Gli strateghi del market lo sanno bene: se la gente ha paura, è assai più propensa a spendere per comprarsi la “sicurezza”. La gamma è varia: ci sono le grandi paure, come quella dei terroristi, ma ci sono anche le paure “più piccole”, come quella di germi, malattie, i malesseri dei figli. Per ogni paura ci sono un prezzo, un mercato e un ricavo.
Ci sono le grandi paure,come quella dei terroristi, ma ci sono anche le paure “più piccole”, come quella di germi, malattie, i malesseri dei figli. Per ogni paura ci sono un prezzo, un mercato e un ricavo. E sono sostanzialmente due le ragioni per le quali la gente compra qualcosa: per ottenere ciò che vuole o per evitare ciò che non vuole. I mercanti della paura si focalizzano sulla seconda. E non hanno alcun interesse a stimolare il consumatore a ragionare su quanto il pericolo o la vulnerabilità percepiti siano reali. L’unico interesse è quello di far credere che ci sia una sola soluzione: «Compra il mio prodotto e sarai al sicuro, avrai risolto il problema».
Ma se in realtà il problema è un non-problema, allora la soluzione sarà una non-soluzione.
Qualche esempio?
I prodotti anti-invecchiamento
Stando a quanto ci viene costantemente ripetuto, invecchiare è quanto di più grave e tremendo ci possa capitare. Peccato che sia biologicamente naturale e per di più inevitabile. Ma noi non possiamo invecchiare! E per raggiungere lo scopo abbiamo bisogno di lozioni, creme, pillole, spray, ritocchi chirurgici e chi più ne ha più ne metta. E siamo disposti a pagare tutto ciò fior di quattrini. Peccato che l’inevitabile accadrà comunque. In Italia ilgiro di affari della cosmetica si aggira attorno ai 9-10 milioni di euro, secondo Cosmetica Italia, associazione nazionale imprese cosmetiche. Nel 2013 sono state praticate nel mondo oltre 23 milioni di operazioni di chirurgia estetica. Stati Uniti e Brasile ai primi posti, seguono Messico, Germania e Spagna. L’Italia è al settimo posto della Top 10 dei Paesi e degli interventi più praticati, lo dice la International society of aesthetic plastic surgery (ISAPS).
I prodotti antibatterici
Ci sentiamo ripetere continuamente che i germi ci fanno ammalare e che dobbiamo comprare prodotti che li uccidano e che ci proteggano. La verità è che i germi sono dovunque e non sono eradicabili e inoltre la grandissima maggioranza di essi è innocua per l’uomo. Anzi, molti batteri sono per noi benèfici, allenano opportunamente il nostro sistema immunitario perché la natura li ha creati per quello. L’uso indiscriminato di antibatterici ha portato alla comparsa di super-batteri resistenti a tutto che ora sono altamente pericolosi.
I prodotti per la sicurezza dei bambini
Anche in questo caso, ci sentiamo sempre ripetere che il mondo è pericoloso, che i bambini vanno protetti, si possono ammalare e fare male. E così ci vendono mille prodotti diversi che ci illudono di poter creare intorno ai nostri figli muri alti e spessi per proteggerli da un “tutto” che nemmeno sapremmo definire.
Big Pharma
Il messaggio? Potremmo essere malati e, se ancora non lo siamo, in qualsiasi momento potremmo ammalarci. Ma se non abbiamo sintomi? Potremmo esserlo lo stesso. E via con i costosi screening di massa (pagati con i soldi pubblici, quindi di tutti noi) che producono malati senza sintomi i quali andranno opportunamente “curati” con le opportune pillole. È il disease mongering: mentre un tempo si inventavano medicinali contro le malattie, ora si inventano malattie per generare nuovi mercati di potenziali pazienti. Ogni anno spendiamo 5,1 miliardi di euro in farmaci che non servono a curare vere patologie.
Benessere e fitness
Sembra proprio che al giorno d’oggi per star bene ed essere in forma non si possa fare a meno di sedute di palestra, integratori e trattamenti costosi, farmaci che prevengono tutto il prevenibile, che tengono basso il colesterolo e la pressione e la lista è ancora lunga. Per gli integratori l’Italia detiene addirittura il record di vendita in Europa occidentale: 147 milioni di confezioni l’anno per un fatturato che nel 2014 ha sfiorato i 2,2 miliardi di euro con più di 200 aziende e 54000 tipi di prodotti.
I media
Poi ci sono i media, che fanno la loro parte. Raccogliete per una settimana i titoli che trovate su giornali, tv e web. Poi contate quante volte trovate scritto o sentire dire: Allarme! Pericolo! … incombe…!Allerta! Minaccia! Eccetera. Allora, proviamo a cambiare paradigma. Non chiediamoci: cosa posso fare (o comprare) per risolvere il problema? Chiediamoci invece: ma quello che io credo essere un problema, lo è veramente? E se non lo è, non ho bisogno a tutti i costi di una soluzione.
Personalmente, provo un’eccitazione strana quando vengo a contatto con una nuova idea. Non con un’idea qualsiasi, ovviamente: parlo di quelle rarissime idee che ti colpiscono in profondità perché aggiungono dei tasselli a quel mosaico abbozzato che hai sempre in un angolo della mente e che s’intitola “La mia rappresentazione del mondo”. Quelle che ti fanno cambiare paio d’occhiali, che ti forniscono una nuova chiave di lettura con cui ti sembra di poter abbracciare tutto. Che posso dirvi, soffrirò di una malattia strana, sta di fatto che le idee mi eccitano. Amo quell’attimo di epifania in cui un’idea nuova ti esplode sotto la pelle e ti sembra di capire improvvisamente tutto. Purtroppo non mi capita spesso. Anzi è vero il contrario: mi capita molto di rado, tanto più di rado quanto più vado avanti con gli anni. Mi è successo quando ho scoperto per la prima volta la teoria della relatività, quando ho letto “Modernità liquida” di Zygmunt Bauman o “Shock Economy” di Naomi Klein, quando ho incontrato la meccanica quantistica e una manciata di altre volte. Recentemente qualcosa di simile mi è capitato quando ho intervistato Roberto Mancini, professore di Filosofia teoretica all’Università di Macerata e di Economia umana all’Università di Mendrisio, Svizzera, autore del recente saggioTrasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche.
Mi è capitato spesso di chiedermi: “Cos’è il capitalismo?”, dandomi ogni volta risposte diverse. E’ un modello economico? Un’idea del mondo? Un modo di vivere? Un insieme di valori? La risposta ovvia, che mi sono sempre dato, è che il capitalismo è tutte queste cose insieme. Tuttavia non mi è mai sembrata sufficiente: mancava di chiarezza e non definiva come questi aspetti stavano insieme, qual era la forma risultante complessiva. Ecco in poco più di 20 minuti d’intervista Roberto Mancini mi ha fornito la forma esatta del capitalismo, tanto che ora ce l’ho bene impressa in mente: è un albero.
CHIOMA, TRONCO, RADICI
Per Mancini il capitalismo non è semplicemente un sistema economico ma una civiltà, cioè come una struttura complessiva che colonizza e condiziona tutti gli aspetti della vita. Esso si presenta come un organismo a tre livelli, molto simile a un albero: un livello superficiale, la chioma, che è quello dell’organizzazione economica, delle imprese, delle banche, delle borse; un livello intermedio, il tronco, importante perché svolge una funzione vitale di mediazione, che è il capitalismo come cultura e come organizzazione politica: rapporti di forza politici, governi, ma soprattutto linguaggio quotidiano, categorie di interpretazione della realtà come competizione, flessibilità, mercato; infine il livello più profondo, le radici, ovvero il livello del mito: quell’intuizione iniziale che non viene messa in discussione e a partire dalla quale si pensa alla vita in un certo modo. Ma in cosa consiste il mito del capitalismo? E a quando risale? “Se il capitalismo come organizzazione è moderno, il mito ad esso sotteso è antico quanto la storia dell’occidente” afferma Mancini, che ce lo rappresenta come un quadrato fatto da quattro asserzioni semi-assiomaiche: 1. “L’uomo è egoista e calcolatore per natura”, 2. “La natura è avara e non ci dà ciò di cui abbiamo bisogno per vivere tutti, dunque la competizione è obbligata”; 3. “La morte vince sulla vita, quindi non dobbiamo convivere ma sopravvivere, ovvero differire il momento della morte scaricando prima le situazioni di morte sugli altri (morte civile, morte sociale, morte giuridica, ecc)”; 4. “Gli dei possono pure esistere ma sono indifferenti a noi per cui dobbiamo cavarcela da soli”. Dentro questa cornice abbastanza cupa e angosciosa è cresciuta la cultura del capitalismo.
LE TRE SVOLTE NECESSARIE
Dal momento che il capitalismo abbraccia ormai tutti gli ambiti della nostra vita e permea la nostra società sia a livello economico, che politico-culturale, che mitico, una vera e propria alternativa al capitalismo deve necessariamente contemplare tre svolte: una svolta a livello tecnico organizzativo, una svolta a livello culturale e politico e una svolta a livello mitico o “spirituale”, intendendo con spirituale non un aspetto religioso quanto l’orientamento al senso della vita. Dunque l’alternativa al capitalismo non si trova in una semplice ricetta economica ma risiede in un processo più complesso e multidimensonale. E la prima svolta necessaria, afferma Mancini, è proprio quella spirituale: “Occorrono persone orientate diversamente verso il senso della vita: non nasciamo per competere, produrre, lavorare, accumulare e poi morire, non è questo il destino umano. Se io mi convinco profondamente di ciò non accetto più un’economia capitalista e allora cambiano gli stili di vita, cambiano le scelte quotidiane.” La seconda svolta è di tipo politico-culturale: “Dovremo sostituire la parola competizione con cooperazione, flessibilità con dignità e costruire un altro orizzonte in cui questi concetti diventino categorie di uso quotidiano. Inoltre si costruiranno non più politiche di asservimento ai mercati, in cui i mercati finanziari sostituiscono la democrazia, ma politiche che invertano la tendenza, cioè che sacrifichino i mercati per elevare e sviluppare la democrazia. Il livello intermedio è particolarmente importante perché assicura la mediazione fra l’orientamento e il senso delle persone e le tecniche economiche.” Infine l’ultima svolta è quella da cui spesso tendiamo a partire: le ricette economiche, i nuovi modelli tecnici. Essi altro non sono che il frutto delle svolte precedenti, dunque restano schemi sterili e difficilmente applicabili se non arrivano alla fine di un percorso e una presa di coscienza collettivi. Tuttavia esistono già alcuni modelli che negli anni e in alcuni luoghi specifici hanno dimostrato di poter fungere da alternative valide al capitalismo: vediamo quali sono.
LE ALTERNATIVE
Nel suo libro Trasformare l’economia Mancini passa in rassegna e analizza i vari modelli di altra economia alla ricerca di nuove vie percorribili. Dal modello delle relazioni di dono dell’Africa e dell’America Latina, all’Economia gandhiana, passando per quella islamica, quella olivettiana “di comunità”, l’economia di comunione di Chiara Lubich, la bioeconomia di Nicholas Georgescu Roegen (da cui attinge ampiamente il modello della decrescita), l’Economia del Bene Comune di Christian Felber, l’Economia partecipativa e solidale. “La conclusione a cui sono giunto – afferma Mancini – è che non esiste un modello supremo di ‘altra economia’ ma dobbiamo lavorare ad un modello integrato. La soluzione, se la troveremo, arriverà dall’incontro delle culture. Se noi lavorassimo a un modello integrato dove si raccogliesse il meglio che questi modelli ci danno potremmo mettere a punto un metodo per la scienza economica, che sia un modello di servizio all’umanità e in armonia con la natura.” “Non basta la lotta alla politica dell’auterità, se restiamo dentro ai parametri del capitalismo e sosteniamo che lo stato deve investire per generare lavoro restiamo sempre all’interno di questo sistema che ha le crisi come dinamica strutturale della propria riproduzione. Occorre una rivoluzione nel modo di sentire e di pensare in modo che l’essere umano ritrovi la sua dignità, in modo da non poter essere più trattato né come un esubero (un essere inutile) né come una risorsa (un essere strumentale che però non ha un suo valore autonomo).”
IL RUOLO DEI MEDIA
A dispetto di tutte le iniziative nate e che continuano a nascere nei territori, i media continuano a dipingere il nostro paese come privo di speranze. Come mai? “Tutto quello che cresce in una società per potersi sviluppare ha bisogno di rispecchiarsi, deve trovare uno specchio sociale che lo rende riconoscibile e l’amplifica. Oggi tutti i nostri specchi sociali, dai media, alla scuola, all’università, agli intellettuali, ai social network, difficilmente sono in grado di rispecchiare il meglio che cresce in una società, che resta non rappresentata, mentre grande rispecchiamento hanno tutti i messaggi negativi. La rassegnazione viene rispecchiata, l’iperadattamento, il cinismo diventano il principio di realtà. Le realtà feconde vengono ricacciate in una zona d’ombra dove non vengono riconosciute al punto che anche i loro protagonisti spesso sono divisi, frammentati, dispersi.”
LA GLOBALIZZAZIONE
Un trasformazione dell’economia è realizzabile all’interno di una società globalizzata? Per Mancini “La globalizzazione ha significato non una unificazione dell’umanità ma una divisione sistematica dell’umanità nell’unica unificazione realizzata che è stata quella sotto il mercato”. Per creare una vera alternativa dobbiamo “ritrovare il rapporto fra persona, comunità e coralità, intendendo con quest’ultima l’appartenenza a una cittadinanza umana globale. Non sarà un movimento di globalizzazione intesa come omologazione e sradicamento. Dovrà essere un rilocalizzare per permettere un tessuto democratico della società, che non potrà essere né individualista né massificato ma dovrà avere comunità aperte, non sette xenofobe, razziste, ripiegate su se stesse sul modello leghista. Lo spazio comunitario è senza dubbio quello più adatto per esercitare la pratica democratica, la cura concreta del bene comune: “La comunità è la dimensione che permette alla persona di fiorire e di esprimersi. Poi c’è un livello più grande, quello della coralità: la nazione, il continente, la globalità. Siamo spesso ignari della cittadinanza cosmopolita, dell’appartenenza ad un unica cittadinanza mondiale. Però la coralità è indispensabile, da un lato nel nome di una stessa dignità umana, dall’altro perché le sfide maggiori che ci si presentano sono sfide di portata mondiale: dal mercato globale, alla sfida ecologica, al cambiamento climatico. O si costruisce una risposta globale democratica col concorso delle tradizioni e dei popoli oppure le nostre risposte rischiano di essere sterili e dal fiato corto.” Dopo l’intervista, prima di salutarci, Mancini ci accompagna in una trattoria a conduzione familiare a poche decine di metri dall’Università. Macerata è una cittadina graziosa, vi si respira un’atmosfera genuina. Mentre mangiamo degli ottimi Vincisgrassi penso a tutte le realtà che abbiamo incontrato in giro per l’Italia e alle nuove che continuano a segnalarci, che prima o poi incontreremo, penso ai dati macroscopici sui cambiamenti dei consumi, sull’esplosione del biologico e del chilometro zero e la crisi della grande distribuzione e vedo tutte queste nozioni inquadrate nella cornice teorica che ci ha appena fornito l’intervista. Una svolta spirituale sicuramente è già in corso e si vedono i segnali di quella culturale-politica. Quella tecnica sembra ancora lontana ma chissà, probabilmente sarà inevitabile.
E’ stato pubblicato ieri il nuovo rapporto Eurostat sui rifiuti nel Vecchio Continente, relativo ai dati raccolti nell’anno 2011, e l’Italia non ne esce benissimo (ma nemmeno l’Europa, se può consolare): ogni anno un cittadino europeo mediamente produce 503kg di rifiuti, di cui il 37% è finito in discarica, il 23% incenerito, il 25% riciclato e il 15% compostato. Rispetto al 2001 Eurostat sottolinea un certo miglioramento delle percentuali medie europee (che si attestavano su un 56% di rifiuti in discarica, 17% inceneriti, 17% riciclati e solo il 10% compostati), ma entrando nello specifico delle singole situazioni si possono trovare margini di miglioramento esponenziali. Il paese europeo che produce più rifiuti pro-capite è, sorpresa, la Danimarca: 718kg di rifiuti a cittadino prodotti nel 2011, seguita a ruota da Lussemburgo, Cipro ed Irlanda, con valori tra i 600 e i 700kg pro-capite. Sul terzo gradino del podio, nel range 500-600kg pro-capite, si trovano Italia, Germania, Austria, Paesi Bassi, Spagna e Malta; un’ottima compagnia per il Belpaese, che nel 2011 ha prodotto 535kg pro-capite di rifiuti (solo 32kg sopra la media europea), che tuttavia si trova ben al di sotto delle medie continentali relative allo smaltimento. Se i cittadini danesi vedono smaltire in discarica il 3% dei loro rifiuti (quasi 200kg pro-capite in più), gli italiani vedono crescere drammaticamente la percentuale, fino al 49% di rifiuti smaltiti in discarica: non a caso l’Italia ha le discariche più grandi d’Europa (Malagrotta, Bussi, Chiaiano) uno dei sistemi di smaltimento meno efficiente e meno sostenibile dei 27 Paesi Ue. Certamente il 99% dei rifiuti ‘discaricati’ dalla Romania è un dato ben più inquietante, ma non è più tempo per il vicendevole additarsi come esempio peggiore: qui occorre virtuosismo. Dei 535kg pro-capite di rifiuti tricolori prodotti, 505kg vengono trattati ma solo il 34% di questi viene compostato o riciclato: il 17% del totale viene incenerito. Se osserviamo invece come i danesi smaltiscono i loro rifiuti, notiamo che il 53% del totale viene incenerito: la Danimarca è il paese che più spesso ricorre a questo sistema (certamente non esattamente “pulito” né “sostenibile”), davanti a Svezia (51%) e Belgio (42%). Sul compostaggio dei rifiuti l’Austria primeggia su tutti gli altri: il 34% dei rifiuti prodotti dal paese di lingua tedesca viene correttamente compostato, una percentuale di gran lunga superiore alla media europea e che denota una visione d’insieme del problema smaltimento decisamente più virtuosa che altrove. Al secondo posto per la percentuale di compostaggio ci sono i Paesi Bassi (28%); medaglia di bronzo per Belgio e Lussemburgo (20%). Un dato piuttosto interessante è relativo alle percentuali di smaltimento in discarica: se da un lato c’è quasi un eccesso di virtuosismo (se di eccesso si può parlare), come in Belgio, Germania, Olanda, Svezia che smaltiscono in discarica l’1% dei rifiuti prodotti, dall’altro notiamo come certi sforzi vengano vanificati da percentuali terribili: 99% di rifiuti in discarica in Romania, 94% in Bulgaria, 80% in Grecia, persino la Spagna smaltisce in discarica il 58% dei rifiuti che produce. Uscendo dall’Unione europea il caso svizzero è clamoroso: 0% di rifiuti smaltiti in discarica (689kg pro-capite l’anno), il 50% viene incenerito, il 35% viene riciclato e il 15% compostato.