È come e cosa decidiamo di mangiare che può salvare o condannare il pianeta

Ogni nostra azione ha effetto sul Pianeta: da come scegliamo di spostarci, a cosa utilizziamo per riscaldare e rinfrescare le nostre case, a cosa mangiamo. E proprio riguardo al cibo molte persone stanno scegliendo regimi alimentari differenti per cercare di ridurre le emissioni di gas serra o il consumo di suolo.carne

Per le persone che stanno facendo scelte sostenibili, per chi non crede sia necessario e per tutti quelli attenti alle problematiche ambientali e alla sostenibilità, la ricerca pubblicata su Science riguardo a come diminuire l’impatto del cibo tra produttori e consumatori sarà una lettura interessante e non priva di sorprese. I ricercatori della Oxford University e Agroscope, l’istituto di ricerca svizzero sull’agricoltura, hanno infatti creato il database esistente più completo sull’impatto ambientale di quasi 40.000 aziende agricole, 1.600 impianti di lavorazione, tipi di imballaggi, rivenditori. Questo ha consentito loro di stimare quali tecniche produttive e quali aree geografiche abbiano maggiore o minore impatto per 40 tra i principali alimenti.

Ci sono grandi differenze all’interno della filiera di uno stesso alimento: i produttori a più alto impatto di carne bovina arrivano a emettere 105 chilogrammi equivalenti di anidride carbonica e a utilizzare 370 metri quadrati di terreno per 100 grammi di proteine, ovvero 12 e 50 volte in più rispetto ai produttori a basso impatto. A loro volta, questi ultimi creano 6 volte più emissioni e usano 36 volte più terra di chi coltiva piselli. Eppure l’acquacoltura, ovvero l’allevamento industriale in acqua dolce o salata di pesci, molluschi e crostacei, può emettere più metano – ancora più impattante rispetto all’anidride carbonica come gas serra – per chili di peso vivo rispetto a un allevamento bovino.
Una pinta di birra potrebbe creare tre volte più emissioni e usare 4 volte più terreno rispetto a un’altra: questa variazione è stata delineata attraverso cinque indicatori dagli scienziati, tra i quali sono presenti l’utilizzo d’acqua, l’acidificazione e l’eutrofizzazione.
«Due prodotti che sembrano identici nei negozi possono avere due impatti completamente diversi sul Pianeta. Al momento non lo sappiamo quando decidiamo cosa mangiare. In più, questa variabilità non è del tutto riconosciuta nelle strategie e nelle politiche che cercano di ridurre l’impatto delle aziende agricole» sostiene Joseph Poore del Dipartimento di Zoologia e della Scuola di Geografia e Ambiente. Quello che invece, forse, è più semplice da immaginare è che il grosso dell’impatto viene creato da un piccolo numero di produttori. Appena il 15% della carne bovina che troviamo sul mercato crea 1.3 miliardi di tonnellate equivalenti di anidride carbonica e utilizza circa 950 milioni di ettari di terreno. Se invece prendiamo in considerazione tutti i prodotti, il 25% delle aziende contribuisce alla produzione del 53% in media sul quantitativo del singolo alimento. Questo disallineamento mostra il potenziale nell’aumento di produzione e nella riduzione dell’impatto sull’ambiente.

«La produzione di cibo genera un immenso carico per l’ambiente, ma questo non è una conseguenza necessaria dei nostri bisogni. Quest’onere potrebbe essere ridotto in maniera significativa modificando il modo in cui produciamo e consumiamo», spiega Poore. I ricercatori hanno mostrato come l’utilizzo di nuove tecnologie per raccogliere dati e quantificare il proprio impatto ambientale potrebbe fornire consigli su come ridurlo e aumentare la produttività.
C’è però un problema: esistono limiti oltre i quali i produttori non possono andare. In particolare, i ricercatori hanno scoperto che i prodotti di origine animale avranno sempre un impatto superiore a quelli vegetali, anche con l’aiuto della tecnologia. Per esempio, un litro di latte vaccino, anche se a basso impatto, usa quasi il doppio del terreno e genera emissioni di gas serra pari a due volte quelle di un litro di latte di soia nella media.
Il cambiamento più grande per l’ambiente, quindi, lo può fare la nostra dieta, ancor più che acquistare carne o latticini sostenibili. In particolare, un regime alimentare a base di vegetali diminuirebbe le emissioni legate al cibo fino al 73%, a seconda del luogo in cui si vive. Una scelta di questo tipo, in maniera abbastanza sorprendente, ridurrebbe a livello globale il quantitativo di terreni impiegati per l’agricoltura di circa 3.1 miliardi di ettari, ovvero il 76%. Questo permetterebbe anche di togliere parte della pressione sulle foreste tropicali e di ripristinare allo stato naturale alcuni territori. Ma esistono anche soluzioni meno drastiche: per esempio, si potrebbe dimezzare il consumo di prodotti animali evitando proprio i produttori a maggiore impatto, raggiungendo così lo stesso 73% nella riduzione di emissioni di gas serra che si avrebbe se eliminassimo del tutto carne e latticini. In più, se diminuissimo del 20% il consumo di alcuni alimenti non necessari come oli, alcol, zucchero e stimolanti evitando, anche in questo caso, le filiere meno virtuose, le emissioni scenderebbero del 43%. Potrebbe non essere necessario, quindi, stravolgere completamente le nostre abitudini in materia di cibo: anche piccoli cambiamenti possono avere effetti importanti sull’ambiente. Occorrerebbe, però, un’adeguata comunicazione ai consumatori sul produttore (non solo sul prodotto), magari attraverso etichette ambientali, oltre che tasse e sussidi. «Dobbiamo trovare le modalità per cambiare un po’ le condizioni fino a rendere il fatto di agire in favore dell’ambiente la cosa migliore per produttori e consumatori», sottolinea Joseph Poore. L’idea sarebbe quella di indirizzare verso il consumo sostenibile e consapevole grazie a incentivi economici e a un’etichettatura chiara, per creare una spirale positiva in cui gli agricoltori stessi hanno bisogno di monitorare il proprio impatto, prendendo decisioni migliori su tecniche e processi e comunicando tutto ciò ai rivenditori, incoraggiandoli a rifornirsi da chi segue questo tipo di approccio.

Giulia Negri

Comunicatrice della scienza, grande appassionata di animali e mangiatrice di libri. Nata sotto il segno dell’atomo, dopo gli studi in fisica ha frequentato il Master in Comunicazione della Scienza “Franco Prattico” della SISSA di Trieste. Ama le videointerviste e cura il blog di recensioni di libri e divulgazione scientifica “La rana che russa” dal 2014. Ha lavorato al CERN, in editoria scolastica e nell’organizzazione di eventi scientifici; gioca con la creatività per raccontare la scienza e renderla un piatto per tutti. Collabora con Micron, la rivista di Arpa Umbria.

Fonte: ilcambiamento.it

Greenpeace: il pesce che mangiamo contiene plastica

I risultati dei test effettuati dall’associazione ambientalista parlano chiaro: quasi un terzo del pesce contiene microplastiche.http _media.ecoblog.it_8_826_greenpeace-pesce-plastica

Sono molto preoccupanti i risultati della ricerca condotta da Università Politecnica delle Marche, Greenpeace e Istituto di Scienze Marine del CNR di Genova che conferma la presenza di particelle di microplastica anche in pesci e invertebrati pescati nel Mar Tirreno. I campionamenti, centinaia, sono stati effettuati l’estate scorsa dai volontari di Greenpeace a bordo della nave Rainbow Warrior. Tra il 25% e il 30% del pesce analizzato, proveniente da diversi siti di campionamento nel Tirreno, contiene almeno una particella di plastica di dimensioni inferiori a 5 millimetri. Sono interessate diverse specie di pesci con differenti abitudini alimentari, dalle specie planctoniche, agli invertebrati, fino ai pesci predatori. Percentuali simili si riscontrano anche nel pesce dell’Adriatico.

I risultati ottenuti confermano ancora una volta che l’ingestione di microplastiche da parte degli organismi marini è un fenomeno diffuso e sottolineano la rilevanza ambientale del problema dei rifiuti plastici in mare – commenta la docente di Biologia Applicata alla Università Politecnica delle Marche Stefania Gorbi È urgente quindi che la ricerca scientifica acquisisca nuove conoscenze e contribuisca a sensibilizzare la coscienza di tutti su questa tematica emergente.

La maggior parte delle plastiche ritrovate nel pesce è polietilene (PE), cioè il polimero con cui si produce il packaging e dei prodotti usa e getta.

Ciò che ci preoccupa maggiormente è la rapida evoluzione di questo problema e la graduale trasformazione delle microplastiche in nanoplastiche – precisa Serena Maso, Campagna Mare di Greenpeace – particelle ancora più piccole che se ingerite dai pesci possono trasferirsi nei tessuti ed essere quindi ingerite anche dall’uomo“.

Secondo le stime più accurate, ogni anno finiscono in mare circa 8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici di vario tipo con una netta prevalenza di imballaggi monouso usa e getta: bottiglie d’acqua e bibite ma anche fustini di detersivi liquidi.

Foto: Unsplash

Fonte: ecoblog.it

Aria, terra, acqua: piano piano ci “mangiamo” il paese

Diffusi i dati del tredicesimo Rapporto sulla qualità dell’ambiente urbano in Italia. Ne esce la fotografia di un paese super-antropizzato, che si sposta e produce con modalità inquinanti e che non crede affatto nel verde pubblico e nel risparmio di suolo.9717-10491

Pm10 ancora oltre la norma in molte città italiane: al 10 dicembre 2017, il valore limite giornaliero è stato oltrepassato in 34 aree urbane, gran parte di queste localizzate nel bacino padano. Torino è la città con il numero maggiore di superamenti giornalieri (103). Situazione ancora più critica per l’ozono: nella stagione estiva, sempre 2017, ben 84 aree urbane vanno oltre l’obiettivo a lungo termine. Nel 2016 il limite annuale per l’NO2 (biossido di azoto) è stato superato in 21 aree urbane, mentre va meglio per il PM 2,5 (25 μg/m³): solo 7 città superano il limite annuale. Questi i dati relativi all’aria, aggiornati al 10 dicembre 2017 e contenuti nella XIII edizione del Rapporto sulla Qualità dell’Ambiente Urbano, presentato nei giorni scorsi a Roma. Il report, che porta la firma del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA), raccoglie i dati relativi a 119 aree urbane attraverso dieci aree tematiche: Fattori Sociali ed Economici, Suolo e territorio, Infrastrutture verdi, Acque, Qualità dell’aria, Rifiuti, Attività Industriali, Trasporti e mobilità, Esposizione all’Inquinamento Elettromagnetico ed acustico, Azioni e strumenti per la sostenibilità locale, descrive la qualità delle vita e dell’ambiente nelle città italiane. Ne esce la fotografia di un paese “sdraiato” su una mobilità inquinante e con una situazione idrogeologica compromessa, con poco verde pubblico, molti impianti chimici e consumo di suolo che avanza.

Incidenti

Nel 2016, più incidenti, ma meno vittime sulle strade: rispetto al 2015, nei 119 comuni, nonostante l’aumento degli
incidenti (+0,5%) e dei feriti +(0,3%), il numero dei morti scende del 9,7%, a fronte di una diminuzione nazionale che
supera il 4%. Il numero più alto di incidenti ogni 1.000 autovetture circolanti si rileva a Genova (oltre 15 incidenti ogni 1.000 autovetture circolanti), seguita da Firenze (13,4) e Bergamo (13). In linea generale e nel lungo periodo (2007-2016), calano gli incidenti stradali nei 119 comuni passando da 112.648 a 81.967 (-27,2%).

Frane

Su 119 comuni analizzati dal rapporto, 85 risultano caratterizzati da frane, mentre 34 ricadono prevalentemente in aree
di pianura. Complessivamente sono state censite 23.729 frane con una densità media sul territorio dei 119 comuni di
1,12 frane per km2 (sia frane attive che non) . Alcuni comuni ne hanno più di 9 per km2 (Lecco, La Spezia, Lucca, Cosenza e Sondrio), mentre 14 presentano una densità compresa tra 3 e 9 frane (Pistoia, Torino, Vibo Valentia, Livorno, Ancona, Genova, Bologna, Bolzano, Fermo, Perugia, Catanzaro, Pesaro, Campobasso e Massa).
Dal 1999 al 2016, nei comuni in esame sono in atto 384 interventi urgenti per la difesa del suolo già finanziati, per un
ammontare complessivo delle risorse stanziate di circa 1 miliardo e 476 milioni di euro.

Consumo di suolo

Le più alte percentuali di suolo consumato rispetto alla superficie territoriale si raggiungono, al 2016, a Torino 65,7%,  Napoli 62,5%, Milano 57,3% e Pescara 51,1%. Tra il 2012 e il 2016 e’ la città di Roma, con oltre 13 milioni di euro  all’anno a sostenere i costi massimi più alti in termini di perdita di servizi ecosistemici, seguita da Milano con oltre 4 milioni di euro all’anno.

Coste e acque balneabili

Il 90,4% delle acque di balneazione è classificato come eccellente e solo 1,8% come scarso. Su 82 Province, 50 detengono solo acque eccellenti, buone o sufficienti e, in particolare, 26 hanno tutte acque eccellenti. La presenza della microalga potenzialmente tossica, Ostreopsis ovata, durante la stagione 2016, è stata riscontrata almeno una volta in 32 Province  campione su 41, anche con episodi di fioriture, mentre il valore limite di abbondanza delle 10.000 cell/l è stato superato  almeno una volta in 17 Province. In un caso è stato emesso il divieto di balneazione (Ancona) come misura di gestione a tutela della salute del bagnante.

Verde pubblico

Le percentuali di verde pubblico sulla superficie comunale restano piuttosto scarse, con valori inferiori al 5% in 96 delle 119 città analizzate, compresi i 3 nuovi comuni inclusi per la prima volta nel campione di quest’anno, nei quali il  verde pubblico non incide più del 2% sul territorio. Solo in 11 aree urbane, prevalentemente  del Nord, la percentuale di verde pubblico raggiunge valori superiori al 10%; i più alti si riscontrano nei comuni dell’arco alpino, in particolare a Sondrio (33%) e a Trento (29,7%). La scarsa presenza di verde si riflette ovviamente sulla disponibilità pro capite, compresa fra i 10 e i 30 m2/ab nella metà dei comuni (compresa Guidonia Montecelio). A Giugli ano in Campania,  invece, si registra il valore minimo (2,2 m2/ab). In linea generale, le aree urbane “più verdi” sono quelle con una significativa presenza di aree protette: Messina, Venezia, Cagliari e L’Aquila.

Terreni agricoli

Diminuiscono le aree agricole, altro importante tassello dell’infrastruttura verde comunale: il trend della superficie agricola utilizzata negli ultimi 30 anni è negativo in ben 100 dei 119 comuni indagati, con valori percentuali compresi tra il -1,4% di Viterbo e il -83,7% di Cagliari.

Autorizzazioni Integrate Ambientali

Le installazioni AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) statali e regionali presenti nei 119 comuni, ammontano a 938 (comprese quelle non operative ma con autorizzazione vigente) e sono situate in particolare nelle città di Forlì, Cesena, Ravenna, Modena, Prato, Brescia, Venezia, Verona e Torino. In particolare, sono 46 le installazioni AIA statali concentrate soprattutto a Venezia (7), Ravenna (7 di cui 6 operative), Brindisi (5), Taranto (4), Ferrara e Mantova (3). In particolare, la presenza maggiore di centrali termiche si rileva a Venezia (4), di impianti chimici a Ravenna (4 di cui 3 operativi). L’unica acciaieria integrata sul territorio nazionale è nel comune di Taranto. Le installazioni AIA regionali sono invece 892 e vedono la città di Forlì con il maggior numero di impianti (pari a 58 di cui 44 operativi) seguita da Ravenna (50 di cui 46 operativi), Prato (47) e Cesena (45 di cui 36 operativi).

Le auto

Ancora alto il numero delle auto euro 0: anche se in calo rispetto al 2015 di quasi 640 mila vetture, il numero delle
auto da euro 0 ad euro 2 rimane ancora troppo alto, quasi 10 milioni, sugli oltre 37 totali. Nel 2016, è Napoli a presentare la quota più alta (28,3%) di auto intestate a privati appartenenti alla classe euro 0, contro una media nazionale del 10,1%. Varia poco invece, la composizione del parco per tipo di alimentazione rispetto all’anno precedente: Trieste, Como e Varese a continuano a detenere la quota più alta di auto alimentate a benzina, intorno al 70%, contro circa il 26-28% di autovetture a gasolio, mentre ad Isernia, Andria e Sanluri, circolano essenzialmente vetture a gasolio ( dal 50 al 54% circa). Dal 2012 al 2016 il parco auto alimentato a GPL a livello nazionale segna un + 18,8%, con Parma e Lanusei che raggiungono le variazioni positive più alte, superiori al 40%, contro Villacidro e Sanluri che riportano, invece, contrazioni rispettivamente del 16 e 15%. Alle Marche, in particolare a Macerata, Fermo e Ancona, soprattutto grazie alla presenza di numerosi distributori in una limitata estensione territoriale, spetta il primato delle auto a metano circolanti (dal 13 al 18% circa).

Morti per mancata attività fisica

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, un’insufficiente attività fisica è associata in Europa a circa 1 milione di morti l’anno. Spostarsi regolarmente a piedi e in bicicletta per 150 minuti a settimana con attività fisica di intensità
moderata, riduce per gli adulti tutte le cause di mortalità di circa il 10%. Da questo presupposto è nato il focus del
rapporto “Città a piedi”, quest’anno dedicato, appunto, alla mobilità pedonale. Diversi i temi trattati tra cui il legame
tra mobilità attiva e lavoro agile: i risultati dell’esperienza “Giornata del lavoro agile”, istituita dal Comune di Milano, mostrano nel 2016 un risparmio nei tempi di spostamento di 106 minuti a persona.

Fonte: ilcambiamento.it

Orto bioattivo: oltre il biologico. Il cambiamento che passa dal cibo che mangiamo

L’agricoltura bioattiva non è una semplice alternativa all’agricoltura tradizionale ma un vero e proprio impulso alla consapevolezza a 360 gradi sul nostro cibo: dalla sua produzione alle sue qualità organolettiche e nutrizionali.9541-10298

Si tratta di una visione che parte dalla centralità del rispetto alla terra, ai suoi tempi e cicli naturali, garantendo nel tempo la sua rigenerazione. I sistemi di lavorazione intensivi, infatti, impoveriscono gradualmente il suolo che deve essere continuamente arricchito con sostanze chimiche di sintesi per essere in grado di produrre in continuazione ed assicurare profitto. L’agricoltura bioattiva si propone come un nuovo metodo agronomico fondato su basi scientifiche e misurabili che trae il fondamento da leggi microbiologiche e naturali. L’approccio è una combinazione delle scienze e delle tecniche moderne (microbiologia rigenerativa e nutraceutica dei cibi) ma è fondato sul rispetto delle leggi naturali dalle quali dipendono tutti gli esseri viventi del pianeta. Il metodo può essere applicato a strutture di orti rialzati, orti urbani, piccoli orti come in campo aperto.

Ne parliamo con Andrea Battiata, ideatore del metodo, agronomo e Consigliere della Società Toscana Orticultura.

Può presentarsi?

Sono un Osservatore della Natura e neovegetariano flessibile. Riassumendo molto brevemente, da agronomo, ho avuto esperienza nell’allevamento di vacche da latte in Maremma per poi dedicarmi al vivaismo e alle piante ornamentali. Da quando sono diventato principalmente vegetariano ho studiato un metodo per produrmi cibo veramente nutriente per non dipendere da quello che trovavo in commercio che non mi soddisfaceva.

Che cos’è un orto bioattivo?

L’ortobiottivo è un esempio di come sia possibile produrre cibo ad alto contenuto nutrizionale (nutraceutico – bioattivo) prendendosi cura della fertilità naturale del terreno. Racchiude i meccanismi microbiologici osservati nel biotopo più fertile in natura: la foresta pluviale.

Come funziona esattamente?

Non è necessario lavorare la terra, non ci sono arature né zappature. Il suolo è naturalmente ricco ma in seguito alle lavorazioni viene alterato. Rigirando il terreno si interrompe, infatti, l’azione combinata degli essudati radicali, dei residui organici e dei batteri generando uno squilibrio. L’agricoltura tradizionale interviene utilizzando sostanze chimiche e fertilizzanti di sintesi. L’effetto però è temporaneo, il suolo si impoverisce dando la possibilità dello sviluppo di patologie. L’agricoltura tradizionale inquina, inoltre, le falde acquifere. Il suolo non viene mai compattato per far sì che ci sia la giusta areazione e non si usano concimi. Cerchiamo di ricreare ciò che accade normalmente in natura: una piantagione densa di piante a differenti stadi di crescita con diverse caratteristiche. Le radici non vengono estirpate e le erbe spontanee fanno parte di questo sistema. Si copre il terreno con una pacciamatura attiva: rami di bosco frammentati. Si tratta del sistema che in Francia si chiama BRF (Bois e Rameaux Fregmentés) che permette di risparmiare acqua. Le ramaglie sminuzzate arricchiscono il suolo e trattengono l’acqua consentendone un notevole risparmio. Il terreno normalmente migliora in breve tempo. C’è inoltre l’associazione delle piante in modo mirato. Le associazioni benefiche aiutano a controllare i parassiti.

Quali sono i vantaggi?

Avere la possibilità di far crescere il nostro cibo con il massimo di vitamine, sali minerali, enzimi, antiossidanti in modo da riappropriarci della nostra salute, recuperare il rapporto con la natura acquisendo consapevolezza delle stagioni e dei cicli naturali, fare più esercizio fisico e aiutare il nostro pianeta. Si diventa custodi della Terra: si contribuisce alla conservazione della biodiversità, si recuperano tecniche tradizionali ormai sostituite da tecniche industriali.

Chi ha avuto l’idea, quanti siete e come siete partiti?

Più che di un’unica idea parlerei di un’ “esigenza” condivisa. Siamo in molti a sentire la necessità di alimentarci in modo sano ma spesso non sappiamo come farlo né come trovare un cibo prodotto da qualcuno di cui ci si possa fidare. A dire il vero chi è stato a darmi lo stimolo o, possiamo dire a provocarmi, è stata mia moglie! Ero insoddisfatto del cibo che trovavo e mi ha provocato dicendomi di coltivarmi da solo il cibo che volevo. Così, con l’aiuto di colleghi agronomi, agricoltori, università e appassionati, ho messo insieme i pezzi di un puzzle già esistente dandogli organicità e concretezza.

Qual è il vostro progetto?

Mettere in atto azioni tangibili per riprendere il controllo di quello che mangiamo. Proporre un metodo che superi il concetto di biologico e che sia in grado di garantire la qualità del cibo prodotto e non soltanto la certificazione della filiera. I progetti aperti in questa visione sono molti, con università (ricerca scientifica e sostenibilità), con le scuole primarie e secondarie, con l’Orto botanico di Firenze, con aziende agricole del territorio, etc…

Quali sono le differenze con un orto sinergico e con quello biodinamico? Puoi farci qualche esempio pratico anche relativamente al suolo, alla semina, alla pacciamatura e altre pratiche?

Abbiamo preso dalle esperienze del passato inclusa quella della Hazelip e di Steiner. Abbiamo semplicemente attualizzato i loro principi e integrato con quello che abbiamo imparato recentemente dall’osservazione della natura aiutati dalle ricerche scientifiche di laboratorio.

Qual è il vostro obiettivo?

Elenco di seguito gli obiettivi che è possibile raggiungere con l’ortobioattivo

ª  realizzazione di un terreno ad alta fertilità naturale

ª  produzione ortaggi di alta qualità (bioattivi – nutraceutici) e biologici

ª  rendere il sistema di facile gestione

ª  non usare alcun mezzo meccanico: il terreno non viene mai zappato, rivoltato, compattato

ª  risparmio idrico con la copertura permanente del terreno

ª  assenza di inquinamento delle falde acquifere

ª  ottenere insalate con bassi contenuti di nitriti

ª  utilizzo materie prime locali (sabbie vulcaniche locali vs torba di importazione)

ª  attivare meccanismi di fertilità autorigenerante

Rispetto a un orto tradizionale com’è la produzione?

Qualitativamente gli ortaggi sono ricchi in sostanze nutraceutiche – bioattive. Quantitativamente la resa è dalle 5 alle 10 volte superiore.

Tutti possono fare un orto bioattivo?

Certamente! Una volta avviato è semplicissimo da gestire. Basta garantire che una volta raccolto (senza estirpare le radici) si ripiantino subito altri ortaggi e che venga mantenuta la pacciamatura.

E’ immaginabile un’agricoltura bioattiva su larga scala e quindi non solo per l’orto di casa?

Certamente. E’ la sfida in corso quest’anno. Abbiamo già esteso il metodo ad un appezzamento di terreno in grado di soddisfare il fabbisogno di molte famiglie per tutto l’anno.

Quanto è grande il vostro orto?

Ne esistono molti e il metodo di Ortobioattivo può essere applicato anche su sodo e non necessariamente solo su letti rialzati. Comunque, il più grande realizzato su letti rialzati ha una superficie di circa 500mq ed è in espansione!

Quanti orti bioattivi esistono in Italia o all’estero, se ce ne sono?

In italia sono circa 30. All’estero ci sono progetti per le isole canarie ma ancora è troppo presto per svelare i prossimi passi!

Chi volesse saperne di più:

www.ortobioattivo.com    ortobioattivo@gmail.com   https://www.facebook.com/ortobioattivo/

Fonte: ilcambiamento.it

Orto bioattivo: oltre il biologico. Il cambiamento che passa dal cibo che mangiamo

L’agricoltura bioattiva non è una semplice alternativa all’agricoltura tradizionale ma un vero e proprio impulso alla consapevolezza a 360 gradi sul nostro cibo: dalla sua produzione alle sue qualità organolettiche e nutrizionali.orti

Si tratta di una visione che parte dalla centralità del rispetto alla terra, ai suoi tempi e cicli naturali, garantendo nel tempo la sua rigenerazione. I sistemi di lavorazione intensivi, infatti, impoveriscono gradualmente il suolo che deve essere continuamente arricchito con sostanze chimiche di sintesi per essere in grado di produrre in continuazione ed assicurare profitto. L’agricoltura bioattiva si propone come un nuovo metodo agronomico fondato su basi scientifiche e misurabili che trae il fondamento da leggi microbiologiche e naturali. L’approccio è una combinazione delle scienze e delle tecniche moderne (microbiologia rigenerativa e nutraceutica dei cibi) ma è fondato sul rispetto delle leggi naturali dalle quali dipendono tutti gli esseri viventi del pianeta. Il metodo può essere applicato a strutture di orti rialzati, orti urbani, piccoli orti come in campo aperto.

Ne parliamo con Andrea Battiata, ideatore del metodo, agronomo e Consigliere della Società Toscana Orticultura.

Può presentarsi?

Sono un Osservatore della Natura e neovegetariano flessibile. Riassumendo molto brevemente, da agronomo, ho avuto esperienza nell’allevamento di vacche da latte in Maremma per poi dedicarmi al vivaismo e alle piante ornamentali. Da quando sono diventato principalmente vegetariano ho studiato un metodo per produrmi cibo veramente nutriente per non dipendere da quello che trovavo in commercio che non mi soddisfaceva.

Che cos’è un orto bioattivo?

L’ortobiottivo è un esempio di come sia possibile produrre cibo ad alto contenuto nutrizionale (nutraceutico – bioattivo) prendendosi cura della fertilità naturale del terreno. Racchiude i meccanismi microbiologici osservati nel biotopo più fertile in natura: la foresta pluviale.

Come funziona esattamente?

Non è necessario lavorare la terra, non ci sono arature né zappature. Il suolo è naturalmente ricco ma in seguito alle lavorazioni viene alterato. Rigirando il terreno si interrompe, infatti, l’azione combinata degli essudati radicali, dei residui organici e dei batteri generando uno squilibrio. L’agricoltura tradizionale interviene utilizzando sostanze chimiche e fertilizzanti di sintesi. L’effetto però è temporaneo, il suolo si impoverisce dando la possibilità dello sviluppo di patologie. L’agricoltura tradizionale inquina, inoltre, le falde acquifere. Il suolo non viene mai compattato per far sì che ci sia la giusta areazione e non si usano concimi. Cerchiamo di ricreare ciò che accade normalmente in natura: una piantagione densa di piante a differenti stadi di crescita con diverse caratteristiche. Le radici non vengono estirpate e le erbe spontanee fanno parte di questo sistema. Si copre il terreno con una pacciamatura attiva: rami di bosco frammentati. Si tratta del sistema che in Francia si chiama BRF (Bois e Rameaux Fregmentés) che permette di risparmiare acqua. Le ramaglie sminuzzate arricchiscono il suolo e trattengono l’acqua consentendone un notevole risparmio. Il terreno normalmente migliora in breve tempo. C’è inoltre l’associazione delle piante in modo mirato. Le associazioni benefiche aiutano a controllare i parassiti.

Quali sono i vantaggi?

Avere la possibilità di far crescere il nostro cibo con il massimo di vitamine, sali minerali, enzimi, antiossidanti in modo da riappropriarci della nostra salute, recuperare il rapporto con la natura acquisendo consapevolezza delle stagioni e dei cicli naturali, fare più esercizio fisico e aiutare il nostro pianeta. Si diventa custodi della Terra: si contribuisce alla conservazione della biodiversità, si recuperano tecniche tradizionali ormai sostituite da tecniche industriali.

Chi ha avuto l’idea, quanti siete e come siete partiti?

Più che di un’unica idea parlerei di un’ “esigenza” condivisa. Siamo in molti a sentire la necessità di alimentarci in modo sano ma spesso non sappiamo come farlo né come trovare un cibo prodotto da qualcuno di cui ci si possa fidare. A dire il vero chi è stato a darmi lo stimolo o, possiamo dire a provocarmi, è stata mia moglie! Ero insoddisfatto del cibo che trovavo e mi ha provocato dicendomi di coltivarmi da solo il cibo che volevo. Così, con l’aiuto di colleghi agronomi, agricoltori, università e appassionati, ho messo insieme i pezzi di un puzzle già esistente dandogli organicità e concretezza.

Qual è il vostro progetto?

Mettere in atto azioni tangibili per riprendere il controllo di quello che mangiamo. Proporre un metodo che superi il concetto di biologico e che sia in grado di garantire la qualità del cibo prodotto e non soltanto la certificazione della filiera. I progetti aperti in questa visione sono molti, con università (ricerca scientifica e sostenibilità), con le scuole primarie e secondarie, con l’Orto botanico di Firenze, con aziende agricole del territorio, etc…

Quali sono le differenze con un orto sinergico e con quello biodinamico? Puoi farci qualche esempio pratico anche relativamente al suolo, alla semina, alla pacciamatura e altre pratiche?

Abbiamo preso dalle esperienze del passato inclusa quella della Hazelip e di Steiner. Abbiamo semplicemente attualizzato i loro principi e integrato con quello che abbiamo imparato recentemente dall’osservazione della natura aiutati dalle ricerche scientifiche di laboratorio.

Qual è il vostro obiettivo?

Elenco di seguito gli obiettivi che è possibile raggiungere con l’ortobioattivo

ª  realizzazione di un terreno ad alta fertilità naturale

ª  produzione ortaggi di alta qualità (bioattivi – nutraceutici) e biologici

ª  rendere il sistema di facile gestione

ª  non usare alcun mezzo meccanico: il terreno non viene mai zappato, rivoltato, compattato

ª  risparmio idrico con la copertura permanente del terreno

ª  assenza di inquinamento delle falde acquifere

ª  ottenere insalate con bassi contenuti di nitriti

ª  utilizzo materie prime locali (sabbie vulcaniche locali vs torba di importazione)

ª  attivare meccanismi di fertilità autorigenerante

Rispetto a un orto tradizionale com’è la produzione?

Qualitativamente gli ortaggi sono ricchi in sostanze nutraceutiche – bioattive. Quantitativamente la resa è dalle 5 alle 10 volte superiore.

Tutti possono fare un orto bioattivo?

Certamente! Una volta avviato è semplicissimo da gestire. Basta garantire che una volta raccolto (senza estirpare le radici) si ripiantino subito altri ortaggi e che venga mantenuta la pacciamatura.

E’ immaginabile un’agricoltura bioattiva su larga scala e quindi non solo per l’orto di casa?

Certamente. E’ la sfida in corso quest’anno. Abbiamo già esteso il metodo ad un appezzamento di terreno in grado di soddisfare il fabbisogno di molte famiglie per tutto l’anno.

Quanto è grande il vostro orto?

Ne esistono molti e il metodo di Ortobioattivo può essere applicato anche su sodo e non necessariamente solo su letti rialzati. Comunque, il più grande realizzato su letti rialzati ha una superficie di circa 500mq ed è in espansione!

Quanti orti bioattivi esistono in Italia o all’estero, se ce ne sono?

In italia sono circa 30. All’estero ci sono progetti per le isole canarie ma ancora è troppo presto per svelare i prossimi passi!

Chi volesse saperne di più:

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fonte: ilcambiamento.it

 

 

Food ReLOVution, il film. Cosa mangiamo e cosa si nasconde dietro a ciò che mangiamo

“Food reLOVution” è il nuovo film del regista Thomas Torelli. Il filo logico che percorre questo lavoro è la parola “connessione”. Ed è proprio un pensiero di connessione che manca alla maggior parte di noi. Connessione con il pianeta che ci ospita: con la terra, il mare, l’aria che respiriamo, gli altri esseri umani, gli animali, le piante.9508-10264

E la connessione manca perché troppi sono ormai i passaggi tra noi e ciò che mangiamo. Abbiamo perso i profumi, le forme, il contatto con ciò che mettiamo nel piatto. Non siamo più in grado di capire di cosa ci nutriamo tanto è trattato, trasformato, reso appetibile e “buono” in modo artificiale, spesso irriconoscibile. Food Relovution è un’opera di perfetto equilibrio che riesce a parlare delle verità nascoste dietro il consumo di carne senza sembrare un prodotto da crociata vegana, che riesce a porre la questione della produzione e del consumo del cibo a livello mondiale evidenziandone le mostruosità senza usare la facile leva della sola emotività momentanea e superficiale. Il consumo di carne negli ultimi anni è cresciuto in modo esponenziale ed è andato di pari passo con l’aumento delle malattie cardiovascolari, dell’obesità, del diabete, del cancro. Il consumo di carne, però, non significa solo questo. E’, appunto, connesso anche allo sfruttamento senza limiti e senza sosta delle risorse naturali, all’emissione di gas serra così pericolosi per l’equilibrio ambientale e climatico e a un approccio profondamente disumano nei confronti degli animali.locandina-foodrelovution_a3_print300

Ma non basta ancora: la produzione di carne ha costi elevatissimi anche per un enorme numero di persone costrette a morire di fame. La fame è un fenomeno talmente lontano da noi che pensiamo non ci riguardi affatto e di cui, soprattutto, non percepiamo una responsabilità diretta. Tutto, invece,  è strettamente collegato. Pochissimi di noi riescono a vedere in una bistecca o in un bicchiere di latte, l’allevamento intensivo dal quale proviene: allevamenti neppure degni di questo nome ma vere e proprie industrie il cui scopo non è nutrire ma guadagnare. E’ difficile riuscire a capire che dietro la nostra richiesta sempre maggiore di carne ci debba essere una ricerca continua di terra da disboscare e poi coltivare a cereali per nutrire gli animali che mangiamo. La maggior parte dei cereali coltivati nel mondo non viene, infatti, usata per nutrire le persone ma per quegli animali destinati alle nostre tavole. La fame da una parte, lo spreco di cibo dall’altra (che arriva al 50 per cento, globalmente), l’obesità e la malnutrizione che si presentano spesso insieme nei nostri malati dando origine a degli obesi denutriti, l’enorme aumento delle malattie degenerative e l’aspettativa di vita, per la prima volta in calo in alcuni paesi occidentali sono facce dello stesso fenomeno. Si tratta di un sistema che si regge su un’economia basata sullo sfruttamento senza limiti di altri esseri viventi e sulla distruzione sistematica delle risorse. Un’economia che, nonostante le informazioni false, fuorvianti e ingannevoli che ci arrivano attraverso la  pubblicità che invade ogni spazio della nostra vita, non può che avere i giorni contati. Thomas Torelli fa parlare medici, scienziati ed esperti di fama mondiale: Franco Berrino, Colin e Thomas Campbell, Marilù Mengoni, Vandana Shiva, Frances Moore Lappé, Carlo Petrini, Peter Singer, James Wildman. Attraverso la loro testimonianza e le splendide illustrazioni animate di Michele Bernardi (il tratto e i colori sono perfetti), le bellissime musiche di Giulio del Prato, l’autore accompagna chi guarda senza giudizi di sorta, con l’unico intento di offrire elementi che facciano scattare quella “connessione” nello spettatore. Venire a conoscenza delle conseguenze di ogni nostra, anche minima, scelta alimentare è il punto nodale del film: scoprire cosa si cela dietro il cibo che compriamo ogni giorno può renderci persone finalmente consapevoli, farci pensare con attenzione, responsabilità e amore a ciò che vogliamo essere e diventare. Per noi stessi, per i nostri figli, per il pianeta, per ogni essere vivente. Intervenire criticamente attraverso le nostre scelte quotidiane significa crescere in consapevolezza. E la consapevolezza, si sa, è il primo passo per il cambiamento.

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Fonte: ilcambiamento.it

 

India, sui treni il pasto si ordina con un click

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In India ogni giorno 23 milioni di passeggeri viaggiano su 65mila chilometri di ferrovia, uno dei mezzi di trasporto più usati nel Paese soprattutto per coprire lunghe distanze. Milioni di passeggeri spesso affamati, a causa della scarsa presenza di vagoni ristorante e della cattiva qualità del cibo proposto, problemi che da qualche tempo è possibile aggirare con un click. Un nuovo servizio permette di scegliere fra una selezione di ristoranti: si ordina il cibo e dopo qualche click il piatto viene fatto trovare alla stazione desiderata e consegnato di persona.

“Ho appena scaricato l’app, e stavo pensando di ordinare e provare il servizio per la prima volta”, dice un nuovo cliente. Un nuovo mercato in cui stanno entrando ristoranti internazionali e locali che si appoggiano per la distribuzione ad una piattaforma specializzata, TravelKhana, fondata da Pushpinder Singh.

“Ero ad una stazione dove c’era stato un incidente e i treni erano fermi. Per molte ore i passeggeri dei treni sono rimasti senza cibo e acqua”, racconta spiegando come è nata l’idea. A causa dei frequenti problemi di connessione è possibile ordinare il cibo anche via sms. Il prossimo passo sarà installare alcune cucine direttamente nelle stazioni per preparare i pasti.

Fonte:  Askanews

La nuova igiene naturale, un modo di vivere

Si parla sempre più spesso di “igiene naturale”, ma ancora pochi sanno cos’è. Non è solo un modo di mangiare, quanto piuttosto un modo di vivere e di pensare. Lo spiega Giuseppe Cocca, medico esperto in agopuntura, omeopatia, psicosomatica, tecniche energetiche, PNL e fondatore della Nuova Igiene Naturale.

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L’igiene naturale non è solo un modo di mangiare, come spesso si pensa e come molti divulgano, ma un modo di pensare. E’ un modo per interpretare la vita, la salute e la cosiddetta malattia. L’igienismo è un modello semplice ma al contempo molto sofisticato. Gli igienisti, anticamente, erano i seguaci della dea Igea che era la dea della salute legata al comportamento. Si pensava che se si teneva un certo comportamento e si seguiva un determinato stile di vita in sintonia con la natura, come conseguenza vi era la salute. Nell’igienismo, però, c’è un altro concetto fondamentale e cioè che il nostro organismo è “autorigenerante”. Quello che chiamiamo malattia, in realtà, non è qualcosa di negativo ma, al contrario, qualcosa che il corpo utilizza per ritrovare l’equilibrio interno. Igienismo non significa necessariamente veganismo, crudismo o fruttarismo come comunemente si crede.

Ce lo spiega il dottor Giuseppe Cocca.

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Essere igienisti non significa, dunque, automaticamente essere vegan?

L’igienista può essere anche carnivoro, non necessariamente vegano. Esiste un modello di alimentazione igienista che essenzialmente prevede le combinazioni tra i cibi, la loro facilità di digestione e una buona percentuale di crudo. Ma l’Igienismo non è confessionale e l’igienista può essere vegano, vegetariano come anche onnivoro. Naturalmente chi mangia carne all’interno dell’Igienismo la mangerà raramente e facendo attenzione alla qualità, alla cottura, alle combinazioni, ecc.

Quali sono secondo lei le informazioni inesatte che circolano sull’Igienismo?

Oltre al fatto che essere igienisti non significa necessariamente essere vegan, il veganesimo basato sul fatto che l’uomo non avrebbe l’enzima uricasi non ha fondamenti perché si tratta di un enzima che hanno anche gli erbivori e quindi bisogna fare attenzione a non dare informazioni antiscientifiche. Inoltre, dire che il sangue dei carnivori è acido ed è per questo che essi mangiano carne, non è corretto. Il sangue di tutti i mammiferi, in realtà, è alcalino perché le cellule hanno  tutte lo stesso bisogno.

Non è vero, quindi, che se mangiamo carne il sangue si acidifica?

L’acidificazione ha anche a che vedere col cibo. O meglio, rispetto al cibo, se non mangio abbastanza crudo o alimenti alcalini, non riesco a contrastare gli alimenti acidi. Se pongo come base del vegetarismo e veganismo il fatto che il sangue dei carnivori è acido, è un falso. Inoltre, non è tanto che il sangue diventa acido quanto il fatto che l’organismo non riesce più a smaltire il surplus di acidi (tossine). Poi, la componente legata alle convinzioni e agli atteggiamenti emotivi rispetto alla gestione del pH dell’organismo è prioritario

Che cos’è esattamente la malattia per l’Igiene Naturale?

Il principio è questo: quella che chiamiamo malattia è, in realtà, per l’igiene naturale, uno strumento che il corpo utilizza per stare bene. Non si combatte la malattia, si asseconda e si considera anche un campanello di allarme che va ascoltato.  La malattia è considerata una strategia di sopravvivenza, è un comportamento. E’ come se utilizzassimo la malattia per ottenere dei vantaggi, dei risultati sia emotivi che fisici.  Vantaggi paradossalmente anche emotivi, lo facciamo inconsciamente, non con la volontà.

In che percentuale il nostro atteggiamento e il nostro pensiero determinano la malattia?

Se fossi banale direi al 100 per cento. In realtà la cosa è molto articolata. Devo pensare in quale dei tre aspetti del triangolo della salute sono deficitario. Il triangolo della salute è la relazione tra Mente/Emozioni, Metabolismo/Cibo e Postura/Movimento. Se una persona pensa bene e mangia male, non cerco di farlo pensare meglio. Se una persona ha un giusto atteggiamento emotivo nei confronti della vita però è convinto o sente di mangiare in un certo modo perché ha avuto dei condizionamenti nel passato, lavorerò sui condizionamenti alimentari. Dipende sempre dal soggetto. Ogni volta che vedo una persona le miglioro l’alimentazione per prima cosa specificando, però, che non è quello che guarisce. Mi serve solo per iniziare. Valutiamo poi cosa emerge nelle sue convinzioni e nelle sue paure. Alcune volte basta anche solo l’alimentazione, altre no.

Lei dice che alla base dell’Igienismo deve esserci il triangolo della salute. Che cos’è esattamente?

Il triangolo della salute è stato elaborato mi sembra dai chiropratici/osteopati. Molti igienisti erano, osteopati e chiropratici. Hanno portato una parte del modello e l’hanno integrato con quello che è il movimento igienista che nasce in realtà con Tilden. Tilden ha parlato di tossiemia ma non parla mai di cibo nel suo libro, se non in un paio di pagine. Questo sembra molto strano ma in realtà lui parlava di enervazione. Tilden dice che la malattia è causata principalmente dall’enervazione che vuol dire una mancanza di energia che impedisce a reni, polmoni, pelle, intestini di svolgere il lavoro di disintossicazione. La tossiemia per Tilden non si crea perché mangiamo male ma perché non abbiamo un sistema di pulizia abbastanza forte. Il punto è come sia possibile che questi organi non abbiano energia. Perché ne sprechiamo con i pensieri o con le emozioni oppure impiegando il sistema digerente in maniera non funzionale. Nell’Igiene Naturale la prima cosa che ci si deve domandare è dove perdiamo l’energia. Se una persona è preoccupata perché ha perso il lavoro non lo metterò a dieta perché sta perdendo energia in quella direzione. Nel triangolo della salute devo capire qual è tra convinzione, emozioni, digestione-metabolismo e postura-movimento, l’aspetto deficitario. Se una persona mangia bene e fa movimento ma è sempre preoccupata per le malattie, non mi preoccuperò di farlo mangiare meglio. Devo cambiare quella convinzione attraverso alcuni strumenti. Io, ad esempio, uso la PNL o altri strumenti. Nella  maggior parte delle persone che vengono non lavoriamo sull’alimentazione. E’ sempre, più o meno, la stessa. Se leggiamo Shelton, lui dice che non siamo dietologi e non prescriviamo diete.

Quanto è importante la dieta per una buona salute?

Se si pensa di poter guarire con la dieta si è fuori strada.  La dieta può essere utile se sei allineato ma noi diamo questo allineamento come scontato. Da me vengono giovani che portano i genitori chiedendomi di far fare una dieta vegancrudista/igienista a persone che sono convinte che se non mangiano carne si ammaleranno o saranno più deboli. Se la convinzione è forte, debbo assecondarla e poi proporre cambiamenti o aggiustamenti in seguito. Tilden diceva che le malattie dipendono dai 7 vizi capitali che era il modo antico di chiamare i conflitti interiori. L’enervazione si ha per comportamento e per i 7 vizi capitali. Nel momento in cui una persona perde energia in questo modo ha meno energia per digerire e aumenta la tossiemia.

La carne nell’alimentazione. Ci può chiarire perché fa male?

Il problema della carne come sostanza tossica non si era mai posto prima degli anni cinquanta o sessanta. Perché la gente normalmente non ne mangiava o ne mangiava poca. Non esistono popolazioni al mondo che siano vegane. Piuttosto ci sono popolazioni che mangiano poco e che vivono a contatto con la natura e sono quelle che stanno meglio. L’alimentazione mediterranea di alcuni decenni fa, degli italiani poveri degli anni 40 e 50 si basava sulle verdure e prevedeva la carne molto raramente. Se si mangia poco (il giusto), il cosa si mangia (non veleni) passa in secondo piano. Il discorso della carne è che attualmente, purtroppo, non si mangia la carne una volta al mese ma si arriva a due o tre volte al giorno. E non si tratta di carne di animali che hanno vissuto la loro vita nel loro ambiente naturale o almeno “vivibile”,  ma di animali nati e cresciuti in gabbia. Gli animali in gabbia sono utilizzati a partire dagli anni 60 e se prima vi erano la cosa riguardava una produzione meno che marginale. Il discorso vegetariano o vegano nasce da motivazioni principalmente di tipo etico, ecologico. Anche salutistico ma principalmente etico, morale ed ecologico.

Non è vero quindi che il nostro corpo non sarebbe adatto a mangiare e a digerire carne?

Il discorso è molto più articolato. Una delle cose che non siamo assolutamente adatti a mangiare, in realtà, sono i cereali. Riusciamo a gestire meglio un piatto di carne che un piatto di cereali. E non è un problema di glutine. Se mettiamo in bocca un pezzo di pane e iniziamo a masticare, dovremmo mandarlo giù solo quando iniziamo a sentire il sapore dolce. Il dolce significa che la ptialina ha metabolizzato gli amidi e li ha trasformati in zuccheri perché quando diciamo che la prima digestione avviene in bocca, questo è vero ma solo per gli amidi. La digestione delle proteine non avviene in bocca. I predatori non masticano ma strappano. Adesso, dopo aver mangiato il mio primo pezzo di pane (potrebbe anche essere pasta o riso), mangio il secondo ma non potrei mangiarne più di quattro bocconi perché dal quinto boccone ho finito la ptialina. Questo significa che rispetto agli amidi abbiamo un blocco dovuto alla carenza di enzimi per digerirlo e se non digerisco l’amido con la bocca, lo stomaco non lo può digerire e digerisco i residui con un po’ di amilasi pancreatica e resto in fermentazione intestinale. Mentre se si mangia un pezzettino di carne, allo stomaco non interessa che sia carne. Abbiamo uno stomaco adatto alla digestione delle proteine e se sono proteine, le metabolizza. Questo per dire che se abbiamo un’informazione corretta possiamo avvalorare maggiormente le nostre tesi. Un ulteriore problema è la carne che mangiamo adesso, di animali che mangiano male, pieni di antibiotici e allevati in gabbie. Quella carne per noi è un veleno.

Eppure noi siamo primati. E i primati, a parte qualche insetto, non mangiano carne né hanno un corpo adatto alla predazione e alla sua digestione.

I primati mangiano essenzialmente frutta e verdure. Mangiano insetti come fossero delle leccornie e solo molto occasionalmente possono diventare predatori (ma i babbuini sono primati e si comportano da predatori). Quando parliamo di alimentazione facciamo l’errore di parlare per etichette: carnivori, vegetariani, vegani, ecc.. Cioè ci diamo una regola, creiamo etichette. Queste, però, sono regole della testa. In realtà in natura non funziona così. Noi siamo esseri civilizzati e ci dobbiamo dare delle regole ma in natura, in realtà non funziona così. Se noi vivessimo in natura l’unica regola sarebbe: cosa mi piace di quello che mi posso procurare per soddisfare la mia fame? Non esiste altra regola.

Ma non andremmo a procurarci carne, allora, se cercassimo solo ciò che ci piace e ciò che ci possiamo procurare.

L’uomo non nasce cacciatore. L’uomo in natura era raccoglitore. Questo significava raccogliere frutta e verdure ma anche vermi, insetti, serpenti, tutto ciò che si poteva raccogliere quando si aveva fame.

Adesso e almeno nella nostra società si mangia molto raramente per fame. Sembra quasi, invece, che si mangi solo per piacere. In sostanza, per divertimento…

Mangiare è anche un modo per socializzare. In natura mangiare significa soltanto dare alle cellule ciò di cui hanno bisogno. In natura mangiare equivale a mangiare crudo. Nella nostra società occidentale facciamo dei compromessi.

Qual è il cibo giusto per noi?

Quando parliamo di alimentazione giusta per noi stessi dobbiamo tenere presente le nostre convinzioni, cosa mi fa bene o male … cosa mi piace e cosa non mi piace, le nostre emozioni, il nostro piacere e il nostro bisogno cellulare, quello che sentiamo a prescindere dall’educazione. Per poter mangiare bene devo soddisfare tutti e tre questi aspetti. Devo essere convinto di quello che mangio, deve piacermi e deve farmi bene. Ciò che fa bene è tutto quello che è crudo e che ci piace. In natura funziona così: se una cosa piace significa che fa bene. Se i nostri sensi dicono sì, significa che fa bene al sistema. Diciamo che l’uomo è naturalmente e prevalentemente fruttariano ma non con con la frutta di adesso. Dovremmo essere forse prevalentemente fruttariani (sicuramente crudisti) in un luogo in cui la frutta si trovi allo stato naturale. La nostra alimentazione (attuale) dovrebbe prevedere una buona parte di crudo (dal 50 al 70 per cento) e poi ciò che pensiamo sia giusto per noi.

Lei ha ideato la Nuova Igiene Naturale. Qual è la differenza con l’Igiene Naturale classica?

Si tratta dell’Igiene Naturale classica nella quale però viene privilegiato, rispetto al passato, l’ aspetto mentale e il triangolo della salute. Per l’Igiene Naturale non esiste un fattore della salute più importante dell’altro. Mangiare non è più importante degli altri fattori. Per quanto mi riguarda credo che,  i fattori determinanti siano le convinzioni e l’atteggiamento emotivo della persona. Faccio un esempio: tutte le persone che sono guarite dal cancro o dalle malattie croniche avevano tutte due cose in comune e cioè che credevano in quello che stavano facendo e di potercela fare. Se queste due convinzioni non ci sono, lo strumento terapeutico passa in secondo piano o diventa insignificante. Prima di dare lo strumento, che è l’Igiene Naturale, controllo quali siano le convinzioni della persona su ciò che sta facendo e che cosa pensa del suo futuro. Se non agisco su queste convinzioni, la dieta o il digiuno non serve.

Quali strumenti usa per agire su queste convinzioni?

Uso la Riprogrammazione Psicoenergetica, una tecnica mediata dalla PNL, psicologie energetiche, ecc.) ma non ne vorrei parlare al momento perché si tratta di una cosa complessa. E’ come se tu dovessi ricondizionare la persona. Si tratta di una manipolazione. Se la persona è convinta di dover morire perché ha una malattia, io cambio quella convinzione in un’altra direzione. Ad esempio nella seguente convinzione: anche se ho questa malattia posso comunque vivere a lungo. Dietro ogni malattia c’è sempre una convinzione. Quando un paziente viene da me con una malattia, mi accorgo, scavando, della ragione che l’ha portato a crearla.

Come mai abbiamo così tante resistenze a staccarci dal cibo cotto?

Il punto è che noi subiamo un imprinting alimentare con lo svezzamento. Qualsiasi mammifero adora il cibo che ha mangiato durante lo svezzamento. Veniamo svezzati col cibo cotto e quello diventa per noi il cibo dell’imprinting. La nostra parte emotiva è legata al cucinato principalmente della nostra zona. Quando eravamo piccoli abbiamo associato le feste, i momenti di piacere al cibo cotto che è legato alla famiglia, all’amore, alla mamma che ce lo preparava.

Perché il crudo è consigliabile?

Noi siamo animali e in natura esiste il regno animale, vegetale e minerale. Il regno vegetale si nutre di quello minerale e lo organifica. Il Regno animale non ha la capacità di organificare più di tanto quello minerale. Noi per poter vivere dobbiamo mangiare cibo che è già stato organificato dal regno vegetale o da quello animale. Quando cuocio qualcosa lo faccio ridiventare minerale. Se metto la carne o una patata  al forno, prima appassisce, poi cuoce e poi diventa carbone. La cottura è il modo per carbonizzare il cibo. Naturalmente quando mangiamo cibo cotto non lo mangiamo carbonizzato ma ha perso una buona parte di vitalità. Fortunatamente abbiamo un apparato digerente che contiene batteri intestinali in grado di rivitalizzare il cibo cotto ingerito perché è come se questi organificassero le sostanze minerali contenute nel cibo. Il problema è che non riescono a farlo più di tanto e se si mangia un certo tipo di cibo si è anche costretti a elaborare delle scorie tossiche dei batteri intestinali che non sono più quelli adatti a noi ma sono quelli che si sono dovuti creare per metabolizzare il cibo non adatto a noi che mangiamo.

Lei parla di alimentazione sequenziale. Ci può spiegare di cosa si tratta esattamente?

L’igienismo nasce principalmente con le combinazioni alimentari. Cioè gli igienisti si sono posti questo problema: se non associamo bene i cibi, impegniamo maggiormente l’apparato digerente. Se succede questo abbiamo meno energia per altro. E’ come se si sprecasse troppa energia per la digestione. Allora si è elaborato il concetto di compatibilità alimentare cioè per esempio non le proteine con i carboidrati, attenzione alla frutta, eccetera. E’ quasi la stessa alimentazione del Dott. Hay, antecedente a Shelton, che anche lui aveva elaborato una dieta con le combinazioni alimentari. Poi dalle combinazioni alimentari (non si tratta di una dieta dissociata ma di una dieta associata) ho elaborato una cosa più semplice. La dieta sequenziale è anche un’altra cosa: anche se faccio delle buone combinazioni e mangio prima il piatto di pasta e poi il piatto di insalata non assorbo al meglio il piatto di insalata. La dieta sequenziale pensavo di averla inventata io ma poi mi sono accorto che un altro igienista di cui al momento non ricordo il nome aveva elaborato una dieta molto simile. Si tratta di mangiare prima la frutta, poi l’insalata, poi la verdura cotta e infine il piatto cucinato. Le motivazioni sono moltissime ed è il modo più semplice per avvicinarsi a una buona alimentazione. Cioè, iniziando con un frutto e proseguendo in questo modo posso poi mangiare un piatto cucinato che voglio. Avrò comunque mangiato un buon 50 per cento di crudo e avrò alla fine meno fame quando mi troverò davanti al piatto cucinato.

Che tipo di alimentazione fa lei, personalmente? Mangia la carne o i latticini?

No, non mangio la carne ma ho una debolezza qualche volta: la mozzarella di bufala. Prevalentemente mangio frutta, ortaggi e noci.

Zucchero e caffè

Lo zucchero non deve proprio esistere. Il caffè serve solo per le emergenze. Se sono le due del mattino e sto guidando, voglio andare a casa ma sono stanco, prendo un caffè. Non può essere qualcosa di quotidiano ma qualcosa di strumentale per ottenere un risultato in emergenza.

Il digiuno: è necessario? E’ per tutti? E in che modo, eventualmente, farlo?

E’ solo uno strumento così come la dieta. Normalmente cerco di non far digiunare le persone che si rivolgono a me se non quando le conosco molto bene. Non è il digiuno che guarisce. Significa mettere a riposo l’organismo in modo tale che possa trovare da solo le sue soluzioni. Ci sono, però, molte interferenze mentali inconsce quando una persona si accinge a farlo ed è per questo che ci si deve arrivare con una preparazione adeguata non solo fisica e alimentare ma soprattutto di testa. Shelton, più di 40 anni fa, diceva che bisogna digiunare fino al ritorno della fame e fino alla comparsa di una lingua pulita. Lui faceva, nella sua clinica, digiuni di anche 30 o 40 giorni. Attualmente non si fanno più digiuni molto lunghi. Attualmente non si verifica il ritorno della fame né la lingua pulita. Le persone dopo 7 o 8 giorni, in questo modello di società, vanno in carenza di micronutrienti. Quando la persona digiuna va in carenza di macronutrienti che sono gli zuccheri, le proteine e i grassi e utilizza quelli del corpo, ma se non ha una riserva alcalina che sono vitamine e sali minerali, il corpo va in tilt. Attualmente e normalmente noi abbiamo una riserva alcalina che va massimo dai 7 ai 15 giorni. Questo significa che se una persona non è preparata nell’igienismo è meglio non far fare digiuni lunghi. Il discorso della lingua pulita e del ritorno della fame non è corretto.

Lei ha mai fatto digiuni?

Il mio primo digiuno è stato di 30 giorni. Con sola acqua. Dal quindicesimo giorno con acqua e limone. Ho fatto la vita che facevo tutti i giorni. Ho smesso quando mi sono sentito debole, il trentesimo giorno. Adesso ne faccio un paio al mese, di un giorno o due. In passato lo facevo di un giorno alla settimana solo per mettere a riposo l’organismo. Si chiama igienismo preventivo.

Igienismo e bambini. Come si è regolato con i suoi figli?

Mia figlia, che adesso ha 20 anni, non ha mai preso un farmaco in vita sua e non è stata vaccinata. E’ stata crudista fino a 4 anni, poi vegetariana fino a 6 anni circa. Poi ha frequentato la scuola steineriana in cui la carne ogni tanto viene offerta ai bambini. Fino a 16 anni ha mangiato essenzialmente frutta e verdura e ogni tanto, saltuariamente, carne o pesce. Poi è stata vegetariana e adesso ha un’alimentazione vegan. Lei ha una base di crudismo di circa il 60 per cento e per il resto mangia ciò che desidera.

Quante volte dobbiamo mangiare al giorno? C’è la scuola dei 6 pasti, degli 8 pasti, dei pasti liberi, dei 2 pasti… Lei che cosa pensa?

La regola è questa: se mangio cotto, una, due volte al giorno sono sufficienti. Tre sono già troppe. Se, però, mangio crudo, mangio ogni volta che mi va. Consiglio di mangiare crudo tutto il giorno e poi un pasto cucinato la sera. E’ la cosa migliore per avere più energia durante la giornata ma è comunque soggettivo e dipende da persona a persona.

Quali sono gli errori più comuni da evitare per chi vuole passare a un’alimentazione crudista o comunque aumentare la quota di crudo?

Il primo errore è pensare che il crudismo possa risolvere la nostra vita, il secondo è seguirlo come fosse una moda. Molte persone sono crudiste perché con la testa sono convinte che faccia bene ma emotivamente non ne sono affatto convinte. Se ci sono perplessità e paure o ci si sforza, il crudismo non funziona. Quando la persona dice “ogni tanto devo sgarrare”, allora significa che sta facendo un sacrificio da cui si vuole liberare. Bisogna fare attenzione: il crudismo non può essere una prigione o generare tristezza.

La vitamina B12, questione da sempre per chi segue un’alimentazione vegan. Parliamo quindi degli igienisti vegan. Qualcuno dice che tutta la questione sia un’enorme bufala. Ci dà la sua opinione?

Non si può parlare per assolutismi e dire che si tratta di una bufala. Ho conosciuto persone vegane da 20 anni senza carenza di B12 e persone vegane con questo problema già dopo pochi mesi. Il discorso della B12 si è posto dopo che, alcuni anni fa, si è creato il problema. Ci sono persone terrorizzate dalla carenza di questa vitamina. Se hanno paura è bene che la prendano. Non esiste una regola per tutti e la questione è molto soggettiva come tutte le cose.

Seguire i ritmi circadiani è davvero così fondamentale nell’alimentazione igienista?

Sì e no. In maniera fisiologica la mattina siamo in fase eliminativa, di disintossicazione. Gli organi della digestione hanno migliore capacità digestiva da circa mezzogiorno fino all’imbrunire. Questo è il momento in cui l’apparato digerente è più pronto a ricevere il cibo. La sera il corpo finisce di digerire e poi nutre le cellule fino alle 4 del mattino circa. Dopo questo momento il corpo elimina le tossine fino a circa le 12. Se una persona fa una colazione abbondante la mattina e salta il pranzo, il ritmo circadiano si adatta e la persona inizia la disintossicazione dopo il pranzo.

Tre cose da fare da domani mattina per iniziare a mangiare meglio

Un’abbondante insalata prima di ogni pasto cucinato. Mangiare una mela prima dell’insalata, iniziare a migliorare la colazione. Migliorare la colazione è una cosa che a molti risulta difficile. La colazione ideale dipende da persona a persona, dalla sua struttura e dalle sue convinzioni ma per gli igienisti la migliore colazione è quella che non si fa. Perché per l’igienismo è bene che il corpo finisca la disintossicazione iniziata durante le ore notturne. Una colazione leggera è quindi consigliata per impegnare al minimo l’apparato digerente: acqua calda con limone, un succo di frutta fresco, un estratto, una spremuta, una macedonia. Se si vuole, anche qualcosa di più impegnativo come un frullato verde, banane e semi oleosi ma io mi manterrei su una colazione più possibile leggera.

 

Fonte: ilcambiamento.it

Che cosa mangeremo quando saremo 10 miliardi?

10 Billion di Valentin Thurn ha aperto la diciottesima edizione del Festival Cinemambiente di Torino.

Non poteva che essere legato al tema del cibo, della sostenibilità globale dell’alimentazione e dello spreco alimentare il film di apertura della diciottesima edizione di Cinemambiente che ha “traslocato” dalla primavera all’autunno per creare un link torinese con Expo 2015. In un cinema Massimo tutto esaurito, dopo il saluto di Alberto Barbera, direttore del Museo Nazionale del Cinema, e di Gaetano Capizzi, da diciotto anni “anima” della manifestazione, il professor Andrea Segrè ha introdotto i temi del film d’apertura con un monologo sul cibo di oggi e il cibo di domani. Che cosa mangeremo nel 2050 quando, secondo le proiezioni demografiche, saremo 10 miliardi di persone? A questa domanda cerca di rispondere il regista Valentin Thurn con 10 Billion – What’s on your Plate? un documentario che, in giro per Europa, Asia, Africa e America, cerca di comprendere in quali direzioni dovremo muoverci per poter garantire la sopravvivenza al Pianeta. Il film si apre in un mercato thailandese dove si vendono insetti fritti. Per alcuni si tratta di immagini scioccanti e disgustose, ma molti specialisti dell’alimentazione sostengono che entro 20 anni il 10% dell’apporto proteico su scala globale verrà fornito proprio da questi insetti.10billion_quererdelabor_bassa

Il dilemma dell’agricoltura

E l’agricoltura? Thurn cerca di comprendere se l’ingegneria genetica possa essere la soluzione per sostenere la crescente domanda di cereali e vegetali. Nei laboratori di chi controlla le sementi si cerca, per esempio, di migliorare le performance dei semi: alla Bayer CropScience di Gand si tenta di migliorare la resistenza del riso alla salinità delle zone sommerse dalle acque marine. Nella sua indagine, Thurn vola in Asia e scopre che gli ibridi di Bayer non resistono alle inondazioni, mentre le sementi tradizionali ci riescono. Anche i fertilizzanti minerali, da molti visti come la soluzione a tutti i problemi, generano un surplus di azoto che finisce nelle falde acquifere. “Non possiamo bruciare in un enorme fuoco d’artificio tutte le risorse che abbiamo a nostra disposizione” spiega uno dei contadini che continuano a utilizzare fertilizzanti naturali. Di fronte alla crescente domanda di cibo, l’agricoltura si trova pressata fra un’agricoltura intensiva e industriale che aumenta la produzione con prodotti che hanno effetti collaterali sugli ecosistemi e la salute e un’agricoltura tradizionale e “bio” che ha una minore redditività (intorno al -25%) e non può, quindi, far fronte all’aumento della richiesta di cibo. Come risolvere questo dilemma?10billion_pflanzen_bassa

L’allevamento fra pratiche intensive e sperimentazioni

Una delle questioni nodali è che cosa mangiamo e non soltanto quanto mangiamo. Il documentario si sposta in India dove il 40% della popolazione non mangia carne, ma dove la crescita economica ha portato a una maggiore richiesta di pollame. Thurn entra in una fabbrica che confeziona circa 7 milioni di capi alla settimana. Il pollame viene suddiviso in due categorie: una deve produrre le uova e viene mantenuta con un regime alimentare sufficiente a farle produrre uova, l’altra categoria è destinata alla macellazione e le viene inoculato un inibitore del senso di sazietà che, facendo mangiare i polli in continuazione, ne aumenta il peso unitario. Per sostenere gli allevamenti ci vogliono campi di mais e di soia e questa “fame” di territorio porta alla deforestazione e al fenomeno del land grabbing, come ci mostra Thurn nella sua tappa in Mozambico. In Giappone, invece, l’insalata viene prodotta in fabbriche che consentono 9 raccolti l’anno in un ambiente asettico, con costi elevati che solo un mercato come quello nipponico è in grado di sostenere. L’indagine si sposta poi in Canada, all’AquAdvantage che produce salmoni transgenici in grado di crescere a una velocità di 5-6 volte superiore a quella normale. Lo stesso tipo di studi si sta ora spostando su ovini e suini. Intanto in Olanda c’è chi sta studiando il modo per produrre carne in laboratorio partendo dalle cellule staminali. Per ora gli hamburger artificiali “costano” 250mila euro, ma l’obiettivo è riuscire ad arrivare all’indistinguibilità con la carne normale e a una produzione su larga scala. Thurn ha l’umiltà di porre domande e di mettersi in ascolto cercando le soluzioni. Il suo 10 Billion sposta il cuore del problema a un livello più elevato rispetto alla questione di partenza. Non quanto cibo possiamo produrre in più, ma quanto questo cibo in più possa essere accessibile a tutti, quanto la bilancia delle carenze e degli sprechi alimentari possa essere riequilibrata. La soluzione sembra essere quella di un avvicinamento dei consumatori alla produzione: orti urbani, agricoltura comunitaria e familiare, guerrilla gardening e valorizzazione della produzione stagionale e a km zero sono alcune delle soluzioni per far sì che si possa guardare al futuro senza l’angoscia di non sapere quanto e quale cibo finirà nei nostri piatti.

Foto | Cinemambiente

Fonte: ecoblog.it

Le zucche, le api e la nostra borsa della spesa

In questi giorni sono fiorite le piante di zucca, il profumo si sente da lontano. Ne seminiamo e piantiamo sempre tante, perché le zucche si conservano tutto l’inverno e sono una risorsa preziosa quando nell’orto rimangono solo cavoli. Così ora c’è questa grande parcella fiorita e rumorosa, anche il ronzio si sente da lontano: in ogni fiore aperto si affollano le api bottinatrici, e poi bombi di tutti i tipi. Ci sono interi alveari, si direbbe, che vanno e vengono dalle nostre zucche.apizucche

Anche a noi, come a tutti, piacciono i fiori di zucca fritti o in frittata o nelle crêpes… Ciononostante, ogni mattina mi limito a raccogliere quelli che stanno sfiorendo e che perciò si sono già richiusi. Lascio gli altri alle api. Perché? Non solo perché ci sono ben pochi fiori ormai, in questa stagione, nelle campagne riarse dal riscaldamento globale, ma anche perché questi fiori sono lontani dalle vigne. Da anni ogni primavera, quando cominciamo a tenere le finestre aperte, api confuse e stordite vengono a ronzare in casa, si aggirano senza scopo nelle stanze, finiscono per accasciarsi moribonde sul pavimento. Ogni mattina ne troviamo qualcuna morta e rattrappita. Ogni settimana sentiamo il rombo dei trattori che spargono veleni sulle vigne del Chianti. Cominciano coi diserbanti e i concimi chimici all’inizio della primavera, proseguono con gli insetticidi e gli anticrittogamici per tutta l’estate, finiscono con gli antimuffa in autunno. Una volta alla settimana almeno (quando piove anche più spesso) alle vigne e all’uva vengono elargiti i più progrediti ritrovati chimico-sintetici: da quando il progresso è arrivato nelle campagne, le campagne non vogliono essere da meno. Così noi vediamo le volpi con l’eczema, le api agonizzanti, i ricci che si trascinano barcollanti a morire sotto i cespugli, gli abitanti delle campagne col cancro. Quasi come quelli delle città, che oltre a respirarli, i veleni, se li mangiano assieme ai prodotti delle campagne. Per questo non colgo i fiori di zucca ancora aperti e freschi: cerco di dare alle api una possibilità in più di sopravvivenza. Quello che, nonostante l’età e l’esperienza, continua a stupirmi, è che invece la maggior parte degli esseri umani della società consumista globalizzata non la diano a sé stessi, quella possibilità in più. L’agricoltura chimico-industriale ha ridotto le campagne a distese tossiche; quando i cosiddetti “fitofarmaci” vengono irrorati, le ditte stesse che li producono raccomandano di non “entrare in campo”, cioè di non riprendere il lavoro prima di quarantotto ore. E’ una precauzione ridicola perché in quarantotto ore dei pesticidi “sistemici” (così li chiamano, e significa che si tratta di prodotti chimici che entrano nel metabolismo della pianta e s’insediano nei tessuti) non sono certo svaniti né si sono diluiti. Tuttavia, anche questa minima precauzione non vale per gli animali, gli escursionisti, le famiglie che fanno una passeggiata nei campi. La pioggia può cadere e portarsi in falda ciò che la pianta non ha già assorbito. Ma ciò che la pianta ha assorbito finirà invece nei nostri piatti. L’agricoltura industriale-intensiva è una creatura della grande industria ed è oggi il terreno di profitto di innumerevoli multinazionali: quelle della chimica sintetica, delle biotecnologie, dei grandi macchinari, del petrolio, delle sementi. Sono enormi e ramificate compagnie industriali e commerciali in grado di condizionare le leggi e le politiche degli stati a tutti i livelli. Sembrano invincibili, ci si sente impotenti di fronte al loro strapotere, ai loro mezzi evidenti e occulti, al loro dominio. Eppure quell’enorme potere glielo abbiamo dato noi. E noi ne siamo anche le vittime. Noi comperiamo cibi impestati e con i nostri soldi erigiamo e rafforziamo ogni giorno il potere della grande industria chimico-agro-alimentare. Noi ce li mangiamo e ne paghiamo le conseguenze.

Mangiare. Mangiare una volta era una cosa semplice. Non tanto tempo fa. Quando i campi di grano erano pieni di papaveri, nelle mele potevi trovare il verme e nell’insalata le lumache. Quando s’insegnava ai bambini a riporre la frutta con delicatezza, altrimenti si sarebbe ammaccata. Quando le sostanze chimiche sintetiche usate in Italia erano poche decine e nessuna di esse veniva sparsa sui campi e sul cibo. Adesso sono circa centomila, diecimila più diecimila meno, e centinaia di esse vengono irrorate sui campi e mischiate ai cibi, come se fossero ingredienti indispensabili di qualche stregonesca ricetta. Ecco, mangiare è diventata una faccenda complicata e anche pericolosa. Perché non abbiamo l’assaggiatore, come i signori e i sovrani rinascimentali. E anche se l’avessimo, la sua sorte servirebbe alla generazione seguente, perché gli “inventori” di sostanze sintetiche si sono fatti scaltri: aggiustano le dosi e le sostanze in modo che nuocciano poco alla volta, come hanno fatto coi veleni per i topi, che così non riescono a collegare causa ed effetto, e nemmeno noi ci riusciamo. Non ci riesce nemmeno il dottore che, quando gli portate vostro figlio (che mangia alla mensa scolastica dei cibi precotti o abita vicino a un campo di grano diserbato o va ai giardinetti disinfestati dalla ASL con parecchie sostanze chimiche di sintesi) con vomito e diarrea, vi dice che è un virus e vi ordina un antibiotico. Si sa che i virus neanche li vedono, gli antibiotici, proprio come se non ci fossero. Ma il medico vi dirà che è per “precauzione”. Per dare una bella disinfestatina all’organismo del meschino, che ogni giorno viene invaso dalle sostanze chimiche di sintesi, tutte anti-biotiche, cioè contrarie alla vita. Poi, quando la zecca lo punge, gli viene lo choc anafilattico e la colpa se la prende la zecca. Se lo choc anafilattico si manifesta dopo l’antibiotico, la colpa se la prende il bambino, che era “predisposto”. Mangiare. Mangiare deve essere pro-biotico. Ecco la Santa Trinità delle cose probiotiche: respirare, bere, mangiare. Mangiare biologico. Se non ce la facciamo a mangiare proprio tutto tutto biologico, facciamo in modo che siano biologiche le cose di tutti i giorni, quelle che consumiamo di più e che dovrebbero rinnovare ogni giorno la nostra vita, e non inquinarla e crearle nuove difficoltà ogni giorno. Costa di più. Il biologico costa di più. E’ vero ed è anch’esso un fatto logico: quando compriamo cibi bio paghiamo anche il lavoro del contadini, e quasi al suo giusto prezzo. Cosa che non succede quando compriamo frutta e verdura fatte dagli schiavi nei paesi schiavi, o fatte industrialmente da agricoltori che oramai subiscono la concorrenza involontaria di quegli schiavi e lo strozzinaggio dell’industria agroalimentare. Una patata bio può costare dieci, venti centesimi in più di una patata impestata. Però costerà molto meno di un pomodoro impestato fuori stagione. Una mela bio costa dieci, venti centesimi in più di una mela impestata, però costa meno di un’impestatissima banana. Si può mangiare biologico e spendere poco, proprio come si può mangiare impestato e spendere più del necessario a forza di merendine, caramelle, patatine artificiali, budini di plastica, bibite colorate artificiali, cappuccini e brioches surgelate al bar. E la carne! Quel lusso per i nostri nonni o genitori, riservato alla domenica o poco più, e che adesso nei supermercati ti “tirano dietro” con offerte da tre, quattro euri al chilo! Gli allevamenti intensivi sono una vergogna di questa epoca che, spero vivamente, farà un giorno inorridire i nostri discendenti. Come i campi di sterminio nazisti, le torture di Guantanamo, le bombe atomiche e quelle al fosforo, la vivisezione e il traffico di organi e molte altre nefandezze insite in una società basta sul dominio, che è la forma di follia più perniciosa. Ma, mentre della maggior parte di tali nefandezze non siamo complici e ci sentiamo impotenti a farle cessare, per quel che riguarda gli allevamenti intensivi i carnefici siamo noi: quelli che consumano allegramente bistecchine di vitello e petti di pollo. Settanta miliardi di animali sul nostro pianeta vivono segregati in condizioni di sofferenza inaudita, fisica e psichica, dal primo all’ultimo giorno di una vita innocente e martirizzata senza scopo, per soddisfare appetiti insani e altrettanto privi di scopo. Il cinquanta per cento dell’agricoltura mondiale serve a nutrire tali animali, compresi milioni di tonnellate di mais e soia transgenici,che in Europa sono proibiti per il consumo umano ma permessi e abbondantemente importati per nutrire gli animali d’allevamento. Per cui, se mangiate carne d’allevamento intensivo in abbondanza, fate anche il pieno di OGM e buon pro vi faccia. Le multinazionali di tutto il mondo hanno in mente un disegno davvero “globale”: impadronirsi della vita. Per questo non bastano le guerre, il petrolio, la chimica sintetica, gli OGM e i robot che sparano e bombardano, ci vuole anche il dominio sull’agricoltura: vogliono essere padroni del cibo. A tale scopo brevettano organismi viventi, fanno incetta di terre fertili, distruggono la piccola agricoltura e tutte le conoscenze agricole nate dall’esperienza umana di millenni. Nell’agricoltura industriale, che i suoi cultori pretendono essere l’unica in grado di nutrire il mondo, gli sprechi sono la regola e la necessità: essa si fonda sul consumismo e dunque lo spreco è benvenuto, che sia spreco di lavorazioni del terreno, di prodotti chimici, di frutta e verdura buttate al macero, di cereali usati per nutrire animali di cui poi si consumerà un terzo della carne o meno. E’ tanto vero lo spreco e l’inefficienza di tale agricoltura, che oggi l’energia consumata per produrre un qualsiasi frutto, ortaggio ecc. è molto maggiore dell’energia che tali prodotti hanno insita in sé. E, colmo del ridicolo, oggi si coltivano milioni di ettari di cereali o leguminose per farne carburante o combustibile per le centrali a biomasse, mentre non coltivandoli si risparmierebbe più energia di quella che si produce. Ma tutta questa follia fa girare soldi che vanno nelle tasche della grande industria. Ma chi ha dato alle multinazionali, Monsanto in testa, e ai loro accoliti, il potere con cui ora conducono la guerra di conquista? Gli stessi contadini, che si son fatti succubi di pesticidi e agricoltura industriale, e… noi, noi tutti, i consumatori di prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento industriale, che abbiamo riempito i loro forzieri e adesso…Adesso, se non li fermiamo, anche con i nostri consumi, con le scelte quotidiane, che hanno tanto peso sulla politica e sull’economia: un peso inimmaginabile, e lo dimostra il fatto che “essi” le temono più di ogni altra cosa, e cercano di condizionarle in tutti i modi… invece di impadronirsi della vita, finirebbero per impadronirsi soltanto della morte. Ogni zucca biologica, come le mie, avrà nutrito api e bombi; ogni zucca impestata le avrà uccise. E così è per i meli, i peri, i ciliegi, i legumi: i loro fiori e i loro frutti sono fonte di vita o dovrebbero esserlo. Nella nostra borsa della spesa sta la risposta.

Dorme nella corolla

l’ape spossata dal tardivo inverno,

l’accoglie la calendula

e se ne stanno immobili

dentro i loro colori

di sole.

L’ape è leggera

non inclina il fiore,

forse la calendula

sta medicandola

coi suoi poteri magici:

estratti di luce

misteri del sasso

e della terra.

Ambedue hanno

un secondo fine

ed è la vita.

Fonte: ilcambiamento.it