Australia: bloccata la miniera che minaccia la barriera corallina

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Un tribunale australiano ha revocato l’autorizzazione concessa a un imponente progetto carbonifero finanziato dall’India che secondo gli ambientalisti potrebbe minacciare la Grande barriera corallina, uno dei gioielli della corona del patrimonio naturale mondiale. A riportare la notizia è l’agenzia stampa Askanews che spiega anche come l’Adani Group, la mega corporation indiana, ha dichiarato che intende andare avanti con i piani che prevedono investimenti da 12,2 miliardi di dollari. La miniera è sempre stata contestata dagli ambientalisti tanto che la Corte australiana ha fermato l’autorizzazione per una questione tecnico-amministrativa e solo entro alcune settimane verrà emesso un parere definitivo. Il carbone estratto dalla miniera dovrebbe fornire elettricità a 100 milioni di indiani e generare migliaia di posti di lavoro in Australia.

Fonte: ecoblog.it

Spagna, si lavora alla prima miniera europea di terre rare

L’estrazione dovrebbe avvenire a Torre de Juan Abad, nella Castilla-La Mancha.

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Scambiare l’occupazione con la salute, svendere il territorio per creare lavoro. Sta per succedere in Castilla-La Mancha, in una delle aree con la maggiore disoccupazione d’Europa, più precisamente nei pressi di Ciudad Real, dove la Quantum Minería vuole estrarre le terre rare, in particolar modo scandioittrio e i lantanoidi necessari per la creazione degli iPhone e degli schermi tv curvi di ultima generazione. Le terre rare – scoperte nel 1787 da Carl Axel Arrhenius in una cava di Ytterby – sono state utilizzate fino alla Seconda Guerra Mondiale per magneti e superconduttori, diventando successivamente fondamentali nelle moderne tecnologie. Negli anni Sessanta Brasile e India avevano il monopolio dell’estrazione di terre rare, poi, a partire dal 1985, la Cina ha intuito che sarebbero diventate il business del futuro con l’esplosione dell’informatica per tutti. Oggi il 95% della produzione mondiale di questi materiali arriva dalla Cina che con questa potente arma commerciale dialoga in posizione di forza con i Paesi occidentali, con l’India e con il Giappone. Ora, però, Quantum Minería punta a divenire la prima miniera di terre rare in Europa. Si tratta di un esperimento modesto per dimensioni – “appena” 20mila tonnellate all’anno – ma con il supporto economico della Commissione europea. Nei sondaggi effettuati dai geologi si è scoperto che il sottosuolo del piccolo paesino di Torre de Juan Abad è ricchissimo di neodimio, praseodimio ed europio. In questa regione economicamente depressa l’industria mineraria potrebbe soppiantare i raccolti del frumento e degli ulivi secolari. Il sindaco socialista del paesino José Luis Rivas sostiene l’idea della Quantum convinto di poter arrestare con i nuovi posti di lavoro la fuga dei giovani verso le grandi città di Spagna. Agricoltura per industria, salute per lavoro, è uno scambio in perdita, ma qualcuno continua ad accettarlo perché le Paesi e comunità continuano a essere governati da partiti politici che affondano le proprie radici nell’Ottocento, quindi in logiche sviluppiste. Ma il gioco vale veramente la candela? L’estrazione di terre rare ha costi elevati e bassi margini di guadagno. Solamente chi ha risorse enormi – come la Cina – può restare a galla. Non sarebbe meglio lasciare fonti di guadagno “rinnovabili” come gli ulivi secolari?

Fonte:  El Pais

Foto | Google Maps

Uranio letale nella miniera di Rössing

I minatori che lavorano a Rössing stanno morendo a causa di tumori e di malattie connesse al loro lavoro nell’industria estrattiva

Da 38 anni, nella miniera di Rössing, in Namibia, nei pressi di Swakopmund, si estrae una buona parte dell’uranio che alimenta le bombe e il nucleare civile. La miniera del deserto del Namib è di proprietà della Rio Tinto ed attualmente fornisce il 7% dell’uranio utilizzato in ambiti militari e civili. Un recente studio condotto su ex lavoratori e sugli attuali dipendenti ha dimostrato come tutti siano a conoscenza del fatto che le infezioni polmonari e altre malattie sconosciute con le quali molti si trovano a dover fare i conti sono connesse al lavoro nella miniera namibiana. Il tributo di morti pagato agli anni di lavoro a Rössing è altissimo. Nonostante le condizioni di lavoro siano notevolmente migliorate le malattie connesse al lavoro a contatto con l’uranio continuano a mietere vittime. Un tecnico di laboratorio che ha lavorato per 24 anni nella miniera di Rio Tinto ha dichiarato di avere le prove di essere stato irradiato. I portavoce di Rössing si difendono affermando che la salute e la sicurezza dei lavoratori sono“la priorità assoluta” e che vengono messe in atto tutte le politiche igieniche atte a evitare l’esposizione alle radiazioni e qualsiasi tipo di rischio per la salute. Ma il report pubblicato dal team di lavoro composto dai ricercatori di Earthlife Namibia e dal Labour Resource and Research Institute afferma il contrario:

La maggior parte dei lavoratori ha dichiarato di non essere informata sulle proprie condizioni si salute e non sa di essere esposta o no alle radiazioni. I lavoratori più anziani sono a conoscenza di minatori che stanno morendo di cancro o di altre malattie. Molti di loro sono in pensione, altri sono deceduti da tempo.

Nei primi anni la miniera di Rössing attirava un forte flusso migratorio e i lavoratori erano sottoposti a condizioni di schiavitù: lavoravano e vivevano all’interno della miniera esposti a polveri e radiazioni 24 ore al giorno, tanto che la miniera (al 69% proprietà della Rio Tinto collegata alla Corona britannica e al 15% del governo iraniano) divenne un punto di riferimento sia per le proteste anti-apartheid che per quelle contro il nucleare.

Le aziende estrattive dell’uranio generalmente negano che i lavoratori si ammalino a causa dell’esposizione a radiazioni, dando la colpa delle cattive condizioni di salute a stili di vita non salutari come le abitudini alimentari, il fumo e l’alcool,

si legge nello studio. Secondo Richard Solly, coordinatore dell’associazione London Mining Network:

Rio Tinto è enorme. La sua storia di attacchi ai diritti dei lavoratori e la distruzione dell’ambiente hanno avuto un impatto particolarmente dannoso in tutto il mondo.

Fonte:  The Guardian

Foto © Getty Images

Effetto rinnovabili in Germania: miniera non scavata e centrale nucleare chiusa in anticipo

La Renania Westphalia rinuncia ad estrarre un quarto delle risorse della miniera di Garzweiler II ed E.ON chiuderà in anticipo la centrale nucleare di Grafenrheinfeld. In entrambi i casi il basso costo dell’energia indotto dalle fonti rinnovabili non rende più competitivo né il carbone, nè l’Uranio.

Perla prima volta dall’inizio della rivoluzione industriale, in Germania è stato deciso di lasciare del carbone sottoterra: il governo della Renania Settentrionale Westphalia ha infatti deciso di non estrarre 300 Mt di lignite dalla miniera di Garzweiler, 20 km a sud ovest di Düsseldorf.  La lignite è un carbone di minore qualità e di elevate emissioni di CO2, usato solo per la produzione di energia elettrica. Come si vede dall’immagine qui sotto,m si tratta di una miniera a cielo aperto. Il lotto già sfruttato di Garzweiler I occupa 66 km², mentre la realizzazione di Garzweiler II avrebbe richiesto la devastazione di altri 48 km² di suolo agricolo, lo spostamento di due autostrade e la “rimozione” di cinque centri abitati in cui vivono oltre 1400 persone. Ora i progetti di sviluppo della miniera sono stati ridotti del 25% circa. La causa? La diminuzione del costo dell’elettricità, che a causa dell’incremento delle fonti rinnovabili è ormai sempre più spesso sotto i 4 centesimi al kWh, non rende più economicamente vantaggiosa l’operazione di estrazione e potrebbe ridurre il numero di centrali a carbone in progetto. Per lo stesso motivo, la chiusura della centrale nucleare di Grafenrheinfeld, inizialmente prevista per la fine del 2015, verrà anticipata di sette mesi, al maggio 2015. In  un secco comunicato, l’azienda E.ON che gestisce l’impianto fa sapere che non avrà vantaggi economici a condurre l’impianto fino al suo termine naturale a causa dei bassi profitti e della sovrattassa prevista per le operazioni di ricarico del combustibile. Questa rivoluzione inizia ad avvenire in Germania con una produzione rinnovabile che per ora è solo un quinto del totale; la grande produzione fotovoltaica nelle ore di picco di consumo ha già portato il prezzo delle ore di picco ad essere più basso di quello del carico di base. Ogni pala eolica e ogni pannello fotovoltaico sono un chiodo in più sulla bara del carbone e del nucleare. I sostenitori dell’energia fossile e centralizzata dovranno farsene una ragione.

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Fonte: ecoblog.it

 

4. Dalla miniera ai rifiuti, e oltre

Praticamente qualsiasi cosa consumiamo e produciamo ha un impatto sull’ambiente. Quando nella vita di tutti i giorni scegliamo di acquistare determinati beni e servizi, spesso non pensiamo a quella che è la loro «impronta» sull’ambiente. Il prezzo di vendita difficilmente rispecchia il costo reale. Ci sono però molte cose che possiamo fare per rendere più verdi i nostri consumi e la nostra produzione. 8

Per preparare una tazzina di caffè nei Paesi Bassi, servono 140 litri d’acqua. Per la maggior parte, sono utilizzati per coltivare la pianta del caffè. Ancor più sorprendente è che per produrre un chilo di carne bovina servono in medi 15.400 litri d’acqua.

Fonte: Water Footprint Network (Rete dell’impronta idrica)11

A maggio 2011, l’Apple Store di Fifth Avenue a New York è stato assalito dai clienti accorsi da ogni parte del mondo per acquistare il nuovo iPad2. Appena consegnati, gli articoli sparivano nel giro di poche ore. Il punto vendita di New York è stato fra quelli fortunati. Molti negozi Apple nel mondo si sono dovuti limitare a prendere gli ordini e hanno ricevuto la

merce settimane dopo. Quel ritardo non era dovuto a carenze nella pianificazione commerciale o a una campagna di marketing troppo azzeccata. È stato causato da una serie di catastrofi dall’altra parte del pianeta. Cinque dei principali componenti dell’iPad2 venivano prodotti in Giappone quando si è verificato il terremoto dell’11 marzo 2011. La  produzione di alcuni di questi componenti è stata facilmente trasferita in Corea del Sud o negli Stati Uniti, ma non quella della bussola digitale. Uno dei principali produttori sorgeva nel raggio di 20 km dai reattori di Fukushima e ha dovuto chiudere lo stabilimento.

I flussi di risorse destinate ad alimentare le linee di produzione

In un mondo interconnesso come il nostro, il viaggio di molti dispositivi elettronici parte da una miniera, generalmente in un paese in via di sviluppo, e da un centro di sviluppo del prodotto, perlopiù in un paese sviluppato. Oggi, la produzione di computer portatili, telefoni cellulari, automobili e fotocamere digitali si serve delle cosiddette «terre rare», come il neodimio, il lantanio e il cerio. Benché molti paesi dispongano di riserve non sfruttate, l’estrazione è costosa e in alcuni

casi rilascia sostanze tossiche e radioattive. Dopo l’estrazione, le risorse materiali sono generalmente trasportate presso un centro di trattamento e trasformate nelle diverse componenti del prodotto, che a loro volta vengono inviate ad altri impianti per l’assemblaggio. Quando compriamo il nostro dispositivo, i suoi vari componenti hanno già viaggiato in tutto il mondo e, a ogni tappa del loro itinerario, hanno lasciato un’impronta sull’ambiente. Lo stesso vale per il cibo sulle nostre

tavole, per i mobili delle nostre case e per la benzina delle nostre auto. Per la maggior parte, i materiali e le risorse vengono estratti, trasformati in un bene o in un servizio di consumo e trasportati nelle nostre case, perlopiù di città. Fornire acqua alle famiglie europee, ad esempio, non significa soltanto averne estratta la quantità utilizzata da un corpo idrico. Perché l’acqua sia pronta all’uso, abbiamo bisogno delle infrastrutture e dell’energia per trasportarla, immagazzinarla, trattarla e riscaldarla. Una volta «utilizzata», abbiamo ancora bisogno di altre infrastrutture e di altra energia per smaltirla.

Tutti pronti a consumare

Parte dell’impatto ambientale dovuto ai nostri modelli e ai nostri livelli di consumo non è immediatamente visibile. Produrre energia elettrica per ricaricare il cellulare e conservare il cibo al freddo genera biossido di carbonio che viene

rilasciato nell’atmosfera e che a sua volta contribuisce al cambiamento climatico. I trasporti e gli stabilimenti industriali

emettono inquinanti atmosferici, fra cui gli ossidi di zolfo e di azoto, che sono dannosi per la salute umana. In estate, i milioni di vacanzieri in rotta verso sud mettono ulteriormente alla prova le località di villeggiatura che li ospitano. Oltre alle emissioni di gas a effetto serra derivanti da questi spostamenti, la loro necessità di alloggio alimenta la domanda di risorse materiali ed energia da parte del settore edile. L’aumento stagionale della popolazione locale comporta l’estrazione supplementare di acqua destinata agli impianti sanitari e per finalità ricreative durante l’arida stagione estiva. Comporta anche più acque reflue da trattare, più cibo da trasportare e più rifiuti da gestire. Malgrado l’incertezza sulla portata esatta del nostro impatto ambientale, è chiaro che gli attuali livelli e modelli di estrazione delle risorse non possono andare avanti. Molto semplicemente, disponiamo di quantità limitate di risorse vitali, come i terreni coltivabili e l’acqua. Quelli che lì per lì si presentano come problemi locali, si pensi alla scarsità d’acqua, alla conversione delle foreste in pascoli o all’emissione di inquinanti da uno stabilimento industriale, spesso possono facilmente diventare problemi di portata globale e sistemica che riguardano tutti noi. Un indicatore del consumo delle risorse è l’impronta ecologica, messa a punto dal Global Footprint Network. Fornisce una stima dei consumi dei paesi in termini di utilizzo del territorio a livello mondiale, incluso l’utilizzo indiretto per produrre beni e assorbire le emissioni di CO2. Secondo questa metodologia di calcolo, nel 2007 l’impronta di ogni essere umano corrispondeva a 2,7 ettari globali. Un valore di gran lunga superiore al dato di 1,8 ettari globali a disposizione di ciascuno di noi per sostenere i consumi senza mettere a rischio la capacità produttiva dell’ambiente (Global Footprint Network, 2012). Nei paesi sviluppati, il divario era ancora più evidente. I paesi dell’AEA consumavano 4,8 ettari globali pro capite, a fronte di una «biocapacità» disponibile pari a 2,1 a persona (Global Footprint Network, 2011).10

Consumo significa anche lavoro

La nostra smania e il nostro bisogno di consumare le risorse naturali è solo una faccia della medaglia. Costruire case vacanza in Spagna, coltivare pomodori nei Paesi Bassi, andare in vacanza in Thailandia vuole anche dire garantire un

posto di lavoro, un reddito e, in ultima analisi, una fonte di sostentamento e uno standard di vita migliore ai lavoratori del

settore edile, agli agricoltori e agli agenti di viaggio. Per molte persone nel mondo, avere un reddito più elevato significa poter soddisfare i bisogni primari. Tuttavia, non è facile definire cosa sia un «bisogno» e il concetto varia notevolmente a seconda delle percezioni culturali e dei livelli di reddito. Per chi lavora nelle miniere di terre rare della Mongolia interna in Cina, l’estrazione mineraria è sinonimo di sicurezza alimentare per la famiglia e di istruzione per i figli. Per gli operai giapponesi, può significare non soltanto cibo e istruzione, ma anche qualche settimana di vacanza in Europa. Agli occhi delle folle che accorrono all’Apple Store, il prodotto finito può rappresentare uno strumento professionale irrinunciabile per qualcuno o un gioco per il tempo libero per altri. Anche l’esigenza di svago è un bisogno dell’essere umano. Il suo impatto sull’ambiente dipende dal modo in cui soddisfiamo questo bisogno.

Dritti nel cestino

Il viaggio dei dispositivi elettronici, del cibo e dell’acqua che esce dai rubinetti non termina nelle nostre case. Conserviamo televisori e videocamere fintanto che sono di moda o sono compatibili con i nostri lettori DVD. In alcuni paesi dell’UE, circa un terzo del cibo acquistato viene gettato via. Per non parlare del cibo buttato prima ancora che venga acquistato. Ogni anno, nei 27 paesi dell’Unione europea produciamo 2,7 miliardi di tonnellate di rifiuti. Ma dove vanno a finire tutti questi rifiuti? La risposta sintetica è lontano dai nostri sguardi: alcuni rifiuti vengono effettivamente venduti, legalmente e illegalmente, sui mercati di tutto il mondo. La risposta lunga è molto più articolata: dipende da «cosa» si butta via e da «dove». Oltre un terzo del peso dei rifiuti generati nei 32 paesi dell’AEA proviene dall’attività di costruzione e demolizione, strettamente collegata ai periodi di espansione economica. Un altro quarto è rappresentato dai rifiuti dell’attività estrattiva. Benché, in ultima analisi, tutti i rifiuti provengano dai consumi umani, meno di un decimo del peso totale dei rifiuti deriva dall’ambiente domestico. La nostra conoscenza dei rifiuti è tanto incompleta quanto i dati relativi ai consumi, ma è chiaro che dobbiamo ancora impegnarci a fondo nella gestione dei rifiuti. In media, ogni cittadino dell’UE consuma 16–17 tonnellate di materiali l’anno, molti dei quali, prima o poi, diventano rifiuti. Questa cifra

salirebbe a 40–50 tonnellate a persona se si considerassero i materiali estratti inutilizzati (ad esempio lo strato di copertura di un giacimento) e il «bagaglio ecologico» delle importazioni (ovvero la quantità totale di risorse naturali prelevate dalla loro sede naturale). La normativa, fra cui le direttive dell’UE sulle discariche, sui veicoli fuori uso, sulle batterie, sugli imballaggi e sui rifiuti d’imballaggio, ha aiutato l’Unione europea a dirottare una quota maggiore dei rifiuti

urbani dalle discariche agli inceneritori e agli impianti di riciclo. Nel 2008, nell’UE è stato recuperato il 46% dei rifiuti solidi. Il resto è stato avviato agli inceneritori (5%) o alle discariche (49%).

Alla ricerca di un nuovo tipo di miniera d’oro

Gli elettrodomestici, i computer, gli impianti d’illuminazione e i telefoni contengono non solo sostanze pericolose che rappresentano una minaccia per l’ambiente, ma anche metalli di valore. Secondo le stime, nel 2005 gli apparecchi elettrici ed elettronici presenti sul mercato contenevano 450.000 tonnellate di rame e sette tonnellate d’oro, per un valore che nel febbraio 2011 la Borsa metalli di Londra avrebbe quotato a circa 2,8 miliardi di euro e 328 milioni di euro rispettivamente. Malgrado variazioni significative tra i paesi europei, oggi gli apparecchi elettronici gettati via vengono

raccolti e riutilizzati o riciclati solo in minima parte. Anche i metalli preziosi «smaltiti come rifiuti» hanno una dimensione globale. La Germania esporta ogni anno circa 100.000 autoveicoli usati, in partenza da Amburgo e diretti al di fuori dell’Unione europea, soprattutto Africa e Medio Oriente. Nel 2005, tali autoveicoli9

contenevano circa 6,25 tonnellate di metalli del gruppo del platino. Diversamente dall’UE, la maggior parte dei paesi importatori sono privi delle norme e delle capacità necessarie a demolire e riciclare autoveicoli usati. Ciò rappresenta

una perdita economica e porta inoltre a un ulteriore ricorso all’attività estrattiva, provocando danni ambientali evitabili,

spesso all’esterno dell’UE. Una migliore gestione dei rifiuti urbani offre notevoli benefici: trasformare i rifiuti in una risorsa preziosa, prevenire i danni ambientali, incluse le emissioni di gas a effetto serra, e ridurre la richiesta di nuove risorse.

Prendiamo ad esempio la carta. Nel 2006 abbiamo riciclato quasi il 70% della carta proveniente dai rifiuti urbani solidi,

equivalente a un quarto del consumo totale di prodotti cartacei. Innalzare il tasso di riciclo al 90% consentirebbe di soddisfare oltre un terzo della domanda attraverso il materiale riciclato. In questo modo si otterrebbe una riduzione della domanda di nuove risorse e della quantità di rifiuti cartacei inviati alle discariche o agli inceneritori, oltre a quella delle emissioni di gas a effetto serra.

Cosa possiamo fare?

A danneggiare l’ambiente non sono i consumi o la produzione in quanto tali. Si tratta piuttosto dell’impatto ambientale

di «ciò che consumiamo», dove e in quale quantità, e del «modo in cui produciamo». Dal livello locale a quello globale, i

responsabili politici, le imprese e la società civile sono tutti chiamati a partecipare all’impegno per rendere più verde

l’economia. L’innovazione tecnologica offre molte soluzioni. L’utilizzo di energia e trasporti puliti ha un impatto minore sull’ambiente e può soddisfare parte delle nostre esigenze, se non tutte. La tecnologia da sola, però, non basta. La soluzione non può passare solo per il riciclo e il reimpiego dei materiali, così da estrarre una minore quantità di risorse.

Non è possibile non consumare, ma possiamo farlo con un po’ di buon senso. Possiamo ricorrere ad alternative più pulite, rendere più verdi i nostri processi produttivi e imparare a trasformare i rifiuti in risorse. Servono certamente politiche e infrastrutture migliori e maggiori incentivi, ma tali strumenti bastano solo per coprire un tratto del percorso. La tappa finale del viaggio dipende dalle scelte di consumo. Indipendentemente dalla nostra estrazione ed età, le decisioni di ogni giorno di acquistare determinati beni e servizi influiscono su ciò che viene prodotto e sulle sue quantità. Anche i rivenditori possono condizionare la scelta dei prodotti che finiscono sugli scaffali e trasmettere la domanda di alternative sostenibili a monte della catena di approvvigionamento. Un istante di riflessione tra gli scaffali dei supermercati o davanti al cestino dell’immondizia può costituire un buon punto di partenza per la nostra personale transizione verso un modo di vita sostenibile. Posso usare gli avanzi di ieri invece di buttarli via? Posso prendere in prestito questo dispositivo anziché

acquistarlo? Dove posso riciclare il mio vecchio cellulare?…

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

Il più grande produttore di carbone del Regno Unito in liquidazione volontaria: è l’inizio della fine?

Uk Coal, la più grande azienda inglese di produzione di carbone, è in lotta per la sua sopravvivenza: dopo il pauroso incendio del marzo scorso nella miniera Daw Mill il gigante ha avviato la procedura di liquidazione volontaria.8547622819_6a55811dd1_o-586x391

Potrebbe essere l’inizio della fine dell’era dei combustibili fossili, o semplicemente un esempio della caducità del business incontrollato attorno al carbone, la clamorosa notizia che vuole Uk Coal, il gigante britannico di produzione di carbone (dal 2011 ha estratto 7.3milioni di tonnellate di carbone, il 5% del fabbisogno elettrico totale dell’intero Regno Unito), in liquidazione volontaria. Ecoblog ne ha parlato in tempi non sospetti, e le notizie che giungono dalla Gran Bretagna confermano quanto scritto il 12 marzo scorso. Nonostante l’azienda si rifiuti di parlare di stato patrimoniale disastroso, negando su tutta la linea gli effetti economici del devastante incendio del marzo scorso nella miniera di Daw Mill, lo stato di liquidazione volontaria si lega a doppio filo proprio con quell’incendio, che ha mandato in fumo 100 milioni di sterline di attrezzature, altri 160 milioni di sterline di carbone e ben 32 milioni in costi di gestione: una scure da quasi 300 milioni di sterline (360 milioni di euro) sull’intero business, che ha letteralmente piegato il gigante del carbone britannico. Per consentire a Uk Coal di continuare l’attività, al fine di evitare dunque una liquidazione forzata e il fallimento, l’azienda ha così deciso di cercare una vasta gamma di parti interessate nell’acquisto della compagnia. Ciò che Uk Coal può ancora mettere sul piatto sono le restanti due più grandi miniere del Regno Unito, Kellingsley nel North Yorkshire e Thoresby in Nottinghamshire, più altre sei miniere a cielo aperto tra nord e centro dell’Inghilterra. Un “tesoretto” che, secondo indiscrezioni, Uk Coal ad oggi non sarebbe più in grado di sfruttare, anche per colpa dell’incendio di Daw Mill, che ha riportato il mercato del carbone alla dura realtà fatta di imprevisti, contrattempi e, sopratutto, sicurezza e tutela dell’ambiente. Come scrivevamo però erano tutti rischi previsti (o prevedibili): la produzione mineraria è infatti cresciuta fino a 292 Mt nel 1913 per poi calare inesorabilmente nel corso del XX secolo. Nonostante tutte le innovazioni tecnologiche introdotte, gli inglesi non solo non hanno aumentato le estrazioni, ma non sono nemmeno riusciti a tenerle costanti. I rischi correlati al crollo eventuale di Uk Coal sono enormi, e non legati unicamente ai 2.000 lavoratori che perderebbero il posto di lavoro: i fondi pensione gestiti dall’azienda, i fornitori da pagare, i risparmiatori con quote azionarie (tra cui, in pieno stile anglosassone, proprio i suoi dipendenti), i clienti. Solo la chiusura di Dow Mill alla fine di marzo ha portato ad un taglio di ben 650 posti di lavoro, corrispondenti ad un egual numero di famiglie del nord Warwickshire rimaste senza più niente: il peggior incendio in una miniera di carbone degli ultimi 30 anni ha letteralmente fatto terra bruciata attorno a sè. Il crollo di Uk Coal, in tal senso, rappresenterebbe un dramma sociale, ed è proprio partendo da qui che bisognerebbe cambiare drasticamente le politiche energetiche, industriali ed ambientali: la liquidazione volontaria di Uk Coal permetterebbe il trasferimento di540milioni di sterline di deficit pensionistico dall’azienda all’UK Pension Protection Fund, che salvaguarderebbe stipendi e pensioni dei lavoratori Uk Coal (solitamente al 90%). In questo senso il vero specchio della crisi di Uk Coal è proprio il sistema previdenziale, il deficit milionario cui l’azienda non riesce a fare fronte: avviata una ristrutturazione importante lo scorso anno, l’azienda sperava di farcela entro il 2015 a rientrare nel deficit, ma l’incendio di Daw Mill del marzo scorso ha rimescolato tutte le carte. Nel frattempo però le informazioni e le dichiarazioni ufficiali che provengono dal governo britannico fanno capire che questi si è già attivato per tutelare chi rischia di restare senza lavoro e senza futuro (chi dà lavoro ad un ex minatore di 50 anni?): tutti elementi che fanno pensare ad una fine molto vicina, per il carbone di Sua Maestà.

Fonte:  Guardian

 

La fine del carbone in Gran Bretagna

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La chiusura della miniera di Daw Mill nel centro dell’Inghilterra, segna simbolicamente la fine della storia del carbone inglese, prima risorsa fossile sfruttata su larga scala fin dall’inizio della rivoluzione industriale. La produzione mineraria è cresciuta fino a 292 Mt nel 1913 per poi calare inesorabilmente nel corso del 20° secolo. Nonostante tutte le innovazioni tecnologiche introdotte, gli inglesi, non solo non hanno aumentato le estrazioni, ma non sono nemmeno riusciti a tenerle costanti. Perchè?

E’ un fenomeno fisico molto semplice ben descritto dal modello di Hubbert. Detto in breve, i giacimenti più grandi, accessibili e di migliore qualità vengono sfruttati per primi; e solo dopo si estrae da miniere più piccole, più scomode e pericolose e con carbone di minore qualità. Questo fa sì che quando la domanda è all’apice, la produzione non riesce più a reggere il ritmo degli anni precedenti. (1) Le innovazioni tecnologiche hanno aumentato la produttività dell’industria mineraria (infatti la curva blu degli occupati è scesa più in fretta della curva di produzione), ma non possono andare contro la geologia e la fisica. E’ una lezione che dovremmo tenere tutti  bene a mente. Se qualcuno si fosse chiesto nel 1913 quanto a lungo sarebbe durato il carbone, dividendo le riserve stimate per la produzione annua avrebbe detto che il carbone inglese sarebbe finito negli anni ‘60. Nella realtà, è invece durato oltre 40 anni in più perchè non è stato possibile mantenere la produzione costante. E’ durato di più, ma è stato meno disponibile fin da subito.

Questo è il problema del peak coal e del peak oil, non che le risorse fossili finiscono (questo è ovvio), ma che dopo il picco non è possibile estrarle come la domanda economica vorrebbe. Il picco del carbone ha segnato anche il picco dei lavoratori che da oltre un milioni sono scesi a poche migliaia. Dopo il picco sono peggiorate le condizioni di lavoro, come testimoniano i grandi scioperi del 1921 e 1926, ben visibili nel grafico. Quando M.Thatcher (su di lei l’oblio) intraprese la sua ignobile guerra contro i minatori (sciopero del 1984) sapeva di poter vincere perchè anch’essi ormai erano nella parte calante della curva di Hubbert.

(1)     Esiste una bellissima teoria matematica per descrivere tutto questo, ma lo spazio di questo post è troppo esiguo per poterla descrivere… Dico solo che la produzione annua  p(t)(curva rossa qui sopra) è la derivata della curva logistica P(t) soluzione dell’equazione p=dP/dt = rP(1-P/K). Chiaro, no?

Fonte:ecoblog