Cemento e agroalimentare: il business d’oro delle ecomafie. Sempre più agguerrite

Il business dell’ecomafia cresce ancora e raggiunge quota 16,6 miliardi di euro; 368 il numero dei clan censiti. Nel 2018 l’impennata maggiore si è avuta nei reati nel ciclo del cemento e nell’agroalimentare. In aumento anche quelli nel settore dei rifiuti e contro gli animali.

Cemento e agroalimentare: il business d'oro delle ecomafie. Sempre più agguerrite

Nella Penisola continua l’attacco di ecocriminali ed ecomafiosi nei confronti dell’ambiente: ciclo illegale del cemento e dei rifiuti, filiera agroalimentare e racket degli animali sono i settori prediletti dalla mano criminale che continua a fare super affari d’oro. La denuncia, impietosa e con tanto di dati censiti e raccolti, viene dal rapporto di Legambiente Ecomafia 2019 dedicato alle illegalità ambientali. Nel 2018 si sono registrati 28.137 illeciti contro l’ambiente (più di 3,2 ogni ora). L’aggressione alle risorse ambientali del Paese si traduce in un giro d’affari che nel 2018 ha fruttato all’ecomafia ben 16,6 miliardi di euro, 2,5 in più rispetto all’anno precedente e che vede tra i protagonisti ben 368 clan, censiti da Legambiente e attivi in tutta Italia. Sul fronte dei singoli illeciti ambientali, nel 2018 aumentano sia quelli legati al ciclo illegale dei rifiuti che si avvicinano alla soglia degli 8mila (quasi 22 al giorno) sia quelli del cemento selvaggio che nel 2018 registrano un’impennata toccando quota 6.578, con una crescita del +68% (contro i 3.908 reati del 2017). Un incremento che si spiega con una novità importante di questa edizione del rapporto Ecomafia: per la prima volta rientrano nel conteggio anche le infrazioni verbalizzate dal Comando carabinieri per la tutela del lavoro, in materia di sicurezza, abusivismo, caporalato nei cantieri e indebita percezione di erogazioni ai danni dello stato, guadagni ottenuti grazie a false attestazioni o missione di informazioni alla Pubblica amministrazione. Nel 2018 lievitano anche le illegalità nel settore agroalimentare, sono ben 44.795, quasi 123 al giorno, le infrazioni ai danni del Made in Italy (contro le 37mila del 2017) e il fatturato illegale – solo considerando il valore dei prodotti sequestrati – tocca i 1,4 miliardi (con un aumento del 35,6% rispetto all’anno). In leggera crescita anche i delitti contro gli animali e la fauna selvatica con 7291 reati – circa 20 al giorno – contro i 7mila del 2017. Come già detto, calano invece, grazie a condizioni meteoclimatiche sfavorevoli agli ecocriminali, gli incendi boschivi: un crollo da 6.550 del 2017 ai 2.034 del 2018. Da sottolineare che anche nel 2018 si conferma l’ottima performance della legge 68/2015 sugli ecoreati, che sin dall’inizio della sua entrata in vigore (giugno 2015) sta stando un contributo fondamentale nella lotta agli ecocriminali, con più di mille contestazioni solo nello scorso anno (come si dirà dopo) e un trend in costante crescita (+ 129%).

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Nelle quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia), lo scorso anno si è concentrato quasi il 45% delle infrazioni, pari a 12.597. La Campania domina la classifica regionale delle illegalità ambientali con 3.862 illeciti (14,4% sul totale nazionale), seguita dalla Calabria (3.240) – che registra comunque il numero più alto di arresti, 35 –, la Puglia (2.854) e la Sicilia (2.641). La Toscana è, dopo il Lazio che ha registrato poco più di 2.000 reati, la seconda regione del Centro Italia per numero di reati (1.836), seguita dalla Lombardia, al settimo posto nazionale. La provincia con il numero più alto di illeciti si conferma Napoli (1.360), poi Roma (1.037), Bari (711), Palermo (671) e Avellino (667).

La Campania domina anche la classifica regionale delle illegalità nel ciclo del cemento con 1.169 infrazioni, davanti alla Calabria (789), Puglia (730), Lazio (514) e Sicilia (480). A livello provinciale, guidano la classifica Avellino e Napoli con rispettivamente 408 e 317 infrazioni accertate. Il fenomeno dell’abusivismo edilizio, soprattutto al Sud, rimane una piaga per il Paese che nel 2018 è stato anche segnato dal vergognoso condono edilizio per Ischia. Emerge che in Italia si continua a costruire abusivamente: secondo il Cresme, nel 2018 il tasso di abusivismo si aggira intorno al 16%, considerando sia le nuove costruzioni sia gli ampliamenti del patrimonio immobiliare esistente. Inoltre secondo i dati del report Abbatti l’abusi, dal 2004, anno successivo all’ultimo condono edilizio nazionale, al 2018, nel nostro paese è stato abbattuto solo il 19,6% degli immobili colpiti da un ordine di demolizione. Legambiente ricorda che il migliore deterrente contro i nuovi abusi sono le demolizioni. Sul fronte del traffico illecito dei rifiuti, sono 459 le inchieste condotte e chiuse dalle forze dell’ordine dal febbraio 2002 al 31 maggio 2019 utilizzando il delitto di organizzazione di traffico illecito di rifiuti. Complessivamente sono state 90 le procure che si sono messe sulle tracce dei trafficanti, portando alla denuncia di 9.027 persone e all’arresto di 2.023, coinvolgendo 1.195 aziende e ben 46 stati esteri. Le tonnellate di rifiuti sequestrate sono state quasi 54 milioni. Tra le tipologie di rifiuti predilette dai trafficanti ci sono i fanghi industriali e i rifiuti speciali contenenti materiali metallici. La corruzione resta lo strumento principe, il più efficace, per aggirare le regole concepite per tutelare l’ambiente e maturare profitti illeciti. Dal 1° giugno 2018 al 31 maggio 2019 sono ben 100 le inchieste censite da Legambiente e che hanno visto impegnate 36 procure, capaci di denunciare 597 persone e arrestarne 395, eseguendo 143 sequestri. Se nelle quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso se ne sono contate 43, che fanno il 43% sul totale, è il Lazio la regione con il numero più alto di inchieste, 23, seguita da Sicilia (21), Lombardia (12), Campania (9) e Calabria (8). Sempre nel 2018 sono inoltre 23 le Amministrazioni comunali sciolte per mafia, mentre nei primi cinque mesi del 2019 sono state ben 8: Careri (Reggio Calabria; sciolto una prima volta nel 2012), Pachino (Siracusa), San Cataldo (Caltanissetta), Mistretta (Messina), Palizzi (Reggio Calabria), Stilo (Reggio Calabria), Arzano (Napoli; al terzo scioglimento, dopo quelli del 2008 e del 2015) e dell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria. Per quanto riguarda il settore delle archeomafie, lo scorso anno il racket legato alle opere d’arte e ai reperti archeologici ha avuto un andamento altalenante: cala per quanto riguarda i furti (-6,3%) rispetto all’anno precedente, ma il dato più importante è la contrazione dei sequestri effettuati (-77,8%) e quella degli oggetti recuperati (-41%). Considerevole il numero dei controlli, che sono stati 33.028, una media di oltre novanta al giorno. La regione più esposta all’aggressione dell’archeomafia è la Campania, con il 16,6% di opere d’arte rubate, mentre a svettare nel bilancio 2018 del “tesoro recuperato” ci sono i 43.021 reperti archeologici. Altro fronte, è quello degli shopper illegali. Nell’ultimo anno e mezzo (2018 e primi cinque mesi del 2019), l’Agenzia delle dogane dei monopoli, in collaborazione con Guardia di finanza e Carabinieri, ha lavorato con campagne mirate per fermare i flussi illegali. Il risultato complessivo è stato: 6,4 milioni di borse di plastica illegali sequestrate al porto di La Spezia; 15 tonnellate di borse di plastica illegali sequestrate al porto di Palermo; 18 tonnellate di borse di plastica illegali sequestrate al porto di Trieste, solo per citare qualche numero. Novità di questa edizione è, infine, uno specifico capitolo dedicato al mercato nero dei gas refrigeranti HFC, gas introdotti dal protocollo di Montreal in sostituzione di quelli messi al bando perché lesivi dello strato di ozono (ODS). Come emerge dall’analisi dell’EIA (Environmental Investigation Agency) e dal lavoro degli inquirenti dei paesi membri, una bella fetta di questo mercato internazionale (regolato da un complesso sistema di quote assegnate alle aziende produttrici) è completamente in nero, dove figura anche l’Italia.

fonte: ilcambiamento.it

Una Fattoria dei sogni nel terreno confiscato alla mafia

A Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, in un terreno confiscato alla mafia ha sede una realtà che offre un’occasione di riscatto e inserimento lavorativo a persone in condizione di forte svantaggio sociale. Barbara, in viaggio da qualche settimana, è andata a trovarli e ha intervistato il presidente della cooperativa Al di Là dei Sogni che ha dato vita alla fattoria agricola-sociale denominata Fattoria dei sogni. Si dice che si gira e si rigira per ritrovarsi sempre nel giusto posto. In maniera inconsapevole, la mia strada per la cooperativa sociale Al di Là dei Sogni è cominciata quattro anni fa quando, dopo l’esperienza con un progetto di sartoria sociale della ong Amani a Nairobi ero entrata in contatto con Made in Castelvolturno, un’altra realtà in cui il cucito diventa strumento di emancipazione femminile. Quest’inverno, una delle attiviste mi scrisse invitandomi ad andarle a visitare e io, che avevo nel frattempo organizzato il mio viaggio, la chiamai. Da quella telefonata partì un passaparola che mi portò a Simmaco Perillo, presidente di Al di Là dei Sogni, il quale mi accolse come una amica cui si vuole bene. La prima sera ho assistito alla sua presentazione del progetto ad un gruppo di giovani scout. E ho compreso subito quanto il lungo percorso per arrivare qui mi abbia portata, ancora una volta, nel posto giusto al momento giusto.

Com’è nata e di cosa si occupa Al di là dei sogni?

Al di là dei Sogni nasce nel 2004 come cooperativa A e B, cioè sia di servizi alla persona sia di servizi finalizzati all’inserimento lavorativo di uomini e donne in condizione di forte svantaggio sociale, individui che provengono dal mondo delle dipendenze, della salute mentale, degli OPG (ospedale psichiatrico giudiziario) e dell’area riabilitazione. Il progetto, dal 2008, ha sede e gestisce il terreno confiscato alla mafia “Alberto Varone” nel comune di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta. Al di là dei sogni é una quotidiana forma di scommessa e resistenza finalizzata al riscatto personale di soggetti “fragili” e ad una società libera dalla criminalità organizzata e dalla violenza. 

Perché un terreno confiscato?

All’inizio eravamo un gruppo di operatori consapevoli di voler avviare un progetto che rendesse le persone coinvolte il più possibile autonome e libere da forme di assistenzialismo; ci eravamo resi conto che alcuni tipi di interventi educativi avevano dei limiti strutturali ed avevamo deciso di ritornare alla terra per coltivare il sogno di percorsi di integrazione produttivi e realmente individualizzati. Questa terra è stata confiscata nel 1994 e ci è stata affidata nel 2005. Non è stato semplice per l’assemblea dei soci decidere di parteciparvi. Come mai? Per la paura. La paura di ritorsioni, per le prevedibili difficoltà ed i rischi. Paura del tutto fondata visto che dopo l’assegnazione del terreno, la vincita di un bando europeo e con esso la costruzione dell’edificio principale e la riqualifica di 17 ettari abbandonati da un decennio, tutto il bene, in una notte, è stato vandalizzato. Inoltre le difficoltà burocratiche dovute ad infiltrazioni mafiose nelle istituzioni locali hanno rallentato molto e messo in difficoltà la realizzazione del nostro progetto di vita, di lavoro e soprattutto quello dei ragazzi coinvolti. Sono serviti anni per arrivare ad essere in possesso dello spazio e delle necessarie autorizzazioni per poter svolgere semplicemente il nostro mestiere. 

Ora sono otto anni che la Fattoria dei Sogni, giorno dopo giorno, vive e cresce.

Viste le difficoltà, cosa ti ha spinto a restare e non lasciar perdere tutto?

La felicità. Penso che alla base vi sia una scelta “egoistica”: tutto questo mi rende felice, d’altro canto, per cos’altro si vive? Negli anni ’90 io avevo svolto il mio servizio civile presso una struttura per tossicodipendenti a Marradi, al confine tra Toscana ed Emilia Romagna e alla fine dell’esperienza mi avevano proposto di restare, ma io sapevo in che condizioni verteva la mia terra natia e ho sentito, forte e chiaro, il richiamo e la volontà di rientrarci per mettere a servizio le competenze acquisite. 

Qual è lo scopo del vostro lavoro?

ùIl benessere psicofisico delle persone, la loro realizzazione, il raggiungimento massimo della loro autonomia sulla base delle potenzialità e difficoltà personali. La nostra metodologia educativa e gli accordi con i servizi invianti prevedono sei anni per realizzare con la persona un progetto di vita sostenibile e renderla il più possibile autonoma. Uomini e donne che hanno alle spalle talvolta decenni di OPG, portatori di disagio psichico e mentale che, attraverso la cura, il lavoro, la presenza educativa diventano lavoratori e soci della cooperativa. 

Mi racconti una storia? Un nome, un volto spesso rende tutto più semplice da capire

E allora ti parlo di A. che è arrivato qui nel 2009 dopo decenni in strutture riabilitative. Nasce in una famiglia contadina e come tutti i figli fragili nati in un contesto amorevole, viene protetto dai suoi genitori che lo tengono vicino a insegnandogli l’arte della produzione casearia. Tutto procede in questo modo semplice ma sicuro per il ragazzo fintanto che non mancano i genitori anziani e lui si ritrova istituzionalizzato. Un letto. Un numero. A. non parla. É il numero 13 e niente di più di due pasti al giorno e l’isolamento totale dagli affetti e dal resto della società. Le condizioni peggiorano quando viene definito ‘socialmente pericoloso’ a causa di atti di autolesionismo: ha sempre più spesso delle crisi durante le quali l’uomo si morde le braccia fino a strapparsi la pelle. É l’unico modo che ha per farsi notare ed essere visto come Essere umano, anche se solo per pochi minuti, anche se, le conseguenze erano di nuovo forti sedativi e cinghie che lo legavano al letto. Per mesi, anni, decenni. Le prime sere che A. ha trascorso in cooperativa, dopo cena, si allontanava e andava, da solo, nei campi. Perché? “Perché un uomo di campagna, prima di dormire, verifica che tutto vada bene”. Come lo abbiamo capito? Guardandolo. Pur non avendo mai appreso il linguaggio dei gesti, lui tuttora si esprime e si fa capire, da chi lo vede. (Con me ha fatto lo stesso, appena arrivata, ero in cucina e guardandomi mi ha chiesto “Tu chi sei?”, nda)

Che servizi offrite alla cittadinanza?

Abbiamo un’azienda agricola biologica ed un laboratorio di trasformazione, una fattoria didattica, un servizio di giardinaggio e uno di pulizie ed un catering. Abbiamo poi un servizio di animazione e organizziamo eventi nel bellissimo spazio che gestiamo, dove ospitiamo soggiorni, gite scolastiche e corsi sul tema della legalità. 

Come ha reagito e come reagisce la comunità locale al vostro lavoro?

Non tutti ci amano. Oltre alla criminalità organizzata, che resta presente seppur molto indebolita negli ultimi dieci/quindici anni, c’è una parte della società che fatica a schierarsi esplicitamente dalla parte della legalità, per via di piccoli e grandi legami e dunque vantaggi economici dovuti alla presenza della camorra. D’altra parte, invece, abbiamo un altissimo numero di volontari che riempiono i nostri campi e le nostre estati, molti attivisti, scuole e realtà locali ed italiane coinvolte che supportano il nostro progetto. 

E se qualcuno volesse venirvi a conoscere di persona?

Come con te, Barbara, noi siamo molto disponibili ed ospitali. Spesso transitano viaggiatori, sostenitori e persone di passaggio che quando vengono qui si innamorano e poi ritornano. Vi sono poi i campi di lavoro organizzati in estate da Libera e la possibilità di fare turismo sostenibile: stiamo costruendo infatti l’ostello che affiancherà l’area campeggio già avviata. Al di là dei sogni prosegue il suo cammino ed io, pur lasciando qui un pezzetto di cuore, domani mi rimetto in viaggio verso altri progetti del consorzio NCO.  Metto nel mio zaino la sensazione che ciò che realmente differenzia una realtà del genere é la forza di volontà dei suoi membri e riparto con una domanda: alla luce di ciò che ho ascoltato e visto, cosa è realmente possibile nella mia e nella nostra vita? La sensazione è che, oggi, la risposta sia ben più ampia di qualche giorno fa.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/05/fattoria-dei-sogni-terreno-confiscato-mafia/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Confiscata alla mafia, diventa una “casa memoria” della lotta alle cosche

Siamo in centro a Catania, in Sicilia, dove un immobile confiscato alla mafia è diventato, grazie a una rete di associazioni, una “casa della memoria” della lotta alle cosche.

Un bene confiscato alla mafia. Una casa con un bellissimo giardino nel centro della città di Catania, in via Randazzo 27. Una rete di associazioni che ha trasformato quello che è stato un luogo di mafia in un giardino per il quartiere e in una “casa memoria” della lotta alla mafia. Sono gli ingredienti di un progetto diventato realtà grazie a una raccolta fondi e all’impegno di tanti volontari.

«L’abbiamo chiamato “Il Giardino di Scidà” . Gli abbiamo dato il nome di un giudice, storico presidente del Tribunale dei minori di Catania, che tanto ha fatto per combattere la mafia e per salvare intere generazioni dalla criminalità – spiegano dall’associazione culturale I Siciliani, tra i promotori dell’iniziativa – Catania ha pochissimi luoghi della memoria della lotta alla mafia. Per qualcuno a Catania la mafia non è mai esistita. Per questo abbiao voluto costruire, proprio in un bene confiscato alla mafia e affidatoci dal Comune, una “casa memoria” , dove raccontare attraverso documenti, oggetti, foto, video, racconti la storia del potere mafioso in città, ma soprattutto le tante storie di chi contro la mafia si è battuto. Come Giuseppe Fava , direttore de I Siciliani, assassinato il 5 gennaio 1984. Come Giambattista Scidà che ha speso la sua vita “per la giustizia, per Catania”. Una casa e un giardino aperti alle scuole, alle famiglie, al quartiere».

E nel 2017 le associazioni impegnate nel progetto sono riuscite a raccogliere più di quindicimila euro, a cui si sono aggiunti 2500 euro di Banca Etica.

«Non c’era nulla e abbiamo dovuto fare tutto – spiegano I Siciliani – il contratto della luce, l’impianto elettrico, l’impianto idraulico. Abbiamo dovuto togliere le porte distrutte, cambiare gli infissi, ripristinare le pareti, montare lo scaldabagno, montare le lampade e i lampioni. Controllare i tetti malconci e ripristinarli. Rimettere in sesto il giardino, costruire i gradini, la rampa, il massetto. C’è stato Maurizio Parisi, senza il quale nulla si sarebbe potuto fare: la mattina stringeva i tubi, metteva in ordine il giardino, la sera riunione di redazione. Ci sono stati gli architetti Giuseppe Mazzeo e Lorenzo La Mantia che prima sono venuti a fare i sopralluoghi, poi a prendere le misure. Hanno redatto un progetto di riqualificazione dell’immobile e ci hanno aiutato nelle richieste al Comune e infine lo hanno realizzato, rendendo fruibile il giardino e l’immobile. Irene Cummaudo che ci ha insegnato a rimettere in sesto le pareti e a leggere Pippo Fava. Andrea, Elena, Giorgio, Soemia che ci hanno portato il circo, le bolle di sapone e la magia. Salvo Castro e gli attivisti del Comitato Popolare Antico Corso hanno invece portato la luce».

E dicono ancora: «L’Arci, la Fondazione Fava, il Gapa, partner de I Siciliani nella gestione del Giardino hanno lanciato il cuore oltre l’ostacolo e grazie a Francesca Andreozzi, Giuseppe Andreozzi, Dario Pruiti, Saro Rossi, Ivana Sciacca, siamo riusciti a organizzare eventi, a presentare progetti, ad avviare campagne, a mettere in piedi un gruppo di educatrici ed educatori che adesso sono i veri protagonisti delle attività del Giardino».

«Alessio Di Modica al Giardino ha portato il suo spettacolo Ossa, Turi Zinna ha recitato Doppio Legame, l’associazione Terre Forti con Alfio Guzzetta ha messo in scena quattro spettacoli teatrali – proseguono i promotori del progetto, che ringraziano un intero quartiere mobilitatosi – Le bambine e i bambini dello Studio di logopedia e psicomotricità hanno giocato e sguazzato in piscina nelle mattine di luglio, le bambine i bambini del Gapa si sono tinti di blu e hanno dato colore al giardino. Le donne del quartiere hanno fatto yoga, le mamme e i papà del quartiere hanno festeggiato in giardino i compleanni dei loro figli. Sono venuti da tutta Italia a visitare il bene confiscato: scuole del piemonte, di Trento, licei di Catania. Sono venuti i ragazzini di Librino a scoprire cos’è e come funziona un bene confiscato alla mafia. Una sera d’estate abbiamo esposto le foto scattate per il giornale del sud e abbiamo proiettato Prima che la notte, il film sulla storia de I Siciliani e di Pippo Fava. C’erano gli attori del film, c’era Claudio, c’era Riccardo e c’erano tantissime persone, sedute a terra, sulle scale, sull’antica cisterna che sovrasta il giardino».

«Abbiamo ancora tanta strada da fare. Tra poco al giardino arriverà internet, arriverà la radio, sono già arrivate, direttamente dal set del film, le riproduzioni dei quadri di Pippo Fava, donati dalla Fondazione Fava al Giardino. E arriveranno le classi delle scuole per imparare cosa significa giornalismo, cosa significa combattere davvero, non solo a parole, la mafia».

Buon lavoro ragazzi!

Fonte: ilcambiamento.it

Dalla lotta alla corruzione “Riparte il Futuro”

Riparte il Futuro è una campagna nata tre anni fa allo scopo di combattere la corruzione in Italia e fare informazione su quali sono i reali costi di questo fenomeno. Il suo impatto è passato presto dal digitale al reale: dopo aver raggiunto un milione di firmatari, Riparte il Futuro ha ottenuto numerosi successi su temi legislativi fondamentali riguardanti la trasparenza e la libertà di accesso ai dati. Priscilla Robledo, Project Manager di Riparte il Futuro, ci racconta la nascita e gli sviluppi del progetto. A pochi giorni dalle nutrite manifestazioni contro le mafie promosse dall’associazione Libera  da Locri (RC) a Milano, vi regaliamo questa bella intervista che abbiamo realizzato con Priscilla Robledo, Project Manager di Riparte il Futuro, una ONG di persone che hanno deciso di combattere la corruzione della Pubblica Amministrazione, grazie alla pressione popolare.

Cos’è “Riparte il futuro” e chi sono i suoi fondatori?

Riparte il Futuro nasce nel 2013 come campagna digitale di Libera del Gruppo Abele contro la corruzione e così facendo ha lavorato negli ultimi 3 anni cercando di spiegare la corruzione ai cittadini italiani in modo semplice, ma rigoroso. Ha già articolato diverse campagne di lotta alla corruzione in Italia. Nell’aprile dello scorso anno ci siamo separati da Libera e abbiamo creato una realtà indipendente, così Libera continua a lavorare contro la mafia nel modo eccellente in cui ha sempre fatto e noi invece ci possiamo concentrare sulla lotta alla corruzione con una realtà associativa indipendente.

Lavoriamo per campagne, quindi identifichiamo alcuni settori di intervento con la partecipazione dei cittadini italiani e con i numeri del consenso che riusciamo ad ottenere andiamo dai decisori pubblici e facciamo pressione affinché possiamo ottenere quello che vogliamo. Nel corso degli anni abbiamo raggiunto oltre 1.180.000 firmatari delle nostre petizioni e quindi abbiamo una comunità digitale numerosa e molto attiva.  Il nostro compito è quello di rendere evidenti, semplici e chiare le nostre richieste e ovviamente premere sempre perché i decisori pubblici ci ascoltino. Nel corso degli anni abbiamo raggiunto diversi risultati e il motivo per cui li abbiamo raggiunti ha anche a che vedere con il fatto che lavoriamo in partnership con diverse realtà della società civile organizzata, in particolare molte associazioni che si occupano di trasparenza nella Pubblica Amministrazione (PA) come: Open Polis, Diritto di Sapere, Cittadini Reattivi, Movimento Consumatori. Il nostro partner su molte campagne è Transparency International, un’organizzazione che si occupa di lotta alla corruzione e quindi, avendo una missione comune, spesso e volentieri uniamo le forze.1009733_572601162791832_2086111430_n

Perché combattere la corruzione conviene a tutti?

Combattere la corruzione conviene a tutti perché la corruzione alza il prezzo dei servizi pubblici per tutti noi cittadini, gonfia il costo delle opere pubbliche strategiche per il paese che paghiamo con le tasse e non solo, fa anche sì che le opere pubbliche stesse siano di qualità scadente. Oltretutto la corruzione mina la credibilità dell’Italia anche sulla scena internazionale e quindi per esempio impedisce che l’Italia possa ricevere la stessa quantità di investimenti stranieri che ricevono altre economie. Noi riteniamo che la corruzione sia la madre della disoccupazione e in particolare della disoccupazione giovanile, proprio perché impedendo un flusso di capitale nuovo di investimenti stranieri, non permette che si crei nuova occupazione in questo paese. L’Italia non è neppure fra i primi 20 paesi in Europa che creano occupazione grazie agli investimenti stranieri e la disoccupazione giovanile è al 40% ! Questo ci dimostra che la corruzione crea dei problemi oggi, ma anche domani, per il futuro delle persone come me, che sono i giovani di oggi, e il futuro di questo paese.

Chi sono i whistleblowers? Parlaci della vostra campagna

I whistleblower sono “coloro che soffiano nel fischietto” per informare la collettività che qualcosa non va nel verso giusto, in altri termini sono i dipendenti/collaboratori/consulenti di un’azienda che denunciano, nell’interesse pubblico, un illecito di cui sono testimoni sul luogo di lavoro. C’è bisogno di una campagna a tutela dei whistleblower perché ad oggi in Italia non c’è una legge che li protegga; attualmente i whistleblower subiscono discriminazioni come demansionamento, mobbing o licenziamento. Ricordiamoci però cosa fanno di buono per il paese: denunciano frodi che danneggiano l’intera collettività! Se c’è ad esempio un’azienda che fornisce cibo scaduto, io lo voglio sapere, nell’interesse della fede pubblica! E se c’è qualcuno che ha il coraggio di dirlo, pagando in prima persona, io Priscilla di Riparte il Futuro lo ringrazio, ma voglio che sia lo Stato stesso a ringraziarlo con una legge su misura per la sua tutela, che al momento però non esiste nel nostro paese. La campagna che abbiamo lanciato insieme a Trasparency International nel luglio del 2016, ha superato le 50.000 firme, ma c’è bisogno di molte più firme e lancio qui un appello per firmare la nostra petizione, ma devo dire che già con le firme che abbiamo ottenuto, abbiamo potuto fare pressione al Senato, che è il destinatario della nostra petizione, affinché discuta al più presto e approvi la legge che attualmente è in Commissione Affari Costituzionali del Senato. Nella legge devono assolutamente essere contenuti due aspetti che l’attuale disegno di legge non prevede, che sono: l’estensione al settore privato e in secondo luogo il fondo economico a sostegno dei segnalanti, che oltre a rischiare di perdere il lavoro potrebbero dover affrontare ingenti spese legali ed anche problemi di natura psicologica, perché spesso sono vittime di mobbing e ritorsioni sul luogo di lavoro.17362938_1416860618365878_7489035068499320345_n

Una delle vostre campagne principali è stata quella del “FOIA”, spiegaci cos’è

Il “FOIA” è il Freedom of Information Act, tradotto in italiano è la Legge sulla Libertà del Diritto all’Informazione ed è una legge bellissima, perché in base ad essa ciascun cittadino ha il diritto di ottenere dalla PA qualsiasi tipo di informazione desideri. Quindi non deve avere un interesse specifico, come succedeva prima dell’entrata in vigore di questa legge, ma può essere un cittadino qualunque e la PA ha il dovere di dargli quell’informazione. Questa è la regola. Ci sono delle eccezioni, ma la rivoluzione copernicana che il FOIA ha introdotto in questo paese è che la regola è che gli atti, le informazioni, i dati, qualunque cosa in seno alla PA dev’essere di dominio di tutti e ogni cittadino ha il diritto di accedervi. Quindi è chiaramente una legge che sposta il rapporto di forza fra il cittadino e la PA. L’altra cosa bellissima di questa legge sulla libertà dell’informazione è che la società civile italiana si è riunita nella coalizione “FOIA 4 Italy”  e in due anni di campagna è riuscita a ottenere modifiche importanti sul testo della legge; perché il testo iniziale del FOIA prevedeva una serie di eccezioni che a nostro parere erano insufficienti a garantire una vera libertà dell’accesso ai dati e alle informazioni della PA. Tramite la coalizione FOIA 4 Italy il testo della legge è cambiato drasticamente.

Ciononostante ci sono ancora diverse eccezioni che ci preoccupano, prima fra tutte l’eccezione sul “diritto alla riservatezza”, che è un po’ usata come spada di Damocle in questo paese. Quindi la privacy è sicuramente un aspetto. Un altro aspetto riguarda quali sono le PA a cui si applica. A nostro avviso si dovrebbe applicare anche a tutte le partecipate per esempio, che in Italia dovrebbero essere più di 7.000, ma in realtà è un numero che nessuno conosce con esattezza. Chiaramente in pancia alle partecipate ci sono informazioni di interesse pubblico, perché le partecipate funzionano con il denaro pubblico, e quindi dovrebbero essere soggette al FOIA, ma questo appunto è uno degli aspetti controversi: staremo a vedere quali partecipate risponderanno positivamente e quali no. Perché il vantaggio del FOIA non è solo l’ottenimento dell’informazione, ma il fatto che io con quell’informazione posso fare qualcosa per cambiare in meglio l’amministrazione della cosa pubblica ed esprimere una mia obiezione su come i soldi pubblici vengono impiegati.

La vostra campagna per chiedere la cessazione del vitalizio agli ex-parlamentari condannati per mafia e corruzione con oltre mezzo milione di adesioni è diventata la più vasta mobilitazione digitale mai organizzata in Italia, com’è andata a finire?

Già, pensa che con questi numeri avremmo potuto chiedere un referendum! È andata a finire bene, visto che l’abbiamo vinta ottenendo la delibera dal Parlamento che toglie il vitalizio agli ex-parlamentari condannati e questa vittoria l’abbiamo ottenuta lo stesso giorno in cui Riparte il Futuro raggiungeva un milione di firmatari! Quindi quel giorno di maggio del 2015 è stato davvero un bel giorno per noi! Ad oggi si contano 24 ex-parlamentari che non ricevono più il vitalizio, fra cui Silvio Berlusconi, Cesare Previti, Marcello dell’Utri ed altri.10375_483318485053434_796570317_n

Come hanno reagito finora le istituzioni?

Riparte il Futuro all’inizio della sua esperienza ha portato oltre 300 parlamentari con i “braccialetti bianchi” ad impegnarsi nella lotta contro la corruzione in Parlamento e un anno dopo gli stessi parlamentari hanno approvato un pacchetto di norme contro la corruzione, quindi la risposta delle istituzioni c’è! C’è perché noi abbiamo dietro la forza dei numeri e i nostri rappresentanti politici sono molto sensibili a questo tipo di pressione. Quindi, tengo a sottolineare che Riparte il Futuro non è un partito e non lo sarà mai, ma nel nostro attivismo dobbiamo necessariamente porci in modo costruttivo rispetto alla PA e stiamo ottenendo degli ottimi risultati in tal senso.  Inoltre soprattutto nell’ultimo anno di lavoro, diverse amministrazioni ci hanno chiesto di aiutarle nello sviluppo e nell’implementazione di strumenti digitali di trasparenza e partecipazione, come il Comune di Milano, quello di Roma, il Ministero della PA e Semplificazione. Essendo quindi riconosciuti ufficialmente come degli interlocutori anche dalla PA, questo ci permette di muoverci dal digitale al reale e di ottenere delle soluzioni concrete a vantaggio di tutti i cittadini italiani. Per cui continueremo a lavorare su diverse campagne cercando di ottenere il cambiamento dall’alto verso il basso, e cioè in Parlamento, nei Ministeri, nei Consigli Regionali e in quelli Comunali, e dal basso verso l’alto crescendo sempre di più come base e creando una comunità sempre più attiva e pronta a fare insieme pressione pubblica e chiedere trasparenza nell’azione amministrativa.

Cosa possono fare i lettori di Italia che Cambia per aiutarvi?

Ci state già aiutando con quest’articolo! Sarebbe poi bello se il lettore dell’articolo pensasse ad una richiesta FOIA da fare ad una amministrazione alla quale vuole chiedere un’informazione che possa di fatto essere utile per un cambiamento di cui abbia bisogno nella propria vita, quindi ad esempio: all’azienda di trasporti o a quella dei rifiuti del comune in cui risiedono. Noi possiamo sicuramente aiutarlo a formulare la richiesta in modo efficace. Possiamo anche aiutarlo a capire insieme, nella fase in cui successivamente l’informazione sia stata ottenuta, come poter utilizzare l’informazione e quindi di fatto creare una nuova campagna.

Cos’è per te l’Italia Che Cambia?

Per me l’Italia che cambia è l’Italia che vorrei, l’Italia in cui i cittadini italiani partecipino, siano spinti da soli ad agire e non aspettino delle soluzioni calate dall’alto, ma che si rendano per primi motori del cambiamento. Noi abbiamo dimostrato che possiamo cambiare le leggi, possiamo pezzo dopo pezzo cercare di ripulire questo paese dalla corruzione e renderlo più trasparente. Allo stesso modo ci sono altri cittadini italiani che nel loro settore di attività hanno dimostrato e continuano a dimostrare che il cambiamento è possibile e che parte dal basso. Credo che la società italiana abbia tutti i numeri per splendere e l’Italia che cambia è l’Italia che di fatto ha bisogno di cambiare. Siamo un paese molto brillante che ha un sacco di talenti, alcuni dei quali sono inespressi per colpa di un sistema amministrativo poco efficiente ed estremamente macchinoso, ma abbiamo i numeri per poter cambiare questo paese, dal basso e lo cambieremo!

Intervista: Veronica Tarozzi e Paolo Cignini

Riprese e montaggio: Paolo Cignini

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2017/03/io-faccio-cosi-160-lotta-corruzione-riparte-futuro/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

 

Mafia e multinazionali latte boom dell’energia verde d’Italia

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Migliaia di pannelli solari luccicano al sole, ma il terreno agricolo pregiato si trova sotto sterile. Mentre l’isola italiana di Sardegna crogiola in un boom delle energie rinnovabili, la lunga mano della criminalità organizzata rischia deturpando le sue ambizioni di energia pulita.

Famosa per le sue lussureggianti pianure e le acque color smeraldo ma tormentato dalla povertà e la disoccupazione, la Sardegna ha colto al volo l’occasione per rilanciare l’economia convertendo i suoi lunghi mesi di sole in energia verde. Città e paesi di tutta Italia stanno accogliendo l’energia idroelettrica, l’energia geotermica, centrali eoliche, pannelli solari, generatori di vapore e impianti a biomassa, dovuto in gran parte ai sussidi statali generose. Nel nord-ovest della Sardegna, il raccolto dai campi viola e dorati di cardi e girasoli viene utilizzato per generare energia da biomassa, mentre sulle dolci colline nel centro dell’isola, imponenti turbine bianche girare dolcemente nella brezza in seconda più grande parco eolico d’Italia. Con la disoccupazione giovanile nella regione di oltre il 50%, molti speravano gli incentivi verdi dello stato avrebbero respirare non solo la vita in comunità familiari in difficoltà, ma attirare aziende provenienti da altre parti d’Italia e le multinazionali estere che creare posti di lavoro. Il problema, secondo i gruppi di campagna, è che, mentre i contributi provengono dalle tasche dei contribuenti, finora la regione ha visto poco degli utili realizzati dalle società di energia, molti dei quali sono accusati di fare affermazioni fraudolente di fondi.

‘Il denaro lascia il paese’

Procuratore sardo Mauro Mura ha avvertito l’anno scorso di infiltrazioni mafiose nel settore, segnalando i casi di impianti di energia rinnovabile che aveva approfittato enormemente dalle sovvenzioni aperte esclusivamente agli agricoltori, mentre “non produce alcun beni agricoli a tutti”. “Gli incentivi sono stati pensati per i veri agricoltori, si trattava di un aiuto da parte dello Stato. Avrebbero dovuto essere in grado di installare alcuni pannelli sul loro terra per il proprio consumo, e vendere qualsiasi energia rimanente su”, ha detto il 63-Yearbook vecchio attivista Pietro Porcedda. Alla periferia di Narbolia vicino costa occidentale dell’isola, una tale pianta si estende attraverso i campi più fertili della città. Oltre 107.000 pannelli solari si siedono in cima alle tetti di alcune serre 1600, in cui i proprietari avevano promesso di coltivare piante di aloe. Ma con la luce del sole chiuso fuori dai pannelli, non cresce nulla lì, ma erbacce. L’azienda cinese che gestisce l’impianto, nel frattempo, sta intascando profitti da 20 anni di sussidi e la cessione della sua energia a gigante italiano Enel, ha detto Porcedda. “Invece il denaro lascia il paese, non è reinvestito qui. E i 60 posti di lavoro ci avevano promesso? Quattro persone lavorano qui”, ha aggiunto, non accusando la multinazionale ma le autorità italiane per chiudere un occhio alla situazione. Il potenziale per gli investimenti – e la corruzione – è grande. Forze dell’ordine dell’Unione europea Europol contrassegnato da preoccupazioni nel 2013 che “la mafia italiana sta investendo sempre di più nelle energie rinnovabili.” E il settore è cresciuto da allora. In solare in particolare, l’Italia è diventata un leader mondiale, generando più della sua energia dal sole di qualsiasi altro Stato, con oltre il 7,5% del consumo nazionale proveniente da produzione fotovoltaica. Ogni borgata nel paese ora vanta almeno una fonte di energia rinnovabile, secondo principale gruppo ambientalista in Italia Legambiente, con 323 considerata autonoma in termini di energia elettrica grazie ai parchi eolici.

‘Le minacce non ci fermeranno’

Nonostante il successo, il governo italiano è stato costretto a ridurre le sovvenzioni dello scorso anno nella speranza di abbattono i prezzi dell’energia elettrica, dopo le famiglie si sono trovati di pagare € 94 € (100 $) all’anno in cima ai loro bollette per sostenere le energie verdi. Incentivi per gli impianti fotovoltaici, per esempio, sono stati tagliati tra il 6% e il 25%, in funzione soprattutto capacità dell’impianto. Ma mentre il retro rotolo può frenare l’interesse degli investitori futuri, potrà fare ben poco per affrontare i problemi già presenti nel sistema. “I primi sussidi erano molto grandi, ha fatto le multinazionali affamati e sono venuti qui a investire”, ha detto Rosetta Fanari, 47, la cui azienda rende ricotta cremosa sulla base di una ricetta sarda antica in vasche alimentate da energia solare ultra-moderno generatore di vapore. Una delle imprese locali orgogliosi di aver beneficiato degli incentivi come sono stati destinati, disse lei dovrebbe fare di più “per assicurarsi che la ricchezza rimanga qui, per creare benefici per l’ambiente, il popolo sardo”. Alcuni abitanti del luogo hanno preso su se stessi per bloccare progetti controversi. Biologo Manuela Pintus è stato eletto sindaco della vicina Arborea quest’anno su una piattaforma per evitare la perforazione di un pozzo esplorativo per il gas naturale vicino a una riserva per pellicani protette. “I nostri tifosi hanno ricevuto minacce da coloro che volevano il bene, che ha detto ‘Ti distruggiamo tutto quello che hai se votate per Manuela,'” ha detto. “E non ci ha impedito. Abbiamo madri locali e nonni dietro di noi, e continuerà la lotta per proteggere la nostra terra per le generazioni future.”

Fonte: euractiv.com

Addiopizzo: contro il pizzo cambiamo i consumi

“Un intero popolo che accetta di pagare il pizzo è un popolo senza dignità”. La mattina del 29 Giugno 2004, i palermitani che camminano in giro per la città trovano i muri tappezzati di adesivi anonimi che riportano questo slogan. Tutti cominciano a parlarne, cittadinanza e istituzioni si interrogano sull’identità degli autori di questo gesto, parte il tran tran mediatico e in brevissimo tempo la notizia è sulla bocca di tutti. Ma facciamo un passo indietro.

“Questo movimento nasce improvvisamente, dal basso” spiega Pico, uno degli associati di “Addiopizzo”, parlando del movimento anti-racket siciliano. Nel 2004 un gruppo di giovani studenti e neolaureati si riunisce intorno a un tavolo per decidere cosa fare della propria vita. Sono sette ragazzi in gamba e con forte spirito di iniziativa che non vogliono lasciare Palermo. L’idea iniziale che nasce intorno a quel tavolino è molto semplice: aprire un pub equo e solidale. Uno di loro si occupa di scrivere il business plan e tra i rischi economici da calcolare inserisce la voce “pagare il pizzo”. “Eravamo tutti ragazzi informati e consapevoli”, spiega Pico, “ma quando vediamo scritta nero su bianco quella parola – “pizzo” – è come se ci fossimo scontrati all’improvviso con la realtà dei fatti. Fu come una doccia fredda”.8748073071_4c82e4698f_b-e1417596772110

Iniziando studi e ricerche sul tema, scoprono che il commerciante paga il pizzo di tasca propria una sola volta, all’inizio, successivamente è il prezzo delle merci che viene aumentato per coprire la “tassa” dell’estorsione. Questo significa che tutti i cittadini vengono coinvolti e anche attraverso il semplice acquisto di un prodotto si alimenta indirettamente il sistema mafioso del pizzo. Da questa presa di coscienza nasce lo slogan degli adesivi attaccati nella notte tra il 28 e il 29 Giugno 2004 dal gruppo di attivisti. Quando decidono di venire allo scoperto, dopo qualche giorno dalla “notte degli adesivi”, i sette giovani universitari scelgono di rimanere anonimi, di non personificare la lotta. “Il problema di tanti movimenti anti-mafia è stato proprio la personificazione in un singolo individuo, che purtroppo – sappiamo bene – troppo spesso è diventato martire. Anche oggi che l’associazione ha un riconoscimento a livello regionale e nazionale”, aggiunge, “c’è una turnazione continua delle cariche e dei ruoli interni”.addiopizzo

In pochissimo tempo il gruppo passa da sette persone a quaranta e già nell’estate del 2004 viene preparato un manifesto del consumo critico da sottoporre ai cittadini. Nell’estate del 2005, solo un anno dopo, il manifesto è stato sottoscritto da oltre mille persone e a maggio del 2006 esce la lista dei primi cento commercianti che hanno rifiutato di pagare il pizzo. Da quel momento in poi, con cadenza annuale sono resi noti circa cento nuovi commercianti che aderiscono alla rete e a maggio di ogni anno viene organizzata una tre giorni di eventi e incontri sul consumo critico in una delle piazze di Palermo. La storia di Libero Grassi è un modello ma anche un monito: nessun commerciante deve rimanere solo. Per questo sono tutti invitati a partecipare per sostenere la rete ma soprattutto per conoscere e sensibilizzare. “La nostra forza”, argomenta Pico, “è la responsabilizzazione del cittadino. È il singolo individuo che decide di fare la differenza”. Non si colpevolizza il commerciante che paga il pizzo, ma piuttosto si premia e si dà voce a chi decide di non farlo. Gli esercizi commerciali che aderiscono alla rete di Addiopizzo accettano il “pacchetto legalità” a 360 gradi: dall’assunzione dei dipendenti al pagamento delle tasse è tutto perfettamente a norma. In cambio i commercianti sanno di poter contare da un lato su una rete di cittadini consapevoli che prediligono le loro attività piuttosto che altre, dall’altro sulla protezione dell’associazione in caso di necessità.pizzo

“Gli esercizi che aderiscono ad Addiopizzo non hanno quasi mai avuto ritorsioni, ma quando è successo hanno avuto la dimostrazione che si può contare sulla nostra rete”, racconta Pico, “e il caso di Rodolfo Guajana lo testimonia”. Dopo aver aderito alla rete, questa ditta palermitana è stata vittima di un attentato incendiario nella notte tra il 30 e il 31 Luglio 2007 e “il fumo delle fiamme si vedeva fin dall’altro capo della città”, ricorda Pico. Il capannone della ditta venne completamente distrutto ma il 17 settembre, dopo solo due mesi, Guajana è di nuovo in piedi, pronto per riaprire la sua attività. Grazie alle pressioni di Addiopizzo e alla mobilitazione innescata sul territorio, il proprietario ha ottenuto il sostegno delle istituzioni e in pochissimo tempo gli è stato garantito dalla regione lo spazio per i nuovi capannoni. “Se la società civile è consapevole e richiede il cambiamento”, spiega Pico, “le istituzioni non possono fuggire e sono obbligate ad ascoltare e agire di conseguenza”. L’associazione Addiopizzo oggi è una solida realtà regionale, dalla sua costola si è formata un’associazione collaterale, “Addiopizzo Travel” (vedi box a destra), e oltre al nucleo originario di Palermo sono nate nuove cellule a Catania (2006) e Messina (2010). Le stime ufficiose delle forze dell’ordine registrano un forte calo del fenomeno del pizzo anche a Palermo, dove nel 2004 i dati ufficiali riportavano una stima pari all’80%.

“La mafia ti uccide nei sogni, con Addiopizzo abbiamo riacceso in minima parte le speranze della gente, lo vedo negli occhi delle persone con cui parlo” confida Pico. Poi conclude: “sono soddisfatto di quello che abbiamo ottenuto fino ad oggi, ma sono ingordo e voglio migliorare sempre di più”.

Fonte : italiachecambia.org

 

Fukushima, “la bonifica nucleare è in mano alla mafia”

Il coordinamento della decontaminazione di Fukushima si basa sulla criminalità organizzata. A denunciare la presenza della mafia nel progetto di bonifica della centrale nucleare giapponese è il professor Michel Chossudovsky dell’istituto canadese “Global Research”.fukushima__impianto9

Grandi cantieri, grandi affari. Tutto il mondo è paese, incluso il Giappone. Nessuna sorpresa, dunque, se spunta anche a Tokyo il convitato di pietra di molte grandi opere: la mafia. Peccato che l’opera in questione sia la bonifica di Fukushima: in ballo non ci sono treni veloci, ma la sicurezza del pianeta. Contratti complessi e carenza di lavoratori disponibili: per questo s’è fatta avanti la Yakuza, conferma la Reuters. Prima il disastro atomico causato da terremoto e tsunami, poi le menzogne di governo e media per coprire gli errori della Tepco e la reale entità del dramma: le autorità giapponesi non hanno ancora fatto i conti seriamente con l’apocalisse, emergenza sanitaria e contaminazione dell’acqua, dei terreni agricoli e del cibo. “È una guerra nucleare senza una guerra”, dice lo scrittore Haruki Murakami: stavolta “nessuno ha sganciato una bomba su di noi”, i giapponesi hanno fatto tutto da soli: “Abbiamo impostato il palco, abbiamo commesso il fatto con le nostre mani, stiamo distruggendo le nostre terre e stiamo distruggendo la nostra vita”. Con la collaborazione di una potente forza occulta: la mafia. “Il coordinamento della decontaminazione di Fukushima, operazione multimiliardaria, si basa sulla criminalità organizzata del Giappone”, che è “attivamente coinvolta nel reclutamento del personale ‘specializzato’ per compiti pericolosi”, accusa il professor Michel Chossudovsky dell’istituto canadese “Global Research”, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. “Le pratiche di lavoroYakuza a Fukushima – spiega Chossudovsky – si basano su un sistema corrotto di subappalto, che non favorisce l’assunzione di personale specializzato competente”. Qualcosa che ricorda da vicino gli strani appalti a cascata nei quali si infiltrano le cosche, in Europa e in particolare in Italia, gonfiando i prezzi e spremendo come limoni le aziende che poi i lavori devono farli davvero. “Si crea un ambiente di frode e incompetenza, che nel caso di Fukushima potrebbe avere conseguenze devastanti”, visto che ne va della sicurezza di tutti. In compenso, la manovalanza mafiosa è conveniente: “Il subappalto con la criminalità organizzata è un mezzo per grandi aziende coinvolte nella bonifica per ridurre in modo significativo il costo del lavoro”. Alla criminalità organizzata giapponese, continua Chossudovsky, è affidata anche la delicatissima rimozione delle barre di combustibile dal reattore 4: il minimo errore potrebbe causare conseguenze apocalittiche, a livello mondiale, desertificando il Giappone e investendo di radioattività tutto l’oriente, dalla Cina all’Australia. In ballo, la rimozione con una gru di 1.300 barre di combustibile nucleare: in caso di incidente (anche solo il contatto fra due barre) si calcola che si produrrebbe un’onda radioattiva pari a 14.000 bombe di Hiroshima. Operazione che, a quanto pare, sarà effettuata da aziende non proprio pulite: la “Reuters” documenta il ruolo della Yakuza e il suo “rapporto insidioso” con la Tepco e i ministeri della salute, del lavoro e del welfare. Solo nella prefettura di Fukushima, conferma la polizia nipponica, operano almeno 50 clan, con oltre mille affiliati. Gli investigatori sono al lavoro per tentare di sradicare la criminalità organizzata dal progetto di bonifica nucleare. In una rara azione penale, il boss Yoshinori Arai è stato appena condannato per aver intascato 60.000 dollari facendo la cresta sui salari degli operai, ridotti di un terzo. Il mafioso, continua Chossudovsky, è stato condannato per la fornitura di lavoratori per un sito gestito da Obayashi, uno dei maggiori imprenditori del Giappone, a Date, una città a nord-ovest della centrale di Fukushima, investita dalle radiazioni dopo il disastro. Per un funzionario della polizia, il caso Arai è solo “la vetta dell’iceberg”, perché l’intera bonifica di Fukushima puzza dimafia. “Un portavoce di Obayashi ha detto che la società ‘non ha notato’ che uno dei suoi subappaltatori stava prendendo lavoratori da un criminale”, ma l’azienda si impegna ora a collaborare con la polizia. Peccato che la testa dell’organizzazione sia a Tokyo: ad aprile, racconta “Global Research”, il governo ha selezionato ben tre società implicate nell’invio illegale di lavoratori a Fukushima: “Una di queste, una società basata a Nagasaki denominata Yamato Engineering, ha inviato 510 lavoratori per collocare un tubo alla centrale nucleare in violazione delle leggi sul lavoro”. Tutto questo, per “migliorare le pratiche di business” a scapito della sicurezza. Già nel 2009, aggiunge Chossudovsky, alla Yamato Engineering erano stati “vietati i progetti di opere pubbliche”, a causa di una sentenza che definiva l’azienda “effettivamente sotto il controllo della criminalità organizzata”. Nelle città attorno a Fukushima sono al lavoro migliaia di operai. Tubi industriali, ruspe, dosimetri per misurare le radiazioni. Tutto questo per pulire case e strade, scavare terreno vegetale ed eliminare alberi contaminati, per consentire il ritorno degli sfollati. Centinaia le imprese coinvolte: di queste, secondo il ministero del lavoro, quasi il 70% avrebbe infranto le normative. “A marzo, l’ufficio del ministero a Fukushima aveva ricevuto 567 denunce, relative alle condizioni di lavoro per la decontaminazione: ha emesso 10 avvisi, ma nessuna impresa è stata penalizzata”. Una delle aziende denunciate, la Denko Keibi, prima del disastro forniva le guardie di sicurezza privata per i cantieri. “Di fronte alla incessante disinformazione dei media relative ai pericoli di radiazione nucleare globale – conclude Chossudovsky – l’obiettivo di ‘Global Research’ è quello di rompere il vuoto dei media e di sensibilizzare l’opinione pubblica, indicando le complicità dei governi, dei media e dell’industria nucleare”.

Articolo tratto da LIBRE