“Dovete mettere poesia in quello che fate,
altrimenti è mero commercio”. Ispirato da questa considerazione il Distretto di
Economia Solidale di Varese ha lanciato nel 2017 il progetto “Piccola e Poetica
Distribuzione Organizzata”. A spiegare di cosa si tratta è il referente Marco
Bonetti in questa intervista a CAES, il Consorzio Assicurativo Etico Solidale
cui il DES aderisce sin dalla sua nascita.
“Se tra acquisto e
vendita c’è un pareggio (il consumatore ha un prodotto di alta qualità e il
produttore ha un prezzo equo per il lavoro svolto) siamo ancora nell’ambito di
una semplice transazione economica. Ma se faccio un passo ulteriore e in quella
transazione non c’è un pareggio, ma un +1 (il guadagno per la salute, la tutela
del territorio) ecco che siamo in un contesto di economia solidale”.
È l’attenzione
all’economia solidale il criterio che guida le scelte del progetto “Piccola
e poetica distribuzione organizzata”, promossa a partire dal 2017
dal Distretto di Economia Solidale (DES) di Varese, che aderisce
ad ETICAR fin dalla nascita del progetto.
“Una rete ricca
e variegata di cui fanno parte Gruppi di Acquisto Solidale (GAS), botteghe
del commercio equo, cooperative sociali, aziende agricole, associazioni,
artigiani e professionisti”, spiega il referente del progetto, Marco
Bonetti.
Perché avete scelto
l’aggettivo “poetica”?
L’idea è arrivata
quando il progetto era ancora in nuce, durante un incontro a cui ha partecipato
anche un produttore piemontese, che ci ha dato un suggerimento prezioso: “In
quello che faccio, nel mio lavoro, io vedo bellezza – ci ha detto – Dovete
mettere poesia in quello che fate, altrimenti è mero commercio”. È un elemento
centrale della PPDO: non c’è solo un aspetto commerciale da sostenere, ma tutto
un territorio che, attraverso un certo tipo di agricoltura, recupera la sua
bellezza.
Da dove è nato il
progetto della PPDO?
È partito da una
domanda che veniva dai Gruppi d’Acquisto Solidale: organizzare e rendere più
efficiente il modello di distribuzione. Da qui l’idea di mettere in rete i
produttori e i trasformatori del territorio di Varese e delle province
limitrofe.
Quali sono i motivi
che vi hanno portato a sviluppare questo modello?
Il primo: sostenere
la produzione locale. Il cibo che ha percorso migliaia di chilometri per
arrivare sulle nostre tavole non è sostenibile. Inoltre questo ci permette di
ridare valore a un pezzo di territorio su cui abbiamo deciso di investire. Il
secondo motivo è quello di rilanciare l’economia del locale, in particolare i
prodotti agricoli e i trasformati, sostenendo quelle realtà che si prendono
cura dei luoghi in cui viviamo.
Quanti sono gli
attori che avete coinvolto nel progetto della PPDO?
In questo momento
abbiamo una ventina di produttori e 13 GAS della provincia di Varese e
dintorni. I produttori vengono dalla provincia di Varese e dalle zone
limitrofe, ad esempio da Oleggio o da Abbiategrasso, dove ci rivolgiamo per
l’acquisto del riso, oppure da Como, Novara e Verbania.
Quali sono gli
attori che puntate a coinvolgere nel futuro?
Gli attori da
coinvolgere sono tanti. Il progetto ha bisogno di una rete ampia di relazioni
tra i soggetti dell’economia solidale, compresi quelli che non si occupano di
produzione alimentare ma che hanno una valenza sociale. Il fatto di aver
coinvolto CAES, che fa parte del DES Varese, ad esempio, rientra in questa
visione.
Il progetto della
PPDO ha coinvolto anche una realtà che si occupa di logistica, perché?
La cooperativa sociale
“La Ginestra” fa parte della PPDO fin dall’inizio perché uno degli obiettivi
del progetto era quello di costruire una logistica efficiente e sostenibile da
tutti i punti di vista. La cooperativa si occupa della gestione degli ordini,
del ritiro presso i produttori e della consegna -il giorno successivo- presso i
centri distribuzione a cui afferiscono i GAS. Questo ha permesso di
semplificare notevolmente la gestione degli ordini, soprattutto per i
produttori che si interfacciano con un unico soggetto. È un sistema semplice e
funzionale, a un costo contenuto.
A rischio chiusura per mancanza di utenza, una
scuola di una piccola frazione di Sondrio è rinata all’insegna dell’educazione
ambientale e delle buone pratiche. Nell’Eco School di Triangia oggi i bambini
trascorrono all’aperto la maggior parte del tempo, mangiano cibo sano, allenano
la creatività e coltivano un orto dove imparano attraverso l’esperienza attiva
anche i contenuti disciplinari. Affinché la società
possa cambiare in meglio è cruciale porre la massima attenzione sulle nuove
generazioni ed è per questo che Italia Che Cambia ha sempre cercato di
intercettare e documentare il lento ma inesorabile cambiamento in atto anche in
ambito scolastico. L’intervista all’Eco School Triangia nella piccola frazione della città di Sondrio, è
stata una ventata d’aria fresca e non soltanto per il fatto che grazie
all’ambiente naturale in cui è immersa ci fosse molto più fresco che in città,
ma perché qui tutto è pensato per favorire un approccio più consapevole da
parte dei bambini e del personale che lavora nella scuola verso l’ambiente
circostante e più in generale, verso la natura.
Appena arrivata,
sono stata accolta nel bel giardino alberato della scuola dal corpo insegnanti
e dagli alunni che si trovavano a fare la ricreazione all’aperto, con tanto di
enorme zuppiera piena di spicchi di arancia da cui i bambini attingevano per lo
spuntino di metà mattina. Chiedo alla coordinatrice del progetto Eco-School,
Meri Tognela, da cosa nasce il progetto: «Il progetto di Eco-School è nato
nell’anno scolastico 2013-2014 quando la scuola di Triangia era considerata una
scuola a rischio chiusura, come molte piccole scuole del nostro territorio che
sono state chiuse per mancanza di utenza. Quindi nel 2013, in collaborazione
con l’amministrazione comunale dell’epoca e con degli esperti che già
collaboravano sulle tematiche dell’educazione ambientale, abbiamo cercato un
modo per caratterizzare la scuola. La proposta del programma Eco-School
ci è sembrata fatta ad-hoc per noi, considerato il tipo di ambiente nel quale
siamo inseriti e così abbiamo implementato il protocollo che viene
effettuato dalle scuole che sono interessate ad ottenere la certificazione di
Eco-School. È una certificazione internazionale: nella rete ci sono tantissime
scuole sparse in tutto il mondo e viene proposta alle scuole dall’associazione
internazionale FEE (Foundation for Environmetal Education, ndr.) che lavora con
il patrocinio dell’UE. Grazie al programma (non solo hanno salvato la scuola,
ndr.) abbiamo sperimentato un modo di lavorare che ha permesso di portare
dentro la scuola un’innovazione didattica attraverso metodologie che vanno
oltre la lezione frontale, ma più laboratoriali, più cooperative e più
significative per i bambini».
burst
In seguito mi
mostrano la scuola al suo interno, tutta adornata con i bei lavori creativi
dei bambini, e la loro aula in cui, come mi spiega la maestra di matematica
e scienze, Alessia Schiappadini: «I banchi sono disposti a piccoli gruppi per
favorire il lavoro cooperativo e di gruppo, perché lavorando insieme ai suoi
pari il bambino è più motivato ad assumere un ruolo attivo in cui aiuterà o
spiegherà lui stesso, rendendo la lezione molto proficua».
Nel vedere i
piccoli studenti così incuriositi dalla mia presenza, ne approfitto subito per
coinvolgerli e chiedo loro di raccontarmi cosa fanno a scuola. Mi mostrano così
alcuni dei loro lavori, come il “dìDiario dell’orto” o il “Taccuino della
scoperta del mondo”, poi parlando uno alla volta, diligentemente e per alzata
di mano, mi raccontano con grande entusiasmo del bosco che si trova dietro alla
scuola, del loro giardino alberato, dell’orto (dove ci trasferiremo subito
dopo) e in definitiva del fatto che adorano passare all’aria aperta
buona parte del tempo e non dover stare sempre sui libri. Come non capirli! Le
maestre mi raccontano anche di aver preso parte alle varie mobilitazioni dei
Fridays For Future, come lo scorso 15 marzo e quella del 24 maggio in cui
mi dicono di aver fatto un flash mob e aver scritto dei messaggi per poter
coinvolgere ed ispirare la cittadinanza, disseminando il paese di Triangia e la
città di Sondrio di messaggi ecologici. Ci spostiamo poi nuovamente fuori per
raggiungere il piccolo orto che hanno allestito dentro il giardino,
dietro l’edificio scolastico e la maestra Alessia mi spiega che il progetto è
uno dei tanti rientra nella didattica esperienziale, perché i bambini in questo
modo imparano meglio e l’esperienza attiva le competenze; la lezione del giorno
ad esempio verterà sull’individuazione del perimetro e dell’aerea, ma nel
concreto, ovvero sulle particelle ortive.
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L’orto ve lo faccio
raccontare direttamente dalle parole di Meri: «Siamo nell’orto didattico
dell’Eco School di Triangia, che è uno spazio molto frequentato dai bambini in
tutte le stagioni e che viene utilizzato come strumento di apprendimento dei
contenuti disciplinari. Quindi la finalità di questo progetto non è
rappresentata esclusivamente dall’apprendere le modalità di coltivazione ma
viene spalmata all’interno degli apprendimenti disciplinari. In questo momento
i bambini stanno svolgendo un’attività di geometria, in altri momenti abbiamo
utilizzato l’orto per esempio per scrivere un diario delle attività, per produrre
dei testi descrittivi, narrativi o anche regolativi, proprio perché quello che
ci interessa è di dare un senso all’apprendimento, quindi cerchiamo sempre di
legarlo all’esperienza che poi viene ricostruita in classe. Viene rielaborata
per arrivare poi alla sistematizzazione dei contenuti delle varie discipline e
questo ovviamente ha un impatto molto forte sull’apprendimento dei nostri
alunni, i quali apprendono attraverso una modalità molto significativa
per loro e contribuisce ad attivare le competenze andando a superare il modello
di apprendimento nozionistico e meccanico a memoria».
«Il progetto orto –
continua Meri – si chiama “Cresciamo nell’orto” e questo riassume nel titolo il
valore aggiunto di questa attività ed è strettamente legato a un altro progetto
che abbiamo che si chiama “Rifioriamo la terra” e che ci ha consentito di
riportare nella frazione di Triangia la coltivazione del grano saraceno e
della segale che, purtroppo in tutta la Valtellina, è stata abbandonata da
qualche decennio, nonostante la gastronomia valtellinese, compresi i piatti
principe come i pizzoccheri e gli shatt, siano fatti utilizzando farina di
grano saraceno, nelle botteghe si venda il pane di segale etc.; per questo oggi
tutta la materia prima viene importata dall’estero.
dav
Ecco perché ci
interessa lavorare sul bagaglio delle memorie storiche e delle tradizioni:
perché pensiamo che sia importante conoscere le radici del territorio in cui
viviamo per costruire la nostra identità e quella dei nostri alunni. Abbiamo fatto
anche il collegamento con il significato di filiera corta, di km 0, agricoltura
biologica, sostenibilità del territorio e biodiversità. Per questo motivo
coltiviamo ortaggi al di fuori dalle specie comuni e quest’anno siamo diventati
anche “custodi di semi” e facciamo libero scambio di semi anche col resto della
cittadinanza a Sondrio».
«Come fine ultimo
di questo tipo di educazione che stiamo portando avanti con loro, oltre ad
augurarci che possa portare un cambiamento nell’immediato, cerchiamo di pensare
anche al loro futuro; nell’immediato poiché essendo portatori di buone
prassi dentro le loro famiglie e i loro contesti sociali, già contaminano molto
il modo di pensare, ma pensiamo anche al domani e ai futuri cittadini che
avranno una sensibilità e una consapevolezza più sviluppate. Loro sanno di
essere bambini, ma sanno anche che sia oggi che in futuro possono contribuire
anche loro al cambiamento».
1. È stato in
quest’ultima occasione infatti che ho potuto assistere di persona alla
creazione dei messaggi e alla loro collocazione nella piazzetta principale
della frazione di Triangia.
Si può fare business ottenendo, oltre che un
valore economico, anche un impatto positivo nel mondo, in termini di
rigenerazione ambientale e giustizia sociale. Un approccio agli affari che
premia le imprese e rappresenta la chiave di volta per cambiare e salvare il
mondo. Ne abbiamo parlato con Eric Ezechieli, cofondatore di Nativa, la prima B
Corp e Benefit Corporation in Europa. Oggi l’Italia ha una leadership mondiale
in questo settore. Ci sono interviste
che realizzi al primo colpo e altre che rimandi per settimane, mesi, anni.
Quella con i fondatori di Nativa e il mondo delle B
Corp, nella mia avventura di giornalista,
fa parte del secondo gruppo. È da almeno quattro anni, infatti, che
mi ripromettevo di organizzare questo incontro, ma per un motivo o per l’altro
era sempre stato rinviato. Ed eccomi finalmente giunto nella sede milanese di
questa società. Siamo ad aprile 2019 e dopo una breve attesa incontro Eric
Ezechieli, cofondatore con Paolo Di Cesare, di Nativa. Ci sediamo e
iniziamo subito a parlare. Lui è un fiume in piena e tanto sono preso
dall’ascoltarlo che non mi accorgo che la mia telecamera ha un difetto nella
messa a fuoco. Ma tant’è, ormai è fatta.
Parliamo. Parliamo
di B Corporation e aziende B Corp, di criteri di sostenibilità, di
rischio greenwashing e capitalismo giunto ad un bivio, di Fridays for future e
cambiamenti sistemici. Ci interroghiamo sul futuro del mondo, sulle nostre
possibilità (come specie umana) di sopravvivere, sul ruolo dell’Italia in
questo momento storico. Rimango colpito, mentre lo ascolto, dalle molteplici
similitudini tra il suo e il nostro approccio: cambiamento sistemico, approccio
transizionista, voglia di fare grandi salti e necessità di fare piccoli passi,
difficoltà a distinguere cosa sia lavoro e cosa non, in una passione che tutto
travolge. Eric e “i suoi” vogliono cambiare le imprese, le aziende,
quelle con gli azionisti. Come in molti sanno, una SPA da statuto deve
rispondere appunto agli azionisti e quando dico rispondere, intendo produrre
utili. Idem le SRL per i loro soci. Produrre utili. Punto. Ad oggi il modello
economico delle più grandi aziende del mondo (e anche di gran parte di quelle
medie e piccole) ha questo come primo, e spesso unico, obiettivo.
Produrre utili. A
che prezzo? “Non importa – sembra affermare una voce invisibile – Taglia
personale, inquina, investi in speculazioni finanziarie, non interrogarti sui
diritti delle donne, non migliorare la qualità della vita dei lavoratori”. Produci
utili. E allora qualcuno ha cominciato ad interrogarsi e ha pensato di misurare
l’impatto di ogni azienda e di inserire nello statuto di ogni società la sostenibilità
sociale e ambientale. Può sembrare un gesto puramente simbolico, e forse in
alcuni casi lo sarà anche, ma come vedremo può essere l’avvio di una piccola o
grande rivoluzione. Lo statuto di un’azienda, infatti, guida le azioni e le
scelte dei management. Se questi “devono” rispondere ad un unico dictat, fare
utili, non hanno alcuno strumento per cercare di realizzare politiche di
altro genere, ma se tra i loro compiti “statutari” c’è la sostenibilità
ambientale, l’etica del lavoro, il sociale e così via, ecco che iniziano ad
avvenire piccoli miracoli. Ci si interroga sulle filiere, sugli investimenti,
sulle scelte interne ed esterne, sui modelli produttivi e così via. Si entra in
transizione. Ci si attiva, si cambia. Si entra a far parte dell’Italia che
Cambia, insomma. Ma facciamo un passo indietro e andiamo ad ascoltare la storia
di Eric e della sua Nativa. Nativa nasce nel 2012 e fu la prima B Corp e
Benefit Corporation in Europa. Oggi occupa circa 15 persone tra Roma e
Milano e accompagna le aziende che decidono di intraprendere il percorso
per diventare una B Corp o una Società Benefit fungendo da catalizzatore di
cambiamenti tesi a progettare futuri sostenibili.
Ma cosa significa essere una B Corp?
Essere una B Corp
(Certified B Corporation) significa intraprendere un cammino di sostenibilità
sociale e ambientale partendo dall’analisi del proprio impatto sulla società
e sul pianeta. Oggi, infatti, la maggior parte delle aziende consuma più
risorse di quante ne produce e non è quindi rigenerativa, bensì estrattiva. Per
cercare di invertire questa rotta il primo passo consiste nel misurare le
proprie attività usando un protocollo che si chiama b impact
assessment, uno standard
usato oggi in tutto il mondo da oltre 150.000 aziende. “Quando vai a misurare –
mi spiega Eric – ti trovi a comprendere se stai creando un valore economico a
discapito di un valore sociale e ambientale o lo stai creando rigenerando la
società, la natura, la biosfera. Purtroppo oggi moltissime aziende non
perseguono il valore sociale e ambientale anche perché la legge non glielo
impone… Le B Corp nascono invece esattamente con questa intenzione”. In un
mondo ideale, mi confida Eric, un’azienda dovrebbe poter distribuire utili solo
se prima ha dimostrato di essere rigenerativa e di non danneggiare ambiente e
società. Le B Corp, inoltre, hanno mostrato in questi anni una particolare
resilienza. Quando ci sono crisi, infatti, hanno una tenuta migliore perché
fondano il proprio business su un modello più radicato sul territorio, sulla
fiducia delle persone e così via. Caratteristiche che abbiamo incontrato nella
maggior parte delle aziende raccontate dal nostro giornale!
B Corp e Benefit Corporation (o Società Benefit)
Abbiamo visto come
la B Corp sia una tipologia di impresa che ha come obiettivo quello di
rigenerare la società, la natura, la biosfera nonché di condurre un’attività
economica che generi un profitto risolvendo problemi ambientali e sociali.
L’obiettivo è creare business orientati ad essere primariamente fonti di
rigenerazione. Per ottenere questi obiettivi (e salvare il mondo) secondo
questo approccio occorrono due passaggi:
1) La misurazione
degli impatti: come anticipato, grazie al protocollo b impact assessment si
può “scansionare” a 360 gradi un’azienda per capire se sta creando valore
economico sociale e ambientale per la società. Le aziende che creano più valore
di quanto ne “consumino” si possono qualificare come B Corp certificate dopo
aver superato un percorso di verifica, validazione e certificazione svolto
dalla non profit che ha sviluppato il modello: B Lab. Per essere certificati
occorre ottenere almeno 80 punti su una scala di 100.
2) Il secondo passaggio
è legato allo stato giuridico dell’impresa. Fino ad oggi, secondo i
codici civili e le leggi vigenti in tutto il mondo, lo scopo unico di una
società di capitali è stato distribuire dividendi agli azionisti. Ambiente e
persone, di conseguenza, non sono mai rientrati negli scopi statutari di
un’azienda. Le Benefit Corporation (chiamate in Italia Società Benefit),
invece, non solo devono misurare gli impatti e generare valore, ma devono anche
avere una forma giuridica che ti consenta di creare un impatto positivo sia per
gli azionisti che per gli altri portatori di interessi (un nuovo scopo
giuridico, quindi, con una specifica forma d’impresa oggi disponibile in Usa,
Italia e altri paesi). Eric Ezechieli definisce questo strumento un “nuovo
sistema operativo per il capitalismo” che consente alle aziende di diventare
portatrici di rigenerazione!
La società Benefit
deve specificare esattamente in che modo va a creare questi benefici e deve
rendicontare questi impatti, utilizzando il protocollo segnalato prima. È
importante precisare che assumere questa forma giuridica non comporta sgravi
fiscali o altri vantaggi economici. È uno strumento le cui ricadute, quindi,
sono “esclusivamente” sociali e ambientali. Il rischio di greenwashing,
però, è sempre dietro l’angolo. Secondo Eric, questo è fortemente limitato
proprio dall’assenza di vantaggi fiscali nel modello e, inoltre, l’adozione nel
proprio statuto di determinati obiettivi misurabili, potrebbe portare alla
denuncia dell’azienda inadempiente che andrebbe controllata dal garante per la
concorrenza essendoci gli elementi di “condotta sleale”.
Il protocollo b impact assessment (disponibile on line gratuitamente e utilizzabile da
chiunque) è molto vasto e misura impatti su persone, ambiente, comunità,
lavoratori, nonché la trasparenza, i sistemi di governance e il business model.
In realtà, non esiste un unico protocollo, ma anzi ci sono più di 150 modelli
che variano con dimensioni, area geografica, settore di appartenenza e così
via, consentendo a chi aderisce di confrontare le proprie performance con altre
aziende di settore che stanno facendo percorsi analoghi.
Summit 2018 delle B
Corp
Un avvio difficile… e poi una leadership mondiale!
Quando Eric e Paolo
hanno deciso di fondare Nativa come Benefit Corporation hanno redatto uno
statuto ispirato a quello americano. Nel luglio 2012, quindi, lo hanno
presentato alla Camera di Commercio e… sono stati respinti perché “illegali”
avendo costruito un soggetto che non aveva come unico scopo quello di
distribuire dividendi. Loro non si sono arresi e al quinto tentativo la camera
di commercio li ha accettati “per sfinimento” ma senza che esistesse un ordinamento
giuridico in cui potessero davvero rientrare. A quel punto, hanno deciso di
attivarsi e grazie anche ad un Senatore, Mauro Del Barba, sono riusciti a far
riconoscere il modello di Società Benefit in Italia. Il gruppo di lavoro
si costituì nel 2014 e scrisse un disegno di legge che, dopo circa 14 mesi, fu
approvato. Dal 1 gennaio 2016 l’Italia è quindi diventata il primo tra gli
stati sovrani ad avere una legislazione che riconosceva questo status
d’impresa. Oggi, il modello di Benefit Corporation esiste in 34 Stati degli
USA, in Italia, in Colombia e Perù e ci sono altri 15 Stati che si stanno
ispirando alla legislazione italiana, soprattutto in America Latina. L’Italia
ha quindi una leadership mondiale in questo settore ed è il Paese in cui
stanno nascendo più B Corp certificate (circa 100 hanno ottenuto la
registrazione mentre oltre 2000 si stanno misurando) e Società Benefit (più di
300: da piccole aziende e start up a grandi aziende e multinazionali).
Il modello capitalista deve cambiare
“Per me non si
dovrebbe più poter concepire un business che non abbia al centro la rigenerazione
ambientale e sociale – mi spiega Eric -. Quando inizi a ragionare in questi
termini diventa quasi inconcepibile che un’azienda possa trarre profitti avendo
generato impatto negativo a persone o natura. Un’azienda dovrebbe poter
distribuire utili solo se non ha causato danni ad ambiente e persone! Siamo ad
un punto di non ritorno. O il modello capitalista diventa rigenerativo o… Un
modello che sistematicamente danneggia la società non può continuare nel
futuro. I limiti ci sono. Se non si autoriforma il sistema, interverranno dei
fattori che porteranno all’eliminazione di questo modello. Non va certo
dimenticato che il modello capitalista ha portato una fetta di mondo ad
emanciparsi da fame e miseria, ma oggi il modello deve cambiare. È giunto al
capolinea! Le B Corp rappresentano una delle evoluzioni più forti di questo
modello e dimostrano che cambiarlo è possibile anche in modo esponenziale.
Ecco perché vedo il ruolo di Nativa come quello di un catalizzatore utile ad
accelerare questa trasformazione”.
Le Nazioni Unite e il B Lab
L’ONU, due anni e
mezzo fa, ha chiesto a B Lab di collaborare per sviluppare uno strumento utile
per misurare il progresso delle aziende rispetto ai 17 obiettivi di sviluppo
sostenibile delle Nazioni Unite per il 2030. Questo sarà pronto entro fine
2019. A quel punto, l’ONU proporrà la diffusione di questo strumento a tutte le
aziende del mondo.
B Corp ed EBC (Economia per il Bene Comune)
Eric Ezechieli
ritiene che ci siano moltissimi elementi di sinergia e allineamento tra i due
movimenti. La matrice di EBC viene più dal mondo dell’associazionismo e
dell’impresa sociale, quella di B Corp più dal business classico. Ma i due
strumenti sono complementari. “Con i rappresentanti di EBC abbiamo iniziato a
scambiare alcune idee – conferma Eric – ma ora vogliamo incontrarci per
approfondire. Quando ho sentito parlare Christian Felber mi sono ritrovato! Diciamo praticamente le stesse
cose”.
Il cambiamento dipende da noi
“Mi occupo di
sostenibilità da quando ho 14 anni – conclude il cofondatore di Nativa –
studiavo i modelli del MIT che già mostravano i rischi ambientali e sociali a
cui saremmo andati incontro e pensavo che gli adulti avrebbero aggiustato le
cose. Si sapeva già tutto… Poi passavano gli anni e non cambiava quasi niente.
Ho quindi deciso di dedicare la mia vita al cambiamento. Oggi le trasformazioni
(e i problemi e le sfide) stanno accelerando in modo esponenziale. Diventa
quindi fondamentale agire tutti insieme e in modo rapido per contrastare questi
processi. Il modello vigente, che è quello estrattivo, non ha nessuna
possibilità di funzionare in futuro! L’Italia, da questo punto di vista, è
all’avanguardia nel mondo […]”.
Ho tagliato
volutamente il finale di questa intervista perché vi invito a guardare il video
che trovate all’inizio di questo articolo. Nell’ultimo minuto riassume quanto
da anni cerchiamo di raccontare con il lavoro di Italia che Cambia. Nonostante
il racconto ossessivamente negativo dei media e dei luoghi comuni siamo
all’avanguardia nel cambiamento. Un’avanguardia mondiale. Che facciamo, ci
attiviamo anche noi?
In occasione della Giornata mondiale della
consapevolezza sull’autismo raccontiamo le storie di due realtà della rete di
Agricoltura Sociale Lombardia che hanno vinto la scommessa dell’inclusione superando
luoghi comuni e timori. Ecco le testimonianze dirette di alcuni ragazzi con
autismo, esempi in carne ed ossa di impegno e voglia di imparare. “Il ricordo
più bello di questa esperienza è stato iniziarla” racconta Luca. Coltivare opportunità concrete di inclusione
per dare valore alle capacità che esistono in ognuno di noi. Questa la missione
di Agricoltura Sociale Lombardia che fin dalla sua nascita ha dimostrato un’attenzione particolare alla
condizione dell’autismo e della disabilità intellettiva sviluppando percorsi in
grado di dare riscatto sociale e formazione alle persone che con questa
condizione complessa ci convivono ogni giorno. Tutto ciò con un obiettivo
preciso: far germogliare la bellezza e le competenze che esistono oltre ogni
fragilità. In occasione della giornata mondiale dedicata alla consapevolezza
sull’autismo, la rete regionale dà così voce ad alcune storie capaci di
sgretolare quei luoghi comuni che vedono inconciliabile un’attività lavorativa
e formativa con questo tipo di disturbo. L’ultimo report parla di ben 1.967
persone con svantaggio che hanno trovato un’opportunità di riscatto grazie ad
Agricoltura Sociale Lombardia. Di questi si registrano 1.096 disabili e 871
soggetti in condizione di difficoltà coinvolti a vario titolo nelle attività
della rete. Ma sono soprattutto i riscontri dei diretti protagonisti delle
esperienze a far brillare questo traguardo.
elilu: a Pavia
l’inclusione è la ricetta vincente, come ci dimostra Luca
Un titolo che ha il
sapore di una fiaba e che agisce ogni giorno all’insegna della concretezza. La
storia dell’azienda agricola elilu – Agricultura Familiare (rete Agricoltura
Sociale Pavia) scaturisce dal nome dei suoi fondatori: Elisa Gastaldi e Luca
Benicchi, coppia nel lavoro così come nella vita. “elilu, scritto per nostro
volere con la minuscola, è il luogo nato il 21 dicembre 2015 dal nostro
incontro – spiegano – Fare agricoltura sociale significa realizzare oggi
l’autenticità del mondo rurale di ieri: mutualità, crescita personale e
interpersonale, solidarietà, valorizzazione dei singoli e della comunità, in
tutte le mille sfumature della biodiversità, vegetale, animale, umana”.
elilu intreccia così la coltivazione di un modello lavorativo e insieme
relazionale che coinvolge la gestione di diverse attività tra cui coltivazione,
allevamento, trasformazioni agricole (mulino a pietra, caseificio e laboratorio
multifunzionale), vendita diretta e mercati, agriturismo e ristorazione,
fattoria sociale e didattica, agricampeggio. Un ventaglio di iniziative dove
l’agricoltura sociale detiene un posto d’onore per rendere forti le basi di
tutto il resto. E proprio qui germoglia la storia di Luca: sguardo
profondo e limpido, poco più di 20 anni sulle spalle e tanta voglia di fare
oltre che di imparare. Luca convive da anni con la condizione autistica e tutte
le difficoltà che la riguardano, riuscendo però a cogliere diverse
soddisfazioni oltre la tempesta e diventando un esempio di riscatto in carne ed
ossa. Fondamentale per il suo percorso inclusivo la sinergia tra elilu e “Una
mano per…”, associazione fondata nel 2015 da genitori di bambini diversamente
abili. Genitori che dopo aver preso coscienza del difficile percorso di vita che
stavano affrontando, hanno deciso di mettere a disposizione la loro esperienza
a favore di altre famiglie che si trovavano nelle stesse condizioni. Nel 2016
inizia così per Luca un’esperienza didattica all’interno del ciclo produttivo,
con attività pienamente concordate con la famiglia al fine di rendere ogni
tappa consona alle sue attitudini. “Inizialmente il progetto ha coinvolto Luca
nella cura dell’intera filiera di raccolta della materia prima che riguardava
alberi da frutto, ortaggi, oltre alla semina stessa – racconta Elisa Gastaldi –
Il percorso si è poi sviluppato con diverse attività come quella di accudimento
degli animali: Luca ha scelto in particolare i cavalli occupandosi della
pulizia dei box e della strigliatura”. Un’attività che poi ha incrementato
ulteriori competenze. I traguardi sono stati impreziositi anche da un lavoro
speciale rappresentato da un vero e proprio ricettario di quotidianità.
Luca a lavoro
presso l’azienda agricola elilu – Agricultura Familiare
“Luca si occupa
della pulizia e del nutrimento degli animali come cavalli, mucche,
maiali: settore in cui si è specializzato e che gestisce molto bene –
sottolinea Elisa – Da tempo sta realizzando un manuale redatto in prima persona
in cui esplicita i compiti che esegue ogni giorno e di cui è responsabile in
prima persona. Si tratta di un’attività molto importante dal punto di vista del
potenziamento dell’autonomia e della responsabilizzazione. Fare esperienze
inclusive di agricoltura sociale non significa, infatti, parcheggiare una
persona in attività ripetitive ma coinvolgerla in un progetto in cui essa
stessa diventa utile e indispensabile. Luca sa che se non riesce a venire a
lavorare deve avvisarci perché la sua presenza è per noi preziosa e
fondamentale, così come accade per ogni persona che lavora e che diventa utile
agli altri. E lui lo è”.
“Avere un figlio
con un disturbo dello spettro autistico ti costringe a fare un viaggio
importante: dentro di te e attraverso una nuova vita – racconta Barbara, tenace
mamma di Luca che da anni si impegna per dare al proprio figlio un futuro
migliore – Quando Luca ha finito le scuole superiori, come spesso accade, ci
siamo trovati di fronte al vuoto. Ci siamo chiesti: e ora che cosa possiamo
fare? La grande opportunità è arrivata grazie a questo percorso che ha
migliorato tantissimo Luca. Certo, non sono mancate le difficoltà, come in ogni
esperienza, ma i risultati positivi superano tutto il resto e hanno dato una
grande spinta di crescita e responsabilizzazione a Luca oltre che positività e
formazione. Elisa e Luca di elilu sono davvero straordinari nel gestire questo
progetto: gli hanno insegnato un mestiere”.
Luca è di poche
parole, almeno a voce, di lui raccontano i fatti e l’impegno che ci mette ogni
giorno innaffiando di luce e bellezza le attività che compie. Eppure con le
parole ci sa fare molto e per noi ha rilasciato questa intervista – in
esclusiva – tramite lo scritto che sa comprendere e gestire molto bene.
Luca, qual è il tuo
ricordo più bello in questi 3 anni di esperienza?
“Il ricordo più
bello è sicuramente essere entrato a far parte di questa esperienza e
lavorare”.
Le tue attività
preferite?
“Le attività che mi
piacciono di più sono pulire le mucche”.
So che stai
scrivendo un manuale dedicato al tuo lavoro quotidiano: ti piacerebbe farlo
leggere ad altri?
“Se posso sì, mi
piacerebbe e sono contento di scrivere il manuale perciò devo dire che tutto
sta funzionando alla perfezione”.
Poi Luca si rende disponibile per l’estate a insegnare ai bambini come accudire
i cavalli regalandoci un sorriso finale che guarda al futuro e dimostrando che
al di là di ogni disturbo respira un mondo intero.
Green Smiles
fattoria “La Cavallina”: a Como l’autonomia vien lavorando
Da anni sul
territorio comasco si distingue una realtà impegnata nel costruire occasioni di
formazione e inclusione per ragazzi e ragazze con fragilità. Parliamo della
fattoria sociale “La Cavallina” (rete Agricoltura Sociale Como) che concretizza
tirocini finalizzati all’apprendimento delle mansioni di allevamento degli
animali e della gestione del verde e dell’orto. “Gli sbocchi possono essere nel
settore agricolo e in quello del florovivaismo, ma anche dei servizi di
agricoltura didattica – racconta Ambrogio Alberio, titolare e operatore della
fattoria sociale – L’agricoltura sociale dà benessere sia psicologico che
fisico rappresentando un supporto al terzo settore per gli obiettivi di
inclusione e per i progetti mirati all’autostima e all’autonomia”.
Nel 2015 la
cooperativa “Il Granello – Don Luigi Monza”, in collaborazione con “La
Cavallina”, ha dato vita ad un Centro Socio Educativo diverso dagli altri: il
CSE Green Smile in fattoria. Il Centro è un servizio per persone adulte con disabilità
medio grave che mira al mantenimento delle competenze acquisite durante
l’arco della vita. “La particolarità di questo servizio è dato dal fatto che,
oltre i tradizionali laboratori in un CSE, le attività svolte principalmente
sono il lavoro in fattoria e nell’orto e la cura del giardino e degli spazi
verdi – spiegano i referenti del progetto – In fattoria sociale sono previsti
due operatori con funzione educativa”.
Nell’ambito di
Green Smiles hanno trovato occasione di crescita anche ragazzi con autismo come
Davide e Vladimir che svolgono attività di gestione dell’orto, del giardino e
degli animali. “Con queste esperienze sfatiamo davvero tanti luoghi comuni
dimostrando che questi ragazzi possiedono delle abilità importanti che emergono
proprio se offri loro la possibilità di coltivarle, con fiducia e giusta formazione
– evidenzia Ambrogio Alberio – Così come accade in agricoltura sociale
ogni progetto lavorativo dovrebbe indirizzarsi sulle attitudini individuali: un
discorso che vale per tutti noi, al di là della disabilità che possiamo avere o
meno”.
Visto il successo
della collaborazione tra i due enti, a gennaio è stato inoltre aperto anche
SFArm, un Servizio di Formazione all’Autonomia rivolto a persone con disabilità
lieve e che mira allo sviluppo di competenze nell’ambito delle autonomie
personali e della sfera lavorativa. “Prendersi cura degli animali,
pulire i loro box, dare loro da mangiare e bere, coltivare ortaggi e piccoli
frutti e utilizzarli nel laboratorio di cucina o regalarli ai propri genitori,
arrivare al mattino trovando il giardino ordinato e pieno di colori permette
alla persona di toccare con mano il frutto del proprio lavoro”, sottolineano
gli educatori.
“L’essere a contatto
con la natura ed essere soddisfatti del risultato aumenta il livello di
benessere e di autostima. In particolare i ragazzi con disturbo dello spettro
autistico traggono giovamento dalla routine su cui si basa il lavoro in
fattoria: lavori ben precisi e conosciuti, che possono essere svolti in piena
autonomia. La collaborazione con i compagni è necessaria per portare a termine
correttamente il lavoro, allenando e affinando quotidianamente le proprie
capacità relazionali. Infine l’avvicinamento agli animali, soprattutto per chi
ha difficoltà comunicative, permette di sfruttare il canale non verbale”.
A testimoniare la positività
dell’esperienza vissuta ecco alcuni resoconti dei ragazzi con autismo
coinvolti nelle attività, uno di questi è Davide, 24 anni: “Riesco a gestire
gli animali e a pulire i loro box e gli spazi. Preferisco dividere i compiti di
gestione dell’orto così da poter lavorare bene. A volte faccio fatica a farmi
ascoltare dai compagni”. Non mancano esperienze di ippoterapia che preparano al
contatto con gli animali: “Faccio equitazione e partecipo a diverse gare”,
racconta soddisfatto Vladimir. La cooperativa “Il Granello – Don Luigi Monza”
ha inoltre un alloggio per l’autonomia nel comune di Turate: “Questa è una casa
dove con altri ragazzi svolgo numerose attività come cucinare, pulire la casa,
preparare il letto e i miei vestiti” spiega Davide. Green Smiles sta organizzando con il Comune
di Guanzate un evento dove i ragazzi con autismo avranno un ruolo importante in
veste di arbitri nell’ambito di giochi didattici. Inoltre saranno presto
coinvolti in lavori di manutenzione conservativa sul territorio comasco, al di
là dei confini della fattoria sociale: un’ulteriore conferma di inclusione
sociale e lavorativa.
Tremila morti all’anno solo in Italia, più di
30milioni di tonnellate ancora da bonificare, 370mila edifici contaminati, fra
cui moltissime scuole. L’emergenza amianto non è affatto un problema del
passato. Abbiamo intervistato Maura Crudeli, presidente AIEA (Associazione
Italiana Esposti Amianto), che denuncia come colossi industriali quali Cina,
India e Russia non abbiano proibito l’uso di questo agente tossico e che
l’amministrazione Trump lo abbia reintrodotto nell’edilizia degli USA.
“Fra i 3 e i 4mila morti ogni anno solo in Italia, quasi 15mila in Europa e
più di 100mila nel mondo. Se qualcuno pensa che l’emergenza amianto sia
un problema del passato è smentito dai numeri del RENAM-Registro Nazionale dei
Mesoteliomi, dell’ISS-Istituto Superiore della Sanità e dai dossier di
Legambiente”. Ce lo ha detto Maura Crudeli, presidente dell’AIEA-Associazione Italiana
Esposti Amianto – una delle associazioni che compongono il neonato
Coordinamento Nazionale Amianto e facente parte della rete internazionale Ban Asbestos – tutte impegnate nella sensibilizzazione verso
il problema, nella pressione alle istituzioni e nel supporto alle vittime e ai
loro parenti.
Maura è una
friulana trapiantata a Roma, dove è diventata una conosciuta organizzatrice di
eventi e una filmaker. Fra i suoi lavori, vanno citati il documentario “Attenti al treno”, sul reparto di
coibentazione della FIAT Ferroviaria di Savignano, un posto di lavoro
ambitissimo fino a qualche decennio fa, che gli operai svolgevano immersi in
una fitta nebbia polverosa… d’amianto; “I Vajont”, altro documentario, stavolta a episodi, su alcune
fra le più eclatanti tragedie provocate dall’avidità, dalla sete di potere e
dall’indifferenza dell’uomo, inclusa quella di Broni, sede di uno stabilimento
della Fibronit, una tra le più grandi aziende produttrici di cemento amianto in
Italia; infine, l’ultimo spot di AIEA
ONLUS volto a mantenere alta l’attenzione sul tema, dal titolo estremamente
efficace: l’amianto ti toglie il respiro. Come sottolinea lei stessa
nella nostra intervista video, la lotta all’amianto (detto anche
asbesto) e il sostegno alle sue vittime è diventata una delle missioni nella
sua vita dal 2010, ossia da quando suo padre Mauro, coibentatore
all’interno dei cantieri navali di Fincantieri, è morto a causa di un
mesotelioma, un tumore raro associato all’esposizione all’amianto.
A 30 anni esatti
dalla sua fondazione, AIEA – una Onlus senza fini di lucro – continua a
battersi a livello globale per l’abolizione dell’amianto in ogni forma diversa
dallo stato di minerale in cui si trova in natura (l’unico stato nel quale non
è nocivo per la salute). In accordo con quanto afferma l’OMS-Organizzazione
Mondiale della Sanità, l’AIEA sostiene che, “secondo gli attuali
livelli di conoscenza scientifica sui danni causati alla salute dall’inalazione
di fibre di amianto, non esiste alcun livello minimo di soglia al di sotto
del quale vi sia sicurezza, per cui la massima concentrazione accettabile di
fibre non può che essere zero”.
Nata dal movimento
di lotta per la salute Medicina Democratica, l’AIEA è stata fondata nel 1989 a Casale Monferrato, sede della celebre
fabbrica di fibrocemento Eternit. Tre anni dopo la sua costituzione fu
approvata, dopo una lunga e difficile gestazione, la legge 257/1992, ovvero
“Norme per la cessazione dell’impiego dell’amianto”. Una vera e propria
legge-svolta, alla quale ha contribuito in misura determinante proprio la
grande mobilitazione sociale dovuta all’attività delle associazioni degli
esposti, delle associazioni ambientaliste e di quelle sindacali. Nella legge si
stabilisce che, in Italia, “sono vietate l’estrazione, l’importazione,
l’esposizione, la commercializzazione e la produzione di amianto, di prodotti
di amianto o di prodotti contenenti amianto”.
Tuttavia,
nonostante l’approvazione della legge e la capillarità della successiva azione
di bonifica nelle cave e nei siti industriali nei quali in passato sono
state realizzate le lavorazioni, resta ancora molto da fare. In Italia, per
esempio, dove non tutte le regioni hanno applicato i piani regionali per
l’amianto e provveduto alla mappatura prevista dalla legge 257/92, si stima vi
siano ancora fra le 33 e le 39 milioni di tonnellate della fibra killer ancora
da bonificare, fra cui quasi 58 milioni di metri quadri di coperture in cemento
amianto. Sconcertante il dato riguardante il censimento degli edifici nel
nostro paese, che rivela come, dei circa 370mila edifici contenenti amianto
presenti oggi sul nostro territorio, più di 50mila siano pubblici e di questi
molte siano scuole. Secondo Censis e Legambiente, infatti, il 10% delle scuole
italiane presenta ancora strutture in amianto.
Come se non
bastasse, il dato internazionale è ancora più preoccupante. Se nel corso degli
ultimi due decenni in tutta Europa l’amianto è stato proibito – sia in fase di
estrazione che in fase di produzione e commercializzazione – la stessa cosa non
si può dire del resto del mondo. Al momento sono difatti solo 53 (su un totale
di 196) i paesi del mondo che ne hanno proibito l’estrazione e l’utilizzo. In
tutti gli altri, inclusi colossi industriali come Cina, India e Russia, questo
materiale è ancora utilizzabile, a volte in tutte delle sue molteplici forme, a
volte solo in alcune. Come nel caso degli USA, nei quali l’amministrazione
Trump, nell’estate 2018, è tornata sui passi tracciati dai governi
precedenti reintroducendo l’uso dell’amianto nell’edilizia (da cui era stato bandito nel 1989). Insomma, la
parola d’ordine è, ora come prima, vietato abbassare la guardia!
Un’agricoltura lenta e locale che pur mantenendo
stretto il legame tra chi la pratica e la terra lascia all’agricoltore il tempo
e lo spazio per altre passioni. È questa la strada seguita da Damiano, il
giovanissimo contadino e musicista protagonista del primo documentario della
serie “TERRE” che narra la vita ed il lavoro di alcuni piccoli produttori
agricoli, partendo dalle zone piacentine. Damiano Sprega ha vent’anni ed è un agricoltore. Il primo
cortometraggio della serie di documentari “TERRE” è incentrato su di lui e
sull’azienda agricola Casa Della Memoria Casella (San Protaso di Firenzuola –
Piacenza). È una storia semplice, nel senso più positivo del termine. Damiano è
genuino e spontaneo, lo si percepisce vedendolo rispondere alle domande.
Il documentario non si apre però
discutendo di agricoltura. Damiano parla della sua più grande passione: la musica.
Racconta delle emozioni che gli dà, di come abbia intenzione di dedicare il suo
tempo e le sue energie in una carriera da musicista. Ma, allora? Stiamo andando
fuori tema? No, questo documentario ha un messaggio da estrapolare dalle
sensazioni del giovane agricoltore-musicista. L’agricoltore è un
mestiere totalizzante, per come lo intendiamo ai giorni nostri, l’imprenditore
agricolo deve produrre e guadagnare il più possibile, questo è il dogma.
L’agricoltura industriale spinge a produrre sempre più, così l’agricoltura è
nelle mani di poche persone che devono lavorare tantissimo, a questo siamo
abituati. Ma Damiano non vuole tutto ciò. Ama la sua terra, la stessa terra che
suo nonno ha coltivato e coltiva ancora con cura e dedizione. Rispetta la
natura e il lavoro con cui la sua famiglia può vivere dignitosamente e
sostenere la sua grande passione musicale. Non ha intenzione di lasciare
questa occupazione, gli piace. Dice che continuerà a prendersene cura, anche
l’agriturismo dovesse chiudere, anche se il contadino non sarà il suo primo
lavoro.
Damiano Sprega
Quando diciamo che
nel futuro bisognerà tornare ad un’agricoltura più lenta e locale,
legata al territorio, fatta dai contadini e non dai grandi imprenditori
agricoli quello che m’immagino sono tanti ragazzi come Damiano che torneranno
alla terra. Come molti giovani d’oggi avranno altre passioni, ma avranno anche
l’esigenza di rimanere a contatto con la natura e col cibo, prendendosi cura di
un campo, di un orto o un giardino. Sarà quell’attività quotidiana che ci
manterrà sani fisicamente e mentalmente. In futuro l’agricoltura non sarà per
forza un lavoro full-time? Potrà essere un lavoro che svolgeremo al di fuori
dalle logiche di mercato, allo scopo di produrre cibo e curare l’ambiente?
Queste sono le domande che sono sorte dalla visione del corto. In passato non è
stato così per vari motivi. I giovani che si affacciano all’agricoltura
adesso hanno davanti un nuovo mondo, hanno vecchi schemi da archiviare e nuovi
metodi da inventare. Non sarà facile, questo anche Damiano lo sa, ma è una
strada che vale la pena percorrere. Il progetto indipendente di documentari
“TERRE”, prodotto e ideato dalla casa di produzione MaGestic Film, si propone
di narrare la vita e il lavoro di alcuni piccoli produttori agricoli, partendo
dalle zone piacentine, espandendosi poi su altri territori, coinvolgendo anche
enti, associazioni e fondazioni locali. Qui in seguito il link al primo
episodio, scritto e diretto da Silvia Onegli, disponibile gratuitamente anche su YouTube.
Oltrepò Outdoor Experience è un insieme di
proposte di attività all’aria aperta sostenute dal progetto AttivAree con un
minimo comune denominatore: scoprire in modo lento ed ecologico l’incredibile
patrimonio di biodiversità che caratterizza l’Oltrepò Pavese. C’è chi preferisce scoprire il territorio
immergendovisi, attraversandolo con il passo allenato del trail runner,
respirando l’aria dei boschi e percorrendo i lunghi sentieri montani e
collinari di questa fetta d’Italia tanto sconosciuta quanto affascinante.
A lui o lei è
rivolto l’invito di Federico di Oltrepò Trail, associazione nata
«per incentivare le persone a fruire del territorio in un modo un po’ inusuale:
la corsa in montagna». Volete risparmiare fiato e godervi il paesaggio
dell’Oltrepò ancora più lentamente? Niente paura! Oltre che di trail running,
Federico è anche istruttore di nordic walking. Ma c’è anche chi la
Natura preferisce ammirarla dall’alto. Proprio così: vi poterete librare a
centinaia di metri d’altezza e sorvolare la campagna pavese come una poiana.
Non un uccello a caso, visto che questo rapace è uno dei simboli dell’Oltrepò
Pavese e dà anche il nome al locale club di parapendio. Il volo libero è
un modo alternativo e certamente affascinante per visitare una delle culle
della biodiversità europea. «Ho sempre tenuto molto a questo territorio – ci
confida Lucia del club Le Poiane d’Oltrepò – e sono stata piacevolmente colpita dal progetto Oltrepò(Bio)diverso.
Credo che quando si fanno delle azioni concrete valga davvero la pena seguirle
e dare il proprio contributo».
Già, perché queste
esperienze turistiche e sportive sono unite da due aspetti. Il primo,
naturalmente, è che consentono di esplorare da nuove prospettive un territorio
intrigante come quello dell’Oltrepò. La seconda è che sono sostenuti dal
progetto Oltrepò(Bio)diverso, portato avanti da Fondazione Cariplo con il sostegno di numerose realtà locali nell’ambito
del programma AttivAree, dedicato alla
riscoperta e alla rivitalizzazione delle zone marginali del nostro paese. Ma
torniamo alle outdoor experiences fra cui può scegliere chi vuole avventurarsi
in Oltrepò. Non siete degli sportivi e preferite una passeggiata fra i filari
sorseggiando un bicchiere di buon vino? Ancora una volta, questo è il
posto giusto per voi! Giacomo, della cantina Torre degli Alberi, ci racconta un progetto che lega a doppio filo il turismo enologico con
quello naturalistico: «ViNO – Vigneti e Natura in Oltrepò è volto a
tutelare la biodiversità nei vigneti di questa zona. Ciò avviene in particolare
attraverso il monitoraggio delle farfalle e di alcune specie di uccelli e la
preservazione del loro habitat». Ma le vere regine dell’Oltrepò sono loro. Con
ali delicate e variopinte volano da un fiore all’altro portando alta la
bandiera della biodiversità, che qui si manifesta in maniera dirompente.
L’Oltrepò è infatti la casa di più di 120 specie di farfalle, come ci ricorda Francesco
Gatti, dell’associazione IOLAS.
«Il progetto
Oltrepò(Bio)diverso, all’interno del programma AttivAree, ha individuato
sei siti di particolare pregio nei quali il visitatore può apprezzare questa
incredibile varietà grazie anche al supporto di pannelli informativi che lo
accompagnano lungo i percorsi», spiega Francesco. Il butterflywatching
infatti può essere davvero una risorsa importante nell’ambito dell’eco-turismo,
alla portata di tutti e adatta a grandi e piccoli.
“Valli Accoglienti e Solidali” è il nome del
circuito, sostenuto da Fondazione Cariplo grazie al programma AttivAree, che ha
l’obiettivo di far scoprire le valli Trompia e Sabbia attraverso strutture
ricettive che affiancano alla scoperta del territorio progetti di inclusione
sociale. Se passate per queste valli e
decidete di fermarvi in una delle strutture ricettive di cui vi vogliamo
parlare, noterete subito qualcosa di particolare. Non solo la bellezza dei
luoghi e il piacere di scoprirli a ritmo lento ma anche quel valore aggiunto
dato dalle persone che gestiscono posti come Casa Maer o il Co.ge.s.s. Bar.
Ma partiamo dall’inizio. Tutto è stato possibile grazie al sostegno di Fondazione Cariplo e del suo programma Valli Resilienti, che ha l’obiettivo di rivitalizzare e far conoscere le valli bresciane Trompia e Sabbia. Nell’ambito del progetto si inserisce “Valli Accoglienti e Solidali”, un circuito turistico che unisce alla scoperta del territorio l’inclusione sociale.
La proposta
turistica del Circuito si sviluppa lungo tre filoni esperienziali, che
la responsabile innovazione sociale del progetto AttivAree Valli Resilienti Claudia Pedercini ci
illustra: «Il primo filone riguarda la parte culturale e punta a valorizzare i
siti culturali e turistici già presenti sul territorio, come ecomusei e
biblioteche. Il secondo è quello enogastronomico, che vuole far conoscere ai
viaggiatori le eccellenze e i prodotti tipici locali. Il terzo filone è quello
relativo all’outdoor: camminare lento, trekking con gli asini, cicloturismo e
tutto ciò che consente di stabilire un legame con la natura».
Il Circuito non è fatto solo di proposte turistiche responsabili; parte della sua forza è data dalla costruzione di uno “stile” di ricettività turistica etico e solidale. Ne è un esempio il Co.ge.s.s. Bar. Ma di cosa si tratta esattamente? Ce lo spiega Ester Colotti, coordinatrice del laboratorio di inclusione sociale: «Il Co.ge.s.s. Bar – Non solo bar si trova nel borgo di Lavenone ed è un bar solidale. Qui lavorano persone disabili seguite dalla nostra cooperativa sociale che ogni giorno hanno la possibilità di imparare il mestiere dal punto di vista tecnico e di costruire una relazione con i clienti della nostra piccola comunità».
La cooperativa
gestisce anche Casa Maer, sempre a Lavenone, la nuova casa d’Artista del
progetto Borghi Italiani promosso da Airbnb Italia, che è stata inaugurata ad
ottobre 2018 grazie al contributo di Fondazione Cariplo. Casa Maer si affianca
all’offerta turistica dell’Ostello sociale Borgo Venno. In entrambe le
strutture, come ci spiega la referente Federica Bacchetti, i ragazzi
della cooperativa possono sperimentare esperienze finalizzate all’inclusione
sociale, come la cura degli ambienti e della casa, la manutenzione e il
contatto con la clientela. «Sono tutte abilità che qui possono acquisire grazie
al supporto di tutor – sottolinea Federica – per poi portarsele a casa e
sfruttarle nella vita quotidiana».
L’obiettivo della cooperativa è proporre ai visitatori un’offerta ricettiva accogliente e capace di offrire esperienze che consentano di stabilire un legame con il territorio e i suoi abitanti. Per fare questo Co.ge.s.s. si occupa anche di enogastronomia e organizza cene in luoghi insoliti. Questa estate, per esempio, si è tenuto un primo evento nel borgo di Presegno, che ha visto anche l’inclusione sociale di persone disabili. A pochi chilometri da Lavenone, nel Comune di Marmentino, si trova Casa Saoghe. È una vecchia abitazione contadina trasformata in casa di accoglienza solidale e affidata alla cooperativa Fraternità Impronta. Questa casa vacanze è gestita dai minori della Cascina Cattafame che, accompagnati dagli educatori della cooperativa, si occupano dell’accoglienza e della cura del verde. Possiamo parlare a tutti gli effetti di accoglienza solidale, dal momento che gli ospiti sono persone del territorio con fragilità o bisogni particolari. Qui vengono organizzati anche eventi per la scoperta del territorio come il trekking a passo d’asino che rappresentano il fiore all’occhiello della proposta turistica di Casa Saoghe. Non mancano anche qui i rapporti con il territorio e in particolare con le malghe e le aziende agricole della zona che propongono prodotti tipici facendo scoprire agli ospiti e alle loro famiglie i processi produttivi tradizionali grazie ai quali si supportano i progetti di inclusione sociale.
«Il circuito Valli
Accoglienti e Solidali contiene molti aspetti su cui punta il Programma
AttivAree», sottolinea Viviana Bassan di Fondazione Cariplo. «Dentro
troviamo un forte lavoro di rete realizzato nei mesi scorsi, l’attenzione alla
valorizzazione in modo innovativo delle risorse locali, la crescita di ruolo
degli attori del territorio, in particolar modo delle realtà non profit, che
mantengono allo stesso tempo salde la loro mission e l’attenzione verso le
persone più fragili. Importante occasione offerta dal circuito, lavorando sul
turismo, è anche l’apertura delle valli e di tutti gli attori coinvolti verso
nuove comunità di “fruitori” e nuove partnership con l’esterno, come testimonia
anche la collaborazione con Airbnb, con l’attenzione nel promuovere un
turismo sostenibile e quindi rivolto a persone interessate alla tutela
dell’ambiente, alla solidarietà, all’incontro autentico con la comunità
locale».
Una centrale idroelettrica dismessa da anni
diventa un polo al servizio della popolazione. Un borgo rurale verrà
ristrutturato per i giovani imprenditori che ancora oggi lavorano sul
territorio. È ciò che sta avvenendo nella Valli Sabbia e Trompia grazie al
progetto Valli Resilienti, finanziato nell’ambito del programma AttivAree di
Fondazione Cariplo. Qualche decina di
anni fa le centrali idroelettriche di cui sono disseminate queste valli erano
il cuore pulsante di un boom industriale che – oggi lo possiamo dire – a questi
territori ha regalato più che altro un benessere effimero e un conseguente
lento decadimento. Ma come spesso accade una fine è anche un nuovo inizio
e da queste montagne arrivano due storie che lo possono testimoniare.
Siamo in Valle
Sabbia. Quello che sta avvenendo nel piccolo paese di Barghe è un
esempio della capacità di rigenerazione insita nelle belle idee e
nell’intraprendenza della gente. Qui sorge una centrale idroelettrica
costruita ai primi del novecento e dismessa negli anni ’70. Oggi questo vecchio
residuo industriale si sta trasformando per tornare al servizio della comunità.
«Stiamo lavorando a
un progetto di recupero per far tornare questo fabbricato un luogo di
produzione: un tempo produceva energia elettrica, oggi produrrà cultura,
formazione e informazione». A parlare è l’architetto Davide Baretto, che
descrive il progetto di riqualificazione reso possibile grazie al programma AttivAree di Fondazione Cariplo, finalizzato a rivitalizzare le aree interne, oggi
considerate spesso degradate e marginali. Nelle valli bresciane Trompia e
Sabbia, la Fondazione sta intervenendo attraverso Valli Resilienti, uno dei due progetti di AttivAree, grazie al quale
questi due valli si uniscono con la comune finalità di rilanciare la
montagna bresciana facendo leva sulle risorse endogene culturali, storiche
e ambientali, sull’accoglienza improntata alle risorse della comunità locale,
su ciò che funziona e che deve essere amplificato e mutuato da valle a valle.
La ex centrale
idroelettrica di Barghe
Queste modalità
sono confermate anche da Marta Vezzola, referente della comunicazione
del progetto di Barghe: «La destinazione di questo immobile si definirà in
maniera inclusiva. Stiamo organizzando un processo partecipativo che riguarda
la popolazione tutta e che vuole dare una soluzione reale scelta in base alle
necessità della comunità».
Barghe sarà la sede
che ospiterà la rappresentazione della mappa di comunità della Valle
Sabbia, che ha visto i cittadini coinvolti in un percorso di riscoperta e
riappropriazione dei “luoghi del cuore” del loro territorio. Se a Barghe le
infrastrutture del rilancio della valle nasceranno sulle ceneri di un’eredità
industriale, presso il borgo di Rebecco il sostrato è costituito dalle
vestigia della cultura e dell’architettura contadine proprie del territorio.
«Questo borgo è un posto magico – spiega Fabrizio Veronesi, della
Comunità Montana della Valle Trompia – perché è rimasto conservato nei secoli e
racchiude la storia e la tradizione dei popoli che hanno vissuto in questa
valle».
Gli studenti delle
scuole del territorio e dell’Università di Brescia hanno studiato questo antico
insediamento rurale per avviare il progetto di recupero e di valorizzazione dei
suoi fabbricati. L’auspicio è che questo processo di rigenerazione
architettonica dia luogo a sua volta a un analogo processo di rigenerazione
sociale.
Uno scorcio
dell’insediamento rurale di Rebecco
«La nostra
aspirazione – prosegue Veronesi – è che questo posto venga affidato a delle
energie nuove che costituiscano un volano di attrazione e di opportunità
per tutte le realtà agricole e di trasformazione dei prodotti della terra che
ancora resistono nella nostra valle».
«Barghe e Rebecco
testimoniano come il progetto Valli Resilienti, promosso dalla Fondazione
Cariplo nell’ambito del Programma AttivAree, abbia affrontato in maniera
innovativa il tema del recupero degli spazi, adottando il principio del design
thinking per coinvolgere e ingaggiare la comunità nelle scelte e nelle modalità
di rigenerazione dei luoghi del territorio», conclude Noemi Canevarolo
di Fondazione Cariplo. «Inoltre Valli Resilienti si dimostra capace di rendere
attrattivi i luoghi di montagna anche in rapporto ai limitrofi poli urbani.
Rebecco ne è un esempio: un borgo che sarà ristrutturato e riattivato da una
rete di imprese di giovani del luogo e ora anche sede del workshop della Domus
Accademy, una delle più importanti scuole di design di Milano».
Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/12/rinascita-borghi-centrale-idroelettrica-polo-comunita/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni
Fondazione Cariplo, Touring Club Italiano e
diverse associazioni no profit del territorio uniscono le forze per far
rinascere l’Oltrepò Pavese, area poco conosciuta ma dalle grandissime
potenzialità, che raccoglie fra le sua valli Natura, cultura, tradizioni e un
grande patrimonio enogastronomico.
«Queste noci sono più piccole di quelle che si trovano in giro, ma sono
anche più saporite. Eppure nessuno le conosce. L’Oltrepò è così: una regione
poco nota, che non ha una narrazione adeguata». L’esempio che ci fa il
giornalista e scrittore Giorgio Boatti affondando la mano in un
invitante cesto di noci è perfetto per spiegare il carattere di questa regione
e inquadrare gli obiettivi del progetto “Oltrepo(Bio)diverso, la natura che
accoglie”.
Portato avanti da
una ventina di enti no profit del territorio e sostenuto con forza da Fondazione Cariplonell’ambito del
programma di rivitalizzazione delle aree interne “AttivAree”, questo progetto ha lo scopo di recuperare le
tradizioni e le eccellenze territoriali per porgerle a un turismo mutato nel
corso del tempo.
Mutato perché alle
incursioni mordi e fuggi dei milanesi che hanno caratterizzato i flussi
turistici dei decenni scorsi si sta sostituendo una frequentazione diversa. Il
turista ideale dell’Oltrepò non deve avere fretta, deve avere il piacere
della lentezza, l’occhio allenato a cercare le piccole cose. In questa
parte d’Italia si incontrano la zona climatica continentale e quella
mediterranea e da questa mistura nasce grande fecondità. Ed è proprio sulla
biodiversità e sul suo patrimonio naturale che l’Oltrepò Pavese ha puntato
tutto nella sua sfida per la rinascita avviata attraverso il Progetto
Oltrepò(Bio)diverso. In quest’area a elevato indice di biodiversità –
dove sono state censite ben 122 specie di farfalle, più del 40% di quelle
italiane e il doppio delle specie che volano in Gran Bretagna – è in corso un
processo per la rinascita, che ha messo in campo molte azioni articolate su
vari assi d’intervento. I risultati arrivano: ultimo solo in ordine di tempo, la nascita di una guida dedicata a
marchio Touring Club Italiano.
«È guida di non
tante pagine, ma di grande densità di informazioni, all’interno della quale
abbiamo cercato di raccontare il territorio mettendone in risalto gli aspetti
più curiosi», racconta Gino Cervi, scrittore e coautore di “Oltrepò
Pavese – L’appennino di Lombardia”. «È un po’ un invito al viaggio attraverso
percorsi non convenzionali, storie legate a una cultura millenaria ma anche
contemporanea».
«L’Oltrepò Pavese
ritratto in questa guida stupisce ed entusiasma, confermandosi meta di fascino
per un turismo di prossimità che guarda alle città dietro l’angolo. Gli
itinerari proposti sono ‘gite fuori porta’ che in un pugno di chilometri
conducono in un mondo ricco di suggestioni, dove la natura con la sua immensa
riserva di biodiversità domina e incanta», spiega Giuseppe Guzzetti,
Presidente di Fondazione Cariplo, commentando l’iniziativa. «Questa
pubblicazione è frutto di un più ampio processo di rinascita del territorio
avviato grazie al Programma AttivAree di Fondazione Cariplo dedicato alle aree
interne e rappresenta un’importante opportunità di rilancio per l’Oltrepò
Pavese, che si afferma come sorprendente luogo di interesse turistico».
Partendo dal titolo
della guida, Giorgio Boatti approfondisce ulteriormente il senso del progetto:
«L’appennino è una specie di sintesi dell’italianità: durevolezza e
misura. E sfocia nella pianura padana proprio nell’Oltrepò Pavese. L’obiettivo
della guida è rendere chi la legge consapevole di questo congiungimento fra
pianura e appennino, ma anche quello di fare formazione sugli operatori del
territorio».
In quest’ottica va
la Scuola di Narrazione Territoriale, nata all’interno del progetto, che
ha l’obiettivo di creare una visione dell’identità e fare sì che gli abitanti
la facciano propria. È una narrazione-mosaico che contiene i personaggi, i
luoghi e le tradizioni. Attorno a essa si creano competenze e si uniscono delle
professionalità.
Si guarda dunque
anche agli aspetti più concreti, come testimonia un’altra iniziativa nata con
il fine di valorizzare quest’area: con Open Innovation Center, si mira
alla tutela e salvaguardia del patrimonio ambientale. Attraverso il
coinvolgimento di tre Università (Pavia, Milano Piacenza e Genova) sono infatti
partiti, programmi di sperimentazione e ricerca in campo agronomico finalizzati
al recupero e valorizzazione di specie autoctone e iniziative di diffusione
della conoscenza del patrimonio di biodiversità mirate allo sviluppo
dell’ecoturismo. La sfida di Oltrepò(Bio)diverso è quindi quella di riabilitare
questa zona dopo che è stata penalizzata dalla superficialità della
frequentazione degli anni passati e dal progressivo spopolamento. Proprio in questa
direzione va il concerto di iniziative che si intrecciano con un minimo comune
denominatore: la volontà di valorizzare la grande biodiversità che si
forma qui in ogni ambito.
«L’Oltrepò ha una
strana caratteristica», ci racconta in conclusione Giorgio Boatti. «È un saggio
e sperimentato uomo che ha lo spirito innovativo dell’adolescente, che davanti
alle sfide non si ritrae, pur ponderandole attentamente con estrema serietà.
Qui hanno capito che il domani si costruisce oggi, quindi mi immagino un
territorio che in futuro manterrà i suoi fondamentali – ambiente, natura,
piccoli borghi, atmosfera rilassata –, ma non avrà paura dell’innovazione. Oggi
è un territorio inclusivo e siamo in cammino per fare sì che lo sia anche nei
prossimi anni».
Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/12/oltrepo-pavese-bellezza-biodiversita-ritmo-lento/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni