«Tra il 2015 e il 2017 le
principali 10 case farmaceutiche operanti in Italia hanno versato nelle tasche
dei medici italiani la bellezza di oltre 163 milioni di euro attraverso
finanziamenti e sussidi di vario tipo»: lo denuncia il Codacons, che ha
realizzato un apposito report sulla base dei dati ufficiali.
Tra il 2015 e il
2017 le principali 10 case farmaceutiche operanti in Italia hanno versato nelle
tasche dei medici italiani la bellezza di oltre 163 milioni di euro attraverso
finanziamenti e sussidi di vario tipo. Lo denuncia il Codacons, che ha
realizzato un apposito report sulla base dei dati ufficiali. I numeri che
emergono dallo studio dell’associazione sono impressionanti: 32.623 tra medici,
fondazioni e ospedali, hanno complessivamente percepito in Italia
163.664.432,70 euro nel periodo compreso tra il 2015 e il 2017. Soldi versati
dalle aziende Abbvie, Almirall, Merck, Msd, Hospira, Pfizer, Pfizer Italia,
Pierre Fabre Pharma, Pierre Fabre Italia, GlaxoSmithKline a titolo di accordi
di sponsorizzazione, donazioni, viaggi, quote di iscrizione, corrispettivi e
consulenze, ecc.
«Finanziamenti che
ora finiscono all’attenzione dell’Autorità Anticorruzione, attraverso un
esposto – fa sapere l’associazione dei consumatori – in cui si chiede di aprire
una istruttoria sul caso e verificare la piena correttezza delle sovvenzioni,
alla luce della possibile violazione dell’articolo 30 del Codice di Deontologia
medica che impone al professionista di “evitare ogni condizione nella quale il
giudizio professionale riguardante l’interesse primario, qual è la salute dei
cittadini, possa essere indebitamente influenzato da un interesse secondario”
nonché di “dichiarare in maniera esplicita il tipo di rapporto che potrebbe
influenzare le sue scelte consentendo al destinatario di queste una valutazione
critica consapevole.” Il medesimo articolo impone l’assoluto divieto per il
medico di “Subordinare il proprio comportamento prescrittivo ad accordi
economici o di altra natura, per trarne indebito profitto per sé e per altri”».
«A supportare le
nostre tesi – prosegue il Codacons in una nota – nell’esposto viene citato un
recentissimo studio pubblicato l’8 febbraio 2019 sulla rivista americana “The
Oncologist” che ha analizzato la relazione tra le somme ricevute dai medici da
parte delle case farmaceutiche per consulti, viaggi o ad altro titolo, e le
prescrizioni degli stessi medici relative ai farmaci prodotti dalle case
farmaceutiche che avevano erogato tali somme. I risultati della ricerca hanno
evidenziato l’aumento delle prescrizioni in favore di farmaci prodotti dalle
aziende farmaceutiche che avevano erogato i finanziamenti in questione. In
particolare – secondo la rivista “The Oncologist” – si è assistito a un
incremento di prescrizioni per il trattamento di quattro diverse tipologie di
cancro (carcinoma prostatico, carcinoma renale, carcinoma polmonare e leucemia
mieloide cronica)».
L’associazione ha pubblicato «l’elenco integrale suddiviso per Comune dei 32.623 medici, fondazioni e
ospedali che nel triennio hanno percepito soldi dall’industria del farmaco,
affinché ogni cittadino possa verificare in modo autonomo i rapporti tra il
proprio medico e le aziende farmaceutiche».
Il Codacons
«rinnova la richiesta agli Ordini dei medici provinciali di imporre a tutti i
camici bianchi l’obbligo di indicare all’interno degli studi medici i rapporti
intercorrenti con le aziende produttrici di farmaci, al fine di garantire
massima trasparenza ai propri pazienti, e chiede alle Asl e alla Guardia di
Finanza di verificare tutte le prescrizioni erogate dai medici inseriti nel
report, accertando eventuali squilibri a favore delle aziende finanziatrici».
È in corso di esame alla CommissioneAffari Sociali della Camera la proposta di legge che introduce l’obbligo ditrasparenza nei passaggi di denaro tra aziende farmaceutiche e medici. Tra le organizzazioni e le associazioni del settore c’è chi è completamente favorevole e chi esprime anche “timori”…
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È all’esame della
Commissione Affari Sociali della Camera la proposta di legge soprannominata “Sunshine
Act italiano”, dal testo di legge analogo vigente in America che
detta le regole per la trasparenza nel passaggio i denaro tra Big Pharma e gli
operatori sanitari.
L’associazione “No Grazie Pago io” (operatori sanitari e medici che rifiutano qualsiasi
erogazione dalle aziende farmaceutiche) ha partecipato alle audizioni davanti
alla Commissione come parte della delegazione della Rete Sostenibilità e Salute (RSS), collaborando alla stesura e alla presentazione di una memoria messa
agli atti dalla commissione.
«La nostra memoria
– spiegano i NoGrazie – guarda con favore alla proposta di legge per un
Sunshine Act italiano; chiede che l’iter per la sua approvazione sia rapido e
che siano presi in considerazione altri attori, oltre a industria del farmaco e
medici, per esempio l’industria degli alimenti per l’infanzia e le associazioni
di pazienti». Anche Slow Medicine faceva parte della delegazione RSS; la loro
memoria è leggibile QUI
Le audizioni hanno
riguardato anche altri soggetti.
La FNOMCEO, per
esempio, ha sottolineato che “il Codice di deontologia medica già prevede
apposite disposizioni in materia di conflitto di interessi” e che “il Codice di
comportamento dei dipendenti pubblici … prevede che il dipendente pubblico deve
rispettare i principi di integrità, correttezza, buona fede, proporzionalità,
obiettività, trasparenza, equità e ragionevolezza e agire in posizione di
indipendenza e imparzialità, astenendosi in caso di conflitto di interessi”, ma
“al tempo stesso non possiamo accettare che passi una cultura di criminalizzazione
e di pregiudizio nei confronti della intera categoria professionale medica. Noi
crediamo che eventuali strumentalizzazioni possano incrinare il rapporto di
fiducia che esiste tra medico e paziente e non siano funzionali al sistema
salute”.
La proposta di
legge per il Sunshine Act, tuttavia, riguarda solo la trasparenza delle
transazioni finanziarie tra industria e medici, senza criminalizzare o
strumentalizzare nessuno. Anche la Fondazione GIMBE ha partecipato alle
audizioni, facendo un
appello ad “evitare di demonizzare i trasferimenti di denaro, che non
necessariamente sono correlati a fenomeni corruttivi”.
«Rispettiamo
ovviamente tutte le posizioni – dicono i NoGrazie – ma non capiamo perché la
trasparenza incuta tanti timori».
Ecco il testo della
Memoria presentata dalla Rete Sostenibilità e Salute.
«Nel 2012, negli
USA, l’industria farmaceutica ha speso circa 27 miliardi di dollari in
promozione, di cui 3 per la promozione diretta al pubblico e 24 per quella
diretta ai medici (1). Dato che la spesa totale per farmaci è di circa 300
miliardi di dollari, la promozione rivolta ai medici vale circa l’8% di questa
spesa. Non è facile, e forse non è nemmeno possibile, trovare dati sulla spesa
per la promozione ai medici in Italia. Ma se la percentuale fosse simile a
quella USA, si tratterebbe di circa 2.4 miliardi di euro su una spesa
annuale per farmaci che si aggira sui 30 miliardi. E stiamo parlando solo
di farmaci, ai quali bisogna sommare la spesa per la promozione di tutti gli
altri dispositivi sanitari, per la diagnostica, per terapie non farmacologiche
di vario tipo, per la riabilitazione, per la nutrizione (compresa quella
infantile), ecc. Come sono spesi questi 2.4 miliardi di euro? Difficile
saperlo, ma dato che l’industria farmaceutica è globale, sono probabilmente
globali anche le strategie di marketing. La torta, quindi, non sarà molto
diversa da quella degli USA, nella figura qui sotto. Circa la metà dei soldi
potrebbero essere spesi per le attività dei rappresentanti, solo in Italia
chiamati informatori scientifici. Altre fette importanti riguardano la
distribuzione di campioni, il finanziamento di eventi formativi e la spedizione
di materiale promozionale di vario tipo. Vale la pena notare che a pagare per
tutto ciò sono i cittadini, visto che la spesa per marketing è sicuramente
integrata nel prezzo dei farmaci, sia che lo paghi direttamente il consumatore
sia che lo finanzi il sistema sanitario nazionale (SSN).
Che la spesa per
marketing dia un ritorno è più che certo. Nessun amministratore delegato potrebbe essere confermato da un’assemblea
annuale di azionisti se non potesse dimostrare che per ogni euro speso in
marketing ne introita 2 o 3 (questa è una stima, perché non ci sono dati a
disposizione, ma è una stima considerata verosimile). Questo ritorno si basa
ovviamente su un aumento di vendite dei prodotti oggetto di promozione
commerciale. Una revisione sistematica pubblicata nel 2017 mostra che le
attività mostrate nella figura qui sopra sono invariabilmente associate a un
aumento delle prescrizioni (in media di due volte e mezza), spesso
inappropriate e di minore qualità, e a un aumento relativo dei costi (2).
Prescrizioni con percentuali più elevate di farmaci ancora sotto brevetto
rispetto alle alternative equivalenti. Non stupisce che la spesa per il
marketing possa superare anche di due o tre volte quella per la ricerca e lo
sviluppo di nuovi farmaci (3).
La RSS ritiene che,
ai fini della sostenibilità del SSN, sia necessario regolare in maniera
restrittiva il marketing dei farmaci e di tutti gli altri dispositivi sanitari
e tecnologie diagnostiche, con l’obiettivo di ridurre l’eccesso, spesso
inutile o dannoso, e in ogni caso costoso, di prestazioni sanitarie (4). Ma per
regolare il marketing, bisogna conoscerlo. È quindi necessario, in primo luogo,
sapere nel modo più accurato possibile come l’industria della salute spende i
soldi che investe per la promozione rivolta ai medici e ad altri operatori
sanitari. Per questo, la RSS è favorevole al Sunshine Act (usiamo questo
termine per brevità e perché è ormai entrato nel linguaggio comune di chi si
occupa di questi temi), una legge che imponga trasparenza su tutte le
transazioni finanziarie (in denaro, beni o servizi) tra produttori di farmaci,
dispositivi medici o altri prodotti sanitari e operatori, associazioni e
istituzioni sanitarie.
Per essere
efficace, questa legge deve avere, secondo la RSS, le seguenti caratteristiche:
• obbligare a
notificare tutte le transazioni finanziarie, di qualsiasi tipo e per
qualsiasi valore che superi i 10 euro per singola transazione, o i 100 euro
annuali nel caso di ripetute transazioni di scarso valore.
• imporre severe
sanzioni in caso di mancata notificazione, o di tentativi di aggirare la
legge (per esempio con transazioni in nero, o a prestanome, o su conti esteri,
ecc.).
• inserire tutte le
transazioni, con dati identificativi da stabilire (compresa la ragione di ogni
transazione) in un registro pubblico che possa essere facilmente
consultabile e analizzabile da chiunque, dai semplici cittadini ai
rappresentanti delle istituzioni, passando per ricercatori e giornalisti.
Dovrebbe inoltre
applicarsi a transazioni finanziarie da parte di qualsiasi industria in qualche
modo relazionata con la salute. Per esempio, molte attività educative e di
ricerca dei pediatri sono sponsorizzate, oltre che dai produttori di farmaci
e vaccini, da quelli di alimenti per l’infanzia (Nestlé,
Mellin/Danone, Plasmon, Humana, ecc.), con conseguenze negative su inizio,
esclusività e durata dell’allattamento, e relativi danni alla salute di madri e
bambini (5,6). Queste transazioni devono essere coperte dalla legge. Infine,
dovrebbero ricadere nell’ambito della legge anche le transazioni nei confronti
delle associazioni di pazienti; alcune di queste sono infatti finanziate
dall’industria farmaceutica che ne approfitta per promuovere l’uso dei suoi
prodotti (7).
È fattibile mettere
in pratica un Sunshine Act italiano? Il fatto che una legge simile sia già
applicata in altri paesi da alcuni anni depone a favore di una risposta
positiva a questa domanda. Come si sa, il Sunshine Act è in vigore dal 2011
negli USA ed include attualmente informazioni sulle transazioni di oltre 2000
ditte con oltre 900.000 medici, per un totale annuale di circa 25 miliardi di
dollari (8). Ha permesso a ricercatori accademici, per esempio, di analizzare i
flussi finanziari a seconda della specializzazione dei medici (9,10). Ha
permesso ad associazioni per la difesa dei diritti dei cittadini di comprovare
che i medici che ricevono più soldi dall’industria farmaceutica tendono a
prescrivere più farmaci di marca (11). Ha permesso a giornalisti di
scoprire che un famoso oncologo di New York aveva omesso di dichiarare i
suoi conflitti d’interesse, del valore di oltre 3 milioni di dollari, nel
firmare articoli per importanti riviste scientifiche e nel promuovere
specifiche terapie per il carcinoma del seno in numerosi congressi, terapie che
avevano alternative meno costose e che si sarebbero per di più rivelate di
scarsa validità. L’oncologo ha dovuto rassegnare le dimissioni dopo che il New
York Times ha svelato i suoi legami con l’industria (12).
Leggi simili al
Sunshine Act USA sono in vigore da alcuni anni anche in alcuni paesi
dell’Unione Europea: Francia, Portogallo, Danimarca, Grecia, Romania, Lituania
e, ultimo arrivato, Belgio. La legge francese è più ampia di quella
statunitense e ha dei criteri di notificazione più stringenti, ma le multe in
caso di inadempienze sono minori (13). Sfortunatamente, oltre ai rapporti
annuali dell’amministrazione francese sui dati inseriti nel registro, non sono
disponibili articoli che analizzino volumi e distribuzione dei pagamenti ai
medici. Considerazioni simili valgono per le leggi negli altri paesi citati
dell’Unione Europea (14).
Anche se è presto,
eccetto per USA e Francia, per un giudizio sulla fattibilità di un Sunshine
Act, tutte le informazioni che abbiamo finora a disposizione tendono verso una
risposta positiva. Anche l’Unione Europea sembra convinta della fattibilità
della legge, visto che, attraverso il Progetto Anticorruzione e Trasparenza, ha
finanziato in Colombia l’elaborazione del Sunshine Act, e del relativo registro
pubblico delle notificazioni (15). Se si può fare in Colombia, è molto
probabile che si possa fare anche in Italia. Ci sono alternative? Alcune
multinazionali del farmaco, come per esempio la GlaxoSmithKline, hanno
dichiarato l’impegno a una totale trasparenza, in alcuni paesi, nei riguardi
delle loro transazioni finanziarie con medici e altri operatori sanitari. Un
simile impegno, a livello europeo, è stato preso da EFPIA (la Federazione
Europea delle Industrie e delle Associazioni Farmaceutiche) nel 2013. Si tratta
di un codice etico volontario, sia per le ditte sia per i medici, che facilita
la pubblicazione delle transazioni finanziarie su qualche tipo di registro
privato, cioè di proprietà delle ditte. Questa proposta è stata fatta propria in
Italia da Assobiomedica (16). Peccato che non funzioni. Innanzitutto perché il
fatto che sia volontario, e non obbligatorio, rende la trasparenza incompleta
per definizione. Poi perché la consultazione e l’analisi dei database è
praticamente impossibile: i dati sono in formato pdf, a volte non si può
nemmeno scaricare un file pdf ma si deve procedere a forza di screenshot, in
alcuni casi i dati sono in ordine alfabetico per nome e in altri per cognome,
in altri casi nomi e cognomi sono preceduti da prof e dott (per cui è
impossibile seguire un ordine alfabetico), raramente si riesce a scaricare i
dati in un formato analizzabile (tipo excel), per cui si dovrebbe copiarli uno
a uno. Si immagini il tempo di lavoro che ciò comporterebbe se si volessero
analizzare le transazioni finanziarie delle oltre 200 imprese che operano in
Italia (17).
L’inferiorità di un
sistema basato su codici volontari rispetto ad uno ispirato al Sunshine Act è
stata recentemente confermata da uno studio che ha condotto un’analisi comparata
in 9 paesi europei: Francia, Germania, Olanda, Gran Bretagna, Lettonia, Svezia,
Spagna, Portogallo e Italia.18 Oltre alla completezza, sempre superiore nei
sistemi di legge rispetto a quelli volontari, lo studio conferma la difficoltà
di accedere e soprattutto di analizzare i dati in questi ultimi. Gli autori
raccomandano un Sunshine Act europeo che standardizzi i registri sulle
transazioni finanziarie tra industria e medici in tutti i paesi, facilitando
così il compito di cittadini, giornalisti, associazioni, ricercatori e
istituzioni che desiderino analizzare i dati per semplice curiosità o per
capire se e come porre dei limiti a questo enorme passaggio di denaro, per
ridurne le conseguenze dannose. In conclusione, la RSS è a favore di una legge
come il Sunshine Act, purché sia efficace, risponda cioè alle caratteristiche
sopra elencate. La RSS, tuttavia, ritiene che il Sunshine Act non risolva tutti
i problemi. Dopo i primi due anni di funzionamento negli USA, per esempio, non
ha (ancora) portato a una riduzione delle transazioni finanziarie né in
quantità né in valore (19). Il Sunshine Act rende solo trasparenti queste
transazioni, permette di sapere quanto denaro passa di mano, da chi a chi e per
quali ragioni. Permette di identificare i conflitti di interesse finanziari
creati da queste transazioni. Potrebbe avere effetti a medio termine, come
conseguenze di scelte di consumatori più consapevoli, raggiunti da informazioni
più trasparenti relative a produttori ed erogatori di prestazioni sanitarie. Ma
in ogni caso, alla fin fine, spetterà al legislatore e a chi amministra il SSN,
auspicabilmente su pressione di gruppi di cittadini, decidere se transazioni e
conflitti d’interesse stanno causando danni alla salute dei cittadini e alla
sostenibilità del sistema, ed agire di conseguenza con altri interventi
2 Brax H et al. Association between physicians’ interaction with
pharmaceutical companies and their clinical practices: A systematic review and
meta-analysis. PLoS ONE 2017;12(4): e0175493
3 Gagnon MA, Lexchin J: The cost of pushing pills: a new estimate of
pharmaceutical promotion expenditures in the United States. PLoS Med
2008;5(1):e1
5 Piwoz EG, Huff man SL. The impact of marketing of breast-milk substitutes
on WHO-recommended breastfeeding practices. Food Nutr Bull 2015;36:373-86
6 McFadden A et al. Spotlight on infant formula: coordinated global action
needed. Lancet 2016;387:413-5
7 McCoy MS. Industry support of patient advocacy organizations: the case
for an extension of the Sunshine Act provisions of the Affordable Care Act. Am
J Public Health 2018; 108:1026-30
8 Litman RS. The Physician Payments Sunshine Act: implications and
predictions. Pediatrics 2018;141: e20171551
9 Agrawal S, Brown D. The Physician Payments Sunshine Act: two years of the
open payments program. N Eng J Med 2016;374:906-9
10 Parikh K et al. Industry relationships with pediatricians: findings from
the open payments Sunshine Act. Pediatrics 2016;137:e20154440
12 Top cancer researcher fails to disclose corporate financial ties in
major research journals. By Charles Ornstein and Katie Thomas, New York Times,
September 8, 2018
C’è chi fa il tifo per gli inceneritori, affermando che sono innocui e che non provocano danni alla salute. Ma non si tratta dei soliti imprenditori che hanno interessi economici nel fare queste affermazioni. Si tratta di medici. E alcuni medici in particolare… Ecco cosa risponde loro l’oncologa Patrizia Gentilini.
L’antivigilia di ferragosto dall’agenzia adnkronos è stato diffuso un comunicato della SItI(Società Italiana Igiene Medicina Preventiva e Sanità Pubblica) con 7 “verità” a supporto della presunta utilità e innocuità degli inceneritori di nuova generazione, posizione che sarebbe condivisa anche dall’Istituto Superiore di Sanità. Purtroppo sul sito ufficiale della SItI non è reperibile il comunicato originale e quindi ci si deve limitare a quanto diffuso da adnkronos e ampiamente ripreso dai media. C’è da rimanere profondamente sconcertati davanti alle “7 verità” perché non solo nessuna di esse è scientificamente supportata, ma addirittura alcune affermazioni sono in netto contrasto con ciò che emerge dalla letteratura scientifica. Non sono mancate pronte repliche sia da parte dell’Isde (l’Associazione dei Medici per l’Ambiente) che di Medicina Democratica, ma alcune considerazioni della SItI meritano di essere prese in esame.
Si afferma ad esempio che gli inceneritori “non provocano rischi sanitari acuti e cronici per chi vive in prossimità degli impianti” e che dallo studio epidemiologico Moniter “una delle più sofisticate ricerche al mondo sul rischio connesso alle emissioni di inceneritori […] si evidenzia chiaramente la assenza di rilevanti rischi sanitari acuti e cronici per chi vive in prossimità degli impianti”. Come già tante volte ho avuto modo di scrivere sono viceversa numerosi gli studi scientifici (anche recentissimi) che dimostrano esattamente il contrario e descrivono effetti sia a breve (esiti riproduttivi, malformazioni, esiti cardiovascolari, respiratori) che a lungo termine (soprattutto tumori). E’ vero che per la gran parte (ma non per la totalità) si tratta di studi che riguardano impianti di “vecchia generazione”, ma dove sono studi epidemiologici che valutano gli effetti a lungo termine degli inceneritori di “nuova” generazione?
Quanto poi al Moniter – condotto dopo gli allarmanti risultati per la salute femminile emersi dall’indagine sugli inceneritori di Forlì, e costato ben 3 milioni e 400.000 euro di soldi pubblici – si fa presente che sono solo 2 gli studi usciti da questo immane lavoro che sono stati pubblicati su riviste internazionali. Tali studi segnalano un incremento statisticamente significativo del rischio di nascite pre-termine e di abortività spontanea in relazione alle emissioni degli impianti. Abortività spontanea e prematurità sono quindi per la SItI inquadrabili come “assenza di rilevanti rischi sanitari”? Ancora si afferma che le discariche inquinano più degli inceneritori, dimenticando che gli inceneritori (anche di terza generazione) necessitano di discariche speciali per le ceneri leggere, quelle che residuano dai filtri e dai processi di lavaggio dei fumi, residui tossici che non ci sarebbero senza la combustione. Ancora si parla di “un bilancio energetico complessivo positivo, con produzione di energia e sistemi di teleriscaldamento come accade virtuosamente da anni in città come Brescia, Lecco e Bolzano”. In realtà dal punto di vista energetico, anche con le migliori tecnologie disponibili, si raggiunge un rendimento pari al 40% dell’energia associata ai rifiuti in ingresso, risultato che si può ottenere solo attraverso un uso efficiente del teleriscaldamento e di fatto realizzato solo nelle 3 città citate. In realtà secondo i dati della Epa a parità di materiale l’energia risparmiata con il riciclo è da due a sei volte superiore a quella recuperata con l’incenerimento! E’ davvero deprimente constatare che si ridicolizza il concetto di “rifiuti zero”, non si conosce il concetto di “economia circolare” e si dipinge l’incenerimento come soluzione del problema rifiuti. Sono invece proprio questi impianti che ostacolano la soluzione dell’“emergenza rifiuti” perché – una volta costruiti – devono essere alimentati per decine di anni con grandissime quantità di rifiuti, impedendo riduzione, riuso e riciclo dei materiali. C’è quindi una “caccia” ai rifiuti per ogni dove – con ovvio aggravio del traffico pesante – o addirittura si assimilano i rifiuti speciali non pericolosi(prodotti da utenze commerciali e produttive) ai rifiuti urbani (gli unici di cui dovrebbe farsi carico l’amministrazione pubblica) pur di avere quantità adeguate da bruciare. La pratica della assimilazione è ampiamente diffusa in Emilia Romagna e Toscana e questo anche se la normativa comunitaria prevede che i rifiuti speciali siano gestiti a mercato libero, in quanto per la massima parte facilmente riciclabili. Si dimentica che gli inceneritori sono finanziati ogni anno con 500 milioni di euro pagati da tutti noi con la bolletta elettrica e questo trasforma l’incenerimento in un ottimo investimento per i gestori, ma non certo per la salute e l’occupazione. Non è certo da oggi che andiamo ribadendo questi concetti: se fossimo stati ascoltati e le risorse spese a favore degli inceneritori fossero state impiegate per raccolta domiciliare e centri di riciclo, quanti problemi avremmo risolto? Quanti ricoveri ospedalieri, sofferenze e morti avremmo risparmiato?
Davanti ad argomentazioni così banali e superficiali della SItI c’è solo da arrossire: come si può pretendere che i cittadini abbiano fiducia nella classe medica se una parte qualificata di essa si dimostra quanto meno così poco informata? Personalmente voglio ancora credere nel ruolo dei medici e della sanità pubblica e non rassegnarmi davanti a quella che vorrei fosse solo superficialità e incompetenza, ma non vorrei nascondesse intrecci con interessi che nulla hanno a che fare con la tutela della salute.
Dal blog di Patrizia Gentilini su Il Fatto Quotidiano
La Coca Cola ha finanziato enti di ricerca, istituzioni e medici perché affermassero che le bevande gassate e zuccherate non sono causa di obesità. Lo rivela un’inchiesta del New York Times. E in Italia? Semplicemente non c’è il New York Times!
Già il British Medical Journal aveva denunciato i legami tra Big Sugar e istituzioni accademiche inglesi, con i relativi conflitti d’interesse tra ricercatori e industria. Tra quei Big Sugar c’era anche la Coca Cola, che evidentemente ha agito in maniera analoga anche in Usa. Un’inchiesta del New York Times ha rivelato che la ditta ha investito oltre 120 milioni di dollari negli ultimi 5 anni «per finanziare centri di ricerca, singoli ricercatori e medici e anche una fondazione per il National Institute of Health, perché con le loro ricerche e pubblicazioni spostassero le accuse verso le cause dell’obesità, dalle bevande zuccherate alla mancanza di attività fisica(1)» scrive il dottor Adriano Cattaneo nell’ultima comunicazione dell’associazione No Grazie Pago Io, gruppo di operatori che ha scelto di rifiutare tutto ciò che proviene dalle industrie farmaceutiche. «Il messaggio per il pubblico doveva essere: se volete mantenere il peso forma, fate molta attività fisica e non preoccupatevi molto di ciò che bevete. Allo scopo, la ditta ha finanziato anche la creazione di un’associazione no profit, chiamata Global Energy Balance Network. Questo tentativo di deviare l’attenzione dall’assunzione di bevande zuccherate aveva anche due secondi fini: a) sgonfiare le proposte, negli USA e in molti altri paesi, di una sovrattassa per diminuirne il consumo, e b) tentare di far risalire le vendite, diminuite del 25% negli ultimi anni negli USA. Barry Popkin, professore di nutrizione globale presso l’Università del North Carolina a Chapel Hill, ha commentato l’inchiesta del New York Times dicendo che il sostegno di Coca-Cola a importanti ricercatori gli ricordava le tattiche usate dall’industria del tabacco, che arruolava esperti perché diventassero “mercanti di dubbio” per i rischi del fumo per la salute. Marion Nestle, autrice del libro “Le politiche delle bevande gassate” e professore di nutrizione, studi alimentari e salute pubblica alla New York University, è stata particolarmente brusca: “Il Global Energy Balance Network non è altro che un gruppo di facciata per la Coca-Cola, il cui programma è molto chiaro: fare in modo che questi ricercatori confondano la scienza e distolgano l’attenzione dall’alimentazione”. Kelly Brownell, decano della facoltà di Public Policy presso la Duke University, ha detto che Coca-Cola “come suo business, si focalizzata sul premere perché entrino un sacco di calorie, ma come filantropo si focalizza sulle calorie che escono fuori con l’esercizio”. L’inchiesta era molto ben documentata, le prove inoppugnabili. Tant’è vero che il CEO della ditta, Muhtar Kent, non ha potuto far altro che ammettere che era vero e promettere trasparenza. Pochi giorni dopo Coca Cola ha pubblicato la lista di tutte le persone e istituzioni che avevano ricevuto soldi per partecipare al programma di “ricerca”: si tratta di centinaia di piccoli e grandi finanziamenti. L’American Academy of Pediatrics, per esempio, aveva ricevuto 3 milioni di dollari. Alcuni dei beneficiari hanno semplicemente ammesso (che altro potevano fare?); altri hanno tentato di giustificarsi; pochi hanno deciso di restituire i soldi (l’Università del Colorado ha restituito un milione, per esempio). Il capo del dipartimento di ricerca della Coca Cola, che aveva orchestrato il programma, si è dimesso, o è stato costretto a dimettersi. Il Global Energy Balance Network è stato smantellato. Tutto è bene quello che finisce bene? In parte sì. Ma quanti danni sono stati fatti in quei 5 anni e quanto tempo (e denaro) ci vorrà per rimediarvi? E siamo sicuri che gli strateghi delle pubbliche relazioni della Coca Cola non se ne inventino di nuove, e magari di più sofisticate, per raggiungere gli stessi obiettivi? E, la butto lì, cosa succede negli altri paesi, l’Italia per esempio, dove non c’è un New York Times?». 1.O’Connor A. Coca-Cola Funds Scientists Who Shift Blame for Obesity Away From Bad Diets. New York Times, 9 August 2015