Federico: “La persone con disabilità sono percepite come eterni bambini, ma vogliamo decidere per la nostra vita”

Per la prima intervista della sua rubrica This Abilità, la nostra Elena chiacchiera con un suo amico di lunga data, Federico Feliziani. Il tema sul piatto è l’autonomia, l’indipendenza vista non tanto dal punto di vista pratico, quanto piuttosto come una condizione morale necessaria perché venga garantita la dignità di ogni persona. Io e Federico ci conosciamo da quasi quindici anni e da quasi quindici anni ho sempre seguito da vicino le sue ambizioni e ascoltato i suoi ideali. Parlando di autonomia e indipendenza, mi fa entrare nel suo pensiero e inizia a raccontarmi la sua quotidianità.

Prima di arrivare alla scelta del suo progetto di vita indipendente però vorrei raccontarvi un po’della nostra amicizia, perché la parola autonomia abbiamo iniziato a conoscerla insieme, facendo esperienze che inevitabilmente ci hanno portati alle scelte che stiamo realizzando e vivendo oggi. Per anni ci siamo frequentati molto spesso abitando vicini e anche adesso che ognuno ha una propria casa e una routine molto ricca, la spaghettata in compagnia, un film al cinema o un aperitivo insieme non ce li toglie nessuno. Se dovessi ricordarmi l’inizio della nostra amicizia lo collegherei sicuramente alla Città Eterna: andammo un weekend alla scoperta di Roma a bordo del camper della mia famiglia durante le festività pasquali. Mi ricordo che la prima cosa che mi colpì di Federico furono i capelli bianchi, perché nella mia vita li avevo visti solo alle persone anziane e non riuscivo a capire come mai un ragazzo, mio coetaneo, potesse già averli. Mi piacevano molto, li trovavo magici.

«É albino», mi spiegò mia mamma. Non feci altre domande, ma da quel giorno imparai una parola nuova che mi sembrava fosse appena uscita da un mondo fantastico e dissi: «Wow! Lui non invecchierà mai!».

Inizialmente non parlavamo tantissimo io e Federico, ma ci capivamo a gesti ed eravamo in sintonia su moltissime cose – tranne sui tortellini ordinati in un ristorante tipico romano durante la nostra vacanza – e dopo quei giorni passati insieme ai nostri genitori, vivendo a stretto contatto, iniziammo a vederci sempre più spesso e a capirci sempre meglio. Avevamo moltissime cose da dire al mondo!

Federico è nato a Bologna nel 1993 e dopo una sofferenza neonatale ha riportato difficoltà nel linguaggio e nel movimento. Ha conosciuto da subito le sue particolarità e ha iniziato a prenderle per mano convivendoci, facendo compromessi e impegnandosi laddove pensava di poter superare i propri limiti. La formazione più importante gli è arrivata al liceo quando, grazie a due professori, ha capito di cosa si volesse occupare nella vita: temi sociali e politici.

Così, finite le scuole superiori, si è iscritto a Scienze Politiche conseguendo una laurea triennale. Nel frattempo la sua vita si svolgeva in più luoghi e facendo svariate attività, dallo stare sul palco come componente di una compagnia teatrale allo scrivere una raccolta di poesie; dall’essere redattore per una testata locale al diventare consigliere comunale di Sasso Marconi: ruolo che svolge tutt’ora dopo la rielezione due anni e mezzo fa.Nel 2008 ha deciso di aprire un blog che è diventato subito un prezioso biglietto da visita in grado di scalfire quel velo di pregiudizio dato dall’apparenza. Attualmente si occupa di cronaca politica per un sito di cultura e società nato nel 2019. Nonostante la sua vita super impegnata, ci siamo sempre riusciti a ritagliare, anche a distanza, dei momenti per raccontarci le nostre giornate e discutere di temi che ci toccano da vicino e toccano le “nostre” ruote. Uno di essi, probabilmente il più ricorrente negli anni, è stato sempre quello dell’autonomia. Iniziammo a fare dei weekend insieme per essere pronti al famigerato “dopo di noi”. La nostra amicizia la conoscevano i nostri educatori e i servizi che ci seguivano e proprio per questo ci venne proposto di iniziare un percorso dove passare insieme del tempo per capire se fossimo stati compatibili nel diventare coinquilini con le nostre potenzialità. Questo percorso durò svariati anni fino all’idea di proporci di andare a vivere insieme anche durante la settimana. Pur trovandoci molto bene decidemmo, con la nostra autodeterminazione e la nostra testa “dura”, di far capire a chi gestiva questo servizio che volevamo essere indipendenti e i nostri progetti per il futuro erano diversi e personali per entrambi nonostante il nostro bel rapporto. Fede ama seguire la politica e stare spesso da solo a godersi la tranquillità casalinga, mentre io amo poco la politica, ma mi piace molto avere gente intorno e uscirei quasi ogni sera. Non è stato facile far capire questo concetto a chi ci stava intorno perché quando si parla di vita indipendente e sei una persona con disabilità si tende a far andare bene a molti la risposta che in realtà può andare bene a una sola persona, scavalcando le scelte e i gusti che invece per ognuno possono essere diversi. Noi però non ci facemmo convincere e andammo per la nostra strada. Federico è stato uno dei miei primi amici a lasciare il nido ed andare a vivere da solo, facendo una scelta di vita indipendente, personalizzata e autogestita. Mi sono fatta raccontare nei dettagli il suo percorso. L’ho fatto perché penso che una scelta come quella di Federico debba essere raccontata. Una possibilità che lui si è costruito è diventata una risposta possibile. Mi auguro che si possa sempre più parlare d’indipendenza, perché è un passo che può compiere anche chi non sarà mai totalmente autonomo. Una scelta da coltivare per far crescere nuove opportunità.

Quando hai scelto di andare a vivere da solo? Come hai pensato di strutturare il tuo progetto di vita?

La decisione è arrivata dopo diversi anni, nel corso dei quali ho partecipato a diversi progetti di autonomia proposti dai Servizi: momenti in cui veniva simulata la vita quotidiana nella quale mi veniva chiesto di provare a svolgere faccende quotidiane, dall’apparecchiare al preparare i pasti. Grazie a questi progetti, portati avanti insieme ad alcuni amici, ho potuto verificare quali fossero le mie abilità, molte delle quali nascoste dal fatto di vivere con i miei genitori e quindi in una situazione confortevole. Ormai tre anni e mezzo fa, al termine dell’ultimo di questi percorsi, ebbi la possibilità di utilizzare un appartamento accessibile e nel paese dove sono cresciuto. Così con il supporto dei servizi educativi arrivai a costruire un progetto individuale di vita indipendente. Un progetto ricco di obbiettivi da raggiungere: dal fare la spesa al sistemare la casa essendo io l’unico inquilino. Siamo partiti con dieci ore di intervento educativo a settimana con tre accessi a settimana, per poi ridurre progressivamente la presenza degli educatori arrivando, adesso, a quattro ore a settimana.

Un’esperienza che avrebbe dovuto durare sei mesi sta proseguendo ancora oggi, nello stesso appartamento in cui ho conseguito sempre più autonomie. Il prossimo passo, in parte già in atto, sarà delegare quelle mansioni che non riesco a gestire da solo trovando le persone giuste che mi possano supportare.

Cosa significa per te indipendenza?

Nel corso del tempo è cambiato molto il mio concetto d’indipendenza: penso non ci si debba soffermare tanto sull’indipendenza pratica, poiché essere indipendenti non significa farsi la lavatrice da soli per capirci. Essere indipendenti significa soprattutto avere autonomia nelle scelte, decidere per la propria vita senza cercare approvazione dagli altri.

Spesso le persone con disabilità sono percepite come eterni bambini: percezione talmente dominante che molte volte ho finito per crederci. Invece no: dobbiamo essere ragazzi e adulti che progressivamente si stacchino dalla costante approvazione altrui. È un obbiettivo su cui sto ancora lavorando, ma credo sia la vera essenza dell’indipendenza, l’elemento di cui si ha davvero bisogno preparandosi a una vita senza genitori.

Foto di Sergio Marchioni

Si parla sempre più spesso del “Dopo Di Noi” ma penso sia importante concentrarsi sul “Durante Noi”. Che proposte metteresti in campo per parlare di questo tema – la vita indipendente – e per far sì che entri sempre di più nella quotidianità in cui viviamo diventando per tutti una reale possibilità?

Credo sia complesso trovare un nome alle cose, ma “Dopo di Noi” suggerisce secondo me una prospettiva sbagliata. Nasce cioè dal dilemma che attanaglia i genitori di persone con disabilità che, immaginando un futuro senza la loro presenza, sono preoccupati per la vita dei figli. Questa idea è totalmente fuorviante perché a essere sbagliata è la prospettiva: il “Dopo di Noi” suggerisce il prendere in considerazione le speranze dei genitori. In quel “noi” c’è l’errore perché il futuro sarà vissuto dai figli e non dalle loro famiglie: quindi sarebbe bene cambiare radicalmente prospettiva ponendo al centro le opinioni delle persone con disabilità e non quelle dei loro genitori.

Può sembrare un dettaglio, ma è sostanza. Pensiamo ad esempio se iniziassimo a pensare al “Dopo di Voi” o al “Durante voi”. Cambierebbe qualcosa? Sì, cambierebbe il soggetto degli interventi: non sarebbero più le risposte alle preoccupazioni dei genitori ma delle risposte alle ambizioni personali dei figli. Cambierebbe profondamente l’approccio al tema suggerendo ad esempio come le persone con disabilità non saranno eterni figli, ma persone che devono trovare una loro indipendenza secondo i loro principi, le loro esperienze e le loro ambizioni. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/11/federico-persone-disabilita/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Dizionario eretico. Per una critica della parola vilipesa

Perché parliamo nel modo in cui parliamo? Perché per significare una certa cosa, un pensiero, un’emozione scegliamo una parola piuttosto che un’altra? Perché mentre parliamo riteniamo che proprio quella parola pronunciata sia perfetta per esplicitare esattamente ciò che pensiamo? E perché mentre comunichiamo agli altri le nostre intenzioni crediamo che chi ci ascolta dia alle parole il medesimo senso che gli attribuiamo noi? Ma su tutte le questioni sollevate, spicca l’interrogativo originario, senza di cui nessuna di queste domande avrebbe senso: cos’è il linguaggio? Qual è la sua definizione, la sua essenza?letters-wallpapers-free-download1-1024x663

Generalmente per linguaggio si intende la facoltà propria dell’uomo di esprimersi e comunicare tramite un sistema di simboli, in particolare di segni vocali e grafici. Ora, che questa sia una prerogativa esclusivamente umana io non mi sentirei di sostenerlo, e dal mio angolo prospettico, di scettico radicale, sospendo il giudizio. D’altronde non è questo il momento di disquisire sulle modalità con cui tutti gli animali comunicano fra loro. Qui si tratta di capire cosa sia il linguaggio per noi, animali umani, e quali trasformazioni abbia subito negli ultimi secoli. Se accettiamo l’idea che il linguaggio sia la facoltà con cui l’uomo si esprime, è chiaro che le parole, alla base del linguaggio, assumono il ruolo di legante relazionale fra chi parla e chi ascolta. La parola che costituisce il linguaggio è quindi un vettore sociale, politico, interpersonale. Non esiste di per sé, non potrebbe essere pronunciata senza un ascoltatore: chi parla da solo, infatti, non sta parlando, ma ragiona ad alta voce. La parola pronunciata diventa linguaggio solo nella relazione interpersonale e comunitaria: si parla a qualcuno, si parla per qualcuno e con qualcuno. Proviamo a pensare alle parole come a dei legami che tengono insieme due o più persone. Quando ci si riconosce all’interno di un medesimo orizzonte, entro una stessa comunità, si finisce per parlare la stessa lingua. Anche perché le parole che abitano un luogo, abitano anche la relazione che si costituisce fra i parlanti di quel luogo e la realtà circostante. Ciò sta anche a significare che ogni luogo ha le sue parole, ogni luogo costituisce un linguaggio e i concetti con cui gli abitanti si esprimono e si comprendono a vicenda. Per esemplificare il ragionamento potrei ricorrere ad un aneddoto riferitomi da un mio amico nigeriano, il quale, tornato al suo paese natale, non riusciva a spiegare ai bambini del villaggio cosa fosse la neve. Ad un certo punto, per risolvere la difficoltà e per placare la curiosità dei suoi piccoli amici, li condusse vicino ad un congelatore, raschiò dall’interno del ghiaccio secco, lo lanciò in aria e disse: «Ecco la neve!». Il motivo per cui i bambini nigeriani non riuscivano a capire cosa fosse la neve è chiaro: non ne avevano i concetti. La neve è un «frammento» di realtà con cui i popoli africani non si trovano ad aver relazione e quindi questa mancata relazione non dà luogo a un legame costitutivo, non dà luogo alla parola neve.ws_Letters_1920x1080-1024x576

Da questo punto di vista, allora, ha molto ragione Ludwig Wittgenstein quando afferma che «i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo». Il mondo che abitiamo consiste nella totalità dei fatti che accadono, e il linguaggio è la totalità delle proposizioni che significano i fatti stessi. Ciò vuol dire che se la neve non «accade» come fatto, quella parola esula dal mio linguaggio, non ne fa parte, sicché diventa un concetto estraneo alla mia lingua, tanto che non la capisco e non riesco ad associare alla parola neve alcuna immagine. Ora, se quanto detto sin qui ha una pur minima plausibilità, per cogliere il senso profondo della nostra lingua (e quando parlo di «nostra lingua» non intendo la sola lingua italiana, bensì la lingua occidentale, i concetti occidentali) dovremmo indagare i concetti che colonizzano il nostro immaginario e la nostra cultura, e che costituiscono l’orizzonte entro cui ci riconosciamo e abitiamo come parlanti. Lo spazio culturale, sociale e politico in cui siamo immersi da almeno duemila e cinquecento anni è quello economico. Nel mio libro Dall’economia all’eutéleia (Edizioni per la decrescita felice, 2014) spiego in che senso ritengo che l’oikonomia sia il luogo del dominio dispotico in cui dal VI secolo avanti Cristo le relazioni comunitarie si sono strutturate verticalmente. Sono cioè state relazioni di dominio esercitato da qualcuno su qualcun altro. Mi riferisco al VI secolo avanti Cristo perché quello è il momento in cui il concetto di economia viene codificato per la prima volta da Senofonte. Con questo non voglio dire che prima di allora si vivevano relazioni orizzontali e conviviali, ma semplicemente che con il saggio intitolato Economico, Senofonte mette in chiaro cosa sia per il mondo greco l’economia.ws_Typewriters_Letters_1920x1080-1024x576

Non è questo il momento di riprendere il discorso, che ci porterebbe troppo lontano. Questo accenno l’ho fatto solo per dire che nel considerare il linguaggio occidentale dobbiamo fare i conti con l’orizzonte economico, che da millenni esprime il senso del dominio di qualcuno su qualcun altro. Questa caratterizzazione culturale ha prodotto una trasformazione radicale del nostro modo di parlare. I termini legati alla solidarietà, alla convivialità, al reciproco rispetto, alla pace sono progressivamente spariti. Negli ultimi due secoli, con il capitalismo – prima – e la razionalità tecnologico-capitalista – poi – le parole che usiamo abitualmente hanno subito una torsione semantica in senso violento. L’obiettivo che mi propongo in questo dizionario eretico è di rimettere al centro le parole comunitarie, da troppo tempo dimenticate e celate sotto una coltre d’indifferenza, e le parole che liberano l’uomo dalla violenza e dal dispotismo, mostrando di volta in volta le trasformazioni a cui abbiamo costretto il nostro linguaggio, senza forse neppure accorgercene.

1. Anche le proposizioni, a loro volta, sono fatti del mondo, ma godono della particolare proprietà di essere fatti che significano altri fatti, che sono invece muti. Mi spiego: la parola neve è una parola pronunciata, e poiché la si è pronunciata, la parola neve diventa un fatto. Ma questo fatto è un fatto verbale, parlante. La neve che cade, invece, è un fatto muto. È un fatto che può essere raccontato, ma che non racconta.

Fonte : italiachecambia.org

Il potere delle parole e delle immagini

Partendo dalle sue esperienze con bambini ed adolescenti, l’insegnante di lingue Claudia Bousquet sottolinea l’importanza di selezionare in maniera adeguata il linguaggio e le immagini da offrire ai più piccoli affinché questi possano trarne nutrimento per l’immaginazione e per la loro esistenza, nonché per costruire solide radici per il loro divenire.bambino_tv

Sono un’insegnante di lingue che sviluppa anche progetti basati sul racconto, la poesia e le immagini (foto, video, disegni). Da alcune esperienze fatte con bambini ed adolescenti, mi sono accorta di quanto sia importante selezionare sempre in maniera adeguata il linguaggio ed altresì, le immagini da offrire. A tal proposito, molte trasmissioni televisive non rappresentano un buon esempio da seguire. Troppo spesso infatti, esse ci propongono modelli negativi di relazioni umane, non più basate sul rispetto reciproco e sulla gentilezza, ma sull’arrivismo e sulla prevaricazione del più forte. Generalmente quindi, i media non offrono una sana educazione (non solo visiva) ai nostri figli e non collaborano alla realizzazione di un’umanità migliore. Purtroppo proprio quella “scatola animata” esercita una grande influenza “culturale”, sui più giovani, ed in special modo sui più piccoli, i quali, nudi davanti allo schermo (privi cioè di protezioni mentali ed emotive), s’impregnano di quel “sapere”. Frequentemente a scuola, mentre ascolto gli scambi verbali dei miei alunni di 14-18 anni (spesso volgari anche in presenza degli insegnanti) mi sembra di rivivere in classe la trasmissione di “Uomini e donne”. Infatti , anziché esprimere con calma i propri pareri, troppo spesso discutono in forma accesa, infuocandosi e usando, con poca consapevolezza, espressioni sin troppo intense e colorite. Questi tipi di scambi non denotano alcun interesse e rispetto per se stessi e per gli altri; si tratta di conversazioni prive di vero ascolto, in cui la mente e la parola non sono più a stretto contatto con il cuore, dando così vita a una forma di squilibrio interiore. Gli spot televisivi, i cartoni animati, molti film di fatto invadono il nostro mondo immaginario, spesso influenzandolo a tal punto da causare persino dipendenza.bambini8

Ciò significa che quel rapido susseguirsi di immagini e parole, può sostituirsi alle nostre immagini interiori, a quelle immagini cioè che tessono il filo sacro dell’esistenza. Questo magico filo, se non tutelato, spesso rischia di spezzarsi, ostacolando la comprensione e la scoperta del vero significato della nostra stessa vita. E noi quanto di tutto questo “materiale invasivo ” selezioniamo giornalmente per i nostri figli, nipoti e ragazzi? Perché misurare e usare bene le parole e perchè non sovraccaricare i bambini di immagini esterne eccessive lo spiega bene la scrittrice A.Sepilli, nel suo libro “Poesia e magia” (p.52): “Esprimere parole equivale a suscitare immagini nella fantasia anche senza corrispondenza con una realtà esteriore… Le parole come il sogno o la visione, quando siano accompagnate da forte carica emozionale , possono apparire forme intensificate di realtà, o di una ‘soprarrealtà’, misteriosa, esistente in un qualche modo o in qualche dove”. Se le parole possono avere questo potere e, insieme alle immagini, possono creare una “realtà altra” nel individuo, chi controlla questa realtà? Che forme prenderanno certe fantasie? Che esseri simbolici diverranno certi personaggi nella mente del bambino? Noi questo non possiamo saperlo, allora ecco perchè tutelare i minori, selezionando accuratamente il materiale visivo e sonoro da offrire loro. Proponendolo come se fosse un pasto, considerando che proprio di questo si tratta: di offrire ai più piccoli nutrimento per l’immaginazione e per la loro esistenza; affinchè semplicemente possano vivere più sereni e riescano ad avere delle radici solide su cui poggiare il loro divenire. “Ogni parola che proferiamo va scelta con cura, perchè il prossimo la udrà e ne sarà influenzato, nel bene o nel male” Buddha[1] Ed ancora Emily Dickinson scriveva: “Una parola è morta quando è pronunciata, dicono alcuni. Invece io dico che inizia a vivere proprio in quel momento” [2].

1. Dal testo “ I dieci comandamenti della saggezza” di Hal Urban (pag 62)

2. Tratto da : “L’incanto di un prato fiorito”

Tratto da EcoInArte

Fonte: il cambiamento