Fa’ la cosa giusta! Torna la fiera del consumo critico e della sostenibilità

Ambiente, giustizia sociale e sostenibilità. Questi i temi portanti della 17esima edizione di Fa’ la cosa giusta!, la fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili che torna a Milano dal 6 all’8 marzo prossimi. Dal 6 all’8 marzo 2020 , si rinnova l’appuntamento con Fa’ la cosa giusta!, la fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, che arriva alla sua diciassettesima edizione. Una grande mostra-mercato, organizzata da Terre di mezzo Editore, con centinaia di espositori da tutta Italia e un ricco calendario di incontri, laboratori e presentazioni, a ingresso gratuito per tutti i visitatori. Le Nazioni Unite hanno proclamato il 2020 “Anno internazionale della salute delle Piante”, con l’intento di sensibilizzare i governi e la società civile a tutelare il mondo vegetale, anche allo scopo di contrastare il dissesto idrogeologico e i cambiamenti climatici.

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fa la cosa giusta 2019

Uno dei temi portanti della prossima edizione di Fa’ la cosa giusta! sarà proprio “ambiente, giustizia sociale e sostenibilità”, che mette al centro il prezioso, e spesso sottovalutato, rapporto tra vita vegetale, umana e animale , e la loro interdipendenza. La presenza delle piante, infatti, concorre a ridurre la povertà e a migliorare il nostro benessere psicofisico . La vegetazione influenza in maniera importante le condizioni meteorologiche, garantendo precipitazioni piovose e mitigando il cambiamento climatico . Fenomeni come la deforestazione e la perdita di biodiversità hanno ripercussioni concrete sulla vita quotidiana degli esseri umani e sui processi migratori causati da desertificazione e carestie. Fa’ la cosa giusta! affronterà questi temi con incontri, approfondimenti e laboratori per adulti e ragazzi. “La Foresta di città” sarà uno spazio dedicato a grandi e bambini, caratterizzato da laboratori in cui sperimentare i molteplici usi delle piante: erboristici, farmaceutici, cosmetici e alimentari; conoscere la biodiversità presente nelle aree urbane e non del nostro territorio, imparando a tutelarla . A Fa’ la cosa giusta! 2020 ci sarà anche spazio per il cibo biologico e a kmzero, il turismo consapevole e la cosmesi naturale, la moda etica e l’arredamento sostenibile, ma anche proposte vegan, cruelty free e per intolleranti. Il programma di incontri, laboratori e appuntamenti si affiancherà a 32mila m 2 di spazio espositivo, suddiviso in sezioni tematiche che ospiteranno centinaia di realtà, aziende, associazioni e le loro proposte di servizi, prodotti e tecnologie per ridurre l’impatto della nostra vita quotidiana.

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Fa’ la cosa giusta! 2019 – Foto di Alessia Gatta

Infine, Fa’ la cosa giusta! 2020 ospiterà la terza edizione del salone Sfide. La scuola di tutti, dedicato a insegnanti, dirigenti, studenti e famiglie , con un fitto programma di incontri, laboratori e seminari che affronteranno, tra i molti temi: l’insegnamento e l’apprendimento “con gli altri”, il legame tra scuola, territorio e cittadinanza e lo stretto legame tra libri e libertà. Il convegno principale sarà dedicato alla valorizzazione degli elementi di eccellenza della scuola italiana, ad esempio nel campo dell’inclusione delle differenti abilità e culture. Il programma di Sfide offrirà anche 2 giorni di formazione specifica per i dirigenti scolastici . L’edizione 2019 di Fa’ la cosa giusta! si è chiusa con 65mila visitatori registrati, oltre 700 aziende e realtà presenti e 450 appuntamenti nel programma culturale. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/02/fa-la-cosa-giusta-torna-fiera-consumo-critico-sostenibilita/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Attenzione rallentare: qui i bambini giocano ancora per la strada!

Gli stimoli per una riflessione si possono trovare ovunque, anche in un cartello stradale. È quanto mi è accaduto durante una passeggiata, così è nato questo articolo che vuole essere unicamente un invito a far trascorrere ai nostri bimbi più tempo all’aria aperta, per favorirne una crescita più equilibrata. Durante una passeggiata sulle colline di Borgosesia, cittadina di circa 12.000 abitanti alle porte della Valsesia, mi sono imbattuta in uno straordinario cartello recante la seguente scritta: “Attenzione – Rallentare. In questo paese i bambini giocano ancora per la strada.” Sono i residenti della Frazione Pianaccia che invitano a prestare attenzione alle esigenze dei più piccoli e ai loro diritti. Stimolata anche dall’immagine gioiosa di bimbi all’aria aperta riportata dal cartello, la mia mente in un attimo ha ritrovato istanti felici di molti anni fa, quando correre sui prati o giocare per la strada rientrava nella quotidianità, quando solo il cattivo tempo era nemico dell’attività ludica all’aria aperta. Fa sorridere ripensare alle mamme che, puntualmente alle 16,30, ci chiamavano per la merenda e non ricevendo attenzione, rassegnate, ci trascinavano a lavarci le mani tentando di ingolosirci con il miraggio della merenda preferita. Ed era una fetta di torta o un panino imbottito che in pochi minuti sparivano per lasciare nuovamente il posto al pallone, o alla corda per saltare, o a vari giochi di abilità. Parecchi erano i compagni di gioco che formavano quell’allegra brigata, a volte resa ancor più schiamazzante dalla presenza di amici a quattro zampe.

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Ho definito “straordinario” questo cartello perché non è facile incontrarne di simili, e perché è un richiamo a una norma che dovrebbe essere prioritaria in una società attenta al proprio futuro: la formazione equilibrata di bimbi che saranno gli uomini e le donne di domani. Con l’avvento di una tecnologia orientata più al business che non alle effettive esigenze dell’essere umano, anche i bambini sono stati coinvolti in realtà troppo spesso virtuali e prive di fantasia e rapporti umani. È sempre più frequente infatti vedere ragazzini e adolescenti persi nei propri tablet o smartphone, piuttosto che in chiacchiere e risate con i coetanei. Con questo non intendo demonizzare la tecnologia che si rivela preziosa in molte altre situazioni, ma evidenziare come una vita sempre più frenetica non ci consente di trascorrere il giusto tempo con i nostri figli, trascurando così aspetti fondamentali della loro educazione. Troppo spesso questi dispositivi elettronici diventano il surrogato dei genitori, togliendo ai più piccoli la capacità di sviluppare la fantasia e facendo loro perdere importanti esperienze della vita.

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Le conseguenze sono preoccupanti: uno psicologo americano, il Dott. Peter Gray, autore di un saggio intitolato “Lasciateli giocare”, ha infatti dimostrato, in uno studio condotto tra il 1985 e il 2008, che le nuove generazioni, avvezze all’uso di internet e con più amici virtuali che non reali,  hanno perso l’85% della creatività rispetto a quelle precedenti. Trascorrere troppo tempo davanti a uno schermo può avere effetti deleteri anche sulla saluta fisica, esponendo i ragazzi a un maggior rischio, in età adulta, di sviluppare malattie cardiovascolari e obesità.

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È attraverso il gioco che il bambino impara e diventa consapevole del mondo che lo circonda e le sue attività ludiche si modificano e crescono di pari passo al suo sviluppo psicologico e intellettivo. Grazie al gioco il bambino sviluppa le proprie potenzialità, impara e sperimenta la creatività e le proprie capacità cognitive fino a strutturare l’intera personalità. Dovrebbe essere spronato a giocare all’aria aperta, a stretto contatto con la natura, in giardino, in un parco o in un bosco per imparare a  conoscere e a rispettare il mondo vegetale e animale e perché vivere all’aperto fa bene anche alla salute, contribuisce a sviluppare il sistema immunitario, fornisce al bambino vitamina D utile per le ossa e migliora il tono dell’umore. Si tratta forse di una mia elucubrazione, che vuole essere scevra da giudizi, ma facendo un parallelismo tra il comportamento degli odierni genitori rispetto a quelli di qualche decennio fa, si notano inoltre atteggiamenti maggiormente protettivi, ovviamente giustificati da aumentati pericoli, ma anche la propensione a indirizzare i figli verso sport organizzati e orientati alla competizione, piuttosto che lasciarli giocare liberamente dando loro la possibilità di esprimere i propri naturali talenti.

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Friedrich Schiller, noto poeta e filosofo tedesco, ci ha lasciato questa indicazione: «Bisognerà quindi educare l’uomo al sentimento della bellezza facendo rivivere in lui l’antico ideale pedagogico greco del bello e del buono. Il gioco è un’attività ineliminabile nella natura umana che non persegue alcun fine esterno a se stessa, né esso è ispirato da un preciso scopo razionale, ma è un atto dove sensibilità e razionalità convivono nell’azione ludica rendendo l’uomo libero. In questa armonia di forma e materia si realizza la bellezza e l’essenza umana per cui l’uomo è completamente uomo solo quando gioca».

Occorre trovare il giusto compromesso, evitare la sovraesposizione ai dispositivi elettronici senza criminalizzare la tecnologia, evitando magari di utilizzare lo smartphone durante i pasti e non usufruirne per ipnotizzare i figli davanti a un cartone animato. Sarebbe auspicabile per questi dispositivi un uso intelligente e non un abuso, limitando il tempo dedicato alla tecnologia a favore di attività fisica all’aria aperta, evitando così anche l’insorgere di possibili problematiche comportamentali, incentivando altresì la creazione di spazi e infrastrutture che soddisfino le esigenze ludiche e di socializzazione dei bambini.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/01/attenzione-rallentare-qui-bambini-giocano-ancora-strada/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Dalle piante possiamo imparare chi siamo

L’etnobotanica e la paleoetnobotanica in particolare ci possono aiutare a ricostruire la storia della relazione tra l’uomo e il mondo vegetale: in che modo gli uomini hanno usato le piante per scopi alimentari, medicinali o per costruirsi ripari e come le hanno selezionate e modificate nel tempo.9596-10362

Lo studio approfondito di questa disciplina fa risalire l’alterazione dell’ambiente naturale da parte dell’uomo a tempi molto remoti. Tuttavia, nelle civiltà più antiche come nelle popolazioni indigene di molti paesi ancora adesso, ogni intervento umano era teso a un sostanziale equilibrio con la natura e non c’era traccia di quella netta separazione tra mondo umano e mondo naturale che contraddistingue ora la nostra civiltà. L’uomo stesso sembra non percepirsi più come parte integrante dell’ambiente in cui è nato con le conseguenze serissime che conosciamo.

Ne parliamo con la Prof. ssa Marta Mariotti, docente di Botanica Sistematica presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze

Che cos’è l’etnobotanica?

E’ la disciplina che studia l’uso che l’uomo fa delle piante, il suo rapporto con esse in vista di un uso a scopo alimentare, medicinale o per materiale da costruzione. Sempre quindi con una prospettiva di utilizzo e relazione. Parliamo sia le piante che crescono in ambiente naturale sia quelle coltivate in agricoltura.

Lei si occupa di paleoetnobotanica in particolare. Di che si tratta?

La paleoetnobotanica studia le piante del passato cercando di ricostruire la storia dell’utilizzo che l’uomo ne ha fatto.

Perché la paleoetnobotanica è così importante?

Perché ci fa conoscere il rapporto che l’uomo ha avuto con le piante, un rapporto che è cambiato nel tempo e che è diverso da cultura a cultura. Inoltre  gli interventi che l’uomo ha fatto in passato sulle piante hanno finito per incidere sull’equilibrio naturale. L’uomo ha, cioè, cambiato  i rapporti sia qualitativi che quantitativi all’interno delle comunità vegetali e ha iniziato un’alterazione dell’ambiente.

L’uomo fa parte dell’ambiente o è al di fuori dell’ambiente naturale?

Oggi lo si considera spesso al di fuori, come colui che lo invade e con la sua presenza lo altera e lo aggredisce. Personalmente però sono più propensa a considerarlo all’interno del sistema naturale nel quale è integrato anche se mi rendo conto che è diventato sempre più uno sfruttatore dell’ambiente stesso.

Ma se l’uomo fa parte dell’ambiente ed è integrato al suo interno, come mai tende a distruggerlo? Nessun altro animale lo fa.

E’ un problema di storia e di educazione. Se noi vediamo le popolazioni che ancora vivono nel Terzo Mondo, vediamo che l’uomo sfrutta comunque le piante che usa ma cerca di non abusarne e di tutelarle. La nostra civiltà invece ha imparato a prendere senza pensare cosa questo significhi non solo per le prossime generazioni ma anche per sé domani stesso. Questo è il suo atteggiamento.

Come si è creato questo distacco? Cosa ha determinato questo squilibrio?

E’ stato determinato dalla conoscenza che non c’è più. La responsabilità è essenzialmente dell’allontanamento dall’ambiente naturale e dall’inurbamento. Se ci pensiamo, in città non ci rendiamo conto delle stagioni che si susseguono, non abbiamo contatto con la natura se non solo marginalmente. Le civiltà contadine vivevano invece in equilibrio con essa. Non conosco alcuna popolazione contadina o che viva a stretto contatto con la natura e che non la rispetti. Ho conosciuto alcune popolazioni africane e, di certo, a nessuna di esse verrebbe mai in mente di prendere più di quanto sia prudente fare. Perché sa che se prende di più oggi, prenderà di meno domani. Questa è una consapevolezza che, chiusi nelle nostre città, abbiamo completamente perso. Questa stessa separazione c’è anche con le cose che mangiamo. Quasi nessuno sa cosa mangiamo davvero né ce lo chiediamo più.

Quando è iniziato questa progressiva separazione? Possiamo dire negli ultimi cento anni?

In realtà è iniziato tutto molto prima. Non è facile dire quando ed i tempi sono diversi da civiltà a civiltà. Direi che negli ultimi cento anni questo processo ha subito un’accelerazione.

Quindi il suo obiettivo è diffondere conoscenza in vista di un progressivo riavvicinamento tra uomo e natura?

In un certo senso sì. Quello che vorrei fare io è contribuire alla consapevolezza dei miei studenti. Per quanto riguarda invece la ricerca mi occupo dell’alimentazione del passato. In particolare del ruolo delle piante nella dieta del paleolitico.

Però la dieta paleolitica di cui si sente molto parlare ultimamente è a base di proteine animali.

Secondo la dieta del paleolitico, per come è diffusa e conosciuta,  solo pochissime piante sarebbero incluse. I cereali, ad esempio, non dovrebbero far parte dell’alimentazione umana almeno al di fuori dell’area di origine. I sostenitori della “Dieta Paleolitica” affermano che il nostro organismo non è in grado di metabolizzarli. Dal punto di vista biologico, però, queste affermazioni non sono state provate e spesso chi si occupa di dieta paleolitica non conosce bene la biologia delle piante. Nelle mie ricerche è, invece, emerso che in realtà almeno l’avena, uno dei cereali, è usata in Italia da più di 30.000 anni. A quel tempo, inoltre, venivano utilizzate piante che da noi hanno perso il loro ruolo all’interno dell’alimentazione umana.

Può farci qualche esempio? E perché secondo lei?

Un esempio può essere la Tifa, della quale venivano utilizzati i fusti sotterranei per ricavarne farina. Evidentemente la coltivazione del grano e dell’orzo, una volta arrivati dal MedioOriente, è risultata economicamente più redditizia della raccolta dei rizomi di Tifa, una pianta che è legata agli ambienti umidi.

Qual è il ruolo di questa disciplina nella salvaguardia dell’ambiente?

Consideriamo che quando si introduce una pianta estranea in un sistema naturale, i danni non sono la sua comparsa laddove non c’era, ma tutta  una serie di cambiamenti, anche molto più profondi, che la sua presenza comporta. Ogni pianta porta con sé una serie di microrganismi estranei al nuovo ambiente e stabilisce rapporti diversi con le altre piante. Interferisce, cioè, con l’equilibrio di un sistema ben oltre i cambiamenti che vediamo. Quando vengono importate delle sementi si introducono spesso, involontariamente, anche piante infestanti esotiche, indesiderate. Quando introduciamo  una specie esotica in grado di incrociarsi con una autoctona, diamo origine ad ibridi. Ad esempio, se si porta una pianta americana in Europa e questa è in grado di  ibridarsi con le europee, alla fine avremo la comparsa nelle popolazioni europee di alcuni geni di provenienza americana. Si tratta quindi di una modificazione della ricchezza genica della popolazione iniziale. Interventi di questo tipo alterano in modo profondo l’ambiente e questo nella conservazione della natura è un problema.

Nel tempo questa alterazione viene riassorbita? Penso ad esempio al caso del pomodoro.

Alcune piante come il pomodoro non sono mai riuscite a spontaneizzarsi e sono rimaste nel coltivato. Il problema invece è quando le piante “scappano” dalle coltivazioni.

Può farci un esempio?

I vitigni introdotti dall’America. Due secoli fa arrivarono come portainnesto per le nostre viti. Oggi invece andiamo nelle campagne e ci troviamo la vite americana inselvatichita.

Questo fenomeno porta anche a un cambiamento in specie e quantità per quanto riguarda i parassiti?

Sì, certo.

Importare piante diverse dalle nostre è legale?

Adesso ci sono leggi che lo impediscono ma una volta si faceva tranquillamente. Noi botanici per primi lo facevamo. Adesso per motivi di studio si può fare ma con molti accorgimenti e con periodi di quarantena.

Per quanto riguarda invece le piante geneticamente modificate?

Questo è un discorso molto grosso. L’uomo modifica selezionando da sempre. Le faccio un esempio: la pianta di fagiolo. Quando i fagioli sono maturi, apriamo il baccello (cioè il legume, il frutto) e togliamo i fagioli (i semi) dal suo interno. In natura, quando i fagioli sono maturi il baccello si apre da solo ed i fagioli cadono a terra.   L’uomo ha scelto da millenni piante che  sono difettose dal punto di vista genetico, i cui legumi non si aprono. Lasciate a se stesse queste piante non hanno la possibilità di riprodursi mentre messe in coltivazione l’uomo le preferisce perché invece di raccogliere per terra i semi, può raccogliere i baccelli che li contengono direttamente dalla pianta. La stessa cosa possiamo dire per i cereali che formano la spiga. In natura i chicchi (i frutti), via via che maturano, cadono sul terreno. L’uomo ha selezionato invece piante difettose con spighe che non lasciano cadere i loro chicchi e in questo modo può mietere il grano con le spighe integre. Altrimenti dovrebbe raccogliere tutti i chicchi caduti a terra. L’uomo quindi ha sempre selezionato varianti genetiche, spesso svantaggiose per la pianta, che però rendevano più facile la raccolta. Ha selezionato piante incapaci di affermarsi in natura e ha iniziato a coltivarle. Altre volte ha favorito quelle piante che avevano frutti più grandi, più gradevoli. Nel caso dei cereali spighe più compatte. In questo senso, quindi, l’uomo ha sempre scelto piante un po’ “anomale” che in natura non avrebbero continuato ad esistere. Poi ha sempre operato l’ibridazione e ha seminato sempre i semi più grandi. Ibridando si producono piante diverse dai genitori e questo è già scegliere organismi geneticamente “modificati”. La differenza è che oggi conosciamo tecniche di intervento mirate. L’uomo per millenni l’ha fatto inconsapevolmente mentre adesso lo facciamo in modo consapevole.

Sono pericolosi gli organismi geneticamente modificati?

Sono pericolosi nel momento in cui le multinazionali utilizzano queste conoscenze per sperimentare nei paesi in via di sviluppo piante che hanno controindicazioni. Oppure il far coltivare dal contadino ignaro una pianta che il primo anno ha una produzione altissima e il secondo anno, visto che la pianta non crescerà proprio, costringerlo ad acquistare  quel dato fertilizzante chimico messo in vendita dalla multinazionale stessa. Quindi la finalità non è più avere nelle mani piante che siano utili ma costringere all’acquisto di sostanze prodotte dalle multinazionali.

John Zerzan dice che il problema è l’agricoltura in sé e che nel momento in cui abbiamo iniziato a coltivare abbiamo alterato l’equilibrio naturale. Che ne pensa?

L’agricoltura inizia nel neolitico. L’uomo pensa di portare vicino a casa le piante che consuma e inizia, quindi a coltivarle. Non sono d’accordo che il problema sia l’agricoltura in sé ma l’uso egoistico e incosciente della domesticazione delle piante.

Per chi volesse saperne di più sull’etnobotnica o sui suoi progetti di studio?

Ci sono molte riviste scientifiche dedicate a questa materia e anche molti siti on-line sull’argomento. Purtroppo ci sono pochissime pubblicazioni divulgative che affrontano l’argomento con il necessario rigore scientifico.

Fonte: ilcambiamento.it