Maurizio Pallante e la Decrescita Felice: il benessere al posto del PIL

Decrescita è preferire la qualità alla quantità. Decrescita è cercare di conseguire il benessere anziché la ricchezza economica. Decrescita è migliorare la produzione dei beni e ridurre quella delle merci superflue. Decrescita è rinunciare a un’economia finalizzata alla crescita a ogni costo in favore di alternative concrete ed efficaci basate su nuovi paradigmi, come la sostenibilità e la solidarietà.

Maurizio Pallante è fondatore e presidente del Movimento per la Decrescita Felice, che dal 2007 sta cercando di dare corpo e attuazione a questa visione del mondo. L’obiettivo di questa esperienza, che prende ispirazione dal libro di Pallante “La decrescita felice”, è ripensare la società e l’economia con un approccio pratico e operativo, proponendo soluzioni ai problemi che emergono dall’analisi. È questa la missione dei Circoli della Decrescita Felice, una trentina di realtà disseminate su tutto il territorio nazionale che portano avanti localmente le battaglie del Movimento. «La causa della crisi che stiamo vivendo – ci ha spiegato Maurizio quando l’abbiamo incontrato a casa sua, a Chieri – è la crescita. E se la crescita è la causa, non può essere la soluzione». La via d’uscita va quindi ricercata altrove. Prima di tutto è necessario abbandonare la convinzione che il benessere delle persone aumenti di pari passo con il Prodotto Interno Lordo del paese, quindi con una crescita sempre maggiore di produzione e consumo di merci. Tale crescita compulsiva è possibile solo grazie al meccanismo del debito, «che consente di tenere alta la domanda e di assorbire tutta quanta l’offerta». Tutto ciò a discapito delle tasche dei cittadini, a cui viene data la possibilità di comprare prodotti di cui spesso non hanno necessità, nonostante il loro reale potere d’acquisto non glielo permetta.IMG_7812-660x330

Ma quella economica non è che una delle tante facce del modello consumista. Ci sono altre fondamentali variabili che vengono regolarmente trascurate, come la sostenibilità ambientale, i consumi energetici, le ineguaglianze sociali che vengono prodotte, le ricadute sulla salute. È per questo che il Movimento per la Decrescita Felice ha elaborato un insieme di linee guida attinenti ai più disparati ambiti – amministrazione, mobilità, sanità, energia, gestione dei rifiuti, educazione, agricoltura e così via – che ripensino unnuovo modello di comunità più sano e sostenibile. Viene presentata una serie di proposte politiche, di provvedimenti normativi da adottare per passare dalla teoria alla pratica. Le infrastrutture energetiche sono carenti? Il Movimento per la Decrescita Felice chiede di attuare una «Incentivazione alla trasformazione della rete di distribuzione in rete di reti locali per favorire lo scambio delle eccedenze tra autoproduttori». La raccolta differenziata non raggiunge percentuali accettabili? Una delle proposte in tema di rifiuti consiste nella «Abolizione della tassa raccolta rifiuti e applicazione in tempi rigidamente definiti di una tariffa commisurata alle quantità di rifiuti indifferenziati conferiti allo smaltimento». La cementificazione selvaggia sta uccidendo il territorio? Allora è necessario attuare un «Blocco delle aree di espansione edilizia nei piani regolatori delle aree urbane». Punto per punto, una soluzione per ogni problema, un mattone sull’altro per costruire un nuovo edificio sociale ed economico. Uno dei temi centrali è quello della tecnologia: spesso si accomuna erroneamente la decrescita alla regressione, ma la ricerca e lo sviluppo tecnologico sono centrali nel pensiero decrescitista, in particolare se finalizzati al raggiungimento di traguardi come l’abbattimento delle emissioni inquinanti, lo sfruttamento delle fonti energetiche rinnovabili, la riduzione del digital divide.

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L’azione del movimento guidato da Pallante però non si limita alla critica del modello di crescita: vengono studiate soluzioni teoriche e forniti strumenti pratici per la costruzione delle alternative. A questo scopo, una delle istituzioni più importanti è l’Università del Saper Fare, nata nella primavera del 2009 a Torino e portata avanti da alcuni Circoli territoriali. L’esperimento è nato dalla volontà di responsabilizzare il singolo individuo, facendogli capire che un cambiamento reale può essere innescato solo se ciascuno di noi si attiva nella propria quotidianità e insegnandogli come sostituire via via le pratiche insostenibili, energivore e malsane proprie dello stile consumista con altre di segno opposto. Cosa possiamo imparare dunque in questa speciale università? Autoproduzione, riciclaggio, riuso, autocostruzione, ma anche come relazionarsi meglio con la comunità, per esempio attraverso un corso di “Economia del dono”. Tutte le attività hanno un minimo comune denominatore: rendere chi partecipa il più possibile autosufficiente. Coltivare un orto, realizzare in casa dentifrici, saponi e detersivi, effettuare la manutenzione della propria bicicletta, costruire e montare un pannello solare, sono tutte piccole azioni che consentono di raggiungere un grande obiettivo: la resilienza, ovvero la capacità di una comunità di adattarsi al cambiamento. Già, il cambiamento. Il destino del modello attuale, che pretende di perseguire la crescita infinita su un pianeta con delle risorse finite, è segnato. L’inversione di rotta è l’unica soluzione ed essa può essere frutto di un’imposizione oppure di una libera scelta. «Una persona che non mangia perché non ha da mangiare non fa una scelta e sta peggio; una seconda persona che non mangia per fare una dieta fa una scelta e la fa per stare meglio». Pallante utilizza questo semplice esempio per spiegare la differenza fra recessione e decrescita, fra la modifica forzata di uno stile di vita dovuta all’improvviso esaurimento delle risorse necessarie per alimentarlo e la decisione consapevole di chi, rendendosi conto di aver imboccato un vicolo cieco, ha il coraggio e la consapevolezza sufficienti per tornare indietro e scegliere una strada diversa, sostenibile, giusta.

Fonte : italiachecambia.org

La decrescita e l’occupazione. Un matrimonio che s’ha da fare

Ospiti da tutta Italia alla conferenza nazionale del Movimento per la Decrescita Felice. Il tema della giornata sono occupazione e lavoro, temi particolarmente cari al movimento; perché decrescita non vuol dire recessione379503

Il Movimento per la Decrescita Felice non ha propri parlamentari né tantomeno vuole proporsi come un partito politico, eppure crede profondamente nel ruolo delle istituzioni e la conferenza di oggi ha come target proprio la politica.
In Italia c’è una fortissima disoccupazione, ma anche tantissimi lavori che non si fanno. Chi ha il poter politico ha quindi il dovere di ascoltare le nostre proposte”, ha dichiarato in apertura Maurizio Pallante, presidente MDF. “Non è più possibile uscire dalla crisi aumentando la produttività come negli anni 30. All’epoca infatti non c’era una crisi ambientale da affiancare a quella economica”. Entrambe le crisi sono causate dall’aumento dei consumi e tutte le tensioni internazionali e le guerre sono scatenate dal bisogno di controllare i paesi in cui sono presenti le materie prima necessarie alla crescita e consumo. Fondamentale per uscire dalle crisi sarà iniziare ad investire nel lavoro “utile”, su nuove competenze e sulle piccole e medie imprese, fondamentale è capire che gli strumenti tradizionali della politica economica continuano a dimostrare di non essere in grado di risolvere il problema. Si dovrà quindi mirare ad un nuovo modello che punti all’efficentamento energetico e materiale piuttosto che sul rinnovo continuo poiché solo riducendo i consumi a parità di servizi, si può recuperare il denaro necessario a pagare l’occupazione in attività lavorative che attenuano la crisi energetica, climatica ed ambientale. L’efficentamento energetico degli edifici, ad esempio, crea tra i 13 ed i 15 nuovi posti di lavoro per ogni milione di euro investo, contro i 2/4 delle rinnovabili e gli 0,5 della costruzione di grandi opere infrastrutturali. Ristrutturando 15.000 scuole ed investendo 8,2 miliardi di euro si otterrebbe un risparmio energetico annuo di 420 milioni di euro dando lavoro a 150.000 persone.   La speranza del movimento è quella di spingere verso una Bioeconomia che riprenda in considerazione anche la vita delle persone. “Questo tipo di economia – racconta Giordano Mancini formatore industriale – viene considerata utile dalle persone, non crea probemi sociali e genera nuovi posti di lavoro, fa diminuire le emissioni di CO2 e la quantità di rifiuti prodotta, non genere altro debito pubblico e consuma meno energia e materie prime”. Parla invece di “dramma di una generazione” il Professor Luciano Monti dell’università LUISS di Roma che propone un nuovo paradigma economico fondato sulla sostenibilità integrata che mira a riequibrare il saldo negativo accumulato ai danni del Pianeta e delle giovani generazioni.
Ama le future generazioni come te stesso” era lo slogan di Nicolas Georgescu Roegen, padre della bioeconomia e della decrescita e per farlo sarà necessario abbandonare il mito della crescita del PIL che non registra realmente il benessere di una popolazione né tantomeno quello dell’ambiente che abitano.

Fonte: ecodallecittà.it

Manifesto per un’Europa decrescente

E’ nato il Manifesto per un’Europa decrescente e tra i primi firmatari si sono personaggi noti per il loro impegno su questo fronte: Francesco Gesualdi, Maurizio Pallante, Serena Pellegrino, Jean-Louis Aillon, Laura Cima, Pietro Del Zanna, Domenico Finiguerra, Roberta Radich, Ezio Orzes. Diamo loro la parola perchè spieghino anche ai lettori de Il Cambiamento quanto importante sia andare in questa direzione.europa_decrescente

«I processi di integrazione europea sono oggetto di forte contestazione, anche perché stanno gravemente penalizzando alcune nazioni provate dalla crisi economica, e in tutti i paesi membri si stanno affermando movimenti politici ostili alla moneta comune o addirittura alla ragion d’essere dell’Unione – scrivono i promotori del Manifesto – Come decrescenti, da una parte non possiamo accettare la logica di chi vuole riportare indietro l’orologio della storia proponendo soluzioni peggiori dei mali che vorrebbe curare, dall’altra non possiamo tapparci gli occhi e non constatare che l’Unione Europea, così come è configurata attualmente, non solo non risponde alle esigenze delle sfide che l’umanità si vede costretta ad affrontare – i cambiamenti climatici in primis – ma sostiene attivamente il degrado ecologico e la disintegrazione sociale. Come europei, consapevoli del fatto che gran parte dei problemi che attualmente attanagliano il mondo derivano da degenerazioni del pensiero occidentale, siamo altresì convinti che il Vecchio Continente abbia tutte le carte in regola proporre un’importante inversione di tendenza che possa servire eventualmente da spunto anche per altre civiltà».
«Nel Manifesto per un’Europa decrescente non ci siamo limitati a riproporre i classici capisaldi della decrescita (la critica del PIL, la differenza tra decrescita e recessione, l’elogio dell’autoproduzione, la decolonizzazione dell’immaginario), ma abbiamo cercato di abbozzare un progetto politico compatibile con gli ideali di questa filosofia. Ne è uscita fuori quella che si potrebbe chiamare, con un gioco di parole, ‘riforma rivoluzionaria’: inevitabilmente rivoluzionaria, perché la decrescita segna un vero e proprio cambio di paradigma, che coinvolge inevitabilmente anche le tradizionali forme di governo. D’altro canto, quasi tutte le proposte evocano la sensazione che si potrebbero applicare ‘qui e ora’, perché non comportano né tecnologie avveniristiche né particolari stravolgimenti della vita delle persone; tendono anzi a rafforzare tutti quegli aspetti che rendono la vita umana un’esperienza meritevole di essere vissuta. Il manifesto è volutamente un passo iniziale, un work in progress che chiediamo di condividere a tutte le persone di buona volontà. Un’alimentazione più sana, un ambiente pulito, una nuova concezione del lavoro slegata dal produttivismo, maggior libertà e autonomia… sono tutti obiettivi a portata di mano, a patto di abbandonare per sempre la logica perversa della crescita infinita. Invitiamo chi contesta le presunte privazioni derivanti dall’adozione della decrescita a riflettere seriamente sui sacrifici, quelli sì veramente dolorosi, necessari per mantenere in vita un Moloch che diventa sempre più crudele ed esigente all’aggravarsi dei sintomi della sua fine – riscaldamento del pianeta, perdita di biodiversità, picco del petrolio ed esaurimento di materie prime. Il Manifesto per un’Europa decrescente è il nostro modo di dissociarci e di proporre un’altra economia, un’altra politica, un’altra società».
Clicca qui per leggere il testo integrale del Manifesto.

Anche l’associazione Paea è impegnata sul fronte della decrescita e dello scollocamento: clicca qui per sapere quali sono i prossimi appuntamenti da non perdere.

Fonte: il cambiamento.it

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Io faccio così #14 – Decrescita, autodeterminazione e sovranità: la Sardegna di Roberto Spano

Strana terra la Sardegna. Antiche tradizioni che trasudano innovazione più degli scintillanti grattacieli delle metropoli del Nord Italia. Umili pastori che con poche parole trasmettono concetti di saggezza pari a quelli spiegati nei libri di illuminati saggisti. Terra di attaccamento, abitata da un popolo che con fierezza rivendica la libertà di autodeterminarsi e di aprirsi al mondo. Terra di cambiamento, dove vecchio e nuovo si uniscono in una sintesi che rappresenta il futuro non solo dell’Isola, ma di tutta Italia, dell’Europa e del Pianeta.

Dieci anni fa Roberto Spano è tornato a Orroli, un piccolo paese dell’entroterra cagliaritano, dopo aver vissuto per vent’anni in giro per l’Italia e per il mondo. Dal ritorno a casa, che per molti giovani sardi rappresenta un’involuzione, ha tratto la forza e l’ispirazione per cambiare la propria vita e quella della comunità in cui vive. Non solo ha ritrovato la sua Terra, ma ha anche scoperto il pensiero di due intellettuali che hanno fatto scattare in lui una molla, risvegliando una consapevolezza che in realtà dentro di sé già possedeva. Ma andiamo con ordine. «Aver passato l’infanzia nella Sardegna di quarant’anni fa – spiega Roberto –, significa aver avuto accesso a uno stile di vita che ancora manteneva i caratteri di comunità, di sostenibilità, di autoproduzione, di scambio, di filiera corta, di ricerca di una vita in comune che permetteva a tutti di vivere bene. Era però un’impostazione che mancava ancora di consapevolezza e non ci si rendeva conto che nel giro di poco tempo sarebbe cambiato tutto». La globalizzazione, giunta con prepotenza anche sull’Isola, avrebbe reso presto obsoleta questa visione.orto-300x168Ma i semi erano stati piantati e, decenni più tardi, è bastato poco perché germogliassero. «La decisione di tornare a Orroli è nata da una inconsapevole ricerca di un modo di vivere diverso, che fosse più sostenibile e che mi permettesse di avere maggiore equilibrio, sia materiale che spirituale». Poi, qualche anno fa, l’incontro con Maurizio Pallante e con il suo messaggio di decrescita: «Mi sono reso conto che le mie scelte – farmi un orto, vivere nella mia casa, risparmiare energia, diminuire l’uso dell’auto e così via – non erano soltanto un gesto individuale, ma potevano avere anche una valenza politica, sociale, collettiva. Pallante è riuscito a dare loro una sistematizzazione, a spiegarne il valore in prospettiva, chiarendo perché sono fondamentali per la costruzione di una nuova società». Ancora prima di Pallante però, un altro grande pensatore, un sardo doc, aveva toccato il cuore e l’animo di Roberto: «Alla fine degli anni novanta, lessi “Manifesto delle comunità di Sardegna”di Eliseo SpigaIn questo libro, egli spiega per quale motivo nell’identità, nella sardità, nella nostra cultura tradizionale ci sono elementi di modernità in grado di dare risposte per il futuro, non solo quello della Sardegna. Lo stesso Pallante ha sottolineato come il ”Manifesto” sia in grado di parlare a tutta l’umanità, perché i concetti che esprime – comunità locale, sovranità alimentare ed energetica, capacità di resilienza – sono universalmente validi e applicabili». Maturata questa consapevolezza, Roberto è diventato un convinto praticante della decrescita felice. «Ho aumentato la qualità della vita di me stesso e della mia famiglia diminuendo la dipendenza dal denaro e dall’acquisto delle merci. Siamo quasi autosufficienti dal punto di vista alimentare, produciamo tutto quello che è possibile in casa, facciamo molta attenzione al risparmio energetico, curiamo i rapporti con i nostri vicini e con la comunità locale. Decrescita felice per me è avere di più con meno, non rinunciando a qualche cosa, ma semplicemente togliendoci quei pesi che abbassano la qualità della vita e dando spazio a ciò che veramente conta». In Sardegna le contraddizioni del modello improntato sulla crescita infinita sono lampanti ed esigono un tributo salatissimo: «L’ottanta per cento di quello che mangiano i sardi è importato dall’estero, nonostante la nostra terra sia in grado di fornire sostentamento a tutti coloro che la abitano. È chiaramente una situazione insostenibile, come possiamo immaginare di continuare in questo modo? E così la sovranità energetica: la nostra isola produce il 30% in più dell’energia necessaria per soddisfare i propri fabbisogni, la vendiamo in Italia a un prezzo più basso e quando ne abbiamo bisogno la riacquistiamo a un prezzo più alto. È una politica non solo ingiusta, ma anche miope, perché punta esclusivamente sull’ampliamento dell’offerta, nonostante produciamo già più energia di quella che ci serve. Pensiamo a risparmiarla, piuttosto che continuare a sprecarne un sacco, sia direttamente sia indirettamente, per via di un sistema economico che privilegia gli sprechi, i trasporti sulla lunga distanza rispetto alle filiere corte, all’autoproduzione e agli scambi in loco”.

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Ma per cambiare bisogna avere coraggio, mettersi in gioco, assumersi delle responsabilità. In Sardegna c’è poi un ulteriore ostacolo da abbattere, un ostacolo culturale. «Dobbiamo liberarci del luogo comune che ci fa credere di essere poveri, morti di fame, gente senza capacità, che se non è aiutata da qualcun altro più forte e più grande non può andare avanti. Questa è una menzogna: la Sardegna è una terra ricchissima a livello culturale, spirituale e materiale, che se riuscisse a recuperare la consapevolezza delle proprie possibilità e del suo ruolo attivo nel mondo diventerebbe una grande palestra e un grande esempio positivo per tutta l’umanità. Ma il primo passo non è combattere fuori, bensì crescere dentro». Dalle parole di Roberto traspare un amore dirompente per la propria terra e per il suo popolo, che si traduce in un ragionamento lucido e preciso, che possiede anche una grande valenza politica. «Io sono indipendentista perché credo nel diritto storico, politico, culturale, linguistico, nazionale di avere una rappresentanza anche istituzionale per la mia terra. Oggi ritengo necessario attivare un processo di governo che porti il popolo sardo a rendersi conto che solo attraverso l’autodeterminazione delle proprie scelte possiamo avere un futuro e soprattutto possiamo parlare al resto del mondo alla pari, dando il nostro contributo. L’indipendentismo moderno, quello in cui mi riconosco, è tutt’altra cosa rispetto al separatismo: noi non vogliamo separarci, vogliamo piuttosto uscire dalla gabbia regionale in cui ci ha chiuso lo Stato italiano per aprirci allo scambio col mondo. Non pensiamo di essere né migliori né peggiori di nessuno. Siamo uguali a qualunque altro popolo e, proprio per questo, abbiamo anche noi diritto ad avere la nostra nazione libera e sovrana».sardi_indipendenti-300x155

Quello che sta accadendo in Sardegna negli ultimi anni è straordinario: con un’alchimia quasi magica, si stanno mescolando forte identità nazionale, fame di autodeterminazione e di sovranità, spinte innovative che sanno quasi di rivalsa nei confronti di chi ha sempre considerato questa terra come una riserva da sottomettere e sfruttare, nuovi modi di vivere la comunità e il rapporto con la natura che, partendo da un retaggio antico, forniscono soluzioni estremamente attuali. «Ci sono dei forti segnali di cambiamento – conclude Roberto –, a partire dalla consapevolezza dell’importanza della nostra identità, della nostra autodeterminazione, dai movimenti che si battono per l’indipendenza e per la sovranità. Ci sono tanti gruppi e associazioni che lavorano in direzione della sovranità alimentare ed energetica, della ricostruzione delle comunità locali, delle filiere corte, del rapporto diretto fra produttori e consumatori. C’è un primo percorso di de-urbanizzazione e tante persone cominciano a lasciare le periferie delle città per tornare ad abitare nei paesi e nelle comunità locali dell’interno, che sono a rischio di spopolamento. Il lavoro da fare è ancora tantissimo: a livello politico vanno prese decisioni coraggiose, lungimiranti, graduali e democratiche, che abbiano la capacità di pensare a un futuro che in realtà è vicinissimo. Contemporaneamente, vanno adottati nuovi stili di vita a livello personale». La Sardegna, dopo essere stata considerata per anni un brutto anatroccolo, si sta apprestando a diventare uno splendido cigno, pronto a spiccare il volo e a indicare al resto d’Italia la direzione da seguire.

Francesco Bevilacqua

Fonte: italia che cambia

Per fortuna c’è una…“Generazione decrescente”

Un quadro solido di valori che fa comprendere perfettamente perché non sia più possibile produrre, consumare e sprecare come si è fatto finora. E’ quello che esce dal libro di Andrea Bertaglio “Generazione decrescente” (Edizioni L’Età dell’Acquario). E Andrea sa bene di cosa sta parlando…generazione_decrescente

Andrea Bertaglio appartiene a quella generazione che oggi sta a metà del guado, fra i 30 e i 40 anni. “La prima generazione che non avrà più di ciò che i genitori hanno avuto” come ha detto Maurizio Pallante, che ha curato la prefazione del libro. Ma è proprio questa condizione che sta rendendo una generazione consapevole del fatto che non si può più produrre, consumare e sprecare come si è fatto finora. Andrea è partito dalla sua esperienza di vita per spiegare come la decrescita non sia solo una critica radicale a un sistema in recessione, ma rappresenti i valori sui quali costruire il futuro. Andrea Bertaglio è tra i portavoce nazionali del Movimento per la Decrescita Felice, ha 34 anni; nato a Milano, dopo aver vissuto anche in Germania e Gran Bretagna, da alcuni anni si è trasferito nella campagna piemontese. Giornalista, laureato in sociologia, ha lavorato nel 2007 in Germania al Centre on Sustainable Consumption and Production. È co-autore del documentario «Presi per il PIL». Il Cambiamento lo ha intervistato.

Il libro mi pare di capire che è una sorta di specchio di quanto hai vissuto e stai vivendo tu sulla tua pelle. Quindi tu sei un esponente della generazione decrescita? Come lo definiresti il contesto in cui questa(e) generazione(i) si trova(no) a vivere? Ti senti più come una generazione di passaggio che viene da qualcosa e va verso qualcos’altro o come una generazione capolinea che non ha una nuova sponda sulla quale approdare?

La mia “generazione”, che io considero quella di chi è nato dagli anni ’70 in poi, si trova ad affrontare una situazione molto particolare: ha più aspettative rispetto a quelle precedenti, ma ha meno possibilità per realizzarle. Se ci si pensa è un mix micidiale, fonte di una sensazione di frustrazione e inadeguatezza enormi: voglio di più, ma in un periodo in cui ho meno possibilità di ottenerlo. O almeno si pensa sia così, perché se si cambia la propria prospettiva, questo periodo offre molte possibilità. Possibilità di cambiamento, innanzi tutto. Appartengo alla generazione decrescente, quindi, quella che si sta accollando le conseguenze delle scelte fatte in passato dai suoi padri, che l’hanno portata a mangiare tre volte al giorno, ma a vivere in un mondo ultra-inquinato, completamente impazzito a livello economico e promotore di un vuoto esistenziale da levare il fiato. Mi spiace si possa pensare che la mia è una generazione senza una sponda sulla quale approdare, perché penso sia esattamente il contrario: è adesso che siamo in mare aperto, e abbiamo bisogno di impegnarci se non ci vogliamo restare a vita, bloccati in una eterna adolescenza da precari che non possono, non sanno o non vogliono crescere, appunto. Come possiamo uscirne? Secondo me partendo dalle piccole cose, dalla quotidianità, perché non è vero che è già stato tutto detto o fatto. C’è ancora molto da fare: andare avanti, progredire (nel vero senso della parola, che non è legato solo al “consumare”), ripulendo allo stesso tempo il mondo dalla sozzura che lo ammorba. Ridando a quest’ultimo una forma, per poi riempirlo ancora di sostanza.

La decrescita: tutti ne parlano, viene definita inderogabile e necessaria per invertire una rotta che ci porta al collasso. Ma chi ci vive in mezzo cosa ne dice?

Che è così, soprattutto se la si smette di pensare che la decrescita sia un ritorno al carro e alla candela. Queste sono balle diffuse da chi non si vuole levare il paraocchi ideologico che gli fa credere di vivere ancora nel ventesimo secolo. Non è più così, e crescere all’infinito è pura utopia, anche per i cinesi. Per vivere la o nella decrescita non c’è bisogno di rifugiarsi nei boschi, cosa che io per primo non saprei e non vorrei fare. Basta smetterla di consacrare la propria vita al consumo, allo spreco, all’accettazione di stili e modelli di vita insostenibili, sotto ogni aspetto. Per poi rendersi conto che non è così male, e che la famigerata crisi potrebbe anche scomparire, senza una serie di bisogni indotti ed inutili che ci hanno portati ad avere. Per cosa? Per essere comunque tutti stressati, infelici, e disoccupati!

A chi consiglieresti la lettura di questo libro? A chi ha perso le speranze e vuole ritrovarne? E’ un libro che lascia intravedere una speranza e che fornisce una lettura propositiva?

Lo consiglierei a tutti. Soprattutto a chi si è sentito in qualche modo a disagio, nel corso della vita, perché non si sentiva d’accordo con le idee dominanti. Una lettura propositiva? Certo, su questa è incentrata l’intera terza ed ultima parte del libro. Vanno bene la critica e la riflessione, sono fondamentali. Ma senza un approccio propositivo non si va da nessuna parte. E questo libro non avrebbe avuto motivo di esistere.

Fonte: il cambiamento

“Gli esseri umani tornino a essere il fine”. Intervista a Maurizio Pallante

Crisi economica ed energetica, sprechi e decrescita, futuro e possibilità di cambiamento. Olivier Turquet ha incontrato e intervistato Maurizio Pallante in occasione di una conferenza di divulgazione della Decrescita Felice tenuta dal fondatore del movimento a Fosdinovo. maurizio_pallante2_

“Nella crisi che stiamo vivendo confluiscono molte crisi: quella economica e occupazionale, quella ambientale, quella energetica, quella internazionale, quella morale, quella della politica”

Ho incontrato Maurizio Pallante a Fosdinovo durante una delle sue conferenze di divulgazione della Decrescita Felice. Instancabile, preciso, chiaro. Abbiamo fatto due chiacchiere e deciso di costruire quest’intervista insieme; cercando di non partire, come al solito, dall’inizio ma di approfondire alcune tematiche care a tutti e due.

Maurizio, ci sono segnali e si alzano voci, da varie parti, che dicono che l’attuale sistema economico ed energetico sia vicino a un punto di rottura, tu cosa ne pensi?

Preferisco riportare alcuni dati:

– dal 1987 la specie umana consuma prima del 31 dicembre una quantità di risorse rinnovabili pari a quelle rigenerate annualmente dal pianeta e, da allora, si avvicina di anno in anno la data del loro esaurimento: è stata il 21 ottobre nel 1993, il 22 settembre nel 2003, il 20 agosto nel 2013;

– nel settore petrolifero il rapporto tra l’energia consumata per ricavare energia e l’energia ricavata (eroei: energy returned on energy invested) tra il 1940 e il 1984 (data dell’ultima rilevazione pubblicata da una rivista scientifica internazionale), è sceso da 1 a 100 a 1 a 8; dal 1990 ogni anno si consuma una quantità di barili di petrolio molto superiore a quanta se ne trovi in nuovi giacimenti: 29,9 miliardi di barili a fronte mediamente di meno di 10 miliardi (dato 2011);

– le emissioni di anidride carbonica eccedono in misura sempre maggiore la capacità dell’ecosistema terrestre di metabolizzarle con la fotosintesi clorofilliana, per cui se ne accumulano quantità sempre maggiori in atmosfera: sono state 270 parti per milione negli ultimi 650 mila anni, sono diventate 380 nel corso del XX secolo, nel mese di maggio del 2013 hanno raggiunto il valore di 400, lo stesso del Pliocene, circa 3 milioni di anni fa, quando la specie umana non era ancora comparsa, la temperatura media del pianeta era più calda dell’attuale di 2 – 3 °C, il livello dei mari era più alto di 25 metri; in conseguenza dell’aumento delle concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera, nel secolo scorso la temperatura media della terra è aumentata di 0,74 °C e, secondo l’Unione Europea, se si riuscirà a ridurre le emissioni del 20 per cento entro il 2020, obbiettivo pressoché impossibile da raggiungere, l’aumento della temperatura terrestre in questo secolo potrà essere contenuto entro i 2 °C, quasi il triplo del secolo scorso;

– negli oceani Atlantico e Pacifico galleggiano enormi ammassi di frammenti di plastica, con una densità di 3,34 x 10 6 frammenti al km², estesi come gli Stati Uniti;

– la fertilità dei suoli agricoli si è drasticamente ridotta e la biodiversità diminuisce di anno in anno.

Mi pare che questi dati documentino in modo inequivocabile che siamo molto vicini al punto di non ritorno. Nonostante tutto è ancora possibile invertire questa tendenza. Le tecnologie per ridurre gli sprechi di risorse ed energia ci sono. Occorre applicarle. Questo è il compito della politica, ma molto si può fare anche attraverso gli stili di vita individuali. Gandhi diceva: Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo.energia4

“I nostri consumi di fonti fossili si suddividono in tre grandi voci, ognuna delle quali ne assorbe circa un terzo: riscaldamento degli edifici, produzione di energia elettrica e autotrasporto”

Tu ti occupi specialmente di energia e sottolinei, nelle tue conferenze, come ci sia uno spreco energetico molto consistente, potresti fare qualche esempio?

I nostri consumi di fonti fossili si suddividono in tre grandi voci, ognuna delle quali ne assorbe circa un terzo: riscaldamento degli edifici, produzione di energia elettrica e autotrasporto.

Riscaldamento degli edifici. La media dei consumi italiani è di 20 litri di gasolio o 20 metri cubi di metano al metro quadrato all’anno. In Germania e, in Italia in Alto Adige, non è consentito superare un consumo di 7 litri / metri cubi al metro quadrato all’anno, ma gli edifici migliori si limitano a 1,5 litri / metri cubi. Come minimo in Italia, a causa della scarsa coibentazione degli edifici, si sprecano 2/3 dell’energia utilizzata per il riscaldamento. Se il raffronto si fa con gli edifici più efficienti, se ne sprecano più di 9 /10.

Produzione di energia termoelettrica. Il rendimento delle centrali tradizionali è di circa il 33 per cento. Ciò vuol dire che nel processo entrano 100 unità di energia chimica sotto forma olio combustibile ed escono 33 unità di energia elettrica, mentre 67 si disperdono, sotto forma di calore a bassa temperatura, nell’aria o nell’acqua di un fiume, a seconda del sistema di raffreddamento utilizzato. Nelle centrali a ciclo combinato il rendimento sale al 55 per cento. Se si utilizzassero impianti di cogenerazione, il calore a bassa temperatura che oggi viene disperso verrebbe riutilizzato per riscaldare degli edifici, per cui sommando il rendimento in energia elettrica e il rendimento in calore, il potenziale energetico del combustibile si utilizzerebbe al 95 per cento.

Autotrasporto. Le automobili trasformano prima in energia meccanica e poi cinetica non più del 15 per cento dell’energia chimica contenuta nel carburante. A questa inefficienza tecnologica occorre aggiungere l’inefficienza comportamentale perché in ogni automobile che può portare almeno 4 persone ne viaggia quasi sempre una sola.

Lo spreco totale di energia nel nostro paese è quindi superiore al 70 per cento.petrolio_barili3

“La prospettiva di durata del petrolio non la sa nessuno con ragionevole precisione e può variare sensibilmente se si riducono gli sprechi e si sviluppano le fonti rinnovabili”

Tu sei uno dei pochi che va in giro e parla di petrolio estraibile, nel senso del petrolio che per estrarne un barile si consuma meno di un barile. Come sta andando la curva dell’energia necessaria ad estrarre petrolio? Quali sono le prospettive di durata del petrolio?

Ho già risposto in parte più sopra. Comunque la prospettiva di durata del petrolio non la sa nessuno con ragionevole precisione e può variare sensibilmente se si riducono gli sprechi e si sviluppano le fonti rinnovabili. Quello che conta non è fare previsioni più o meno approssimate, ma sviluppare le tecnologie più efficienti e adottare comportamenti consapevoli.

Tu proponi un’azione di base, a partire da ognuno di noi per decrescere dallo spreco e dall’insensatezza e crescere nella qualità della vita e dei rapporti umani: dalla nascita del MDF a ora quali sono stati i risultati più significativi?

MDF ha cercato di dare una sistemazione organica dal punto di vista teorico e una struttura organizzativa a un movimento variegato, sparso su tutto il territorio nazionale, composto di gruppi autonomi impegnati in vari settori. Mi sembra che l’esperienza più significativa sia quella dei gruppi d’acquisto solidale, che si sono moltiplicati in questi anni. Per quanto riguarda MDF, il nostro movimento conta ormai una trentina di circoli regolarmente costituiti mentre altrettanti si stanno costituendo. La fascia d’età più rappresentata è quella tra i 25 e i 30 anni. Inoltre abbiamo gruppi di lavoro tematici nazionali: Decrescita e salute, Decrescita e agricoltura, Decrescita e insediamenti umani, Decrescita e tecnologie, ecc. L’obiettivo di questi gruppi è organizzare seminari nazionali d’approfondimento su questi temi per dare un contributo all’elaborazione di un paradigma culturale alternativo a quello sviluppato dalle società della crescita. Tutto questo mi fa dire che qualche risultato l’abbiamo ottenuto. Meno di quanto sarebbe necessario, ma comunque non insignificante.

Se qualcuno del MDF fosse al governo da qualche parte tu cosa gli suggeriresti di fare?

Suggerirei di impostare una politica economica e industriale finalizzata a ridurre gli sprechi di energia: si creerebbe un’occupazione utile e numerosa, il costo delle retribuzioni sarebbe pagato dai risparmi economici conseguenti ai risparmi energetici, si svilupperebbero innovazioni tecnologiche importanti, si ridurrebbero le emissioni di CO2 e l’effetto serra, si ridurrebbero le tensioni internazionali per il controllo delle fonti fossili.crisi_finanziaria4

“Se chi governa l’economia e la politica mondiale e delle singole nazioni continuerà a pensare che la crisi è solo economica e le misure tradizionali di politica economica finalizzate a superarla prima o poi ci riusciranno, andremo dritti verso il cro

L’economia umanista denuncia fortemente la speculazione finanziaria e dà valore alla produzione dei beni utili alla società e alla proprietà compartecipata delle aziende: tu cosa pensi di questi temi?

Sono completamente d’accordo, sia sulla necessità di contrastare la speculazione finanziaria con opportune misure, per esempio la Tobin Tax, sia sulla necessità di far ripartire la produzione incentivando la produzione di beni utili, sia sul coinvolgimento dei dipendenti in forme di condivisione della proprietà delle aziende in cui lavorano. È importante per gli esseri umani ed è importante per aumentare la redditività delle aziende.

Crisi come possibilità di cambiamento: come ti immagini il futuro?

Io penso che siamo alla fine dell’epoca storica iniziata 250 anni fa con la rivoluzione industriale. Lo penso perché nella crisi che stiamo vivendo confluiscono molte crisi: quella economica e occupazionale, quella ambientale, quella energetica, quella internazionale, quella morale, quella della politica. Quando un’epoca storica finisce ci sono due possibilità: o il crollo, come è accaduto con l’Impero romano, o una faticosa e anche drammatica evoluzione verso una fase storica più evoluta. Se chi governa l’economia e la politica mondiale e delle singole nazioni continuerà a pensare che la crisi è solo economica e le misure tradizionali di politica economica finalizzate a superarla prima o poi ci riusciranno, andremo dritti verso il crollo. Se invece si capirà che occorre costruire un’economia e una società diverse da quella attuale, in cui gli esseri umani non siano più il mezzo e la crescita economica il fine, ma gli esseri umani tornino a essere il fine e l’economia il mezzo di cui si servono per soddisfare le loro esigenze materiali, allora la crisi sarà stata il punto di svolta e l’inizio di un cammino verso una società più giusta e più umana.

La bibliografia tratta dal sito ufficiale

Articolo tratto da Pressenza

Maurizio Pallante al Teatro Rossi Aperto di Pisa

Nell’ambito degli eventi culturali e delle iniziative che animano il Teatro Rossi Aperto di Pisa, Maurizio Pallante – massimo esponente della decrescita in Italia – è stato invitato dal Gruppo pisano della Decrescita a tenere una presentazione sull’economia del dono, in vista della Festa del presente che avrà luogo a Pisa il prossimo 5 Maggio.

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In vista della festa del presente organizzata dal Gruppo della Decrescita di Pisa per il prossimo 5 Maggio, Maurizio Pallante, massimo esponente della decrescita in Italia, è stato invitato a tenere una presentazione sull’economia del dono al Teatro Rossi Aperto di Pisa lo scorso 14 Marzo. L’intervento si è posto in continuità con il workshop che ha visto protagoniste a Febbraio numerose personalità della cultura e dell’arte interessate al recupero del Teatro Rossi. Nella platea affollata, ancorché fredda, Pallante ha trattato la rilevanza del dono badando a tracciare una serie di distinzioni che da sempre caratterizzano la sua opera. Anzitutto occorre non confondere fra loro la recessione – fase di stallo generalizzata, quella che viviamo attualmente -, e decrescita. Se la prima è caratterizzata da una riduzione generalizzata ed indiscriminata della produzione delle merci, causando livelli esponenziali di disoccupazione, la seconda è invece una diminuzione guidata e mirata della produzione ed è foriera di occupazione qualificata. Alla base di questo ragionamento Pallante colloca la distinzione, già marxiana, fra bene e merce, in base alla quale le merci sono oggetti di scambio e di vendita, mentre i beni soddisfano bisogni essenziali che non sono sempre, né necessariamente riducibili alla mercificazione. Anche se beni come il gas o il carbone possono essere trasformati in merci, un uso non oculato di questi ultimi è all’origine degli sprechi e del danno ambientale. Inoltre esistono beni che non sono mai trasformabili in merci (come i valori, i principi, gli affetti). Di conseguenza beni e merci non si equivalgono, mentre è fondamentale identificare le funzioni e le finalità che li caratterizzano per capire se la loro produzione soddisfi o meno bisogni reali ed essenziali. In tale contesto si colloca il senso stesso della decrescita: chiedersi, come spesso si usa fare, se il prefisso “de” abbia o meno una valenza negativa è fuorviante, poiché in questione è piuttosto la nozione di “crescita” che si vuole difendere. Si tratta di interrogarsi se il progresso da instaurare sia all’insegna della produzione incontrollata ed indiscriminata di merci, o piuttosto di un aumento selezionato e qualificato di quelle merci che non si mutano in sprechi. Per Pallante la decrescita è espressione della possibilità di costruire un’alternativa sociale ed economica, imperniata sul rilancio della domanda mediante il debito al fine di creare occupazione qualificata. Da dove prendere il denaro? “Il denaro – dice Pallante si può recuperare solo riducendo gli sprechi, che non sono quelli della pubblica amministrazione (perché in questo caso si va a colpire delle persone e quindi si influisce sul salario), bensì quelli che arrechiamo in natura. Bisogna ridurre gli sprechi delle risorse naturali per ridare lavoro, modificando gli stili di vita dei paesi occidentali e recuperando i talenti perduti nel corso delle ultime tre generazioni”. A questo proposito, rifacendosi al filosofo Richard Sennett, Pallante ha ricordato il significato del lavoro manuale come dimensione formativa, che coinvolge tutte le facoltà, affinando particolarmente quelle tattili, che veicolano informazioni più precise di quelle trasmesse dalla vista. In una società basata sulla capacità di collaborare e resa indipendente dal Pil si apre, allora, la possibilità di ricorrere al baratto e al dono come forme alternative allo scambio economico. I doveri sarebbero quelli della gratuità, che comporta l’obbligo di ricevere e di restituire più di quello che si è ottenuto. In questo caso il dono più importante è quello del tempo e la comunità potrebbe diventare la realizzazione più compiuta della collaborazione fondata sul munus, ovvero sul dono. Le idee di Pallante e gli esempi da lui proposti, per lo più concentrati su dimensioni locali (come gli sprechi nei consumi delle abitazioni, l’orto, le attività manuali), fanno capire che in gioco è soprattutto l’affermazione di un diverso paradigma culturale. Si è spesso ripetuto che, al fine di cambiare un modello, occorre proporne un altro altrettanto persuasivo ed indubbiamente il discorso di Pallante fa riflettere su quelli che sono gli scopi dell’economia politica e sulla direzione da intraprendere. Detto altrimenti, il problema che si presenta in una fase di recessione come quella in corso in Italia non si può affrontare prescindendo dalle domande relative a quale crescita ed a quale lavoro siano necessari. Al tempo stesso, se è vero che ogni modello culturale si regge su dei principi e su dei valori, il paradigma del dono prospettato da Pallante si presta anche ad un ulteriore dibattito, come quello sollevato da Tommaso Luzzati nel corso della presentazione pisana. Siamo sicuri che il dono resista alla logica del do ut des e che l’essere vincolato all’obbligo di dare e restituire non produca una regressione a modalità di collaborazione esclusivamente parentali, basate sulla conoscenza reciproca come avviene per la raccomandazione e la corruzione? Gli esempi di autoproduzione e di autosufficienza proposti da Pallante si reggono, ad esempio, sul modello della famiglia, che spesso rappresenta il solo baluardo per chi vive in situazioni di difficoltà. Ma non soltanto la gratuità offerta dalla famiglia non è esente da condizionamenti, che sono meno evidenti di quelli materiali (spesso di natura psicologica), più importante ancora è chiedersi se il dono possa essere immune dall’obbligo. La festa del presente, organizzata dal Gruppo della Decrescita per la prima volta a Pisa (Piazza Santa Caterina) il prossimo 5 Maggio, potrebbe allora essere l’occasione per ripensare questa modalità di interazione liberandola dagli stereotipi con l’esercizio dal vivo.

Fonte: il cambiamento

Debiti Pubblici, Crisi Economica e Decrescita Felice
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