Green4Women: le donne che hanno perso il lavoro creano ricette per la comunità

La pandemia e l’isolamento, come testimoniano i dati, hanno aumentato le situazioni di solitudine, violenza domestica e perdita di lavoro per molte donne. Per questo motivo l’associazione Cambalache di Alessandria ha dato vita al progetto Green4Women, che accompagna le donne selezionate in un percorso di inserimento lavorativo attraverso un progetto di agricoltura sociale e di realizzazione di prodotti alimentari che valorizzano il territorio.

Alessandria – In che modo si può rispondere alla necessità di inclusione sociale e lavorativa delle donne e allo stesso tempo agire contro la violenza di genere? Ve lo raccontiamo oggi con Green4Women: progetto ideato ad Alessandria dall’associazione Cambalache in collaborazione con il Centro Antiviolenza Me.dea e con il sostegno del Fondo di Beneficenza di Intesa Sanpaolo. Un progetto che si sta occupando di attivare percorsi di empowerment, formazione e autonomia a partire dall’agricoltura sociale.

Un aiuto alle donne in difficoltà lavorativa

La pandemia da Covid19 ha pesato a livello sociale soprattutto sulle donne, da una parte aggravando e ampliando le situazioni di violenza domestica, dall’altra incidendo negativamente sul tasso di occupazione. Nel complesso le opportunità di impiego sono diminuite e, come dimostrano gli ultimi dati Istat, nel 2020 su 444mila lavoratori in meno, 312mila sono donne. Per questo motivo, fin dal suo avvio, Green4Women ha puntato a rispondere alle necessità derivate dalla perdita di posti di lavoro e di opportunità: così, in una fase iniziale, il progetto ha coinvolto un gruppo di 12 donne individuate e selezionate in collaborazione con Me.dea e si è occupato di insegnare loro le tecniche di agricoltura sinergica e di coltivazione delle erbe aromatiche. Le attività si sono svolte presso il Polo Agricolo Sociale gestito da Cambalache presso il Parco comunale del Forte Acqui di Alessandria. Un “luogo del cuore”, dove l’associazione da anni lavora con progetti di formazione e inclusione lavorativa, cercando di offrire nuove opportunità a sempre più persone in situazione di vulnerabilità. Successivamente sono stati attivati dei tirocini formativi presso Cambalache e destinati a tre donne. Durante il progetto non sono mancate attività negli orti sociali e nel laboratorio alimentare dell’associazione e le partecipanti hanno potuto approfondire le tecniche di essiccatura, trasformazione e confezionamento degli alimenti. Il percorso ha previsto anche momenti di orientamento al mondo del lavoro, per la ricerca di nuove opportunità di impiego nel settore agricolo e alimentare.

Green4Women: dal ricettario al nuovo marchio di prodotti vegetali

Il percorso, in vista del Natale, ha dato vita ai prodotti Green4Women: un marchio di alimenti vegetali essiccati e uno speciale ricettario elaborato in collaborazione con Enaip PiemonteI prodotti ottenuti sono coltivati negli orti sociali di Cambalache e lavorati dalle donne protagoniste del progetto, per arrivare direttamente in cucina e in tavola: dai preparati per risotti con verdure essiccate alle polveri di zucca e peperoncino da utilizzare in cucina, dall’origano alla tisana e alle verdure disidratate. Ma lavorare per l’autonomia e l’inclusione vuol dire anche instaurare sinergie positive sul territorio. In questo modo è nata l’idea del ricettario, realizzato in collaborazione con Enaip Piemonte – sede di Alessandria e grazie alla creatività dello chef Mattia Piras e degli studenti della Classe Terza del corso Operatore della ristorazione. Dopo aver approfondito a loro volta la tecnica dell’essiccatura, i futuri chef hanno ideato una serie di ricette con alcuni dei prodotti a marchio Green4Women e altri prodotti degli orti ed essiccati nel laboratorio alimentare di Cambalache. Il ricettario, disponibile anche online, contiene otto proposte che hanno la forza di mettere in connessione un importante progetto sociale rivolto all’inclusione lavorativa delle donne con i percorsi di crescita di un gruppo di giovani che stanno costruendo il proprio futuro lavorativo.

Cambalache, da diversi anni, ha dimostrato essere un modello alternativo per l’inclusione e l’integrazione. Percorsi destinati a giovani migranti, donne sole o vittima di violenza, richiedenti asilo e persone escluse sono soltanto alcuni esempi virtuosi di una realtà che, giorno dopo giorno, lavora con impegno per promuovere la crescita del territorio e una società non discriminatoria ma inclusiva, accogliente e multiculturale.

I prodotti Green4Women sono acquistabili nel negozio di Cambalache in piazzetta Monserrato 7/8 ad Alessandria, oppure direttamente online sul sito dell’associazione.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/12/green4women-donne-lavoro/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

NaturaSì: «Contribuiamo al costo dei tamponi per i nostri dipendenti»

NaturaSì ha comunicato che, in occasione dell’entrata in vigore delle nuove norme sul Green pass che prevedono l’obbligo per tutti i lavoratori, contribuirà al costo dei tamponi per i propri dipendenti/collaboratori. «Tuteliamo il diritto e della dignità del lavoro, nel rispetto della libertà individuale».

La storica azienda del bio italiano «si schiera per la difesa della salute e la sicurezza, ma anche per la tutela del diritto e della dignità del lavoro, nel rispetto della libertà individuale, decidendo di contribuire al costo dei tamponi», così si legge in un comunicato ufficiale del gruppo NaturaSì.

«Siamo intenzionati, per garantire il rispetto delle nuove norme sul green pass, a permettere a tutti i lavoratori di svolgere la propria attività in azienda liberamente, contribuendo come Gruppo al costo dei test previsti dalla legge», dice Fabio Brescacin, presidente di NaturaSì. La notizia è già trapelata sulla stampa e sta cominciando a far discutere. «Non vogliamo entrare nella polemica: la nostra azienda vuole garantire un aiuto ai nostri collaboratori. Per noi, come azienda del biologico italiano, in armonia con la nostra missione, sono validi tre principi fondamentali: il rispetto della salute delle persone e della Terra, il rispetto della libertà individuale, i diritti e la dignità dei lavoratori. La società tutta sta vivendo una situazione complessivamente molto difficile, con la comparsa del virus – continua Brescacin – Vogliamo evitare le lotte e le divisioni che purtroppo il virus ha esasperato nella relazione tra le persone, nel dibattito pubblico e nelle aziende».

Quella di contribuire al costo del tampone è una scelta di non facile gestione, sottolinea l’azienda, considerando i 1600 dipendenti e gli oltre 300 negozi di cui una parte gestita da imprenditori in franchising. «L’azienda valuterà congiuntamente con i responsabili dei punti vendita l’attuazione degli strumenti più adeguati a garantire, nella massima sicurezza, l’accesso al lavoro nei negozi NaturaSì, rispettando e tutelando sia le scelte dei lavoratori che quelle dei clienti, appoggiandosi per i test ai centri autorizzati» conclude Brescacin.

Fonte: https://www.ilcambiamento.it/articoli/naturasi-contribuiamo-al-costo-dei-tamponi-per-i-nostri-dipendenti?idn=118&idx=29812&idlink=2

Muovere merci: il folle principio-guida del sistema globale

«Cosa succede quando la logistica e la movimentazione delle merci diventa il principio guida della riorganizzazione del sistema produttivo e delle filiere globali?»: è la domanda che si sono posti, e a cui hanno provato a dare una risposta, le organizzazioni Re:Common e Counter Balance nel rapporto appena uscito “Corridoi come Fabbriche”, che apre uno sguardo su questo processo dove la catena di distribuzione ha “soppiantato” la fabbrica fordista.

«Filiere, logistica e lavoro, è questo il mondo che vogliamo? Che cosa succede quando il sistema produttivo globale viene riorganizzato e la logistica diventa il principio guida di questa trasformazione della filiera globale?»: sono le domande che si sono posti, e a cui hanno provato a dare una risposta, le organizzazioni Re:Common e Counter Balance nel rapporto appena uscito “Corridoi come Fabbriche”, che apre uno sguardo su questo processo dove la catena di distribuzione ha “soppiantato” la fabbrica fordista. «Oggi infatti la produzione si sviluppa sempre più tra le maglie delle reti logistiche che spostano le merci da un punto all’altro e che sono diventate la fabbrica in sé».

«Una riorganizzazione che prevede da un lato la costruzione di mega corridoi infrastrutturali – via mare e via terra – che permettano di concentrare le diverse fasi del processo produttivo, e la forza lavoro, lungo degli assi geografici ben determinati. Dall’altro che trae profitto dalle Zone economiche speciali, dove vengono sviluppati gli hub logistici in deroga alle normative vigenti. Qual è l’impatto sull’ambiente e sul clima di questo processo? Quali le implicazioni ambientali e sociali più ampie? Se è questa la direzione che sta prendendo il sistema, sarà quella giusta?».

«In Corridoi come fabbriche, Counter Balance si propone di esaminare a fondo l’assalto al lavoro collegato alla globalizzazione delle catene di distribuzione e dei corridoi infrastrutturali ad esse associate – si legge nel rapporto – Attingendo all’opera di accademici come Deborah Cowen, questo rapporto vuole analizzare l’attuale stretta della “logistica” (la pratica gestionale che orchestra il movimento di merci lungo corridoi e filiere) su produzione, distribuzione e consumo globali, cercando di capire come certe pratiche abbiano permesso al capitale di estendere la produzione oltre la fabbrica convenzionale, lungo le catene di distribuzione ed oltre, permettendo di spremere il lavoro in ogni fase al fine di aumentare i profitti».

«Siamo sempre più – nel nord come nel sud – “logisticizzati”. Per l’approvvigionamento quotidiano, ci affidiamo a reti di potere politico-economico finalizzate al profitto, piuttosto che alla mutua sopravvivenza. Più rimaniamo invischiati in queste reti, più ogni nostro movimento verrà inglobato in un sistema di generazione di ricchezza iniquo, ingiusto e distruttivo».

Il Report è scaricabile QUI

fonte: ilcambiamento.it

Funky Tomato, il pomodoro etico che supera il caporalato

Contrastare il caporalato, restituire dignità alle lavoratrici e ai lavoratori stranieri ed italiani, costruire una filiera agroalimentare naturale e biologica, promuovere una nuova economia etica. Il tutto partendo dal pomodoro, il cibo più pop del mondo. Nato nel 2015 nel sud Italia, il progetto Funky Tomato testimonia che è possibile costruire un modello di produzione sostenibile per chi lavora nei campi, per chi produce e per chi acquista e poi mangia. Cosa c’è dietro la produzione di una semplice passata di pomodoro? Quando penso a questo prodotto mi vengono in mente i miei nonni e zii che quando ero piccolo accendevano un grande fuoco e – dopo aver raccolto e macinato i pomodori – li facevano bollire per ore in bottiglie di recupero. Poi, rifletto, e penso a campi di pomodori intensivi, irrorati di sostanze chimiche e cresciuti a forza in serre lontane. Poi rifletto ancora e vedo le persone che lavorano su questi campi. Dentro e fuori le serre. In Italia e all’estero. Italiani, immigrati, uomini e donne, piegati nel piantumare e raccogliere, sottopagati, spesso senza contratto né diritti riconosciuti. Non solo. Se penso alla salsa di pomodoro dei miei nonni mi viene in mente un sapore intenso, spesso variabile, sicuramente autentico. Se penso alle salse di pomodoro del supermercato penso ad un sapore predefinito, zuccherato, sempre uguale a se stesso.  

E quindi? Perché vi sto raccontando le mie immaginazioni limitate su uno dei prodotti più utilizzati nelle cucine italiane e non? Per introdurre la storia di oggi, quella di Funky Tomato.

Già leggendo le prime righe della visione, sul loro sito, si capisce che l’approccio non è dei più tradizionali: “Funky Tomato individua nella partecipazione l’atto fondante di un cambiamento migliorativo delle condizioni economiche e sociali di individui e comunità nel loro insieme. Una visione che implica l’assunzione di responsabilità nella cura delle persone, dei territori, delle comunità coinvolte nella filiera agroalimentare”.  

Che c’entra la partecipazione con il sugo per la pizza e la pasta? Più avanti nella pagina si legge: “Funky Tomato vuole tracciare un solco percorribile da tutti, un progetto d’impresa pop, nel senso artistico e culturale del termine, e attraverso il cibo più pop del mondo – il pomodoro – e diffondere il messaggio che una nuova economica etica, equa e partecipata è possibile. […] per questo Funky Tomato vede nella varietà meravigliosa del mondo naturale la stessa bellezza multiforme che si ritrova nella molteplicità umana. La comunità Funky Tomato è fondata sul rifiuto di ogni forma di discriminazione, perché nasce dalle relazioni tra le persone, dalla socialità innata dell’essere umano”.  

Insomma, come si dice a Roma, “robba forte”. E la citazione romana non è un caso. Il fondatore di questa avventura, infatti, è proprio romano. Si chiama Paolo Russo, e – dopo gli studi – ha vissuto in molte zone del sud Italia, principalmente in Puglia. Ora ha la sua base in una meravigliosa cittadina nel nord della Calabria, Civita. Qui io e Paolo Cignini, in viaggio alla ricerca di nuove storie, lo incontriamo quasi per caso nei e dopo due giorni trascorsi insieme, lo intervistiamo.

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Paolo, seduto nel suo piccolo orto di casa, ci racconta come Funky Tomato sia nato nel 2015. In quell’anno il fenomeno del caporalato diventa di importanza pubblica, quando un evento drammatico raggiunge le cronache dei nostri mass

media: muore, infatti, una bracciante sul ‘campo’ – Paola Clemente – e Paolo viene coinvolto da una serie di ricercatori nel creare un modello che non rendesse necessario lo sfruttamento dei braccianti per mettere in piedi una produzione di pomodori sostenibile a livello economico ed ecologico. Sostenibile per chi lavora nei campi, per chi produce e per chi acquista e poi mangia.  

“Non ci riteniamo una impresa, ma un progetto sperimentale che ha l’ambizione di essere quanto più trasversale possibile e quanto più includente possibile – ci spiega Paolo – Abbiamo cercato di coinvolgere tutti i soggetti coinvolti nel processo produttivo. Tra questi i lavoratori e i consumatori, che normalmente non sono considerati come parte della filiera. Abbiamo deciso di ragionare sul processo dell’immigrazione come una cosa funk, una cosa che contamina la retorica della ruralità e utilizza la contaminazione per migliorare i propri processi. Noi riteniamo i braccianti, che sono in gran parte stranieri, delle risorse, un valore aggiunto, un’opportunità per proseguire con la nostra storia e la nostra visione agricola. Abbiamo scelto il pomodoro come rappresentazione principale delle problematiche legate allo sfruttamento del lavoro, ma anche perché questo ‘frutto’ dimostra come la contaminazione rappresenti un valore aggiunto: il pomodoro è arrivato in Italia – come prodotto esclusivamente ornamentale – con la ‘scoperta’ dell’America. Era giallo principalmente; una volta diffusosi a Napoli ha ridotto i livelli di solanina ed è diventato rosso ed è stato usato come prodotto alimentare. La contaminazione, quindi, dà vita a una nuova cultura e nuove tradizioni”.

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Per mettere a sistema questo processo e coinvolgere in modo veramente paritario i vari attori della filiera, è stato realizzato un contratto di rete: attraverso meccanismi mutualistici le diverse criticità possono così essere sostenute e remunerate. Questo strumento si differenzia nettamente dalla filiera agroalimentare convenzionale dove i rapporti sono ‘uno a uno’ e vengono quindi determinati dalla forza finanziaria dei singoli soggetti. Dentro Funky Tomato si genera così un processo osmotico: le realtà più forti sostengono quelle più deboli. Come detto, i braccianti e i consumatori sono attori del contratto di rete al pari di produttori e distributori. I primi hanno costituito una loro assemblea, i secondi partecipano attraverso i gruppi di acquisto. Non solo. Sono stati inseriti nella filiera anche formatori agricoli, creativi, ricercatori, studiosi di governance. Grazie all’incontro tra le diverse componenti sono arrivate proposte e soluzioni per i diversi problemi. Per combattere le logiche del caporalato, inoltre, si è cercato di contrastare la politica del cottimo secondo le quali un lavoratore vale l’altro, esattamente come se il loro lavoro fosse svolto da una macchina. Per questo Funky Tomato ha scelto di puntare su pomodori meno industriali possibili, puntando su varietà come il San Marzano, che richiedono una raccolta qualificata. In questo modo, il lavoro del bracciante diventa anche culturale ed è più difficilmente sostituibile. I lavoratori sono retribuiti rispettando le regole del contratto provinciale agricolo che costringe il datore di lavoro a limitare il numero di ore del bracciante a 6-8 per 5 giorni a settimana, riconoscendo sussidi di disoccupazione, prevenzione dei rischi e così via. Cose teoricamente scontate, ma troppo spesso ignorate, non solo sulla pelle degli immigrati, ma anche su moltissime donne italiane che spesso lavorano in questo settore.

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Le coltivazioni sono biologiche e naturali e sono situate principalmente al sud e in particolare in tre regioni, Puglia, Calabria e Campania. “In Campania – spiega Paolo Russo – produciamo nel più grande bene confiscato alla mafia, fondo rustico Amato Lamberti. Il bene è stato affidato alla cooperativa Resistenza Anticamorra. La disoccupazione è uno strumento del caporalato. Per questo lavoriamo a Scampia a Napoli. In Puglia, produciamo a Foggia con una OP, organizzazione di produttori, che lavora a 500 metri dalla più grande bidonville d’Europa. Volevamo incidere su questo territorio e confrontarci con chi ogni giorno vive questo fenomeno. In Calabria lavoriamo sul Pollino che è l’area a più alto rischio di spopolamento d’Europa, perché le aree interne sono totalmente dimenticate”. 

I risultati non hanno tardato ad arrivare. I consumatori entrano nel contratto di rete con un preacquisto dei prodotti, sostenendo così tutte le fasi di produzione della materia prima. L’avvio della produzione, nel 2015, fu finanziato con un fundraising di circa 40.000 euro. Nel 2018 il fundraising ha portato 120.000 euro, e ha generato un fatturato di circa 500.000 euro di pomodoro. Nelo 2019 il dato dovrebbe raddoppiare. Il tutto senza ricorrere a finanziamenti legati all’accoglienza o all’inclusione. “Questo – commenta Paolo Russo – significa che si può fare. Questo processo funziona e potrebbe essere replicato in altre filiere identiche alle nostre: pasta, olio, vino ecc.. Sulla nostra etichetta – conclude Paolo – c’è scritto che vogliamo alimentare la cultura. Funky Tomato porta avanti una rivoluzione culturale, non identifica un nemico ma crede che tutti siano parte della soluzione. Ecco perché una quota del nostro vasetto viene investita in progetti culturali legati al territorio su cui andiamo a impattare”.  

Riparto da Civita dopo aver mangiato una pasta con sugo Funky Tomato Tra le altre cose, devo ammetterlo, è proprio buono! 

 Intervista: Daniel Tarozzi

Realizzazione video: Paolo Cignini

 Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/07/funky-tomato-pomodoro-etico-che-supera-caporalato-io-faccio-cosi-254/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Le giovani imprese vittime del sisma si mettono in rete

Nell’Appennino colpito dal terremoto del 2016, grazie al progetto di Fondazione Edoardo Garrone e Legambiente le giovani imprese locali fanno rete attraverso nuove forme di imprenditorialità che uniscono sostenibilità ambientale e innovazione. “Ricostruire fiducia” è infatti il tema scelto per l’ultima edizione di “ReStartApp per il centro Italia”, incubatore temporaneo di impresa per il rilancio dell’economia appenninica. Supportare le giovani imprese di Lazio, Marche e Umbria, che, nel contesto di forte discontinuità e incertezza creato dal terremoto del 2016, vedono e vogliono cogliere l’opportunità di reinventarsi e riposizionarsi sul mercato, rivitalizzando l’economia del territorio appenninico. È questa la scommessa di Fondazione Edoardo Garrone e Legambiente, che insieme hanno realizzato ReStartApp per il centro Italia. Il progetto ReStartApp per il centro Italia – a cui hanno dato il loro patrocinio le Regioni Umbria, Lazio e Marche e Fondazione Symbola – ha coinvolto nel 2018 oltre 30 aziende delle aree del cratere, principalmente imprese agricole, agroalimentari, di allevamento, turistiche e di artigianato. In un anno e mezzo di lavoro sul territorio, nell’ambito di 8 coaching individuali e dell’avvio di 3 laboratori per la creazione di reti d’imprese, si sono svolti 84 incontri e oltre 600 ore di formazione professionale e consulenza, per fornire supporto e strumenti concreti in diversi ambiti: dal controllo di gestione alla ricerca di nuovi business e mercati, fino al marketing e alla comunicazione.

Gruppo di giovani imprenditori delle Marche

Tra i risultati del progetto, l’avvio di due progetti di rete – Amatrice terra Viva nel Lazio e Rizomi, Terre fertili in rete nelle Marche – finalizzati alla sperimentazione di nuove forme di collaborazione imprenditoriale e alla nascita di nuove attività e sinergie sul territorio. Amore per la terra, sostenibilità ambientale, tradizione e innovazione, sinergia, agricoltura di qualità e valorizzazione dei prodotti tipici, sono le parole chiave alla base di questi due progetti che guardano al futuro dell’Appennino e delle sue comunità. Nel Lazio ReStartApp per il centro Italia ha affiancato una rete già costituita, l’associazione Amatrice Terra Viva, nata nel 2018 su iniziativa di 12 imprenditori tra Amatrice e Accumoli e sostenuta da Alce Nero, storica azienda del biologico italiana, con l’obiettivo di creare una filiera bio capace di valorizzare la cultura cerealicola locale attraverso la coltivazione di grani antichi. Nelle Marche, invece, ha preso forma Rizomi, Terre fertili in rete, progetto che coinvolge oggi 5 aziende agricole, un laboratorio di cosmesi e uno di trasformazione di erbe officinali: giovani imprese di prima generazione, nate dopo il 2013, che condividono la scelta di tornare alla terra con un approccio di autoimprenditorialità. Il fine è quello di innescare un processo virtuoso che metta in comune conoscenze, informazioni, risorse, strumenti e prodotti, all’insegna di un’agricoltura organica e rigenerativa, basata sulla combinazione di pratiche tradizionali e moderne conoscenze scientifiche.

I giovani imprenditori dell’azienda Bosco Torto

Quello che Fondazione Garrone e Legambiente lanciano con ReStartApp per il centro Italia è un messaggio forte e chiaro: per contrastare lo spopolamento di questi territori occorre soprattutto ridare impulso all’economia locale, sostenendo chi ci vive e lavora scommettendo su produzioni agricole e agroalimentari tipiche, biologiche e di qualità, turismo sostenibile, commercio, artigianato e sulle bellezze paesaggistiche di queste aree. Un mix unico di risorse e produzioni che rappresenta un fattore competitivo insostituibile sui mercati. Non dimentichiamo che se l’Italia è il Paese con la più grande ricchezza e varietà di prodotti agroalimentari distintivi, cioè con indicazione geografica, è anche grazie all’Appennino, che – stando ai dati dell’Atlante dell’Appennino realizzato nel 2018 dalla Fondazione Symbola – dà un contributo rilevante: il 42% del totale nazionale; oltre 25mila le aziende che li producono, per un valore economico stimato in oltre 2 miliardi di euro, il 15% del totale nazionale DOP e IGP. Inoltre, le imprese appenniniche sono quasi 1 milione, il 17,2% del totale nazionale, attive principalmente nel commercio, nell’agricoltura, nella silvicoltura e pesca, nelle attività manifatturiere, e nel turismo e ristorazione. Dalle imprese dell’Appennino viene prodotto il 14% del valore aggiunto nazionale, pari a 202,9 miliardi di euro, e il 16% del bestiame allevato in Italia.

“Dal 2014, con i nostri incubatori ReStartApp e ReStartAlp, ci occupiamo concretamente del rilancio dei territori montani e marginali attraverso lo sviluppo di nuove economie e puntando sul talento dei giovani – racconta Alessandro Garrone, presidente di Fondazione Edoardo Garrone – Dal dialogo con Legambiente, che grazie alla sua capillarità territoriale sin dall’inizio è stata operativa accanto alle imprese colpite dal sisma, abbiamo intuito che la nostra esperienza poteva essere messa efficacemente a servizio di quei giovani imprenditori che, nonostante le difficoltà di sempre e la grave discontinuità dei danni del terremoto, volevano continuare a dare vita all’economia della loro terra.

Il Pastificio Leopardi

Per questo abbiamo studiato una formula che potesse rispondere in modo puntuale alla loro esigenza di reinventarsi, cercando un nuovo punto di partenza, nuovi strumenti, nuovi modelli di business, nuovi mercati da intercettare e collaborazioni strategiche con altri imprenditori. È anche grazie al nostro supporto che oggi le realtà, che con Legambiente abbiamo affiancato per oltre un anno e mezzo, sono in grado di continuare il lavoro iniziato insieme. È un grande risultato, che ci conferma anche il successo del nostro format: originale, flessibile e capace di generare impatti positivi e tangibili in tutti i contesti in cui lo decliniamo”.

“A quasi tre anni dal sisma – spiega Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente – sono ancora tante le difficoltà quotidiane che ogni giorno cittadini e produttori locali si trovano ad affrontare, anche a causa di una burocrazia lenta e macchinosa e di una ricostruzione che fatica a decollare. Quello che serve è un cambio di passo al quale devono seguire azioni concrete per ridare, soprattutto a chi ha deciso di rimanere in questi territori, più fiducia nel futuro. Il progetto che abbiamo realizzato insieme alla Fondazione Garrone e che unisce l’esperienza della Fondazione con quella della nostra associazione ambientalista – da sempre vicina e operativa nei territori terremotati – vuole contribuire a dare una mano proprio in questa direzione, coinvolgendo anche il settore imprenditoriale locale e aiutando le imprese a fare sinergia e rete in una chiave sempre più sostenibile e innovativa. Perché aiutare il tessuto imprenditoriale dell’appennino ferito dal sisma, significa contribuire anche al rilancio economico ed occupazionale di una delle zone più belle d’Italia, che oggi rischia di spopolarsi e di andare incontro ad una desertificazione produttiva”.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/06/giovani-imprese-vittime-sisma-rete/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Agricoltura e lavoro cambiano la vita dei giovani con autismo

In occasione della Giornata mondiale della consapevolezza sull’autismo raccontiamo le storie di due realtà della rete di Agricoltura Sociale Lombardia che hanno vinto la scommessa dell’inclusione superando luoghi comuni e timori. Ecco le testimonianze dirette di alcuni ragazzi con autismo, esempi in carne ed ossa di impegno e voglia di imparare. “Il ricordo più bello di questa esperienza è stato iniziarla” racconta Luca. Coltivare opportunità concrete di inclusione per dare valore alle capacità che esistono in ognuno di noi. Questa la missione di Agricoltura Sociale Lombardia che fin dalla sua nascita ha dimostrato un’attenzione particolare alla condizione dell’autismo e della disabilità intellettiva sviluppando percorsi in grado di dare riscatto sociale e formazione alle persone che con questa condizione complessa ci convivono ogni giorno. Tutto ciò con un obiettivo preciso: far germogliare la bellezza e le competenze che esistono oltre ogni fragilità. In occasione della giornata mondiale dedicata alla consapevolezza sull’autismo, la rete regionale dà così voce ad alcune storie capaci di sgretolare quei luoghi comuni che vedono inconciliabile un’attività lavorativa e formativa con questo tipo di disturbo. L’ultimo report parla di ben 1.967 persone con svantaggio che hanno trovato un’opportunità di riscatto grazie ad Agricoltura Sociale Lombardia. Di questi si registrano 1.096 disabili e 871 soggetti in condizione di difficoltà coinvolti a vario titolo nelle attività della rete. Ma sono soprattutto i riscontri dei diretti protagonisti delle esperienze a far brillare questo traguardo.

elilu: a Pavia l’inclusione è la ricetta vincente, come ci dimostra Luca

Un titolo che ha il sapore di una fiaba e che agisce ogni giorno all’insegna della concretezza. La storia dell’azienda agricola elilu – Agricultura Familiare (rete Agricoltura Sociale Pavia) scaturisce dal nome dei suoi fondatori: Elisa Gastaldi e Luca Benicchi, coppia nel lavoro così come nella vita. “elilu, scritto per nostro volere con la minuscola, è il luogo nato il 21 dicembre 2015 dal nostro incontro – spiegano – Fare agricoltura sociale significa realizzare oggi l’autenticità del mondo rurale di ieri: mutualità, crescita personale e interpersonale, solidarietà, valorizzazione dei singoli e della comunità, in tutte le mille sfumature della biodiversità, vegetale, animale, umana”. elilu intreccia così la coltivazione di un modello lavorativo e insieme relazionale che coinvolge la gestione di diverse attività tra cui coltivazione, allevamento, trasformazioni agricole (mulino a pietra, caseificio e laboratorio multifunzionale), vendita diretta e mercati, agriturismo e ristorazione, fattoria sociale e didattica, agricampeggio. Un ventaglio di iniziative dove l’agricoltura sociale detiene un posto d’onore per rendere forti le basi di tutto il resto. E proprio qui germoglia la storia di Luca: sguardo profondo e limpido, poco più di 20 anni sulle spalle e tanta voglia di fare oltre che di imparare. Luca convive da anni con la condizione autistica e tutte le difficoltà che la riguardano, riuscendo però a cogliere diverse soddisfazioni oltre la tempesta e diventando un esempio di riscatto in carne ed ossa. Fondamentale per il suo percorso inclusivo la sinergia tra elilu e “Una mano per…”, associazione fondata nel 2015 da genitori di bambini diversamente abili. Genitori che dopo aver preso coscienza del difficile percorso di vita che stavano affrontando, hanno deciso di mettere a disposizione la loro esperienza a favore di altre famiglie che si trovavano nelle stesse condizioni. Nel 2016 inizia così per Luca un’esperienza didattica all’interno del ciclo produttivo, con attività pienamente concordate con la famiglia al fine di rendere ogni tappa consona alle sue attitudini. “Inizialmente il progetto ha coinvolto Luca nella cura dell’intera filiera di raccolta della materia prima che riguardava alberi da frutto, ortaggi, oltre alla semina stessa – racconta Elisa Gastaldi – Il percorso si è poi sviluppato con diverse attività come quella di accudimento degli animali: Luca ha scelto in particolare i cavalli occupandosi della pulizia dei box e della strigliatura”. Un’attività che poi ha incrementato ulteriori competenze. I traguardi sono stati impreziositi anche da un lavoro speciale rappresentato da un vero e proprio ricettario di quotidianità.

Luca a lavoro presso l’azienda agricola elilu – Agricultura Familiare

“Luca si occupa della pulizia e del nutrimento degli animali come cavalli, mucche, maiali: settore in cui si è specializzato e che gestisce molto bene – sottolinea Elisa – Da tempo sta realizzando un manuale redatto in prima persona in cui esplicita i compiti che esegue ogni giorno e di cui è responsabile in prima persona. Si tratta di un’attività molto importante dal punto di vista del potenziamento dell’autonomia e della responsabilizzazione. Fare esperienze inclusive di agricoltura sociale non significa, infatti, parcheggiare una persona in attività ripetitive ma coinvolgerla in un progetto in cui essa stessa diventa utile e indispensabile. Luca sa che se non riesce a venire a lavorare deve avvisarci perché la sua presenza è per noi preziosa e fondamentale, così come accade per ogni persona che lavora e che diventa utile agli altri. E lui lo è”. 

“Avere un figlio con un disturbo dello spettro autistico ti costringe a fare un viaggio importante: dentro di te e attraverso una nuova vita – racconta Barbara, tenace mamma di Luca che da anni si impegna per dare al proprio figlio un futuro migliore – Quando Luca ha finito le scuole superiori, come spesso accade, ci siamo trovati di fronte al vuoto. Ci siamo chiesti: e ora che cosa possiamo fare? La grande opportunità è arrivata grazie a questo percorso che ha migliorato tantissimo Luca. Certo, non sono mancate le difficoltà, come in ogni esperienza, ma i risultati positivi superano tutto il resto e hanno dato una grande spinta di crescita e responsabilizzazione a Luca oltre che positività e formazione. Elisa e Luca di elilu sono davvero straordinari nel gestire questo progetto: gli hanno insegnato un mestiere”. 

Luca è di poche parole, almeno a voce, di lui raccontano i fatti e l’impegno che ci mette ogni giorno innaffiando di luce e bellezza le attività che compie. Eppure con le parole ci sa fare molto e per noi ha rilasciato questa intervista – in esclusiva – tramite lo scritto che sa comprendere e gestire molto bene. 

Luca, qual è il tuo ricordo più bello in questi 3 anni di esperienza?

“Il ricordo più bello è sicuramente essere entrato a far parte di questa esperienza e lavorare”.

Le tue attività preferite?

“Le attività che mi piacciono di più sono pulire le mucche”.

So che stai scrivendo un manuale dedicato al tuo lavoro quotidiano: ti piacerebbe farlo leggere ad altri?

“Se posso sì, mi piacerebbe e sono contento di scrivere il manuale perciò devo dire che tutto sta funzionando alla perfezione”.
Poi Luca si rende disponibile per l’estate a insegnare ai bambini come accudire i cavalli regalandoci un sorriso finale che guarda al futuro e dimostrando che al di là di ogni disturbo respira un mondo intero.

Green Smiles fattoria “La Cavallina”: a Como l’autonomia vien lavorando

Da anni sul territorio comasco si distingue una realtà impegnata nel costruire occasioni di formazione e inclusione per ragazzi e ragazze con fragilità. Parliamo della fattoria sociale “La Cavallina” (rete Agricoltura Sociale Como) che concretizza tirocini finalizzati all’apprendimento delle mansioni di allevamento degli animali e della gestione del verde e dell’orto. “Gli sbocchi possono essere nel settore agricolo e in quello del florovivaismo, ma anche dei servizi di agricoltura didattica – racconta Ambrogio Alberio, titolare e operatore della fattoria sociale – L’agricoltura sociale dà benessere sia psicologico che fisico rappresentando un supporto al terzo settore per gli obiettivi di inclusione e per i progetti mirati all’autostima e all’autonomia”. 

Nel 2015 la cooperativa “Il Granello – Don Luigi Monza”, in collaborazione con “La Cavallina”, ha dato vita ad un Centro Socio Educativo diverso dagli altri: il CSE Green Smile in fattoria. Il Centro è un servizio per persone adulte con disabilità medio grave che mira al mantenimento delle competenze acquisite durante l’arco della vita. “La particolarità di questo servizio è dato dal fatto che, oltre i tradizionali laboratori in un CSE, le attività svolte principalmente sono il lavoro in fattoria e nell’orto e la cura del giardino e degli spazi verdi – spiegano i referenti del progetto – In fattoria sociale sono previsti due operatori con funzione educativa”. 

Nell’ambito di Green Smiles hanno trovato occasione di crescita anche ragazzi con autismo come Davide e Vladimir che svolgono attività di gestione dell’orto, del giardino e degli animali. “Con queste esperienze sfatiamo davvero tanti luoghi comuni dimostrando che questi ragazzi possiedono delle abilità importanti che emergono proprio se offri loro la possibilità di coltivarle, con fiducia e giusta formazione – evidenzia Ambrogio Alberio – Così come accade in agricoltura sociale ogni progetto lavorativo dovrebbe indirizzarsi sulle attitudini individuali: un discorso che vale per tutti noi, al di là della disabilità che possiamo avere o meno”. 

Visto il successo della collaborazione tra i due enti, a gennaio è stato inoltre aperto anche SFArm, un Servizio di Formazione all’Autonomia rivolto a persone con disabilità lieve e che mira allo sviluppo di competenze nell’ambito delle autonomie personali e della sfera lavorativa. “Prendersi cura degli animali, pulire i loro box, dare loro da mangiare e bere, coltivare ortaggi e piccoli frutti e utilizzarli nel laboratorio di cucina o regalarli ai propri genitori, arrivare al mattino trovando il giardino ordinato e pieno di colori permette alla persona di toccare con mano il frutto del proprio lavoro”, sottolineano gli educatori.

“L’essere a contatto con la natura ed essere soddisfatti del risultato aumenta il livello di benessere e di autostima. In particolare i ragazzi con disturbo dello spettro autistico traggono giovamento dalla routine su cui si basa il lavoro in fattoria: lavori ben precisi e conosciuti, che possono essere svolti in piena autonomia. La collaborazione con i compagni è necessaria per portare a termine correttamente il lavoro, allenando e affinando quotidianamente le proprie capacità relazionali. Infine l’avvicinamento agli animali, soprattutto per chi ha difficoltà comunicative, permette di sfruttare il canale non verbale”.  

A testimoniare la positività dell’esperienza vissuta ecco alcuni resoconti dei ragazzi con autismo coinvolti nelle attività, uno di questi è Davide, 24 anni: “Riesco a gestire gli animali e a pulire i loro box e gli spazi. Preferisco dividere i compiti di gestione dell’orto così da poter lavorare bene. A volte faccio fatica a farmi ascoltare dai compagni”. Non mancano esperienze di ippoterapia che preparano al contatto con gli animali: “Faccio equitazione e partecipo a diverse gare”, racconta soddisfatto Vladimir. La cooperativa “Il Granello – Don Luigi Monza” ha inoltre un alloggio per l’autonomia nel comune di Turate: “Questa è una casa dove con altri ragazzi svolgo numerose attività come cucinare, pulire la casa, preparare il letto e i miei vestiti” spiega Davide.  Green Smiles sta organizzando con il Comune di Guanzate un evento dove i ragazzi con autismo avranno un ruolo importante in veste di arbitri nell’ambito di giochi didattici. Inoltre saranno presto coinvolti in lavori di manutenzione conservativa sul territorio comasco, al di là dei confini della fattoria sociale: un’ulteriore conferma di inclusione sociale e lavorativa.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/04/agricoltura-lavoro-cambiano-vita-giovani-con-autismo/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Vale la Pena: la birra artigianale fatta dai detenuti

Evita le recidive, offre nuove opportunità di vita e lavorative ai detenuti, favorisce l’avvio di progetti imprenditoriali virtuosi. L’economia carceraria, in altre parole, fa bene a tutti. È quanto dimostra la onlus “Semi di Libertà” da cui hanno preso vita la società e l’omonimo pub “Vale la Pena” che tramite la produzione e la vendita di birra artigianale promuovono la formazione e l’occupazione dei detenuti. Paolo Strano ha per lungo tempo fatto il fisioterapista nel servizio sanitario italiano ma, quando si trasferisce all’ospedale Regina Margherita di Trastevere e quindi, al carcere di Regina Coeli, per curare i detenuti, la sua vita cambia radicalmente. Lascia definitivamente il lavoro e nel gennaio del 2013 fonda la Onlus Semi di libertà, perché, conoscendo il mondo del carcere, decide che contrastare le recidive dei detenuti e realizzare progetti che offrano loro opportunità di lavoro e di nuova vita, deve diventare la sua nuova professione. Semi di libertà inizia l’attività a marzo 2014, con la prima attività formativa e nel settembre 2014 è prodotta la prima birra “Vale la Pena”.

La capacità produttiva attuale è di trenta mila litri l’anno, il nuovo obiettivo è di produrne almeno sessanta mila litri ed è per questo che stanno realizzando un nuovo birrificio, tutto loro, e che nel giro di un anno sarà completato. Oggi la Onlus, oltre che continuare la sua mission con la formazione dei detenuti, nella produzione di birra, supporta lo sviluppo d’idee imprenditoriali, nel campo dell’economia carceraria. A breve, infatti, nascerà una sartoria.

Semi di Libertà? Ne Vale la Pena!

Paolo, con gli altri fisioterapisti che lavorano con lui a Regina Coeli cofondatori della Onlus, decide che il settore della birra artigianale debba essere il settore economico su cui puntare, è un settore in continua crescita e, grazie al finanziamento ricevuto dal Ministero di Grazia e Giustizia e dal Ministero della Pubblica Istruzione, costruiscono un impianto di birra artigianale presso l’Istituto Agrario Emilio Sereni. Iniziano così la formazione di detenuti in articolo 21, dell’ordinamento penitenziario che offre l’opportunità di essere inseriti in un percorso lavorativo, durante la detenzione in carcere o ai domiciliari per favorire la piena realizzazione del reinserimento nella società, a fine pena, con una professione e un lavoro. Dal 2014 a oggi hanno formato sedici detenuti e l’avvio successivo della società profit, con fini sociali “Vale la Pena” insieme a due nuovi soci, un avvocato ed un commerciante, e l’apertura del pub, omonimo, in Via Eurialo 22, vicino alla metro Furio Camillo, permette loro di aggiungere un nuovo importante tassello al progetto: la possibilità di assumere i detenuti che formano. Il pub è stato inaugurato nel mese di ottobre del 2018 e già conta due dipendenti, la birra prodotta è venduta presso altri locali romani, ma il principale rivenditore è Eataly.

I taglieri di formaggi e salumi sono creativamente assemblati da Mirco, 43 anni, detenuto in semi libertà. Tutte le mattine, alle 8,30, esce dal carcere di Rebibbia, alle 16,30 raggiunge il suo posto di lavoro in Via Eurialo, dove lavora con un contratto a tempo indeterminato, e alle 23,30 rientra nella sua cella. Mirco sta scontando gli ultimi mesi di una condanna di quattordici anni per rapina, ha soggiornato in quasi tutti i carceri del Lazio e molti altri del sud Italia, durante la sua permanenza nel carcere di Velletri, mentre guarda la tv, s’imbatte in un servizio giornalistico in cui viene presentano il progetto di Paolo Strano. In quel momento capisce che è la sua unica possibilità per cambiare vita: lo contatta, frequenta il corso per imparare a produrre la birra e oggi lavora nel pub. Mi confessa, mentre sorseggio una fresca bionda, che se non avesse avuto l’opportunità di lavorare nel pub Vale la pena, uscito dal carcere, avrebbe ripreso la sua solita vita, l’unica che abbia mai conosciuto, fino ad ora. Il pub Vale la Pena è un piccolo locale arredato con molti riferimenti alla struttura carceraria: chi viene a bersi una birra viene informato del progetto, alcuni girano i tacchi e vanno via (molti meno di quanto s’immaginava), gli altri rimangono e “sposano” il progetto. I prodotti venduti nel pub provengono da diversi istituti penitenziari italiani: i formaggi di “Cibo agricolo libero” di Rebibbia femminile, il “Caffè galeotto” di Rebibbia maschile, i taralli del carcere di Trani, i biscottini di “Cotti in flagranza” dal carcere Malaspina di Palermo, le creme e i croccanti di “Sprigioniamo sapori” dal carcere di Ragusa e la pasta dal carcere dell’Ucciardone di Palermo.

L’economia carceraria fa bene a tutti

Paolo è inarrestabile, nel suo racconto e nella sua nuova vita da imprenditore. Dopo “Semi di Libertà” e “Vale la Pena” aggiunge un altro pezzetto alla sua storia e fonda anche “Economia Carceraria”, una nuova srl con fini sociali: commercializzare i prodotti delle carceri italiane. Un’idea che nasce dalla realizzazione del Festival nazionale dell’economia carceraria, a Roma, nel 2018, e che ha avuto l’ambizione di censire e dare visibilità alle tante realtà produttive carcerarie. Il lavoro di scouting ne porta al festival ben quaranta, ma è un lavoro non esaustivo, Paolo è certo che almeno il doppio siano le realtà e che è molto difficile fare un censimento completo, perché invisibili, non presenti sul web e scarsamente valorizzate. Se parliamo di produzioni, quasi tutte le carceri hanno avviato attività produttive, tra le più svariate, ma l’amministrazione carceraria non è abilitata a vendere i prodotti, questo fa sì che, se da un lato, sono progetti che danno l’opportunità di professionalizzare il detenuto, dall’altra, non creano occasioni di lavoro concrete. Addirittura, si assiste al paradosso che nelle carceri dove si realizzano orti con produzione di verdura, frutta, oli, di ottima qualità e bio, le mense non possono utilizzarli perché la fornitura delle stesse è affidata ad appalti esterni. Le produzioni sono tante e ormai presenti in tutte le case circondariali, ma la loro commercializzazione è ancora tutta da pensare. A questo vuole proprio pensare “Economia carceraria” e cioè, diventare strumento per la massima diffusione della conoscenza e vendita dai tanti prodotti al fine di creare posti di lavoro.

Il costo sociale della recidiva

La recidiva è un problema sociale non solo di chi vive il carcere, ma anche per la società tutta. Recidiva dei reati significa tanti reati in più e tanti costi per tutti. Le statistiche datate 2007 fornite dal DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) parlano del 68% di recidiva tra chi sconta la pena solo in carcere e di solo il 2% di chi è inserito in progetti produttivi. A oggi si sa solo che una detenzione ha un costo di circa euro 3.700 al mese per singolo detenuto (costo elaborato dal DAP) e l’80% è dato dai costi di personale (polizia penitenziaria). Un costo mai valutato, ma che s’immagina facilmente quanto possa essere elevato è, ad esempio, quello determinato dai due o tre gradi di giudizio. Appare evidente, dunque, che investire su questi progetti comporta un risparmio economico alla comunità intera. Il sogno di Paolo è quindi quello di far diventare i loro progetti una buona pratica per attivare altri imprenditori o aspiranti tali, a fare la loro stessa scelta: inventare un business che abbia un valore sociale.

Chi sostiene l’economia carceraria?

Le produzioni dei penitenziari del nord Italia ricevono sostegno concreto allo sviluppo del progetto, direttamente dalle Istituzioni, è ad esempio il caso di Torino, dove è stato aperto un negozio di economia carceraria, in Via Milano, in un locale donato a titolo gratuito dal Comune e ristrutturato dalla Fondazione San Paolo. A Milano c’è il consorzio “Vialedeimille”, luogo d’incontro con il territorio e di formazione delle persone detenute, nato su iniziativa dell’Assessorato alle Politiche del Lavoro del Comune di Milano, fondato da cinque cooperative sociali che lavorano negli istituti San Vittore, Opera e Bollate. Da Roma in giù è tutto più difficile e le iniziative istituzionali, a favore dello sviluppo di questi progetti, sono assenti. 

Gabriella Stramaccioni da circa un anno e mezzo è garante delle persone private della libertà per Roma capitale, si occupa dei detenuti e di organizzare le attività in loro favore: dalla prenotazione di una visita medica alla produzione di un documento. Roma ha l’istituto femminile più grande d’Europa, con circa 350 detenute, ha quattro istituti maschili, un istituto minorile, il più grande d’Italia, il Cie (centro di permanenza ed espulsione). Una popolazione di circa dieci mila perone, compresi i detenuti ai domiciliari, inseriti in sistemi alternativi alla detenzione e i sottoposti a lavori sociali. Nel carcere di Regina Coeli sono presenti 175 nazionalità differenti. Il progetto che Gabriella intende promuove e sviluppare è quello di aumentare le misure alternative al carcere, la formazione e il lavoro. Anche secondo lei, infatti, l’economia carceraria è un importante strumento per far conoscere il carcere fuori e per pensare e realizzare progetti conreti di sviluppo e d’inserimento nella società. Il carcere di Rebibbia ha un’azienda agricola, in cui lavorano quindici detenute, con una ricca produzione di prodotti da orto e un allevamento di conigli; è stato creato un forno che produce pane venduto all’esterno e nel nuovo complesso c’è una torrefazione che impiega dieci detenuti. È auspicabile che le iniziative private e il supporto concreto delle istituzioni possano incontrarsi in progetti di economia carceraria di cui godere tutti, indistintamente.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/03/vale-la-pena-birra-artigianale-fatta-detenuti/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Lanificio Subalpino: creatività e sostenibilità per una tessitura naturale

Il Lanificio Subalpino è un azienda tessile, a conduzione familiare, nata nel 1976 a Biella. Nella produzione di tessuti destinati all’abbigliamento per uomo, donna e bambino, ha sviluppato una linea Green di tessuti naturali che sta riscuotendo un successo importante a livello mondiale e che ha permesso all’azienda di diversificarsi rispetto ad altre realtà, puntando sulla sostenibilità e sul rispetto ambientale e umano, anche nei confronti del lavoro femminile. Abbiamo incontrato il suo entusiasta amministratore delegato, Nicolò Zumaglini, che ci ha raccontato passato, presente e (possibile) futuro della sua realtà.

Cerreto Castello è una frazione del comune di Quaregna Cerreto, a pochi passi da Biella. La frazione prende il nome dal cerro, una varietà di quercia che un tempo era caratteristica del biellese ma che oggi risulta scomparsa dalla flora locale. Biella e il biellese hanno vissuto e vivono, tra le varie attività, di lana e di filati: qui si trova uno dei distretti tessili più importanti al mondo, favorito dalla presenza di numerosi corsi d’acqua e dalla posizione del territorio biellese, che trovandosi a ridosso delle Alpi ha privilegiato l’allevamento ovino all’agricoltura. Negli ultimi anni l’industria della lana e dei tessuti biellese è stata messa a durissima prova: sono scomparse centinaia di aziende, che tra i vari motivi si sono trovate impossibilitate a sostenere la concorrenza dei materiali tessili (di pessima qualità, ma molto più economici) provenienti dall’estero. I grandi marchi storici hanno retto l’onda d’urto, ma il ridimensionamento del distretto è stato notevole e l’impatto, anche psicologico, molto forte per il territorio.

In questo scenario Lanificio Subalpino, storica azienda a conduzione familiare fondata nel 1975 e oggi gestita da Monica Zanone, Nicolò Zumaglini e Paolo Zanone, rappresenta una felice e meritata eccezione. Originalità, fantasia e una profonda attenzione ai prodotti naturali ha permesso a questa realtà di uscire a testa alta dalla crisi che ha colpito il settore. Lanificio Subalpino è composta da venticinque dipendenti, a maggioranza femminile anche nelle posizioni amministrative e dirigenziali. Produce tessuti destinati all’abbigliamento per l’uomo, la donna e il bambino ed ha sviluppato una linea ecosostenibile (chiamata “linea Green”) di tessuti naturali prodotti senza o con la minima presenza di prodotti chimici e senza l’aggiunta di coloranti dannosi. Molto spesso il colore del tessuto rispetta quello del pelo dell’animale dal quale è stato ricavato. Quando c’è bisogno di colorare, Subalpino si avvale della collaborazione di Tintoria di Quaregna, un’azienda del biellese che usa solamente materiali naturali come cortecce, frutte e verdure varie per tingere i capi. Oltre a questo, una parte del tessuto utilizzato proviene dagli scarti di altre filature biellesi (parliamo di un tessuto di una qualità pregiatissima) che viene recuperato da un fornitore di Lanificio Subalpino, mettendo in pratica così uno dei prinicipi dell’economia circolare.

La linea è certificata Tessile e Salute, il tessuto proviene da allevamenti che rispettano l’animale con una tosatura dolce. Questo tipo di prodotti permettono all’azienda di esportare i propri tessuti in tutto il mondo, con una richiesta che aumenta di anno in anno. Lanificio Subalpino produce anche una linea di prodotti tradizionali, ma in percentuale il trend di crescita della linea Green è di gran lunga superiore rispetto a quest’altro settore.

Consapevolezza e tracciabilità.

Nicolò Zumaglini, amministratore delegato di Lanificio Subalpino, trasmette un entusiasmo quasi fanciullesco nel raccontarci la sua esperienza e nell’esprimere l’amore per il suo territorio.  Ci racconta che “Il biellese è un territorio nella quale, negli ultimi anni, è cresciuta una consapevolezza importante per quanto riguarda il mondo della sostenibilità.
Nell’alimentazione, nella scelta dei prodotti da acquistare e anche e soprattutto nella conoscenza del mondo legato al tessile. Io da bambino, camminando vicino ai fiumi e ai corsi d’acqua del nostro territorio, vedevo sempre queste acque molto colorate, quasi fluorescenti. Molto affascinanti per un bambino, ma non era certo un bel segnale per il territorio! Oggi le persone sono sempre più consapevoli di quale sia la strada da seguire, se vogliamo avere un futuro degno di essere ben vissuto. E cominciamo a mettere in pratica azioni coerenti con questo pensiero”.

Solo un tema smorza (leggermente) il suo sorriso e il suo ottimismo e riguarda la tracciabilità dei tessuti: “una delle cause per cui moltissime aziende del territorio hanno chiuso riguarda il prezzo del tessuto. Per molte aziende tessili che producevano qui nel biellese, era diventato letteralmente impossibile competere nel mercato tradizionale con i tessuti che altre aziende, italiane ed europee, importavano da Paesi extra-europei che tradizionalmente non hanno ‘limitazioni’ in termini di rispetto degli orari di lavoro e dell’ambiente. Le aziende che non hanno saputo differenziarsi hanno dovuto chiudere i battenti. Io comunque credo fortemente che nel tessile si debba seguire, a livello legislativo, ciò che è stato fatto per il settore alimentare: bisogna informare le persone che acquistano i prodotti riguardo la provenienza dei tessuti che acquistano, sulle condizioni lavorative di chi li ha prodotti, con quali prodotti siano stati trattati o colorati questi materiali. Bisogna trovare un sistema, semplice e comprensibile, per rendere chiare queste informazioni a chi acquista i prodotti tessili, è un problema anche di salute perché noi questi prodotti li indossiamo a quotidianamente e vengono a contatto con la nostra pelle”.

In conclusione del nostro incontro, parliamo anche del futuro del Lanificio Subalpino e delle aspettative sui prossimi passi da compiere: “tra i nostri obiettivi futuri, oltre che incrementare gli sforzi in termini creativi e rendere sempre più belli i nostri tessuti, c’è quello di continuare nella direzione del potenziamento della nostra linea Green, perché sogno un mondo dove i tessuti e le tinture saranno completamente naturali, dovremmo ricorrere alla chimica solamente in minima parte, ancora meglio se riuscissimo a liberarcene completamente. I segnali commerciali, comunque, sono ottimi: si formano sempre più economie di scala nel mondo dei tessuti naturali, che stanno permettendo un abbattimento dei costi di produzione e ci consentono una crescita del fatturato della nostra linea sostenibile che fino a un decennio fa per noi era davvero impensabile.

Io sono davvero soddisfatto non solo dell’aumento delle vendite, ma soprattutto perché le persone che indossano i nostri capi si vestono con prodotti di qualità e rispettosi della salute delle persone.”

Fonte: piemonte.checambia.org

Artigianato: il progetto di due giovani per restare in Sicilia

Giampiero e Filippo sono due giovani artigiani siciliani che da anni lavorano il legno e la pietra in modo naturale. La loro idea è quella di mescolare ora i due elementi per dar vita a creazioni naturali e innovative. Un progetto di artigianato che potrebbe aiutarli a realizzare un grande sogno: restare a vivere e lavorare in Sicilia. Quello di Giampiero e Filippo è un po’ un sogno, un po’ già una realtà: creare oggetti di arredamento e mobilio domestico (ma non solo) mescolando il legno e la pietra del proprio territorio. Artigiani di professione, siciliani della provincia di Messina, i due sono colleghi da molto tempo, liberi professionisti che da anni hanno a che fare con lavorazioni di questo tipo. Hanno ereditato il mestiere dai loro genitori e ci tengono a continuare su questa strada, perché hanno un’arte nelle mani. Allo stesso tempo, però, da qualche tempo hanno un’idea che già in parte concreta: “Ci è venuto in mente di fare qualcosa assieme, abbinando i due elementi: io lavoro il legno, lui la pietra e così abbiamo fatto insieme il primo mobiletto”, racconta Giampiero Raffaele, quando spiega degli inizi di questo progetto. Un progetto che è estremamente collegato al loro territorio, la Sicilia, e in particolare il comune di Patti e le zone limitrofe, dove la materia prima non manca ed è la fonte cui Giampiero e Filippo attingono: “Vogliamo lavorare il legno di castagno, di cui c’è una grossa produzione nelle nostre zone e nel farlo vogliamo farlo in modo completamente naturale, lasciando che il rimboscamento avvenga in modo spontaneo, senza forzare nulla”, spiega Giampiero che da anni lavora con questa materia.

Alcune creazioni di Giampiero e Filippo

Dall’altra parte, poi, c’è la pietra arenaria, di cui “la nostra città è piena: tutti i nostri artigiani lavorano con questo materiale”. Si tratta quindi di un progetto completamente a chilometro zero, che non inquina e che valorizza le risorse del territorio a scopo domestico ma anche creativo. “Noi per ora ci occupiamo di mobilio domestico, ma ciò non esclude che se trovassimo altri collaboratori – magari designer interessati al nostro progetto – potremmo sbizzarrirci ed essere creativi, dando vita a veri e propri oggetti di arredamento”. Inoltre, il materiale viene lavorato nel modo più naturale possibile. Vernice a cera d’api quasi sempre, qualche volta – se necessario – la vernice all’acqua, che ha qualcosa di chimico ma che ormai sul mercato si trova in versioni quasi naturali. L’altro motivo per cui questo progetto è legato al territorio è perché è un modo per entrambi per rimanere a lavorare e vivere nella propria terra: “Non vogliamo perdere il nostro lavoro, che abbiamo ereditato dai nostri padri, né tanto meno allontanarci dalla nostra terra; io ho ricevuto tante proposte di lavoro al Nord Italia, ma perché me ne devo andare?”. Giampiero, infatti, vive nel paese di Ficarra, piccolo comune vicino Patti e in provincia di Messina, che lui ama molto, dove le bellezze sono tante: “Qui abbiamo il mare, la montagna e persino la neve”.

“L’idea è nata anche perché ci siamo resi conto che quasi nessun artigiano ha mai proposto qualcosa del genere, è un prodotto di nicchia”, spiega Giampiero, parlando dei prototipi che hanno realizzato e dei mobili, delle specchiere, addirittura dei pomelli delle porte che possono essere fatti mescolando i due materiali. Il problema, fino ad ora, è sempre lo stesso: trovare qualcuno che aiuti, che dia una spinta a questo progetto, sostenendolo o magari collaborandolo. Perché, Giampiero ci tiene a specificarlo: “Noi vogliamo portare avanti questo progetto, ma allo stesso tempo abbiamo bisogno di certezze, di qualcuno che ci aiuti e allo stesso tempo ci promuova: abbiamo il mestiere in mano, ci serve solo una forza che ci aiuti nella promozione dei nostri prodotti”. Portare avanti un progetto di questo tipo – mentre si lavora per mantenersi – non è facile, soprattutto quando nel territorio di riferimento non ci sono potenziali investitori. Ma il sogno di Giampiero e Filippo rimane ben fermo: lavorare con la terra per il territorio, per valorizzarlo e viverlo. E magari farlo conoscere a chi di questo ancora non sa.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/02/artigianato-progetto-due-giovani-restare-in-sicilia/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

L’amianto toglie ancora il respiro (parte prima)

Tremila morti all’anno solo in Italia, più di 30milioni di tonnellate ancora da bonificare, 370mila edifici contaminati, fra cui moltissime scuole. L’emergenza amianto non è affatto un problema del passato. Abbiamo intervistato Maura Crudeli, presidente AIEA (Associazione Italiana Esposti Amianto), che denuncia come colossi industriali quali Cina, India e Russia non abbiano proibito l’uso di questo agente tossico e che l’amministrazione Trump lo abbia reintrodotto nell’edilizia degli USA.

“Fra i 3 e i 4mila morti ogni anno solo in Italia, quasi 15mila in Europa e più di 100mila nel mondo. Se qualcuno pensa che l’emergenza amianto sia un problema del passato è smentito dai numeri del RENAM-Registro Nazionale dei Mesoteliomi, dell’ISS-Istituto Superiore della Sanità e dai dossier di Legambiente”. Ce lo ha detto Maura Crudeli, presidente dell’AIEA-Associazione Italiana Esposti Amianto – una delle associazioni che compongono il neonato Coordinamento Nazionale Amianto e facente parte della rete internazionale Ban Asbestos  – tutte impegnate nella sensibilizzazione verso il problema, nella pressione alle istituzioni e nel supporto alle vittime e ai loro parenti.

Maura è una friulana trapiantata a Roma, dove è diventata una conosciuta organizzatrice di eventi e una filmaker. Fra i suoi lavori, vanno citati il documentario “Attenti al treno”, sul reparto di coibentazione della FIAT Ferroviaria di Savignano, un posto di lavoro ambitissimo fino a qualche decennio fa, che gli operai svolgevano immersi in una fitta nebbia polverosa… d’amianto; “I Vajont”, altro documentario, stavolta a episodi, su alcune fra le più eclatanti tragedie provocate dall’avidità, dalla sete di potere e dall’indifferenza dell’uomo, inclusa quella di Broni, sede di uno stabilimento della Fibronit, una tra le più grandi aziende produttrici di cemento amianto in Italia; infine, l’ultimo spot di AIEA ONLUS  volto a mantenere alta l’attenzione sul tema, dal titolo estremamente efficace: l’amianto ti toglie il respiro. Come sottolinea lei stessa nella nostra intervista video, la lotta all’amianto (detto anche asbesto) e il sostegno alle sue vittime è diventata una delle missioni nella sua vita dal 2010, ossia da quando  suo padre Mauro, coibentatore all’interno dei cantieri navali di Fincantieri, è morto a causa di un mesotelioma, un tumore raro associato all’esposizione all’amianto. 

A 30 anni esatti dalla sua fondazione, AIEA – una Onlus senza fini di lucro – continua a battersi a livello globale per l’abolizione dell’amianto in ogni forma diversa dallo stato di minerale in cui si trova in natura (l’unico stato nel quale non è nocivo per la salute). In accordo con quanto afferma l’OMS-Organizzazione Mondiale della Sanità, l’AIEA sostiene che, “secondo gli attuali livelli di conoscenza scientifica sui danni causati alla salute dall’inalazione di fibre di amianto, non esiste alcun livello minimo di soglia al di sotto del quale vi sia sicurezza, per cui la massima concentrazione accettabile di fibre non può che essere zero”.

Nata dal movimento di lotta per la salute Medicina Democratica, l’AIEA è stata fondata nel 1989 a Casale Monferrato, sede della celebre fabbrica di fibrocemento Eternit. Tre anni dopo la sua costituzione fu approvata, dopo una lunga e difficile gestazione, la legge 257/1992, ovvero “Norme per la cessazione dell’impiego dell’amianto”. Una vera e propria legge-svolta, alla quale ha contribuito in misura determinante proprio la grande mobilitazione sociale dovuta all’attività delle associazioni degli esposti, delle associazioni ambientaliste e di quelle sindacali. Nella legge si stabilisce che, in Italia, “sono vietate l’estrazione, l’importazione, l’esposizione, la commercializzazione e la produzione di amianto, di prodotti di amianto o di prodotti contenenti amianto”.

Tuttavia, nonostante l’approvazione della legge e la capillarità della successiva azione di bonifica nelle cave e nei siti industriali nei quali in passato sono state realizzate le lavorazioni, resta ancora molto da fare. In Italia, per esempio, dove non tutte le regioni hanno applicato i piani regionali per l’amianto e provveduto alla mappatura prevista dalla legge 257/92, si stima vi siano ancora fra le 33 e le 39 milioni di tonnellate della fibra killer ancora da bonificare, fra cui quasi 58 milioni di metri quadri di coperture in cemento amianto. Sconcertante il dato riguardante il censimento degli edifici nel nostro paese, che rivela come, dei circa 370mila edifici contenenti amianto presenti oggi sul nostro territorio, più di 50mila siano pubblici e di questi molte siano scuole. Secondo Censis e Legambiente, infatti, il 10% delle scuole italiane presenta ancora strutture in amianto.  

Come se non bastasse, il dato internazionale è ancora più preoccupante. Se nel corso degli ultimi due decenni in tutta Europa l’amianto è stato proibito – sia in fase di estrazione che in fase di produzione e commercializzazione – la stessa cosa non si può dire del resto del mondo. Al momento sono difatti solo 53 (su un totale di 196) i paesi del mondo che ne hanno proibito l’estrazione e l’utilizzo. In tutti gli altri, inclusi colossi industriali come Cina, India e Russia, questo materiale è ancora utilizzabile, a volte in tutte delle sue molteplici forme, a volte solo in alcune. Come nel caso degli USA, nei quali l’amministrazione Trump, nell’estate 2018, è tornata sui passi tracciati dai governi precedenti reintroducendo l’uso dell’amianto nell’edilizia (da cui era stato bandito nel 1989). Insomma, la parola d’ordine è, ora come prima, vietato abbassare la guardia!

Continua…

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/01/amianto-toglie-ancora-respiro-parte-prima/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni