Particolato fine: ecco quanta gente muore ogni anno in Italia a causa del Pm2.5

Il particolato fine o Pm2.5 è la sostanza inquinante emessa dalle attività di matrice antropica che ogni anno causa il maggior numero di decessi. In Italia è soprattutto il nord a esserne colpito, con punte di letalità che arrivano a 468 morti all’anno ogni 100mila abitanti. Una delle sfide più importanti nella lotta al cambiamento climatico è la riduzione dell’inquinamento atmosferico, particolarmente dannoso sia per l’ambiente che per la salute dell’essere umano. Delle diverse sostanze inquinanti che l’attività di matrice antropica emette nell’atmosfera, una particolare attenzione va rivolta al cosiddetto particolato fine o Pm2.5 (acronimo inglese di particulate matter), che secondo la European environmental agency e l’OMS è tra le più nocive. In particolare, ha un impatto molto forte sulla salute umana, e ogni anno causa migliaia di decessi prematuri.

Gli effetti del particolato fine sulla salute umana

Il Pm2.5 è una particella di diametro inferiore ai 2,5 millesimi di millimetro (o micron, μ). Data la sua dimensione estremamente ridotta, è capace di penetrare in profondità nel sistema respiratorio umano, raggiungendo non solo la trachea e le vie respiratorie superiori, quale è il caso del Pm10, ma anche gli alveoli polmonari. Il particolato fine ha effetti nocivi sia sul sistema respiratorio che su quello circolatorio. Secondo le analisi dell’Oms, una esposizione prolungata ha comprovati legami con l’emergere di tumori e di altre patologie come l’obesità, il diabete, ma anche il morbo di Alzheimer e la demenza. Può inoltre causare arteriosclerosi e, secondo ricerche recenti, potrebbe incidere sullo sviluppo neurologico nei bambini e sulle funzioni cognitive negli adulti. Oltre a esacerbare problemi di salute preesistenti.

Come riporta l’Eea, si tratta della sostanza inquinante più dannosa per la nostra salute, insieme al biossido di azoto (No2) e all’ozono (O3), nonché quella che ogni anno causa il numero più elevato di morti premature. Negli ultimi anni, grazie all’innovazione tecnologica e al crescente utilizzo di carburanti meno inquinanti, nell’UE questa cifra ha registrato un graduale calo. Si tratta comunque di cifre molto elevate. Soprattutto se consideriamo che sono distribuite in maniera fortemente diseguale non solo tra i vari paesi dell’Unione, ma anche all’interno dei singoli Stati, in particolare tra le diverse classi sociali di appartenenza.

Bambini, anziani e persone con condizioni di salute fragili o malattie pregresse sono infatti particolarmente esposte ai rischi del particolato fine. Ma in generale anche le persone che si trovano in condizioni di disagio socio-economico, che spesso vivono nelle aree più periferiche delle grandi città. Cioè zone fortemente industrializzate, con poco verde pubblico e abitazioni costruite a ridosso di strade trafficate – luoghi particolarmente esposti all’inquinamento atmosferico.

L’esposizione al Pm2.5 incide fortemente sull’aspettativa di vita

In questo senso è anche importante sottolineare che i dati riguardano solo i 27 paesi che fanno parte dell’Unione Europea, ma che a essere maggiormente colpiti dal problema dell’inquinamento da Pm2.5 sono paesi europei che non ne fanno parte, in maniera particolare l’area balcanica (Serbia, Macedonia del nord, Albania). Come evidenzia l’Eea, si tratta infatti di stati ancora largamente dipendenti da combustibili di qualità inferiore come il legno e il carbone, fortemente inquinanti.

La regione della capitale macedone Skopje, in particolare, è quella che riporta il numero più elevato di morti premature da Pm2.5 di tutto il continente (225 ogni 100mila abitanti nel 2019), seguita dalla provincia serba Podunavska oblast (205). Tra i paesi Ue invece è la Bulgaria a registrare le cifre più elevate, soprattutto, anche in questo caso, nella regione della capitale.

Le morti premature da Pm2.5 nella penisola italiana

A causa dell’alto tasso di industrializzazione, l’Italia è uno dei paesi UE che risultano maggiormente colpiti dal problema del particolato fine. Da questo punto di vista esistono però forti differenze a livello locale. Cremona è la provincia italiana che nel 2019 ha registrato il numero più elevato di decessi causati dall’esposizione al particolato fine. È la quarantesima provincia in UE da questo punto di vista. Si stima che in quell’anno 468 persone abbiano perso la vita per questo motivo. La seguono Brescia, Mantova e Padova con 123 decessi ogni 100mila abitanti.

Il numero di decessi causati dal particolato sottile ogni 100mila abitanti nelle province italiane (2019)

In generale, a risultare maggiormente colpito è il nord della penisola e in particolare la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna, in corrispondenza della zona fortemente industrializzata della pianura padana. Mentre a riportare le cifre più contenute sono la provincia sarda di Sassari (con 49 decessi ogni 100mila abitanti), seguita da Olbia-Tempio nella stessa regione e dalla Valle d’Aosta, entrambe con 50 morti. Va però sottolineato che, come è avvenuto a livello europeo, anche in Italia la situazione sta gradualmente migliorando. Come abbiamo raccontato in un altro recente approfondimento sul problema del particolato fine, negli ultimi 13 anni la concentrazione di questa sostanza nell’aria delle città italiane si è infatti dimezzata. Ma resta ancora molta strada da fare, considerando che l’Ocse raccomanda una concentrazione inferiore ai 10 µg/m3, mentre nel 2019 nelle città italiane questa si attestava, mediamente, intorno ai 15,5 µg/m3.

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Fonte: https://www.italiachecambia.org/2022/01/particolato-fine-italia/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Post-pandemia: c’è la green economy nel futuro dell’Italia?

Numerose indagini e statistiche sembrano confermare che, in particolare durante e dopo la pandemia, il nostro Paese si è orientato verso un’economia più sostenibile, sia dal punto di vista delle imprese che da quello delle scelte d’acquisto dei singoli. Agnese Inverni della Cooperativa agricola sociale O.R.T.O. analizza i dati e prova a trarre alcune conclusioni in merito. Le imprese italiane sono sempre più green: questo è quanto emerge dall’undicesimo rapporto GreenItaly della Fondazione Symbola e di Unioncamere che analizza lo sviluppo delle attività produttive ecosostenibili sul territorio nazionale. Dal rapporto risulta che nel periodo 2015-2019 più di 432.000 imprese italiane dell’industria e dei servizi, ovvero il 31,2% del totale, hanno investito in prodotti e tecnologie per la sostenibilità ambientale. Il picco massimo è stato raggiunto nel 2019 con quasi 300.000 aziende che hanno puntato soprattutto su efficienza energetica, utilizzo di fonti di energia rinnovabile, minore consumo di acqua e riduzione dei rifiuti. La pandemia da Covid-19 ha contribuito alla momentanea riduzione degli eco-investimenti da parte delle imprese che tuttavia li ritengono un’ottima strategia da adottare sempre più spesso negli anni a venire. È ormai evidente la necessità di un cambio di paradigma nell’organizzazione del sistema produttivo che dovrà essere orientato in direzione della sostenibilità economica, sociale e ambientale. La vecchia concezione secondo cui non sia possibile conciliare il profitto e la tutela della natura ha rivelato la sua infondatezza: ad oggi è sempre più chiaro agli occhi di produttori e consumatori che la green economy è la migliore strategia di sviluppo per il futuro. Il 2020 è stato un anno indubbiamente difficile in Italia e nel resto del mondo. Tante delle nostre certezze sono crollate e ci siamo ritrovati a riflettere sulla stile di vita delle nostre società e sulle azioni e le scelte individuali che compiamo ogni giorno. La percezione comune è che la propagazione della pandemia sia stata favorita, in una certa misura, dallo sviluppo di un modello economico improntato su consumismo sfrenato e globalizzazione. Questa presa di coscienza, seppur destabilizzante, è stata la scintilla che ha innescato il cambiamento di mentalità i cui effetti saranno dirompenti nel prossimo futuro.

Già da alcuni anni gli italiani dimostrano una crescente sensibilità nei confronti delle tematiche ambientali e stanno modificando le proprie abitudini in funzione dell’ecosostenibilità. Per capire l’entità del fenomeno possiamo fare riferimento al 6° Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile, un’indagine realizzata da Lifegate in collaborazione con Eumetra MR. Il documento (elaborato a gennaio 2020 prima dell’emergenza sanitaria) mostra che per il 62% degli italiani quello della sostenibilità è un tema sentito e non solo una moda passeggera; il 72% si sente coinvolto nelle questioni ambientali e il 32% si dichiara addirittura “appassionato” al tema. Sul fronte degli acquisti gli italiani sono disposti a spendere di più principalmente per prodotti a km0 (nel 44% dei casi), per prodotti bio (36%) e per giocattoli per bambini realizzati con materiali sostenibili (36%). I giovani della Z-generation sono disposti a spendere di più anche per energia rinnovabile (40%) e per sistemi di domotica per il risparmio energetico (35%). La tendenza dei consumatori italiani è quella di ridurre la propria impronta ecologica anche attraverso le nuove tecnologie che si rivelano una buona soluzione per tagliare gli sprechi, ridurre il consumo di energia e conservare le risorse naturali. Un’idea diffusa è che non sia necessario sacrificare la qualità della propria vita per essere più green e che, al contrario, modificare alcune abitudini possa migliorare notevolmente la salute e il benessere personale. Proprio in virtù di questa convinzione, negli ultimi anni si sta verificando un cambiamento significativo delle tendenze alimentari degli italiani che si mostrano sempre più attenti al cibo sano, biologico ed ecofriendly. Il rapporto “Bio in cifre 2020” realizzato da Sineb-ISMEA attesta che nella prima metà dell’anno il consumo di prodotti agroalimentari biologici è cresciuto del 4,4% rispetto al 2019 raggiungendo la cifra record di 3,3 miliardi di euro. L’emergenza sanitaria ha contribuito all’aumento delle vendite di prodotti biologici dato che, durante il lockdown nazionale, molti italiani hanno trascorso più tempo in cucina e sono stati più attenti nella scelta delle materie prime alimentari, preferendo quelle di alta qualità e a ridotto impatto ambientale. I consumatori, ora più che mai, sono influenzati nelle loro scelte di acquisto anche da alcuni parametri legati alla sostenibilità del prodotto quali il materiale del packaging, le emissioni di CO2 nelle fasi di trasporto e distribuzione, il consumo di acqua e la gestione dei rifiuti. Alla luce di tutte queste considerazioni, è facile immaginare che il modello di consumo della società post-pandemica sarà orientato in direzione della sostenibilità; è necessario infatti realizzare più prodotti e servizi innovativi che sappiano rispondere al bisogno dei clienti di vivere in armonia con la natura. Molte imprese italiane stanno attuando un percorso di transizione ecologica delle proprie attività e già da alcuni anni investono in tecnologie green e nell’assunzione di personale specializzato nella sostenibilità ambientale.

Gli eco-investimenti si sono rivelati una strategia vincente anche di fronte alla crisi innescata dalla pandemia da Covid-19: nell’ultimo anno il 16% delle imprese votate al green è riuscito ad aumentare il proprio fatturato e il 9% di esse ha assunto nuovo personale (contro rispettivamente il 9% e il 7% delle aziende meno attente all’ambiente). La riconversione ecologica del sistema produttivo potrebbe dunque favorire non solo la ripresa economica ma anche l’aumento dell’occupazione lavorativa; in particolare i più giovani potrebbero usufruire di nuove opportunità e specializzarsi in settori professionali del tutto inesistenti fino a qualche anno fa.

Le competenze relative all’ecosostenibilità e anche una certa sensibilità nei confronti delle tematiche ambientali sono considerate delle capacità molto importanti in ambito aziendale: per alcune imprese sono ormai essenziali tanto quanto la conoscenza lingua inglese o delle principali applicazioni software di produttività personale.

Il rapporto “Green Jobs: Towards decent work in a sustainable, low-carbon world” realizzato dall’UNEP (United Nations Environment Programme) nel 2009 definisce i green jobs come quelle occupazioni nei settori dell’agricoltura, del manifatturiero, nell’ambito della ricerca e dello sviluppo, dell’amministrazione e dei servizi che contribuiscono in maniera rilevante a preservare o restaurare la qualità ambientale. Sono incluse tutte le professioni che aiutano a mantenere la biodiversità e gli equilibri ecosistemici, a ridurre il consumo di materiali e di energia, a decarbonizzare le attività economiche e a diminuire o eliminare l’inquinamento e la produzione di rifiuti. È una definizione di ampio respiro che prende in considerazione diverse specializzazioni nei più svariati settori economici, dall’agricoltura ai servizi informatici, dall’industria alla ricerca scientifica, dal commercio all’arte e alla cultura. Le possibilità lavorative che si presentano sono molteplici e in continua evoluzione; da ogni attività riconvertita in chiave green è possibile generare nuove idee e nuove occupazioni innescando così un circolo virtuoso di sostenibilità. I settori che più necessitano di personale specializzato in tal senso sono l’edilizia e l’industria che richiedono sempre più spesso l’intervento di ingegneri e chimici ambientali. Anche l’energy manager è diventato una figura irrinunciabile all’interno delle aziende dato che si occupa dell’uso razionale dell’energia. Stessa importanza assume l’informatico ambientale che progetta software per il monitoraggio dei consumi e dei sistemi di riscaldamento e raffreddamento in ambito domestico. Se da una parte i consumatori italiani richiedono l’applicazione di tecnologie sempre più green, dall’altra avvertono il bisogno di ritornare alla natura, alla semplicità, a uno stile di vita più genuino e autentico. E quale modo migliore di farlo se non attraverso l’alimentazione? Come diceva il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach “siamo ciò che mangiamo” e ad oggi molti italiani sono interessati a conoscere sempre meglio il cibo di cui si nutrono. Nel 2019 le imprese agro-alimentari biologiche in Italia hanno superato le 80.000 unità e hanno generato una filiera di produzione e distribuzione che necessita continuamente di nuovi biocontadini con competenze specifiche di agroecologia.

Sta prendendo sempre più piede anche la figura del culinary gardener, ovvero il produttore-consulente che collabora con chef e ristoratori per rifornirli delle migliori materie prime alimentari. È un esperto che sa come valorizzare le varietà ortofrutticole tipiche del territorio per creare menù originali e allo stesso tempo vicini alla tradizione culinaria italiana; spesso pratica il foraging, cioè la raccolta e la preparazione in cucina di erbe spontanee, garantendo al cliente ingredienti 100% naturali e a km0.

Sono molti altri i green jobs che saranno sempre più richiesti nei prossimi anni: il mobility manager per la gestione di sistemi di trasporto a basso impatto ambientale, il bioarchitetto per la progettazione di design sostenibile, l’operatore di ecoturismo, l’esperto di moda vegan ecc.. Non c’è settore produttivo che non possa reinventarsi in chiave green e quindi le possibilità occupazionali sono pressoché illimitate. Quel che è certo è che siamo di fronte a una grandiosa opportunità che consentirà di assumere circa 480.000 nuovi professionisti “verdi” in Italia e di creare ben 24 milioni di posti di lavoro in tutto il mondo entro il 2030. D’altronde la parola crisi deriva dal greco krisis, che significa “scelta”, proprio ad indicare come ogni problema, se analizzato attentamente, riveli da sé la soluzione per risolverlo.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/09/green-economy-italia/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

L’Italia ritorni alla sua vocazione agricola e artigianale

Nel seguire l’impossibile coesistenza di un sistema della crescita infinita in un pianeta dalle risorse finite, l’Italia ha stravolto la sua natura e vocazione. Le vere risposte sono artigianato, agricoltura e benessere vero.

Nel seguire l’impossibile coesistenza di un sistema della crescita infinita in un pianeta dalle risorse finite, l’Italia ha stravolto la sua natura e vocazione. Scimmiottando i paesi anglosassoni si è pensato di competere sul piano della potenza industriale. Una gara che ci ha visto sempre rincorrere affannosamente anche per la mancanza di risorse interne di fonti fossili e ora per l’impossibilità di uscire economicamente vincitori da una competizione con paesi come la Cina. Inoltre una industrializzazione senza freni e scrupoli, ha il non indifferente contraccolpo della distruzione ambientale, quindi delle nostre risorse e ricchezze. L’Italia infatti è storicamente un paese a vocazione agricola e artigianale. La capacità di produrre con la nostra inventiva e le nostre mani si riflette anche nelle bellezze artistiche che ci sono sulla penisola in una innumerevole quantità. Non è certo un caso che l’Italia sia meta turistica ambita anche per le sue realizzazioni create da persone di una capacità artigianale eccezionale che erano lo specchio di una conoscenza diffusa nella popolazione. Che gli italiani siano ottimi artigiani dalla grande creatività è un fatto evidente. Inoltre la nostra ricchezza e varietà dal punto di vista agricolo e alimentare è testimoniata anche dal movimento Slow Food diffuso a livello internazionale. Dove se non in Italia una realtà con queste caratteristiche poteva nascere? Un paese dove cresce una varietà e qualità strepitosa di piante commestibili e alberi da frutto, dove in ogni angolo, anche il più remoto, c’è una specialità alimentare. Tutto questo è stato progressivamente messo in pericolo dalla massiccia e costante importazione di “cinafrusaglie” e di cibo spazzatura prodotto da paesi che hanno una cultura e ricchezza del cibo neanche lontanamente paragonabile a quella italiana. Cibo e altri prodotti realizzati con prezzi ambientali e umani altissimi e quindi conseguentemente con costi irrisori. Come si fa a competere con chi utilizza milioni di lavoratori super sfruttati e pagati miserie e non mette in nessun conto i disastri ambientali che provoca nella realizzazione delle merci?

Tentare di competere su piani che ci vedono sconfitti in partenza, non solo è illusorio ma assai poco intelligente e per nulla lungimirante. Non è certo correndo la corsa alla produzione illimitata di merci, per lo più superflue e dannose per l’ambiente, che faremo un servizio al nostro paese che invece deve necessariamente ritrovare la sua inclinazione, la sua natura che è il saper fare e il saper coltivare. Artigianato, agricoltura e benessere quindi sono la risposta, laddove il nostro “saperci godere la vita” ci è invidiato proprio da quei paesi anglosassoni e non, continuamente protesi alla performance, al segno più, mentre la loro vita si consuma in grafici e numeri. Anche noi però rischiamo di non saperci più godere la vita in questa impossibile rincorsa alla “performance” che con la nostra natura e saggezza mediterranea, hanno ben poco a che vedere.

E se si ritiene che ritrovare la via dell’artigianato e dell’agricoltura sia impossibile, anacronistico, utopico, si valuti se è più realistico proseguire a sfruttare tutte le risorse possibili e immaginabili, produrre quantità incalcolabili e ingestibili di rifiuti, competere con il mondo per vendere qualsiasi cosa, crescere in una corsa sfrenata verso il nulla e con ciò ottenere solo due risultati: una vita impazzita priva di senso e una natura distrutta dal nostro agire che ci porterà all’inevitabile suicidio collettivo. Quindi volenti o nolenti, anche a causa dell’esaurimento delle risorse e della catastrofe ambientale, bisognerà ritornare a quello che ci contraddistingue e in cui siamo grandi maestri: costruire una società a misura di persona il più possibile autosufficiente e con un forte tessuto artigianale ed agricolo. Agendo in questo modo si possono ridurre drasticamente le importazioni di merci superflue, spesso dannose e ambientalmente impattanti, considerato che tutto quello che arriva da lontano lascia una scia di inquinamento non indifferente. Cosa c’è poi di più bello che creare con le proprie mani o coltivare vedendo crescere e assaporare i propri alimenti? Si può in questa direzione calibrare e pianificare una industria utile e sostenibile, alimentata da fonti rinnovabili, per le quali, a differenza delle fonti fossili, abbiamo potenzialità enormi e che supporti i settori artigianale e agricolo biologico. L’Italia può ridiventare un giardino fiorito pieno di creatività, saggezza e prelibatezze, dove finalmente vivere e non competere, dove aiutarsi, cooperare e non farsi la guerra, tanto alla fine non ci sarà nessun vincitore e saremo tutti perdenti. Abbiamo il nostro paese che è già potenzialmente un paradiso terrestre, bisogna solo riscoprirlo e riscoprire i nostri talenti e le nostre capacità. Possiamo diventare un faro internazionale per un cambiamento epocale, sta a noi renderlo possibile.

Fonte: https://www.ilcambiamento.it/articoli/l-italia-ritorni-alla-sua-vocazione-agricola-e-artigianale?idn=113&idx=29812&idlink=7

Intrecci Etici. La rivoluzione della moda sostenibile in Italia

Raccontare il movimento della slow fashion in Italia, per sensibilizzare le persone attorno ad un tema fondamentale e dimostrare che è possibile fare scelte più responsabili anche per quanto riguarda i vestiti che compriamo e indossiamo. Con questo obiettivo nasce “Intrecci etici”, l’ultimo documentario di LUMA Video che racconta la rivoluzione della moda sostenibile nel nostro Paese. La moda è una delle industrie più inquinanti al mondo ed è un problema che riguarda tutti noi. A questo settore si attribuisce il 20% dello spreco globale di acqua, il 10% delle emissioni di anidride carbonica e non solo, l’85% dei vestiti prodotti finisce in discarica e solo l’1% viene davvero riciclato. Per non parlare dei prezzi bassi del fast fashion, dietro i quali si nascondono salari non equi e la mancanza di regolamentazioni a tutela dei lavoratori.

Eppure in Italia è oggi in atto una rivoluzione per rendere il settore moda più sostenibile. A questo tema è dedicato l’ultimo documentario realizzato dai giovani registi di LUMA video Lorenzo Malavolta e Lucia Mauri, che abbiamo intervistato.

Dopo l’artigianato e le storie dei piccoli produttori che resistono al Covid-19, avete scelto di trattare nel vostro ultimo documentario il tema della moda sostenibile. Perché avete deciso di approfondire questo tema?

Ogni produzione che noi di LUMA video realizziamo nasce dalla curiosità e dalla voglia di migliorarci continuamente. Ci facciamo delle domande su qualsiasi tematica che ci riguarda o colpisce la nostra quotidianità e pian piano cerchiamo le risposte. Il bello è che questo spesso sfocia nel voler scavare più a fondo riguardo un tema e condividere le nostre scoperte con gli altri. Quindi anche Intrecci Etici parte da una nostra ricerca personale. Se stiamo attenti alle nostre decisioni in fatto di cibo e di rifiuti, come possiamo fare scelte migliori per quanto riguarda i vestiti che compriamo e indossiamo? Come possiamo essere meno impattanti? Quali strumenti abbiamo a disposizione? Queste sono le domande da cui siamo partiti.

Cosa racconta il documentario?

Il documentario Intrecci Etici racconta come in Italia sia in atto una rivoluzione per rendere il settore moda più sostenibile. Questo cambiamento è sotto i nostri occhi: da chi si occupa di fibre e tessuti naturali, a chi produce solo su ordinazione, a chi trasforma rifiuti in risorse, a chi impiega persone più fragili fino a chi ha scelto di rimanere sul territorio e valorizzarlo. Se da un lato i produttori si stanno impegnando concretamente per rendere la moda più etica e sostenibile, dobbiamo tenere a mente che la sostenibilità deve partire prima di tutto da noi consumatori. Siamo noi che abbiamo davvero il potere di cambiare le cose, passo dopo passo, con il nostro portafoglio e le scelte di tutti i giorni.

Chi sono le persone che avete intervistato e di cosa si occupano?

All’interno del documentario si intrecciano le storie di artigiani, aziende e piccoli business insieme a contributi importanti di esperte di settore come Marina Spadafora, coordinatrice italiana di Fashion Revolution e Francesca Romana Rinaldi, docente universitaria di moda sostenibile. Fra i produttori, abbiamo coinvolto Cinzia Congia e Mauro Vismara di Maeko filati e tessuti naturali; Marco Scolastici dell’Azienda Agricola Scolastici che produce lana da pecore italiane di razza sopravvissana; Carolina Angius del brand Carolina Emme, giovane stilista e artigiana di moda sostenibile di Cagliari; Carlo Pierucci di Mario Doni Artigianato, che produce solo su richiesta calzature in pelle; Niccolò Cipriani di Rifò, che ha ripreso la tradizione dei cenciaioli di Prato e crea abbigliamento con fibre rigenerate; Anna Fiscale di Progetto Quid, che con la sua impresa sociale dà lavoro a persone con fragilità; Flavio Berto, dell’azienda Berto Industria Tessile che produce tessuti denim a Bovolenta; Francesca Boni di Il Vestito Verde e Francesca Lionti che all’interno della sua Diorama Boutique vende capi vintage.

A che punto è la rivoluzione sostenibile della moda in Italia e nel mondo? E quanto è diffusa la consapevolezza dei consumatori circa l’impatto ambientale di questo settore?
La rivoluzione sostenibile della moda si sta facendo strada nel mondo e lentamente sta arrivando anche in Italia. Confrontandoci con i protagonisti del documentario, l’impressione che abbiamo percepito è che molti produttori hanno capito che la sostenibilità è una via da percorrere e su cui porre le basi per la propria attività futura, sia che si tratti di nuove attività sia di aziende già consolidate che vogliono (per un motivo o per l’altro) migliorarsi e ridurre il proprio impatto negativo sul pianeta. Già che si pongano queste domande e queste prerogative è un passo avanti, però poi bisogna anche rendere questo impegno reale, attraverso azioni concrete e continuative. Per la maggior parte dei consumatori, l’impatto del settore moda sull’ambiente è un fatto ancora poco conosciuto. O almeno, non se ne discute abbastanza, come invece avviene per il cibo sulle nostre tavole o per la raccolta differenziata dei rifiuti. Crediamo però che pian piano i consumatori stiano diventando sempre più consapevoli, soprattutto i ragazzi più giovani: la sostenibilità ambientale è un tema “scottante” e c’è urgenza di cambiare le cose. Gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione per informarci sono tantissimi e le risposte sono a disposizione di tutti.

Le riprese di questo documentario sono state girate negli ultimi mesi, e quindi in tempi di covid-19. Sulla base delle testimonianze che avete raccolto, la pandemia sta avendo degli effetti sul settore della moda e sul suo cambiamento in chiave etica?

Quello che abbiamo percepito attraverso le testimonianze delle persone coinvolte è che il settore moda è stato quasi “forzato” a riflettere sulla sua natura e a ripensare alle sue logiche. Fra tutti, un grosso problema accentuato ancora di più dalla pandemia è stato sicuramente quello della sovrapproduzione. Se pensiamo al fast fashion, le aziende producono molto più di quello che poi venderanno e questo avviene per una convenienza economica, non importa se poi quei vestiti rimarranno invenduti nei magazzini e poi buttati o bruciati. Ecco, durante la pandemia le vendite si sono ridotte e le produzioni sono rallentate. Noi speriamo che possa aver fatto riflettere le aziende sulle loro logiche produttive, creando una discussione per dare spazio anche all’etica e alla sostenibilità.

A chi è rivolto il documentario e dove possiamo vederlo?

Fin dall’inizio, la nostra prerogativa è stata realizzare un documentario non di nicchia, ma rivolto a tutti: bambini, giovani, adulti, anziani. Tutti possiamo essere consumatori più consapevoli. Quello che desideravamo era proprio riuscire a creare un documentario inclusivo, che non fosse una panoramica di aziende perfette da porre su un piedistallo e ammirare, ma un coro univoco di voci competenti che ci dimostrano come tutti, nel nostro piccolo e a seconda delle nostre possibilità economiche, possiamo partecipare alla rivoluzione e fare scelte più sostenibili. Intrecci Etici si può guardare in esclusiva su Infinity Tv. Infinity ha creduto in noi co-finanziando il documentario: Intrecci Etici è stato infatti scelto all’interno dell’Infinity LAB di Mediaset, un progetto che supporta giovani registi e filmmaker indipendenti che hanno una storia da raccontare. Nei prossimi mesi, speriamo di poterlo proiettare nei cinema in giro per l’Italia e diffondere ancora di più il nostro messaggio.

So che vi piacerebbe portare questo vostro lavoro nelle scuole, appena sarà possibile. Volete lanciare un appello agli istituti scolastici interessati o ad altre amministrazioni?
È proprio così! Pensiamo che la sostenibilità sia un topic fondamentale su cui far riflettere i giovani e il tema della moda non può essere tralasciato. Crediamo sia importante sensibilizzare i ragazzi riguardo i vestiti che scelgono di comprare e indossare, facendoli ragionare su chi ha fatto i loro vestiti, di che materiali sono fatti e come poterli riciclare in futuro. Quello che desideriamo è dare ai giovani degli strumenti concreti per migliorare da subito le loro scelte d’acquisto e di consumo. Quindi la nostra intenzione è proprio quella di portare Intrecci Etici nelle scuole. Se siete interessati e volete organizzare una proiezione, potete contattarci all’indirizzo mail press@lumavideo.it

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/02/intrecci-etici-rivoluzione-moda-sostenibile-italia/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Clima e Teachers for Future: otto le regioni d’Italia dove i gruppi di insegnanti sono attivi

L’emergenza climatica entra ormai a pieno titolo nella scuola, anche per iniziativa del ministro dell’istruzione che ne renderà obbligatorio l’insegnamento. E intanto i Teachers for Future, gli insegnanti che affiancano i ragazzi nelle mobilitazioni, sono già presenti e organizzati in otto regioni italiane. Ce ne parla la portavoce nazionale, Monica Capo.

Clima e Teachers for Future: otto le regioni d'Italia dove i gruppi di insegnanti sono attivi

Teachers for Future Italia è il nome che si è dato il collettivo nazionale che include insegnanti, educatori, dirigenti scolastici e rettori, professori e ricercatori che aderiscono al Manifesto degli Insegnanti per il Futuro, pubblicato in occasione del primo sciopero globale per il clima. Ed è il collettivo, rappresentato e organizzayo in otto regioni italiane, che affianca e sostiene gli studenti che si mobilitano per chiedere un efficace contrasto ai cambiamnenti climatici.

Le otto regioni dove attualmente è rappresentata la rete dei Teachers for Future sono Liguria, Piemonte, Veneto, Campania, Puglia, Lazio, Friuli e Sicilia, «ma stiamo continuando a crescere e rispetto agli studenti di Fridays For Future Italia ci poniamo in una posizione di collaborazione costante e di sostegno alle iniziative e agli scioperi per il clima» spiega la portavoce nazionale della rete, Monica Capo, insegnante napoletana.

«Il Movimento è uscito con le idee molto chiare dalla seconda Assemblea Nazionale ribadendo che la giustizia climatica è strettamente connessa alla giustizia sociale e che per la transizione ecologica è fondamentale il cambio di sistema economico e di sviluppo – spiega Capo – L’obiettivo comune di studenti e insegnanti è quello di continuare a fare pressione sui governi per arrivare a riforme ambiziose e sarà perseguito a vari livelli, anche con le azioni non violente di disobbedienza civile e disruption (disturbo, blocco) come è nello stile del movimento ecologista Extinction Rebellion».

«Come insegnanti ci siamo ripromessi di insegnare la verità nelle scuole perché crediamo che vada ammesso, senza se e senza ma, il fallimento del nostro modello di sviluppo considerato criminale e colpevole della distruzione dell’ecosistema ma soprattutto perché crediamo che sia necessaria una immediata riconversione industriale ed economica per la rigenerazione del pianeta – prosegue la portavoce dei Teachers for Future Italia – Nei giorni precedenti al secondo sciopero globale per il clima abbiamo pubblicato un altro appello in cui chiedevamo alle scuole di dichiarare l’emergenza climatica ed ecologica. Un atto, a un tempo simbolico e fattuale, di pressione sulle istituzioni locali, regionali, nazionali, affinché siano intraprese azioni di governo e di organizzazione internazionale più efficaci nel contenere gli effetti del collasso climatico e dell’estinzione di massa del vivente oggi in corso. A questo appello erano allegate delle Linee Guida. Molte scuole hanno raccolto il nostro invito a dichiarare emergenza climatica e l’Università di Genova è stata il primo ateneo a firmare una lettera di intenti sull’emergenza climatica ed ecologica attraverso l’adesione a The Sustainable Development Goals (SDG) Accord, coordinata dalla Youth and Education Alliance dell’UN Environment».

«Recentemente abbiamo lanciato la campagna TEACH THE TRUTH – INSEGNATE LA VERITÁ NELLE SCUOLE! per invitare gli insegnanti italiani a segnalare casi analoghi al progetto “Circular School” proposto da #ENISCUOLA – prosegue Capo – un progetto che ufficialmente intenderebbe insegnare l’economia circolare ai bambini ma che, in realtà, è esclusivamente finalizzato ad evidenziare un illusorio impegno di Eni all’interno delle comunità nelle città in cui opera. Da qualche giorno abbiamo appreso dal Ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti che, dal prossimo anno scolastico, l’Italia diventerà il primo paese al mondo a rendere obbligatorio, per gli studenti, lo studio dei cambiamenti climatici».

«Come Teachers For Future Italia avevamo chiesto, già dal nostro primo Manifesto, l’aggiornamento delle linee guida per la gestione dell’emergenza climatica e non possiamo perciò che accogliere positivamente la notizia tuttavia pensiamo che, data l’accelerazione della catastrofe, si debba rivoluzionare totalmente il ruolo che ha la scuola nella nostra società, nel senso che essa non possa più permettersi di riprodurre l’ideologia che ritiene per esempio che automobili e industrie chimiche, allevamenti intensivi e cementificazione, si possano chiamare “progresso”».

«Occorre sicuramente cambiare la didattica ma non aggiungendo l’ennesima materia in più quanto piuttosto rivoltando i paradigmi fondativi di tutte le materie, comprese la storia, l’italiano, l’educazione civica – aggiunge ancora Capo – ovvero declinando le materie di studio tramite un approccio critico al modello di sviluppo dominante e non solo come applicazione del criterio dello sviluppo sostenibile. Va quindi rilanciato il tema della scuola come modello di organizzazione che si basa sull’applicazione di un nuovo paradigma ecologico, sia come strutture materiali che in merito all’organizzazione interna e dei rapporti tra le componenti, dove dovrebbero giocare un ruolo maggiore proprio gli studenti».

«Ribadiamo altresì la necessità che il Ministero abbandoni ogni collaborazione con aziende che basano le proprie attività sulla commercializzazione di energia da fonti fossili (Eni, Enel, ecc.) e che imponga i più alti standard di certificazione ambientale alle aziende coinvolte nei percorsi di alternanza scuola/lavoro. Se un insegnante volesse avvicinarsi al movimento Teachers For Future può unirsi al gruppo Facebook e partecipare alle nostre iniziative: fondamentale l’adesione alle Linee guida per la dichiarazione di emergenza climatica. E se nella sua città o regione non si è costituito può rivolgersi a noi e forniremo il nostro sostegno per la creazione della rete».

Fonte: http://www.ilcambiamento.it/articoli/teachers-for-future-otto-le-regioni-d-italia-dove-gli-inseganti-si-mobilitano

Un erasmus per imparare il futuro: Italia e Germania si incontrano

Grazie ad un progetto di interscambio che ha unito Inwole e Italia che Cambia abbiamo avuto la possibilità di vivere, come organizzatori e formatori, una settimana di condivisione con un gruppo di tedeschi giunti dalla Germania per conoscere e sperimentare l’Italia in cambiamento verso un futuro più sostenibile. Sostenibilità, educazione, connessione, rete. Sono questi gli elementi chiave dell’incontro residenziale che si è tenuto dal 22 al 28 aprile tra Firenze, Umbria e Bologna. L’occasione un progetto Erasmus+ per attività di mobilità per l’educazione degli adulti dal titolo “Lernen für die die Zukunft” (“Imparare per il futuro”) che ha unito due realtà già connesse: Inwole e Italia che Cambia.

Il gruppo a Panta rei, sul lago Trasimeno, dove ha trascorso tre giorni di lavoro e condivisione

Questo progetto di interscambio tra attori e formatori del cambiamento, italiani e tedeschi, ha infatti già forti radici. Luca Asperius, tra i fondatori di Italia che Cambia e responsabile dei nostri portali territoriali, berlinese d’adozione da quasi 10 anni, ha realizzato insieme ad Alexandre Schütze e Hannes Gerlof, due portali sul modello di quello italiano già attivo in Piemonte, uno dedicato a Berlino e uno dedicato alla regione del Brandeburgo.  

“La collaborazione con Inwole è ormai attiva e ben strutturata da diversi anni, da quando è stato lanciato il portale regionale Brandenburg im Wandel – racconta Luca – In particolare poi insieme a loro abbiamo avuto la possibilità di presentare nel 2017 qui in Germania alcune storie del cambiamento italiano, sottotitolando in tedesco alcuni dei video di Italia che Cambia, e di presentare Italia Che Cambia insieme a Daniel e Andrea. La cooperazione nel progetto Erasmus+ è stata quindi un’evoluzione naturale della collaborazione”. 

Inwole è un’associazione molto attiva a Potsdam (Brandeburgo). Le principali aree su cui si muove il progetto sono la formazione, il lavoro creativo e artigianale, l’economia solidale, la mobilità, l’educazione alla sostenibilità, i progetti antirazzisti e di cooperazione internazionale, così come progetti di integrazione. Tra i membri dell’associazione ci sono molti abitanti del progetto di cohousing Projekthaus, dove ha sede l’associazione e vengono svolte la maggior parte delle attività, negli spazi e nei laboratori della struttura, un luogo per l’implementazione pratica delle alternative sociali in cui iniziare a rendere possibile la convivenza sociale e una società di solidarietà.

A Perugia, guardando gli orti sinergici

Un laboratorio di sperimentazione proprio come lo è stato per tutti noi anche questa prima esperienza insieme in Italia, in cui mi sono trovata insieme ad Andrea Degl’Innocenti e Luca Asperius nel doppio ruolo di organizzatrice e formatrice. È sempre una grande ricchezza il confronto, la condivisione di strumenti, la convivenza, soprattutto in un gruppo così eterogeneo per età, con persone afferenti a progetti ed ambiti di interesse diversi, con aspettative differenti. Parte del cammino sta nel sintonizzarsi, nel riscoprire gli elementi di coesione sui quali convergere e nel mettersi in gioco nella diversità. 

“In generale sono molto contento, soprattutto in virtù del fatto che era la prima volta che organizzavamo un corso-viaggio del genere (anche se a livello italiano abbiamo comunque accumulato una discreta esperienza con i nostri corsi) – continua Luca – È stata sicuramente un’esperienza molto intensa, anche impegnativa dal punto di vista della logistica e dell’organizzazione e per quanto mi riguarda personalmente dell’interpretazione, essendo io l’unico o quasi del gruppo a parlare sia italiano che tedesco. Anche i feedback dei partecipanti sono stati molto positivi, in particolare riguardo alle uscite didattiche che abbiamo potuto organizzare con i progetti della nostra rete”. 

Oltre a tre giorni intensivi di lavoro insieme a Panta Rei, sul lago Trasimeno, i 15 partecipanti tedeschi hanno avuto infatti l’opportunità di incontrare alcuni progetti nelle città che abbiamo attraversato, dai quali trarre ispirazione e spunti per il lavoro che abbiamo portato avanti nei vari gruppi di lavoro.

Antonio di Giovanni presenta Funghi espresso (Firenze)

E proprio da questi incontri sono forse arrivate anche per noi le sorprese più interessanti. “Tra le tante cose forse quella che mi ha colpito di più è stata l’accoglienza e la disponibilità da parte dei progetti italiani che abbiamo scelto di visitare, segno anche del grande lavoro che stiamo portando avanti come Italia Che Cambia anche dal punto di vista delle relazioni umane”, prosegue Luca. “Anche se eravamo noi a condurli alla scoperta di città, progetti e persone, sono io per primo ad aver scoperto nuove cose o nuovi aspetti di storie che conoscevo già e che avevamo raccontato su Italia che Cambia”, aggiunge Andrea. C’è sempre un fattore di scoperta possibile e su questo si è giocato tanto di questo primo incontro intensivo che ripeteremo, forti di ciò che ci ha entusiasmato e di ciò che sarebbe potuto andare meglio, a fine settembre. Intanto abbiamo tessuto relazioni, approfondito progetti, acquisito nuovi strumenti e competenze, e gettato le basi concrete di uno scambio più forte tra la Germania e l’Italia in Cambiamento (ma questo lo scoprirete presto…).

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/05/erasmus-per-imparare-futuro-italia-germania-si-incontrano/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Sarà in Italia il raduno europeo 2019 degli ecovillaggi

Approda in Italia, nel prossimo mese di luglio, la Conferenza Europea degli Ecovillaggi (GEN eu) per il 2019. L’appuntamento è alla Comune di Bagnaia, comunità attiva da tempo in Toscana.

L’edizione del 2019 della Conferenza Europea degli ecovillaggi (GEN eu) si terrà in Italia e per la precisione alla Comune di Bagnaia, comunità da tempo attiva in Toscana.

Si tratta del raduno annuale aperto a chi vive in ecovillaggio, a chi sogna di viverci e anche a chi sente affinità con il movimento e per il ritrovo i partecipanti provengono da tutta Europa e da tutto il mondo.

Dopo alcune edizioni in svariate nazioni del mondo, l’importante momento di confronto e condivisione delle esperienze torna quindi nel nostro paese, facendo cadere la scelta su un luogo particolarmente significativo per la realtà dell’abitare condiviso. La Comune di Bagnaia ONLUS è una comunità intenzionale attiva da molto tempo in Toscana e «non ha mancato di ispirare nel tempo numerosi ecovillaggisti, fautori del cambiamento, ricercatori e cittadini del mondo da tutta Europa e oltre con le soluzioni innovative sperimentate giornalmente» spiegano dalla Rive, la Rete Italiana degli Ecovillaggi.

Fondata nel 1979, gli obiettivi principali di Bagnaia sono vivere in modo autosufficiente, avere cura dell’ambiente e sostenere trasformazioni sociali positive attraverso la pace e la giustizia sociale.

«Guidati da questi valori, il raduno del 2019 porrà l’attenzione sulla partecipazione attiva, l’azione e la solidarietà, così che possiamo restare uniti di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, rafforzati dalla nostra coesione nella diversità» spiegano ancora dalla Rive.

E ancora: «Nutrendo l’azione concreta attraverso un apprendimento pratico, la partecipazione e la creazione di reti, intendiamo generare una reazione a catena che vada oltre il raduno stesso, e che contribuisca alla costruzione di comunità e a una più ampia guarigione, così da favorire l’avvento di quel mondo ideale a cui tutti noi aspiriamo».

«La Conferenza Europea degli Ecovillaggi è un evento realmente co-creato – spiegano i promotori –  il nostro programma attinge dalla saggezza di tutte le reti di comunità associate e da tutti i movimenti collegati al GEN d’Europa e del mondo.  Coloro che parleranno e che terranno laboratori durante la conferenza offrono le loro capacità in dono, per la creazione di quel mondo ideale a cui tutti noi aspiriamo. Le tematiche che si intrecceranno nel programma di quest’anno rappresentano tre valori particolarmente cari alla Comune di Bagnaia Onlus: la pace, l’ecologia e la giustizia sociale. Il programma metterà in mostra progetti, soluzioni e conoscenze che possano ispirare un’azione concreta e un cambiamento duraturo in queste tre aree di applicazione, sia all’interno degli ecovillaggi che nel mondo esterno».

PACE

La Comune di Bagnaia Onlus ha una lunga tradizione di attività per la costruzione della pace. «Verranno messe in gioco le esperienze di coloro che hanno dedicato le loro vite a questa causa e insieme ideeremo delle strategie per creare una cultura globale di pace» spiegano i promotori.

ECOLOGIA

«La conferenza cercherà di onorare la Madre Terra e quel meraviglioso e misterioso universo che ci sostiene e provvede per noi attraverso rituali, celebrazioni, pratiche spirituali, insegnamenti e azioni concrete».

GIUSTIZIA SOCIALE

«Attraverso il nostro impegno per la solidarietà internazionale, cercheremo di porci interrogativi profondi sul nostro movimento e di diffondere trasformazioni sociali positive che abbiano la giustizia sociale come base».

QUI il sito dell’evento

Qui per le prenotazioni

Fonte: ilcambiamento.it

Studenti per il clima: cresce il movimento nel mondo. E si sciopera anche in Italia

È il caso di dirlo: Greta Thunberg ha fatto scuola! La sedicenne svedese che ha fatto parlare di se agli ultimi meeting per il clima ha mobilitato quello che si va configurando come un movimento a livello mondiale, che per il 15 marzo sta organizzando manifestazioni in 40 paesi. E anche in Italia, intanto, gli studenti scioperano per chiedere interventi radicali.

Centinaia di migliaia di studenti nel mondo hanno preso ispirazione da Greta Thunberg in queste ultime settimane e hanno iniziato a scioperare il venerdì con manifestazioni davanti a palazzi istituzionali e di governo per chiedere interventi radicali a difesa del clima. Il movimento si è dato il nome di Fridays For Future e conta ormai l’adesione di città e nazioni in Europa e non solo. Anche in Italia gruppi di studenti si sono mobilitati in svariate città, da Milano a Torino, da Pisa a Roma, da Genova a Napoli e il fermento è continuo. Si stanno preparando gruppi a Udine, Brescia, Taranto e molte altre città italiane. Inoltre, il movimento globale sta anche organizzando una manifestazione che si svolgerà contemporaneamente in una quarantina di Stati (tanti sono quelli dai quali finora sono arrivate le adesioni, tra cui l’Italia) venerdì 15 marzo prossimo. Ogni città e nazionale avrà completa autonomia, ma il comune denominatore sarà la protesta contro l’inerzia di governi e potenti sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici. Per aggiornare tutti gli interessati sulla mobilitazione globale che porterà alle proteste del 15 marzo è stato realizzato il sito www.schoolstrike4climate.com

La mobilitazione giovanile corre innanzitutto sui social. «Ogni città ha il suo gruppo WhatsApp per comunicare», racconta Ivan, ventenne studente universitario che ogni venerdì da dicembre manifesta a Milano: «Quando vogliamo vederci in faccia teniamo delle conferenze su Skype, anche con i gruppi stranieri. Altrimenti ci incontriamo il venerdì».

Sicuramente hanno preso esempio dai loro coetanei tedeschi, che già nelle scorse settimane avevano scioperato in 30 mila, ma anche da quelli svizzeri, belgi e francesi, che ugualmente si sono mobilitati per dire la loro sul futuro del pianeta. Negli altri Stati europei la protesta e la sensibilizzazione è probabilmente a uno stadio più avanzato, ma anche in Italia si stanno compiendo passi avanti benché non senza sforzo. David, quattordicenne al primo anno di liceo scientifico in provincia di Torino, spiega: «Sto programmando un’app usata dai gamer, Discord, in modo che tutte le nostre chat sparse tra WhatsApp, social e Skype, convergano su un’unica piattaforma», dice. «Sono sempre stato interessato all’ambiente, ma non sapevo che fare. Questo movimento mi piace perché è pacifico e non è legato a partiti».

Per informazioni sui gruppi locali e le loro attività, cercare gli hashtag: #fridaysforfutureitaly o italia e #fridaysforfuture+nome delle città #climatestrikeitaly o italia e #climatestrike+nome delle città.

Intanto, il meteorologo Luca Mercalli ha diffuso un video in cui sostiene la protesta degli studenti

Fonte: ilcambiamento.it

Smog, rumore e clima in Europa: impatto maggiore sui più poveri e vulnerabili. Italia ai primi posti

La relazione dell’Agenzia dell’Ue per l’ambiente (Eea )richiama l’attenzione sugli stretti legami esistenti tra i problemi sociali e quelli ambientali in tutta l’Europa. Il reddito, la situazione occupazionale o il livello di istruzione fattori decisivi

L’inquinamento e altri pericoli ambientali rappresentano un rischio per la salute di tutti, con tuttavia un impatto maggiore su alcune persone a causa della loro età o del loro stato di salute. Il reddito, la situazione occupazionale o il livello di istruzione incidono ulteriormente sulla capacità delle persone di evitare questi rischi o di farvi fronte. La relazione dell’Agenzia dell’Ue per l’ambiente (Eea) «Unequal exposure and unequal impacts: social vulnerability to air pollution, noise and extreme temperatures in Europeen» (Disparità di esposizione e di effetti: vulnerabilità sociale all’inquinamento atmosferico, al rumore e alle temperature estreme in Europa) richiama l’attenzione sugli stretti legami esistenti tra i problemi sociali e quelli ambientali in tutta l’Europa. Sebbene la politica e la legislazione dell’UE negli ultimi decenni abbiano condotto a miglioramenti significativi delle condizioni di vita, sia in termini economici che di qualità dell’ambiente, le disparità tra le varie aree persistono. La relazione sottolinea la necessità di un migliore allineamento delle politiche sociali e ambientali e di interventi più incisivi a livello locale per affrontare con successo le questioni di giustizia ambientale.

«La Commissione europea ha costantemente sottolineato che, per quanto riguarda le questioni ambientali, la nostra è un’Europa che protegge. Il modo migliore per mettere alla prova questo principio è studiare come tutelare i più vulnerabili, i deboli e gli indifesi. L’Agenzia europea dell’ambiente merita apprezzamento per questa relazione che esamina come i poveri, gli anziani e i giovanissimi siano le persone più a rischio a causa della scarsa qualità dell’aria, dell’eccessivo rumore e delle temperature estreme. Questa relazione supporta i nostri sforzi per garantire che la nostra sia un’Europa che protegge tutti», ha dichiarato Karmenu Vella, Commissario europeo per l’ambiente, gli affari marittimi e la pesca.

«Nonostante il successo altamente significativo delle politiche europee nel corso degli anni per migliorare la qualità della vita e proteggere l’ambiente, sappiamo che in tutta l’UE si può fare di più per garantire che tutti gli europei, indipendentemente dall’età, dal reddito o dall’istruzione, siano adeguatamente protetti dai rischi ambientali con cui ci confrontiamo», ha affermato Hans Bruyninckx, direttore esecutivo dell’AEA.

Exposure to PM2.5 mapped against GDP per capita, 2013-2014

Note: Exposure is expressed as population-weighted concentrations; mapped for NUTS 3 regions
Source: Based on ETC/ACM (2018a)

Risultati principali

Inquinamento atmosferico e acustico

L’area dell’Europa orientale (tra cui Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria) e dell’Europa meridionale (tra cui Spagna, Portogallo, Italia e Grecia), dove i redditi e l’istruzione sono inferiori e i tassi di disoccupazione superiori alla media europea, sono state maggiormente esposte agli inquinanti atmosferici, tra cui il particolato (PM) e l’ozono troposferico (O3).Le regioni più ricche, comprese le grandi città, tendono ad avere in media livelli più elevati di biossido di azoto (NO2), soprattutto a causa dell’elevata concentrazione del traffico stradale e delle attività economiche.
Tuttavia, all’interno di queste stesse aree, sono ancora le comunità più povere che tendono a essere esposte a livelli localmente più elevati di NO2.  L’esposizione al rumore è molto più localizzata rispetto all’esposizione all’inquinamento atmosferico e i livelli ambientali variano notevolmente sulle brevi distanze. L’analisi ha riscontrato che esiste un possibile nesso tra i livelli di rumore nelle città e redditi familiari più bassi: tale dato suggerisce che le città con una popolazione più povera hanno livelli di rumore più elevati.

Temperature estreme

Le aree dell’Europa meridionale e sudorientale sono maggiormente esposte alle alte temperature. Molte regioni di Bulgaria, Croazia, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna sono, inoltre, caratterizzate da redditi e istruzione più bassi, livelli più elevati di disoccupazione e una popolazione anziana più numerosa. Questi fattori socio-demografici possono ridurre la capacità delle persone di prendere misure per affrontare il caldo e di evitarlo, con conseguenti effetti negativi sulla salute. In alcune parti d’Europa un gran numero di persone non è in grado di mantenere la propria casa adeguatamente calda a causa della scarsa qualità degli alloggi e del costo dell’energia; di conseguenza, si continuano a registrare malattie e decessi associati all’esposizione alle basse temperature.

Che cosa si sta facendo per affrontare il problema?

L’Unione europea (UE) nel suo insieme ha compiuto progressi significativi negli ultimi decenni in termini di riduzione dell’inquinamento atmosferico e gli Stati membri hanno attuato varie politiche europee per migliorare l’adattamento al cambiamento climatico. La politica regionale dell’UE ha dimostrato di avere apportato un efficace contributo nell’affrontare le disuguaglianze sociali ed economiche. Diverse autorità regionali e comunali sono inoltre proattive nel ridurre l’impatto dei rischi ambientali sui membri più vulnerabili della società:

– una migliore pianificazione territoriale e una migliore gestione del traffico stradale, come, ad esempio, l’introduzione di zone a basse emissioni nei centri urbani, contribuiscono a ridurre l’esposizione all’inquinamento atmosferico e acustico nelle zone in cui vivono gruppi socialmente vulnerabili;

– anche il divieto di alcuni combustibili per il riscaldamento domestico, come il carbone, porta ad un miglioramento della qualità dell’aria nelle zone caratterizzate da un reddito basso. Tuttavia, deve essere associato a sovvenzioni per il passaggio a soluzioni di riscaldamento più pulite per le famiglie a basso reddito;

– tra gli esempi di iniziative volte a proteggere i bambini dal rumore degli aerei e della strada si possono citare le barriere antirumore e le strutture di protezione nelle aree gioco all’aperto;

molte autorità nazionali e locali hanno messo in atto piani d’azione al fine di migliorare la risposta alle emergenze in aiuto ad anziani e ad altri gruppi vulnerabili durante le ondate di calore o le punte di freddo intenso. Tali piani sono spesso integrati da iniziative comunitarie o del settore del volontariato;

– l’adattamento al cambiamento climatico aiuta a prepararsi ad affrontare ondate di calore sempre più frequenti ed estreme. In particolare, prevedere più spazi verdi contribuisce ad abbassare la temperatura nei centri urbani, apportando, al contempo, benefici per la salute e la qualità della vita dei residenti.

Fonte: ecodallecitta.it

L’Italia dei poveri che spende 101 miliardi in giochi d’azzardo

Nel 2017 gli italiani hanno speso 101 miliardi in gioco d’azzardo, ben 5 miliardi in più rispetto all’anno precedente. Cifra sconcertante, se si considera che nello stesso tempo i media ci dicono che la povertà dilaga…

C’è qualcosa che non torna nelle dichiarazioni cosiddette ufficiali, nelle teorie e tesi che vengono propinate in tutte le salse, che vivisezionano il termine povertà e lo dividono addirittura in povertà relativa e assoluta, che di per sé non significano assolutamente nulla e servono solo ad allargare il più possibile la forbice del popolo che si deve sentire povero. Ci si chiede allora: ma se gli italiani sono così poveri come fanno ad aver speso nel 2017 la cifra monstre di 101 miliardi di euro in giochi d’azzardo, pari a più di quattro finanziarie e a quanto si spende per sanità ed istruzione? E con tanto di aumento di ben 5 miliardi in più rispetto all’anno precedente. Facciamo un’analisi ulteriore per capire il fenomeno. In Italia ci sono 60 milioni di abitanti, ma a questo dato vanno tolti i bambini fino a 14 anni che sono oltre il 13% della popolazione e occorre calcolare pure chi non gioca mai.  Facendo un’ipotesi complessiva si può arrivare a una stima pari a 45 milioni (cifra per eccesso) di persone che giocano d’azzardo in Italia.  Se si dividono i 101 miliardi per 45 milioni di ipotetici giocatori si arriva a oltre 2.200 euro pro-capite spesi all’anno in giochi d’azzardo, circa 200 euro al mese. Si tratta praticamente di uno stipendio e mezzo medio mensile, una cifra incredibile. Tutti sanno che le vincite sono rarissime, quindi praticamente la totalità delle persone in questione sta coscientemente buttando soldi dalla finestra. Come è possibile dunque parlare di povertà, di gente alla fame quando il popolo italiano nella sua stragrande maggioranza sperpera i suoi soldi in maniera così assurda? E questo non è che uno dei mille esempi di soldi buttati.

Se si facesse una ricerca specifica, probabilmente risulterebbe che il corrispettivo di almeno due o tre mensilità in media viene sprecato in spese di cui si potrebbe tranquillamente fare a meno, vivendo benissimo lo stesso, anzi meglio. E visto che a questo punto ci sono sempre coloro che di fronte a opinioni del genere tirano fuori l’esempio di quelli che fanno la fila alla Caritas, chi può dire che le persone che sono veramente in condizione di indigenza (situazione assolutamente fisiologica in un sistema basato sulla competitività, sull’egoismo e sul darwinismo sociale) non siano anche persone che in passato hanno speso l’impossibile in giochi d’azzardo o sperperato in ogni modo i propri soldi?

Infatti, come per i medicinali e le sigarette, ci sono le avvertenze: il gioco può causare dipendenza. E già da questa avvertenza si capisce come stanno le cose. Il nostro è un sistema che prima ti vende morte e povertà e poi spende pure soldi per curarti e tentare di combattere quella stessa malattia e povertà che genera. Può esistere un sistema più schizofrenico e fallimentare di questo?

Provata ad andare in una tabaccheria, un’edicola, un bar o comunque in un luogo dove si vendono “gratta e vinci” (cioè… “gratta e perdi”) e ogni sorta di truffa legalizzata spacciata per giochino innocente. Bastano dieci minuti per rendersi conto di quanta gente compri questi tagliandi e a quali costi: vanno via pezzi da 5, 10, 20 euro come se nulla fosse. Ma quanta roba ci si mangia con 10 o 20 euro? Tanta.

Ci sono luoghi di vendita dei tagliandi che hanno istituito anche un piccolo palchetto di legno per rendere più comodo il grattamento. Chi compra questi tagliandi? Ricchi che scendono dalla Ferrari? Non proprio, sono persone di tutte le estrazioni sociali, dalla casalinga all’operaio, dall’impiegato alla cassiera, chiunque. Quindi anche della cosiddetta fascia bassa della popolazione. Inoltre negli stessi locali e bar dove si vendono i gratta e perdi, ci sono slot machine di tutti i gusti dove persone, che anche in questo caso non scendono da Ferrari o Maserati, giocano compulsivamente. Poi ci sono le scommesse che ti permettono di giocare in qualsiasi circostanza, su qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, tanto con il nostro super fantastico smart phone si può fare tutto alla velocità della luce e nemmeno ci si accorge che in un attimo sono volati via tanti soldi.  E infine c’è il mitico poker on line che fa sentire veri uomini di bisca e non si può certo non giocare visto che anche in questo caso on line è tutto più facile. uindi più che la povertà è dilagante il modo di buttare soldi e in un paese che piange continuamente miseria, dove chiunque si lamenta di essere sul lastrico e di non avere mai abbastanza entrate, si sprecano montagne di soldi in giochi assurdi che hanno come corollario il gettare davvero sul lastrico le persone. La vera piaga sociale e furto ai danni degli italiani sono fenomeni del genere, non certo dei disperati che scappano da paesi ridotti in condizioni disumane. Quindi per favore politici, esperti, sociologi, professoroni universitari, opinionisti del nulla assortiti, smettetela di raccontare frottole, in Italia ci sono sicuramente sacche di indigenza e miseria frutto di un sistema che le necessita e poi c’è la stragrandissima maggioranza di persone che sprecano soldi vergognosamente in ogni modo . Si dica questo piuttosto che gridare ogni giorno alla povertà solo per far correre ancora più veloce tutti nella ruota del criceto. Però difficilmente si sentiranno simili dichiarazioni, mica si può dire agli italiani che loro sono parte del problema, se glielo dici poi chi ti elegge? La colpa è sempre e comunque di qualcun’altro o di qualcos’altro, importante è trovare il colpevole che calza meglio con le proprie strategie politiche. Qualora per incanto si volesse fare una politica seria a favore degli italiani, si proibiscano tutti i giochi d’azzardo e gli italiani si ritroveranno in tasca 101 miliardi di euro per farci tantissime cose edificanti e di sicuro sarà un bel colpo alla presunta povertà, miseria o indigenza che sia. Ma non succederà perché lo Stato è il primo a guadagnarci nel fare buttare i soldi alle persone. Allora la si smetta con la retorica di dare soldi a chi li spreca, ricchi o presunti poveri che siano e si affianchi al reddito di cittadinanza, il reddito di intelligenza e cioè quantomeno si insegni dalla a alla zeta come non sprecare i propri soldi in tutti i campi del quotidiano. Agendo in questo modo si scoprirà che non servono tanti soldi per vivere e di conseguenza non serve lavorare così tanto per trovare soldi che poi andranno sprecati. Ma sarà arduo farlo capire a chi si dichiara disoccupato ma fa due lavori, come ribadisce giustamente il comico molto più serio di tanti politici, Natalino Balasso. D’altronde siamo italiani, i più furbi del mondo e la regola aurea è sempre la stessa: lamentarsi e approfittare, che a Napoli in maniera colorita ed efficace si traduce nel “chiagnere e fottere”.

Possiamo concludere con una risata, seppur amara…

fonte: ilcambiamento.it