogni anno il Global Footprint Network (Gfn) e l’anno scorso è caduto un giorno dopo: il 2 agosto. Si tratta, però, di una media mondiale calcolata in base alla media dell’impatto ambientale di tutti i paesi del pianeta. Paesi che, ovviamente, non consumano risorse e non inquinano tutti allo stesso modo. I Country Overshoot Days per ogni singolo paese, infatti, sono tutti diversi. L’Italia è in rosso da molto prima: il 24 maggio. Gli estremi in negativo e in positivo sono, rispettivamente, il Qatar e il Vietnam. Se tutto il mondo avesse l’impatto ambientale che si registra in Qatar le risorse finirebbero il 9 febbraio di ogni anno, se invece al mondo ci fossero solo vietnamiti avremmo tempo fino al 21 dicembre. E’ chiaro che si tratta di due paesi completamente diversi tra loro e con un tenore e uno stile di vita praticamente agli antipodi, è la somma che fa il totale e il totale è che la popolazione mondiale dovrebbe avere 1,7 pianeti terra per sostenere i suoi consumi. Tra l’altro il dato italiano è significativo: il nostro paese non è né il Vietnam né il Qatar (e neanche l’America, per fare un esempio più comprensibile) eppure consumiamo in meno di sei mesi le risorse che ci dovrebbero bastare per dodici.

Fonte: ecoblog.it

Un mondo più ecologico? Inizia dalla tinteggiatura delle pareti della tua abitazione

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Una recente ricerca dell’Osservatorio Compass ha confermato tutta l’attenzione degli italiani nei confronti delle case ecosostenibili, dai materiali di costruzione, fino al riciclo e al riuso. Ma c’è un altro elemento chiave: la tinteggiatura delle pareti con vernici ecologiche. Una recente ricerca dell’Osservatorio Compass ha confermato tutta l’attenzione degli italiani nei confronti delle case ecosostenibili: secondo il rapporto, il 28% degli intervistati ha dichiarato di nutrire grande interesse per questo argomento. Non è un caso, dunque, che la creazione di un mondo più ecologico parta proprio da noi e dalle nostre abitazioni. Sono diversi gli aspetti domestici che possono favorire questa missione green: dai materiali di costruzione, fino ad arrivare all’importanza del riciclo e del riuso. Fra i punti chiave di una gestione ecosostenibile della casa troviamo un altro elemento, nonché uno dei più importanti: la tinteggiatura delle pareti, che ci permette di dare nuova vita alla casa senza per questo contaminare l’ambiente. Ecco perché si tratta di un tema che merita un ulteriore approfondimento.

Ecologia e case: come applicare questo concetto con le vernici

Le vernici ecologiche e naturali sono degli strumenti indispensabili per chi desidera vivere senza inquinare e, al tempo stesso, vivere in una casa curata nel minimo dettaglio. Non a caso il concetto di ecologia può essere facilmente applicato anche alle nostre abitazioni: quando si tratta di doverle rinnovare, esistono dei modi e delle misure che ci permetteranno di farlo senza causare ulteriori danni al Pianeta. Le vernici ecologiche sono perfette per questo scopo. I motivi? Sono realizzate solo ed esclusivamente con elementi naturali, dunque non posseggono alcuna sostanza pericolosa per noi e per l’ambiente. Questo non si può dire delle vernici chimiche che, al contrario, sono particolarmente pericolose per entrambi: vengono difatti realizzate con sostanze tossiche, che possono inquinare l’atmosfera e al tempo stesso mettere a rischio la salute di chi abita in casa. Fra l’altro, rimodernare il proprio appartamento con le vernici eco è molto facile e davvero poco costoso: per la tinteggiatura delle pareti interne basta affidarsi ad uno dei tanti specialisti, ottenendo così un risultato perfetto, sostenibile ma anche economico.

Vernici chimiche ed ecologiche: un approfondimento

Le vernici chimiche vengono prodotte utilizzando delle sostanze di origine petrol-chimica: ciò vuol dire che, utilizzandole, si mette in primis a rischio la salute di chi frequenta l’abitazione. Inoltre, queste sostanze sono particolarmente nocive in quanto volatili: tendono infatti ad inquinare velocemente l’aria che respiriamo, specialmente quando vengono utilizzate per tinteggiare i muri interni della casa. Al contrario, le vernici naturali sono totalmente sprovviste di sostanze VOC (volatili) e dunque sicure per l’ambiente e per chi vi abita. Questo perché non producono effetti secondari potenzialmente gravi come le emicranie, la nausea e le irritazioni cutanee. Inoltre, non rilasciando alcun tipo di rifiuto tossico, non causano danni all’ambiente. Fra le altre cose, il ciclo produttivo necessario per realizzare le vernici chimiche produce tonnellate di elementi inquinanti che finiscono nell’atmosfera. Ecco perché ognuno di noi dovrebbe ragionare prima di usare pennello e spatola: ricorrere alle vernici ecologiche, insieme a tutti gli altri prodotti sostenibili, può aiutare noi e sostenere l’ambiente. Inoltre questo può garantire un futuro migliore alle prossime generazioni che abiteranno il nostro pianeta, e che non dovranno così fare i conti con gli errori sin qui commessi dall’uomo.

Fonte: ecodallecitta.it

Il 95% della popolazione mondiale respira aria inquinata. Uno studio

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E’ il dato allarmante pubblicato dall’Health Effects Institute che ha appena condotto sul tema uno studio su larghissima scala. E secondo la ricerca sono i Paesi in via di sviluppo a soffrire di più con altissimi livelli di smog e aria contaminata sia dentro casa che fuori. Sette miliardi di persone, oltre il 95% della popolazione mondiale, respirano aria inquinata. E’ il dato allarmante pubblicato dall’Health Effects Institute che ha appena condotto sul tema uno studio su larghissima scala. E secondo la ricerca sono i Paesi in via di sviluppo a soffrire di più con altissimi livelli di smog e aria contaminata sia dentro casa che fuori. Al contrario, le nazioni più industrializzate hanno registrato dei miglioramenti.

Dal 1990, +20% di morti

Le conseguenze sono gravissime: solo nel 2016 l’inquinamento ha fatto 6,1 milioni di vittime, diventando così la quarta causa di morte, dopo la pressione alta, la cattiva alimentazione e il fumo. In generale, secondo i ricercatori, i decessi collegati all’inquinamento atmosferico sono saliti del 20% dai 3,3 milioni del 1990.

In Cina e India l’aria più irrespirabile

Il problema, sostiene l’Health Effects Institute, è strettamente collegato con la rapida urbanizzazione, con le emissioni presenti nell’atmosfera e per le esalazioni delle combustioni domestiche. Per effettuare lo studio, l’Istituto si è basato anche sui dati satellitari secondo i quali i livelli di emissioni nocive nell’aria vanno ben oltre i limiti imposti dall’Organizzazione mondiale della sanità che ha individuato il valore massimo di riferimento per il PM2.5 – il particolato che finisce nei polmoni e provoca il cancro – a livello di 10 microgrammi/m3 come media annuale. Per l’Health Effects Institute, il 95% della popolazione vive in zone in cui l’inquinamento atmosferico non rientra nelle linee guida dell’OMS, mentre il 60% vive in aree che superano di molto il livello massimo consentito. Il problema è particolarmente presente in Asia, con India e Cina che registrano il 51% delle morti per inquinamento atmosferico.  Nel primo caso, la maggior parte della tossicità è causata dalla combustione di biomasse e del carbone. Un agente inquinante quest’ultimo particolarmente presente anche in Cina dove il grosso dell’industria e dei riscaldamenti domestici si basano ancora sul carbone.

“Restano le grandi sfide”

“L’inquinamento atmosferico è ormai diffuso in tutto il mondo rendendo difficile la vita alle persone – giovani e anziani – con problemi respiratori. E provocando sempre più decessi”, sostiene Bob O’Keefe, vicepresidente dell’Health Effects Institute. “I nostri dati mostrano un miglioramento della situazione in alcune zone del mondo, ma restano grandi sfide in altre aree”.  Sette miliardi di persone, oltre il 95% della popolazione mondiale, respirano aria inquinata. E’ il dato allarmante pubblicato dall’Health Effects Institute che ha appena condotto sul tema uno studio su larghissima scala. E secondo la ricerca sono i Paesi in via di sviluppo a soffrire di più con altissimi livelli di smog e aria contaminata sia dentro casa che fuori. Al contrario, le nazioni più industrializzate hanno registrato dei miglioramenti.

Dal 1990, +20% di morti

Le conseguenze sono gravissime: solo nel 2016 l’inquinamento ha fatto 6,1 milioni di vittime, diventando così la quarta causa di morte, dopo la pressione alta, la cattiva alimentazione e il fumo. In generale, secondo i ricercatori, i decessi collegati all’inquinamento atmosferico sono saliti del 20% dai 3,3 milioni del 1990.

In Cina e India l’aria più irrespirabile

Il problema, sostiene l’Health Effects Institute, è strettamente collegato con la rapida urbanizzazione, con le emissioni presenti nell’atmosfera e per le esalazioni delle combustioni domestiche. Per effettuare lo studio, l’Istituto si è basato anche sui dati satellitari secondo i quali i livelli di emissioni nocive nell’aria vanno ben oltre i limiti imposti dall’Organizzazione mondiale della sanità che ha individuato il valore massimo di riferimento per il PM2.5 – il particolato che finisce nei polmoni e provoca il cancro – a livello di 10 microgrammi/m3 come media annuale. Per l’Health Effects Institute, il 95% della popolazione vive in zone in cui l’inquinamento atmosferico non rientra nelle linee guida dell’OMS, mentre il 60% vive in aree che superano di molto il livello massimo consentito. Il problema è particolarmente presente in Asia, con India e Cina che registrano il 51% delle morti per inquinamento atmosferico.  Nel primo caso, la maggior parte della tossicità è causata dalla combustione di biomasse e del carbone. Un agente inquinante quest’ultimo particolarmente presente anche in Cina dove il grosso dell’industria e dei riscaldamenti domestici si basano ancora sul carbone.

“Restano le grandi sfide”

“L’inquinamento atmosferico è ormai diffuso in tutto il mondo rendendo difficile la vita alle persone – giovani e anziani – con problemi respiratori. E provocando sempre più decessi”, sostiene Bob O’Keefe, vicepresidente dell’Health Effects Institute. “I nostri dati mostrano un miglioramento della situazione in alcune zone del mondo, ma restano grandi sfide in altre aree”.

Fonte: ecodallecitta.it

 

 

L’umanità cieca di fronte al cambiamento climatico

Qualsiasi persona di senno, con la propria casa in fiamme e i familiari dentro, farebbe di tutto per salvarli; eppure, nonostante il nostro mondo stia bruciando, la grande famiglia umana non si adopera granchè per salvarsi. Quello dei cambiamenti climatici è uno dei grandi dilemmi contemporanei che vedono l’umanità cieca e pressochè inerme di fronte alla propria veloce estinzione auto-provocata.9800-10586

Fino a una trentina di anni fa eravamo in pochi a dare l’allarme per cercare di porre l’attenzione su un problema di enorme portata come quello del cambiamento climatico e delle sue conseguenze drammatiche. Come da copione, eravamo considerati catastrofisti, eccessivi, si diceva che la situazione non era così grave, qualche esperto aveva pure il coraggio di affermare che il riscaldamento della terra era fisiologico, che erano aspetti ciclici, non c’era nulla di cui preoccuparsi.

Poi si venne a sapere che chi negava i cambiamenti climatici era spesso lautamente prezzolato dalle industrie petrolifere e le stesse pagavano giornalisti o sedicenti esperti per confutare le tesi dei sempre più numerosi scienziati che in maniera indipendente dimostravano la grande pericolosità dei cambiamenti climatici e le dirette responsabilità umane in merito.

Oggi, praticamente più nessuno confuta quello che “i catastrofisti” dicevano già tempo addietro e cioè che i cambiamenti climatici non solo sono un prodotto delle attività umane ma che stanno anche correndo più velocemente del previsto e creando sempre più gravi e irreversibili problemi. Le conferenze sul clima decidono poco e nulla e quel poco che decidono viene persino disatteso; si continua ad andare avanti più o meno come se nulla fosse. Oltre agli ambientalisti, molte personalità stanno dando l’allarme; fra queste anche quello che è considerato uno tra i più grandi scrittori indiani viventi, Amitav Ghosh, che ha dedicato un  libro sull’aspetto della rimozione collettiva del problema dei cambiamenti climatici e il relativo scarso interesse della letteratura per questo tema. Il libro si chiama emblematicamente “La grande cecità” e Ghosh, cercando di capire il perché di questa rimozione collettiva, mette in discussione il paradigma che qualsiasi cosa venga dal progresso (occidentale) sia di per sé positiva e auspicabile.

Analizza come gli uomini nella loro arroganza non si rendano conto che è impossibile imbrigliare la natura e costringerla ai propri voleri spesso del tutto innaturali. Ci parla della rimozione dei rischi facendo esempi di varie città costiere dove la crescita dipende dall’assicurarsi che si chiuda un occhio proprio sui rischi. Scrive delle centrali nucleari in India che a causa di eventi climatici estremi potrebbero avere problemi come in Giappone. E mettendo l’accento sulla scelleratezza e stupidità umana, citando la tragedia della centrale nucleare di Fukushima nota come  “Nel medioevo erano state collocate lungo il litorale delle tavolette di pietra per mettere in guardia dagli tsunami: alle generazioni future veniva detto senza mezzi termini: ”Non costruite le vostre case al di sotto di questo punto!”. I giapponesi non sono di certo meno attenti di qualunque altro popolo alle raccomandazioni degli antenati: eppure, non solo hanno costruito esattamente dove era stato detto loro di non farlo, ma ci hanno piazzato una centrale nucleare.

Siamo sempre alle prese con il nostro ridicolo e suicida progresso che disprezza i popoli indigeni e li giudica inferiori anche se poi sono gli unici che si sono messi in salvo dallo tsunami e considera gli antichi e la loro saggezza ed esperienza come cose di cui non tenere conto. Con un cellulare in tasca, noi ci sentiamo padroni del mondo, tranne quando appunto uno tsunami spazza via noi, il nostro cellulare e le nostre centrali nucleari. Impressionanti erano infatti nelle città giapponesi post tsunami, le code di fronte alle cabine telefoniche, le uniche che funzionavano dopo che erano saltati tutti gli altri modernissimi sistemi di comunicazione.

Anche il grande scrittore indiano per cercare le cause dei cambiamenti climatici giunge alle conclusioni ormai arcinote almeno per chi studia la situazione da tempo e cioè che il sistema della crescita è insostenibile da ogni punto di vista, ecco la sua versione:  Gli stili di vita nati dalla modernità sono praticabili solo per una piccola minoranza della popolazione mondiale. L’esperienza storica dell’Asia dimostra che il nostro pianeta non consentirà che questi stili di vita siano adottati da tutti gli esseri umani. Non è possibile che ogni famiglia del mondo abbia due automobili, una lavatrice e un frigorifero, non per ragioni tecniche o economiche, ma perché altrimenti l’umanità morirebbe soffocata. E’ stata dunque l’Asia a strappare la maschera al fantasma che l’aveva attirata sul palcoscenico della Grande Cecità, ma solo per ritrarsi inorridita da quel che aveva fatto; lo shock è stato tale che ora non osa neppure nominare cosa ha visto – perché essendo salita su questo palcoscenico, ora è in trappola come tutti gli altri. L’unica cosa che può dire al coro che aspetta di accoglierla nei suoi ranghi è :”Ma voi avevate promesso…e noi vi abbiamo creduto!”.  In questo suo ruolo di sempliciotto inorridito, l’Asia ha anche messo a nudo, col proprio silenzio, i silenzi sempre più evidenti che stanno al cuore del sistema di governance globale.

Ghosh prosegue citando Gandhi che con profetica lungimiranza già nel 1928 affermava:” Dio non voglia che l’India debba mai abbracciare l’industrializzazione alla maniera dell’occidente. Se un intera nazione di trecento milioni di persone (attualmente l’India ha un miliardo e trecento milioni di abitanti n.d.a.) dovesse intraprendere un simile sfruttamento delle risorse il mondo ne resterebbe spogliato come da una invasione di cavallette” Questa citazione è sorprendente per la schiettezza con cui va dritto al cuore del problema: i numeri. E’ la dimostrazione che Gandhi, come molti altri, capiva intuitivamente quel che col tempo la storia dell’Asia avrebbe dimostrato: che la pretesa universalista della civiltà industriale era una mistificazione; che uno stile di vita consumista, se adottato da un numero sufficientemente ampio di persone, sarebbe ben presto diventato insostenibile, conducendo all’esaurimento di tutte le risorse del pianeta.

Sarà proprio perchè Amitav Ghosh non è un “esperto”, non è uno scienziato, un economista o un politico, che riesce a capire chiaramente e semplicemente quello che è lampante così come il suo illustre predecessore?  Infatti fa esattamente quello che non fanno le conferenze internazionali sul clima che essendo gestite da politici non possono che barare sulla crescita che non viene mai messa in discussione e quindi non si arriva mai a vere soluzioni ma solo vaghi intenti e rimandi infiniti del problema. Ghosh invece giustamente collega i cambiamenti climatici ad una crescita esponenziale che è insostenibile da ogni punto di vista e contrappone la sostanzialmente inconcludente conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici e l’enciclica papale Laudato sì che invece è estremamente dura nei confronti dell’idea di una crescita infinita o illimitata che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. E’ a causa del paradigma tecnocratico che non ci si rende conto a sufficienza di quali sono le radici più profonde degli squilibri attuali, che hanno a che vedere con l’orientamento, i fini, il senso ed il contesto sociale della crescita tecnologica  ed economica.

Ghosh conclude con una analisi che riporta in auge le vere e profonde conoscenze che proprio in un ambito di crisi saranno una possibile salvezza, citando anche il recupero dei legami comunitari e delle abilità manuali, aspetti centrali di cui già da tempo abbiamo scritto nei nostri testi.

Nel corso degli ultimi decenni la parabola della Grande Accelerazione ha coinciso con la traiettoria della modernità: ha portato alla disgregazione delle comunità, a un individualismo e un’anomia sempre più accentuati, all’industrializzazione dell’agricoltura e alla centralizzazione dei sistemi distributivi. Allo stesso tempo ha rafforzato il dualismo mente-corpo al punto da produrre l’illusione, propagandata in modo così potente nel cyberspazio, che gli esseri umani si siano liberati dai vincoli materiali al punto da essere diventati personalità fluttuanti scisse da un corpo. L’effetto cumulativo di tutto ciò è la progressiva scomparsa di quelle forme di sapere tradizionale, abilità materiali, arti e legami comunitari che, con l’intensificarsi dell’impatto del cambiamento climatico, potrebbero invece fornire un sostegno a un gran numero di persone in tutto il mondo – soprattutto a coloro che ancora oggi sono legati alla terra. Ma la rapidità con cui la crisi sta avanzando potrebbe quantomeno impedire che alcune di queste risorse scompaiano.

Non può che essere un aspetto positivo, in una situazione di grande cecità che personalità di questo tipo giungano anche loro a conclusioni simili a quelle che da tempo enunciamo e le portino alla grande ribalta anche se poi lo stesso Ghosh deve sconsolatamente notare che pure giornali attenti alle tematiche ambientali come il Guardian o l’Indipendent danno molta più importanza e risalto alle vacanze all’estero ad alto tasso di emissioni e alla Formula 1, che non alle notizie sul cambiamento climatico.

Ma forse, chissà, possiamo ancora rinsavire e levarci la benda dagli occhi.

Fonte: ilcambiamento.it

 

 

Eolico offshore: il più grande impianto al mondo sarà di Dong Energy

Il gigante danese dell’energia rinnovabile dal vento ha annunciato la firma del contratto che porterà alla costruzione del parco eolico da 1.386 MW al largo dello Yorkshire.http _media.ecoblog.it_e_e50_eolico-offshore-il-piu-grande-impianto-al-mondo-sara-di-dong-energy

Record su record nel settore dell’energia eolica: Dong Energy, gigante danese dell’energia rinnovabile dal vento, non ha ancora ultimato la costruzione del parco eolico offshore più grande del mondo, lo Hornsea Project One da 1.200 MW di potenza, ma ha già annunciato il prossimo giga parco. Cioè lo Hornsea Project Two da 1.386 MW al largo delle coste dello Yorkshire, nel Regno Unito. Lo ha annunciato la stessa Dong Energy, mettendo in luce il costo per MWh molto basso assegnato come incentivo all’energia che verrà prodotta: 57,50 sterline per MWh, il 50% in meno rispetto ai prezzi delle aste per gli incentivi svoltesi l’anno scorso.  Le aste per gli incentivi nel Regno Unito, infatti, si basano sui cosiddetti Contract fo Difference (CfD): per 15 anni il Governo offre una remunerazione predefinita per l’energia elettrica prodotta dall’impianto e, se il prezzo all’ingrosso è inferiore a tale prezzo (e quindi l’azienda vende l’energia a meno di quanto convenuto inizialmente), il Governo paga la differenza. Se è maggiore, la differenza la paga l’azienda restituendo al Governo l’eccesso di profitto. Questo schema è ovviamente una scommessa sia per il Governo che per l’azienda, anche perché l’asta per aggiudicarsi il contratto spinge quest’ultima a proporre il prezzo più basso possibile. Da qui deriva la tendenza delle aziende a proporre impianti dalle dimensioni e potenze gigantesche. Hornsea Project Two sarà costruito in alto mare, a 89 chilometri dalla costa dello Yorkshire. Avrà una capacità di 1.386 MW, sufficienti ad alimentare 1.300.000 utenze domestiche del Regno unito. Entrerà in funzione nel 2022 e avrà una vita operativa di 25 anni. A differenza dei parchi eolici offshore recentemente costruiti in Danimarca, Olanda, Regno Unito e Germania, Hornsea Project Two prevede anche la costruzione (sia offshore che onshore) delle stazioni elettriche e dei cavi di connessione dall’impianto alla terra ferma.

Fonte: ecoblog.it

Sostenibilità energetica: Copenaghen esempio di eccellenza in Europa e nel mondo

Tra le città europee che stanno facendo scuola nell’attuazione di buone pratiche sui temi della sostenibilità ambientale ed energetica, la capitale danese senz’altro svolge un ruolo di primo piano. Vediamo insieme cosa sta accadendo a Copenaghen.9476-10217

Le sensazioni di coloro che hanno visitato la città trovano riscontro nei fatti: Copenaghen è stata nominata nel 2014 “capitale verde europea”, nel 2015 “migliore città al mondo per i ciclisti”, nel 2016 “migliore città al mondo in cui vivere”. In quest’ultimo riconoscimento, i temi sui quali si valutava la performance delle città concorrenti erano i trasporti, le abitazioni, la sostenibilità e la cultura, proprio quelli che rivestono un ruolo determinante nel Piano Clima che Copenaghen ha adottato alcuni anni fa e che punta a far diventare la capitale danese la prima città al mondo carbon neutral entro il 2025.

Il Piano Clima 2025

Il Piano adottato da Copenaghen viene definito “olistico” con obiettivi che vanno ben al di là di quanto richiesto dal Patto dei Sindaci. Una strategia chiara che riguarda il consumo e la produzione di energia sul territorio municipale, la mobilità e le azioni dirette del Comune, con l’obiettivo ultimo di rendere la città di Copenaghen carbon neutral entro il 2025. Le prerogative ci sono: dal 2005 (anno base di riferimento) al 2014 le emissioni climalteranti si sono ridotte del 31% (un miglioramento del 10% rispetto all’anno precedente, 2013) ed in questo senso si è, ancora una volta, dimostrato che il disaccoppiamento tra la “crescita” della città e le emissioni è possibile: la riduzione delle emissioni del 31% è avvenuta in un periodo nel quale la popolazione della città è cresciuta del 15% e la sua economia del 18%. Tale livello di riduzione è stato possibile grazie principalmente all’aumento dell’uso della biomassa (al posto del carbone) nel sistema di teleriscaldamento della città e ad una quota sempre crescente dell’elettricità generata dall’eolico. Per mantenere però l’obiettivo carbon neutral[1] al 2025 mancano all’appello circa 300.000 tonnellate di CO2 che devono essere recuperate in base all’ultimo rapporto di monitoraggio eseguito. Proprio un efficace sistema di monitoraggio permette alla città di seguire costantemente l’andamento dell’attuazione delle azioni previste nel Piano ed adottare le necessarie correzioni. Ad esempio, il miglioramento dell’efficienza energetica negli edifici esistenti non ha dato finora i risultati desiderati, così come la riduzione delle emissioni nella centrale cogenerativa a biomassa di Amagerværket è risultata più bassa delle aspettative e, infine, l’introduzione della congestion charge intorno a Copenaghen non ha visto la luce a causa del mancato supporto da parte del governo nazionale. Tutte queste difficoltà sono state ben evidenziate (non minimizzate, o peggio ancora nascoste) al fine di agire in maniera organica e mantenere gli impegni assunti con la cittadinanza. L’approccio scelto per il Piano Clima di Copenaghen – che pone la qualità della vita, l’innovazione, la creazione di posti di lavoro e gli investimenti, oltre che una stretta sinergia tra i diversi portatori di interesse, quali elementi portanti per gli obiettivi preposti – fornisce anche delle garanzie per il passo successivo, che è quello di ridurre le emissioni dell’80-90% entro il 2050, al fine di accelerare la transizione verso una società carbon free. In tal modo Copenaghen intende svolgere un ruolo di esempio per tutto il paese, come se l’essere la capitale l’investisse di maggiori responsabilità. Ma forse è proprio così, la politica della capitale, nonché grande città, ovviamente in linea con le ambizioni dello Stato, stimolerà le altre città più piccole a prendere parte nella lotta ai cambiamenti climatici, dimostrando che è possibile combinare lo sviluppo con la riduzione delle emissioni di CO2. E non è un obiettivo di poco conto se si considera che entro il 2025 si attende un aumento della popolazione residente nel Comune di Copenaghen di circa 100.000 unità (+ 20%) con la creazione di oltre 20.000 nuovi posti di lavoro. Nel 2014 è stata registrata un’emissione di 1,6 milioni di tonnellate di CO2 (MtCO2) e l’obiettivo da raggiungere nel 2025 è di 1,2 MtCO2 (si partiva da un livello base pari a poco più di 2,5 MtCO2 nel 2005). Il consumo elettrico è responsabile del 40% delle emissioni, i trasporti su gomma del 30% e il riscaldamento del 23%. Sempre nel 2014, in media, un abitante di Copenaghen emetteva il 40% in meno di CO2 rispetto al 2005, cioè 2,8 tonnellate pro-capite, uno dei livelli più bassi tra le capitali europee. In generale, le emissioni sono calate ma il consumo elettrico è aumentato del 2% tra il 2013 e il 2014. Per quanto riguarda il riscaldamento distrettuale (teleriscaldamento), esso è drasticamente calato di oltre il 20% rispetto al 2010, anche se risulta leggermente in crescita se il dato è armonizzato secondo i gradi-giorno. Infine, le emissioni dal settore dei trasporti risultano aumentate del 2% tra il 2013 e il 2014. Nonostante alcune difficoltà emerse, il raggiungimento degli ambiziosi obiettivi al 2025 non viene messo in dubbio. L’evidente volontà e capacità politica nel perseguirli è una chiara garanzia. Ad esempio, per migliorare l’efficienza energetica negli edifici esistenti (una delle criticità emerse dall’analisi di monitoraggio), è stato stipulato un accordo con i proprietari di case, le cooperative immobiliari e i grandi manager immobiliari (in totale oltre 40.000 appartamenti, pari a oltre 3 milioni di m2, equivalenti ad oltre l’8% del totale del costruito a Copenaghen) al fine di ottimizzare e, quindi, ridurre il consumo energetico nei rispettivi immobili. L’esperienza mostra come il consumo energetico negli edifici possa essere facilmente ridotto del 5-10% attraverso una migliore regolazione del sistema di riscaldamento e una maggiore consapevolezza sui consumi da parte dell’utente finale. Il fatto che sia il settore privato a mettere in evidenza che un basso consumo energetico e un profilo “green” siano importanti parametri per le proprietà residenziali e commerciali, ovviamente ai fini della vendita, dell’affitto o in generale per un accresciuto valore dell’immobile, risulta emblematico. E’ il mercato che sta dando un valore agli immobili più efficienti dal punto di vista energetico e questo aiuterà ad attrarre altre imprese ed investitori dall’estero. Il risparmio energetico negli edifici premierà quindi sia i proprietari, per l’accresciuto valore dell’immobile, che i gestori, per i più bassi livelli delle bollette energetiche.

Nello specifico, gli obiettivi che si è posta la città di Copenaghen in termini di consumi energetici sono i seguenti:

  •    20 % di riduzione dei consumi termici;
  • 20 % di riduzione dei consumi elettrici nel settore terziario (10% nel settore residenziale e 40% negli edifici comunali);
  • installazione di celle solari pari all’1% del consumo elettrico nel 2025.

Tra le azioni che vedranno la piena attuazione nei prossimi anni, stupirà che nonostante ad oggi oltre il 60% dei cittadini di Copenaghen utilizzi la bicicletta per andare al lavoro, si programmi un ulteriore investimento sulle infrastrutture ciclabili. In alcune strade, le corsie dedicate alle biciclette saranno raddoppiate a scapito delle carreggiate per le auto che saranno diminuite. Inoltre, la maggior parte della flotta comunale è stata già sostituita con veicoli elettrici e a breve i camion che raccolgono i rifiuti saranno alimentati a biogas. L’obiettivo è comunque quello di accelerare la sostituzione dei mezzi funzionanti a fonte fossile con quelli alimentati a idrogeno, biogas o energia elettrica. Per quanto riguarda la produzione di energia rinnovabile, Copenaghen ha pianificato l’installazione di 360 MW di eolico entro il 2025 e l’azienda partecipata del Comune (HOFOR) parteciperà a bandi nazionali per la costruzione di impianti eolici offshore. Interessante la decisione di ridurre la plastica nei rifiuti attraverso una maggiore raccolta differenziata e un più spinto riciclaggio chiamando in causa cittadini ed aziende ad un ruolo attivo. Evidentemente, si è capito che bruciare la plastica negli inceneritori non è conveniente, sotto tutti i punti di vista. In effetti, l’utilizzo degli inceneritori (termovalorizzazione dei rifiuti) è forse l’unico aspetto sul quale chi scrive si permette di stimolare la città di Copenaghen a pensare a soluzioni alternative. L’obiettivo veramente sostenibile che tutte le città dovrebbero porsi è quello di ridurre il più possibile a monte l’uso dei materiali che poi diventeranno rifiuto, così come attuare una politica atta alla gestione dei materiali post-consumo. Diverse città, seppur in verità nessuna grande capitale, si sono poste l’obiettivo “zero rifiuti” da qui al 2020-2030.

Copenaghen città resiliente

Il Piano Clima di Copenaghen merita attenzione anche perché, ben prima che venisse lanciato il nuovo Patto dei Sindaci per l’Energia e il Clima, la capitale danese ha identificato il tema dell’adattamento quale elemento vitale per la propria sostenibilità futura. Nell’area del territorio comunale, gli impatti previsti dei cambiamenti climatici al 2100 stimano un aumento delle precipitazioni del 30-40% (nello specifico, i meteorologi si aspettano un aumento delle precipitazioni del 25-55% durante l’inverno e una riduzione fino al 40% in estate, con un’intensificazione della potenza dei fenomeni) mentre il livello del mare si alzerà tra 33 e 61 centimetri. I cambiamenti avverranno lentamente ma inesorabilmente, con variazioni più evidenti dopo il 2050. Per questo Copenaghen intende lavorare seriamente sull’adattamento per garantire che la città sia pronta ad affrontare adeguatamente la situazione e non trovarsi impreparata. L’obiettivo fissato è quello di diventare la prima capitale resiliente agli effetti del cambiamento climatico. Per farlo, sono stati identificati più di 300 progetti di adattamento, i cui primi 16 sono partiti nel corso del 2016 al fine di proteggere la città principalmente da nubifragi e inondazioni. Inoltre, la già menzionata azienda partecipata HOFOR ha iniziato a sviluppare l’utilizzo di acqua marina per i sistemi di raffrescamento a servizio delle imprese locali per un valore corrispondente di risparmio energetico pari a 40 MW.

Tra i primi progetti partiti, quelli relativi alla gestione delle acque reflue ed in particolare una serie di azioni prioritarie per lo sviluppo di diverse modalità di deflusso dell’acqua risultante dalle grandi piogge, lo sviluppo di nuove aree verdi, sia micro parchi nella città sia tetti e facciate verdi che possano rallentare il deflusso idrico, riducendo così il rischio di inondazioni (e in estate attenuare gli effetti delle ondate di calore), migliorare la ventilazione, l’isolamento e l’ombreggiamento degli edifici e anche alzare il livello di sicurezza per le alluvioni e l’innalzamento del livello del mare. Da un punto di vista operativo, il Piano di adattamento si basa su tre livelli, sulla base della fattibilità tecnico-economica, con l’obiettivo prioritario di ridurre al minimo i potenziali danni. Il primo livello riguarda la costruzione di dighe e barriere più alte sul livello del mare, l’espansione della capacità della rete fognaria e la gestione locale delle acque meteoriche con la realizzazione di bacini di raccolta sotterranei e stazioni di pompaggio.

Il secondo livello prevede la gestione locale dell’acqua piovana invece che canalizzarla nel sistema fognario della città. Nella nostra società, l’acqua piovana viene considerata come un qualcosa di cui dobbiamo liberarci. L’acqua è però anche una risorsa, di cui non si può fare a meno e valorizzarla può essere utile per rendere la città un posto migliore per vivere. Per esempio, gestendo l’acqua piovana a livello locale (di quartiere) con l’utilizzo di soluzioni tecnologiche e ambientalmente corrette, la si può assorbire e recuperare. Queste soluzioni, denominate “sistemi di drenaggio urbano sostenibile” riescono a ridurre la quantità di acqua piovana apportata nella rete fognaria in modo da gestire con più tempo l’eventuale ingrandimento della stessa rete (livello 1). Associata a questa azione, anche un sistema di allerta piogge che prepari le aree individuate ad accogliere in sicurezza il surplus di acqua e i cittadini per le azioni da attuare nelle proprie abitazioni. Questa azione sarà attuata su tutto il territorio comunale e risulterà fondamentale il ruolo degli abitanti in quanto un cortile o un giardino sul retro della casa con erba e alberi invece che cemento o piastrelle possono, considerati nel loro insieme, contribuire ad aumentare il drenaggio e quindi creare meno problemi allorquando si presenteranno abbondanti precipitazioni in città.

Il terzo livello riguarda quelle azioni che consentano, nel caso non si riuscisse per ragioni tecniche o finanziarie a intervenire come indicato nei livelli 1 e 2, di ridurre al minimo i danni, per esempio facendo in modo che le inondazioni si verifichino solo in determinati luoghi o aree, dirottando l’acqua stessa in quei luoghi, per esempio parcheggi, campi da gioco e parchi, ove i danni potrebbero essere ridotti al minimo. Come anche azioni quali la dotazione di pompe idrovore nei locali a rischio. A seconda delle condizioni locali, una combinazione delle azioni previste nei tre livelli identificati consentirà di gestire in maniera ottimale le future emergenze.

Conclusioni

Sempre di più risulta evidente il ruolo delle città nello sviluppo sostenibile globale. Attualmente, i sistemi urbani a livello mondiale sono responsabili del 70% delle emissioni di gas climalteranti e sarebbe impossibile, oltre che miope, immaginare soluzioni per la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico senza il loro pieno coinvolgimento. Al di là delle indicazioni che provengono dall’alto, non ultimo l’obiettivo n. 11 degli Obiettivi sullo Sviluppo Sostenibile (Sustainable cities and communities: make cities inclusive, safe, resilient and sustainable) delle Nazioni Unite, è sempre più utile conoscere cosa alcune città hanno già fatto o intendano fare al fine di replicare, adattare o innovare quanto già è stato sperimentato o pianificato. L’esempio della città di Copenaghen può rappresentare uno stimolo per molti
[1] Una città carbon neutral é una città con un bilancio netto delle emissioni pari a zero. Ciò significa che l’energia che la città utilizzerà proverrà esclusivamente da fonti rinnovabili oppure le emissioni climalteranti derivanti dalla quota parte di energia fossile ancora utilizzata saranno compensate da altre azioni.

Fonte: ilcambiamento.it

 

 

Secondo l’OMS il 92% popolazione mondiale respira aria inquinata

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Secondo quanto emerge da un rapporto elaborato dall’Università di Bath, nel Regno Unito, e pubblicato recentemente almeno il 92% della popolazione mondiale vive in luoghi in cui i livelli della qualità dell’aria non soddisfano i limiti stabiliti dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). La stessa OMS chiede da tempo un’azione rapida per affrontare l’inquinamento atmosferico, causa principale di numerose malattie, croniche e non, sia respiratorie che cardiache. I livelli di smog sono “particolarmente alti” nelle aree del Mediterraneo orientale, del Sud-Est asiatico e del Pacifico occidentale.

“Esistono delle soluzioni, come un sistema di trasporti più sostenibile, una miglior gestione dei rifiuti solidi, l’uso di stufe e combustibili meno inquinanti per gli usi domestici, coniugati a energie rinnovabili e alla riduzione delle emissioni industriali”

ha sottolineato Maria Neira, direttrice del dipartimento di Salute pubblica dell’Oms. Stando a quanto riferisce Askanews il rapporto si fonda su dati provenienti da tremila località internazionali, per lo più città, ed è stato elaborato in collaborazione con l’università di Bath, in Gran Bretagna. Lo studio conclude che il 92% della popolazione mondiale vive in luoghi in cui la qualità dell’aria non corrisponde ai livelli minimi fissati dall’Oms per le particelle sottili, il cui diametro è minore di 2,5 micron e i cui limiti devono essere inferiori a una media annuale di 10 microgrammi per metro cubo. Gli inquinanti di queste particelle, solfati, nitrati e carbone, penetrano in profondità nei polmoni e da qui si riversano nel sistema cardio-vascolare causando gravissimi danni per la salute umana. Secondo le stime del 2012, almeno 6,5 milioni di decessi, cioè l’11,6% di quelli complessivi, sono associati al degrado della qualità dell’aria respirata.

Fonte: ecoblog.it

 

Auto elettriche: quante ne circolano nel mondo?

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Quante auto elettriche circolano nel mondo? E quali sono i Paesi che stanno spingendo maggiormente per una mobilità privata a zero emissioni? Il sitoStatista.com risponde a queste due domande che noi di Ecoblog abbiamo rielaborato nell’infografica che segue. Come evidenziato dai dati sugli ultimi cinque anni, la quota di auto elettriche circolanti nel mondo nel 2012 era di 100mila, nel 2013 di 200mila, nel 2014 di 405mila e nel 2015 è stata di 740mila. Per due anni, insomma, il trend di crescita è stato del 100% e soltanto nel 2015 non si è raddoppiato rispetto al 2016.immagine

Per quanto riguarda i Paesi leader nella produzione di auto elettriche, il Giappone con 283mila veicoli prodotti precede gli Stati Uniti (236mila) e la Cina (110mila), quindi seguono cinque nazioni europee: Francia (82mila), Germania (48mila),Regno Unito (39mila), Spagna (36mila) e Italia (8mila). I dati si riferiscono alle proiezioni relative al 2015.

Fonte:  Statista.com