Nel basso Piemonte, in provincia di Cuneo, è
stata avviata la parte conclusiva di un progetto a sostegno di chi vive in zone
decentrate a rischio di spopolamento. “La Matota” è un servizio di porta a
porta destinato all’assistenza a domicilio e promosso dall’Unione montana di
Ceva all’interno di 7 Comuni ormai desertificati dove gli esercizi commerciali,
la posta e altri servizi stanno progressivamente scomparendo.
«Gli abitanti di
questi comuni devono percorrere fino a 20 km per trovare una farmacia, un
negozio o la posta» ci spiega Alessandro Nan, un dipendente pubblico dell’Unione Montana delle Valli Mongia e Cevetta Langa Cebana Alta Valle Bormida.
«Per questo motivo, la mattina, dalle 8.00 alle 10.00, una signora assunta
apposta per questo progetto riceverà per telefono le prenotazioni dei servizi
postali, farmaceutici, il ritiro dei referti ospedalieri e l’acquisti di
alimenti, con l’obiettivo di aiutare chi non può utilizzare la macchina. Non si
tratta esclusivamente di anziani ma anche di famiglie, in alcuni casi
temporaneamente impossibilitate a spostarsi. Il servizio che offriamo vuole
essere aperto a tutti».
Nel dialetto del
luogo la Matota è la giovinetta di famiglia, la bambina che nella
tradizione aiutava a fare le commissioni spostandosi per il paese. Il progetto
è stato finanziato dallo Stato, tramite la Regione Piemonte che ha fatto da
filtro, per alleggerire il disagio di chi abita in questi luoghi.
Un’altra parte del
progetto prevede la messa a disposizione di un furgone che nei giorni del
mercato passa per i paesi a prendere le persone per poi riaccompagnarle a casa
In questo modo non solo si facilitano materialmente gli spostamenti ma si offre
un’opportunità per migliorare il senso di comunità contrastando l’isolamento a
cui potrebbero andare incontro questi abitanti.
«Per ripopolare il
territorio e creare un’economia basata sulle produzioni locali e sul
turismo sono stati aperti anche due esercizi di vicinato, cioè due punti
vendita di prodotti locali caratteristici. Sono prodotti che fanno fatica ad avere spazio sul
mercato nonché eccellenze del territorio che nella maggior parte dei casi si
conoscono solo per mezzo del passa parola. Ma ora abbiamo messo a disposizione,
qui a Castelnuovo di Ceva, nel Centro Servizi, un locale chiamato “Radici
del Territorio” e uno a Rocca Ciriè, dove poterli conoscere e avere
informazioni su come acquistarli».
Ci racconta
Alessandro che l’area dell’Unione Montana è un ente pubblico che serve 18
comuni e promuove attività sul territorio per valorizzarlo e proteggerlo.
«Noi ci occupiamo
anche della manutenzione delle risorse paesaggistiche. Cerchiamo di far
ripartire le economie perché gli abitanti sono una risorsa, sono le sentinelle
del territorio. Se il territorio si spopolasse si andrebbe in contro a
consistenti problemi idrogeologici poiché solo chi vi abita può concorrere a
gestire, come nel caso di strade e ruscelli.
Fortunatamente e sempre più spesso capita che qui arrivino giovani che, avendo
scelto di cambiare vita, sono emigrati dalle città per diventare agricoltori e
allevatori». Così stanno anche rinascendo lavori abbandonati trenta o
quaranta anni fa e nuove produzioni attente a mantenere vive le tradizioni.
A Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, in un
terreno confiscato alla mafia ha sede una realtà che offre un’occasione di
riscatto e inserimento lavorativo a persone in condizione di forte svantaggio
sociale. Barbara, in viaggio da qualche settimana, è andata a trovarli e ha
intervistato il presidente della cooperativa Al di Là dei Sogni che ha dato
vita alla fattoria agricola-sociale denominata Fattoria dei sogni. Si dice che si gira e si rigira per ritrovarsi sempre
nel giusto posto. In maniera inconsapevole, la mia strada per la cooperativa
sociale Al di Là dei Sogniè cominciata
quattro anni fa quando, dopo l’esperienza con un progetto di sartoria sociale
della ong Amani a Nairobi ero entrata in contatto con Made in Castelvolturno,
un’altra realtà in cui il cucito diventa strumento di emancipazione femminile. Quest’inverno,
una delle attiviste mi scrisse invitandomi ad andarle a visitare e io, che
avevo nel frattempo organizzato il mio viaggio, la chiamai. Da quella telefonata partì un
passaparola che mi portò a Simmaco Perillo, presidente di Al di Là dei Sogni,
il quale mi accolse come una amica cui si vuole bene. La prima sera ho
assistito alla sua presentazione del progetto ad un gruppo di giovani scout. E
ho compreso subito quanto il lungo percorso per arrivare qui mi abbia portata,
ancora una volta, nel posto giusto al momento giusto.
Com’è nata e di
cosa si occupa Al di là dei sogni?
Al di là dei Sogni
nasce nel 2004 come cooperativa A e B, cioè sia di servizi alla persona sia di
servizi finalizzati all’inserimento lavorativo di uomini e donne in condizione
di forte svantaggio sociale, individui che provengono dal mondo delle
dipendenze, della salute mentale, degli OPG (ospedale psichiatrico giudiziario)
e dell’area riabilitazione. Il progetto, dal 2008, ha sede e gestisce il
terreno confiscato alla mafia “Alberto Varone” nel comune di Sessa Aurunca, in
provincia di Caserta. Al di là dei sogni é una quotidiana forma di scommessa e
resistenza finalizzata al riscatto personale di soggetti “fragili” e ad una
società libera dalla criminalità organizzata e dalla violenza.
Perché un terreno
confiscato?
All’inizio eravamo
un gruppo di operatori consapevoli di voler avviare un progetto che rendesse le
persone coinvolte il più possibile autonome e libere da forme di
assistenzialismo; ci eravamo resi conto che alcuni tipi di interventi educativi
avevano dei limiti strutturali ed avevamo deciso di ritornare alla terra per
coltivare il sogno di percorsi di integrazione produttivi e realmente
individualizzati. Questa terra è stata confiscata nel 1994 e ci è stata
affidata nel 2005. Non è stato semplice per l’assemblea dei soci decidere di
parteciparvi. Come mai? Per la paura. La paura di ritorsioni, per le
prevedibili difficoltà ed i rischi. Paura del tutto fondata visto che dopo
l’assegnazione del terreno, la vincita di un bando europeo e con esso la
costruzione dell’edificio principale e la riqualifica di 17 ettari abbandonati
da un decennio, tutto il bene, in una notte, è stato vandalizzato. Inoltre le
difficoltà burocratiche dovute ad infiltrazioni mafiose nelle istituzioni
locali hanno rallentato molto e messo in difficoltà la realizzazione del nostro
progetto di vita, di lavoro e soprattutto quello dei ragazzi coinvolti. Sono
serviti anni per arrivare ad essere in possesso dello spazio e delle necessarie
autorizzazioni per poter svolgere semplicemente il nostro mestiere.
Ora sono otto anni
che la Fattoria dei Sogni, giorno dopo giorno, vive e cresce.
Viste le
difficoltà, cosa ti ha spinto a restare e non lasciar perdere tutto?
La felicità. Penso
che alla base vi sia una scelta “egoistica”: tutto questo mi rende felice,
d’altro canto, per cos’altro si vive? Negli anni ’90 io avevo svolto il mio
servizio civile presso una struttura per tossicodipendenti a Marradi, al
confine tra Toscana ed Emilia Romagna e alla fine dell’esperienza mi avevano
proposto di restare, ma io sapevo in che condizioni verteva la mia terra natia
e ho sentito, forte e chiaro, il richiamo e la volontà di rientrarci per
mettere a servizio le competenze acquisite.
Qual è lo scopo del
vostro lavoro?
ùIl benessere psicofisico delle persone, la loro
realizzazione, il raggiungimento massimo della loro autonomia sulla base delle
potenzialità e difficoltà personali. La nostra metodologia educativa e gli
accordi con i servizi invianti prevedono sei anni per realizzare con la persona
un progetto di vita sostenibile e renderla il più possibile autonoma. Uomini e
donne che hanno alle spalle talvolta decenni di OPG, portatori di disagio
psichico e mentale che, attraverso la cura, il lavoro, la presenza educativa
diventano lavoratori e soci della cooperativa.
Mi racconti una
storia? Un nome, un volto spesso rende tutto più semplice da capire
E allora ti parlo
di A. che è arrivato qui nel 2009 dopo decenni in strutture riabilitative.
Nasce in una famiglia contadina e come tutti i figli fragili nati in un
contesto amorevole, viene protetto dai suoi genitori che lo tengono vicino a
insegnandogli l’arte della produzione casearia. Tutto procede in questo modo
semplice ma sicuro per il ragazzo fintanto che non mancano i genitori anziani e
lui si ritrova istituzionalizzato. Un letto. Un numero. A. non parla. É il
numero 13 e niente di più di due pasti al giorno e l’isolamento totale dagli
affetti e dal resto della società. Le condizioni peggiorano quando viene
definito ‘socialmente pericoloso’ a causa di atti di autolesionismo: ha sempre
più spesso delle crisi durante le quali l’uomo si morde le braccia fino a
strapparsi la pelle. É l’unico modo che ha per farsi notare ed essere visto
come Essere umano, anche se solo per pochi minuti, anche se, le conseguenze
erano di nuovo forti sedativi e cinghie che lo legavano al letto. Per mesi,
anni, decenni. Le prime sere che A. ha trascorso in cooperativa, dopo cena, si
allontanava e andava, da solo, nei campi. Perché? “Perché un uomo di campagna,
prima di dormire, verifica che tutto vada bene”. Come lo abbiamo capito?
Guardandolo. Pur non avendo mai appreso il linguaggio dei gesti, lui tuttora si
esprime e si fa capire, da chi lo vede. (Con me ha fatto lo stesso, appena
arrivata, ero in cucina e guardandomi mi ha chiesto “Tu chi sei?”, nda)
Che servizi offrite
alla cittadinanza?
Abbiamo un’azienda
agricola biologica ed un laboratorio di trasformazione, una fattoria didattica,
un servizio di giardinaggio e uno di pulizie ed un catering. Abbiamo poi un
servizio di animazione e organizziamo eventi nel bellissimo spazio che
gestiamo, dove ospitiamo soggiorni, gite scolastiche e corsi sul tema della
legalità.
Come ha reagito e
come reagisce la comunità locale al vostro lavoro?
Non tutti ci amano.
Oltre alla criminalità organizzata, che resta presente seppur molto indebolita
negli ultimi dieci/quindici anni, c’è una parte della società che fatica a
schierarsi esplicitamente dalla parte della legalità, per via di piccoli e
grandi legami e dunque vantaggi economici dovuti alla presenza della camorra.
D’altra parte, invece, abbiamo un altissimo numero di volontari che riempiono i
nostri campi e le nostre estati, molti attivisti, scuole e realtà locali ed
italiane coinvolte che supportano il nostro progetto.
E se qualcuno
volesse venirvi a conoscere di persona?
Come con te,
Barbara, noi siamo molto disponibili ed ospitali. Spesso transitano
viaggiatori, sostenitori e persone di passaggio che quando vengono qui si
innamorano e poi ritornano. Vi sono poi i campi di lavoro organizzati in estate
da Libera e la possibilità di fare turismo sostenibile: stiamo costruendo infatti
l’ostello che affiancherà l’area campeggio già avviata. Al di là dei sogni
prosegue il suo cammino ed io, pur lasciando qui un pezzetto di cuore, domani
mi rimetto in viaggio verso altri progetti del consorzio NCO. Metto nel mio zaino la sensazione che ciò che
realmente differenzia una realtà del genere é la forza di volontà dei suoi
membri e riparto con una domanda: alla luce di ciò che ho ascoltato e visto,
cosa è realmente possibile nella mia e nella nostra vita? La sensazione è che,
oggi, la risposta sia ben più ampia di qualche giorno fa.
L’eroe di questa storia è Marco Guerrini, sindaco
di Carrega Ligure, borgo montano del comune di Alessandria che, grazie alla
tenacia e all’amore per il suo territorio, ha dato vita ad un’azione
partecipata con gli abitanti del borgo e con l’intera valle per far divenire il
Parco Naturale Alta Val Borbera area protetta, con l’obiettivo di evitare il
progressivo spopolamento ed abbandono di questi luoghi. Si tratta della
vittoria di un’intera valle che ha scommesso sulla bellezza e potenzialità del
proprio territorio e di un senso di appartenenza capace di generare il
cambiamento.
Carrega Ligure è un comune montano di confine, localizzato nell’estremità sudorientale
del Piemonte, in provincia di Alessandria. Il Comune si trova nell’Alta Val
Borbera, in un’area caratterizzata da meraviglie naturali ed un ambiente
tanto selvaggio quanto suggestivo: paesaggi incontaminati, panorami mozzafiato,
pendii erbosi e boschi di faggio secolari. Un luogo magico e affascinante che
accoglie da sempre gli amanti della natura, donando ai loro polmoni aria
salubre e pulita e rendendo smog e inquinamento concetti distanti. Si tratta di
un paesaggio tipico degli appennini, territorio che i piemontesi poco conoscono
ma che racchiude in sé la ricchezza delle quattro regioni che si incontrano
proprio in sua corrispondenza: Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte.
Un luogo da favola,
si direbbe, eppure come in tutte le favole, per giungere al lieto fine, è
necessario superare una sfida: il problema principale che il borgo di Carrega
Ligure si trova da anni a fronteggiare è il crescente rischio di abbandono
dovuto ad un progressivo spopolamento da parte degli abitanti, dapprima
verso l’estero e successivamente verso i maggiori centri urbani ed industriali.
E’uno spopolamento in percentuale tra i più consistenti del territorio
piemontese, di cui si vedono gli effetti concreti in ciò che rimane nelle
frazioni del Comune, ormai quasi completamente abbandonate e disabitate, che
lasciano troppo spazio ad una popolazione che nell’intero paese non arriva a
sfiorare i 100 abitanti. Si tratta di una storia di abbandono, come le numerose
che ormai caratterizzano i centri montani, in particolare quelli appenninici e
responsabile di indebolire severamente le attività economiche del luogo quali
agricoltura, allevamento e turismo, che in questi contesti hanno da sempre
trovato la loro vocazione, compromettendo l’esistenza e la valorizzazione di un
luogo ricco di storia e tradizione.
E’ di Marco
Guerrini, sindaco di Carrega Ligure, l’iniziativa di rilanciare il borgo di
montagna salvaguardandolo dall’ inevitabile spopolamento, con una richiesta
forte e chiara: far istituire un parco naturale sul territorio dove il comune è
collocato, per rilanciarlo in chiave turistica e salvarlo da un abbandono
inevitabile. Ebbene si, si tratta proprio di un comune di montagna a chiedere
l’istituzione di un parco naturale che sarà area protetta, rafforzato
dalla significativa presenza di siti di interesse comunitario della Rete Natura 2000 e che sarà, allo stesso modo, una prospettiva di un futuro possibile per
le valli e di attrazione e sviluppo territoriale. Una possibilità unica nel suo
genere per rimettere in luce un’area che ha ancora tanto da offrire, puntando
proprio su due tratti caratterizzanti quali ambiente e biodiversità. Per
raggiungere lo scopo, il primo passo è stato quello di convincere il Consiglio
Comunale a votare unanimamente per la richiesta di istituzione del parco, che
ha trovato un ampio consenso, spinta dall’amore verso il proprio territorio.
Il passo successivo è stata la richiesta di un vero e proprio sostegno da parte
dei cittadini: coinvolgere attivamente gli abitanti della Val Borbera
col fine di far sentire la propria voce fino in Regione, proponendo di
approvare al più presto l’istituzione del nuovo Parco naturale come area
protetta.
Un parco, un vero e
proprio bene comune, la cui iniziativa è stata accolta e condivisa con entusiasmo
e passione dagli abitanti, che non hanno fatto attendere una loro risposta:
nel 2017 un migliaio di persone hanno sollecitato la Regione inviando mail e
messaggi in sostegno della richiesta del Sindaco. Si tratta di residenti del
luogo, visitatori, amanti della natura che in questi paesaggi ritrovano ricordi
e valori passati. Un coro di voci che, all’unisono rappresenta una ventata di
speranza per un progetto condiviso che parte proprio dal basso e che ci parla
di un legame indissolubile tra l’uomo e la terra. Proprio in questi
giorni, dopo lunghi anni di attesa, il Consiglio regionale ha approvato la
nuova legge che istituisce 10mila ettari di nuove aree protette, oltre a quelle
già esistenti, per un totale di 200mila ettari, includendo anche il Parco
regionale dell’Alta Val Borbera, che sarà affidato all’Ente di gestione
delle Aree protette dell’Appennino piemontese.
Nel complesso sono
ben tre i provvedimenti che hanno ricadute dirette per l’Alessandrino: oltre
all’istituzione del Parco naturale e dell’area contigua dell’Alta Val Borbera
presso il Comune di Carrega Ligure, si aggiungono l’ampliamento della Riserva
naturale di Castelnuovo Scrivia e l’istituzione delParco del Po piemontese, che vede l’unione delle aree protette del Po
alessandrino e del parco del Po vercellese. Una vittoria del territorio, una
buona notizia che genera positività in un momento in cui il dibattito per il
clima e l’ambiente è acceso più che mai. Ma si tratta soprattutto della vittoria
di un’intera valle che ha creduto nella bellezza e potenzialità dei propri
borghi e di un senso di appartenenza capace di scommettere su futuro per
generare il cambiamento.
Nel quartiere Mirafiori Sud di Torino è
recentemente nato un luogo molto speciale. Si chiama Biblioteca Condivisa ed è
uno spazio pensato per raccogliere i libri abbandonati ed inutilizzati di
coloro che vogliono disfarsene, per metterli a disposizione degli abitanti del
quartiere. Un progetto sociale ed inclusivo realizzato proprio in periferia,
che dà la possibilità a tutte le persone di condividere un libro, una lettura,
un momento di compagnia. Un buon libro e una
tazza di the sono un rimedio essenziale per fare una pausa dalla routine di
tutti i giorni, una vera e propria medicina per l’anima. Ma se ci troviamo in
un bar e teniamo tra le mani un libro che è stato donato da qualcun altro, ciò
acquisisce un significato ancora più grande. A Mirafiori Sud è nata
recentemente la “Biblioteca Condivisa”, un luogo accogliente e aperto a tutti, un bar in
cui fermarsi, sorseggiare una bevanda e stare in compagnia di un buon libro che
qualcuno, a noi sconosciuto, ha gentilmente messo a disposizione. Lo spazio è
pensato con lo scopo di rendere la lettura accessibile a tutti e si basa su un
principio fondamentale: la condivisione dei libri.
La biblioteca nasce
e cresce grazie alla partecipazione di tutti i cittadini che decidono
volontariamente di donare i libri cartacei che non utilizzano più, i
manuali abbandonati negli scaffali e nelle cantine della propria abitazione,
così come i volumi non più utilizzati a cui si vuole dare una seconda
possibilità mettendoli a disposizione di altre persone.
L’iniziativa dà vita ad una vera e propria Biblioteca Condivisa di Quartiere,
uno spazio che vuole creare coesione, scambio, collaborazione. L’idea ha un
valore sociale molto forte poiché scommette sull’inclusione attiva della
comunità che vive nella periferia, ponendosi come filo conduttore capace di far
conoscere, dialogare ed avvicinare le persone.
“Potrete venire in
qualunque momento e leggere un libro sul posto – affermano gli organizzatori –
oppure potrete prendere liberamente un libro, portarvelo a casa, leggerlo con
calma e riportarlo quando lo avrete finito. Senza tessera, senza registrazione,
nella massima libertà e nella inevitabile fiducia che ci deve essere tra
persone che condividono la passione per la cultura”.
Il progetto è stato
realizzato all’interno di un bar con l’obiettivo di gestire contemporaneamente
la biblioteca e la caffetteria. Nell’immaginario comune il bar rappresenta un
luogo di sosta, di ristoro ed è in questo caso pensato per permettere alle
persone di sedersi, conoscersi e condividere con amici o sconosciuti la lettura
di un buon libro.
Caratteristica molto apprezzata è il fatto che lo spazio accoglie chiunque,
senza obbligo di consumazione. L’obiettivo primario rimane infatti quello di
valorizzare la funzione aggregativa e culturale. In virtù della sua vocazione sociale, “la
Biblioteca Condivisa organizzerà presto una lunga serie di incontri,
appuntamenti a tema, presentazioni di libri, momenti per condividere passioni.
Sempre con al centro i libri e le persone”. Le attività sono pensate per
tutte le fasce di età e ne sono esempio gli incontri di letture di quartiere
che regolarmente coinvolgono i residenti, le attività coi più piccoli e gli
incontri con gli scrittori.
La Biblioteca
Condivisa di Mirafiori Sud è uno di quei luoghi in continua crescita e
trasformazione che si rinnova ogni giorno grazie al quotidiano scambio di libri
ed al contribuito di chi vive nel quartiere e che crede fortemente nella
bellezza della lettura.
Vestiti e accessori per bambini, mobili, elettrodomestici. Sono questi alcuni dei beni di prima necessità che vengono donati a famiglie e persone svantaggiate tramite il portale online Celocelo che mette in contatto chi opera nel sociale con chi ha qualcosa da regalare.
Presentato poco più di un anno fa, il progetto coinvolge oggi un grande numero di organizzazioni di Torino. Per saperne di più ne abbiamo parlato con Roberto Arnaudo, direttore dell’Associazione Agenzia per lo sviluppo locale di San Salvario onlus
Com’è nato questo progetto?
L’iniziativa è nata da un’idea dell’Associazione Agenzia per lo sviluppo locale di San Salvario onlus, nell’ambito dell’attività della Casa del Quartiere di San Salvario. Nasce dall’idea di dare una risposta concreta a bisogni materiali primari, a cui le istituzioni faticano nel dare risposta. Inizialmente il progetto ha coinvolto un gruppo di organizzazioni che si occupano di persone in difficoltà socio-economica a San Salvario. Successivamente ha coinvolto un grande numero di organizzazioni del privato sociale di tutta la città: cooperative sociali, associazioni di volontariato, servizi sociali, etc.
Nella fase di start up del servizio l’Agenzia per lo sviluppo locale di San Salvario onlus ha beneficiato di un contributo del bando “Fatto per Bene” della Compagnia di San Paolo, successivamente di un contributo economico del Comitato Territoriale di Torino di IREN. Il progetto ha avuto risultati conformi alle attese, permettendo di sollecitare e facilitare le donazioni di beni di prima necessità, in particolare oggetti per la casa (elettrodomestici, mobili) e per bambini (vestiti, carrozzine, etc.) a favore di persone in difficoltà.
Che prodotti/servizi vengono donati?
Il progetto prevede la realizzazione e sperimentazione di un sistema di reperimento e distribuzione di beni di prossimità di varia natura (prevalentemente oggetti per la casa e per bambini), basato su una rete locale di enti no profit e servizi di prossimità e su una piattaforma informatica che renda possibile l’incrocio della domanda/offerta di beni e servizi di prima necessità, riducendo al minimo l’impegno e i costi di natura logistica, in particolare per quanto concerne lo stoccaggio, l’immagazzinamento e la distribuzione centralizzata. I beneficiari diretti delle donazioni sono persone e famiglie svantaggiate, sia in condizione di marginalità cronica, sia in condizione di povertà grigia derivante da eventi traumatici anche recenti, come la perdita di lavoro, la separazione, la malattia.
Sulla piattaforma Celocelo i cittadini possono donare beni materiali o tempo e competenze. Gli operatori accreditati ad accedere alla piattaforma fanno parte di una rete di organizzazioni che operano a contatto con persone e famiglie in difficoltà. Si tratta sia di organizzazioni che gestiscono servizi e progetti in ambito socio assistenziale, sia organizzazioni che, pur non avendo una mission esplicitamente sociale, entrano spesso in contatto con persone e famiglie in difficoltà. Sono accreditati all’uso della piattaforma anche operatori dei servizi sociali pubblici.
Qual è la zona di riferimento?
Celocelo riguarda tutto il territorio del comune di Torino. Aspetto importante, inizialmente non considerato, è stata la trasferibilità del progetto in altri contesti: recentemente infatti la piattaforma digitale è stata “sdoppiata” per permetterne l’utilizzo nell’area della Val Susa, da parte del locale Consorzio socio assistenziale. Ci auguriamo che in futuro la piattaforma possa essere adottata anche in altri luoghi.
Esistono progetti simili in Italia?
Per quanto ne sappiamo noi no. Esistono progetti simili che promuovono forme di scambio o di generica donazione, ma non di donazione esplicitamente rivolta al sostegno di persone in difficoltà economica.
Quali i prossimi obiettivi?
Ci piacerebbe che Celocelo si integrasse con le politiche sociali delle amministrazioni, come strumento utile a dare risposte concrete a bisogni per i quali le amministrazioni a disposizione pochissime risorse. A regime Celocelo presenta notevoli vantaggi in termini di rapporto tra costi e benefici. Però per esprimere al pieno le sue potenzialità ha bisogno di supporto in termini di comunicazione, di relazioni di cooperazione con partner anche pubblici, di mezzi per organizzare aspetti pratici fondamentali, come il trasporto dei beni. Oltre al mantenimento/sviluppo del servizio che Celocelo offre, stiamo cercando di estenderne il funzionamento anche all’ambito del cibo, rendendolo strumento di raccolta e redistribuzione di beni alimentari in eccedenza.
Di chi è la colpa se le cose non vanno in questo mondo e ci troviamo ad affrontare problemi enormi come i cambiamenti climatici, le disuguaglianze sociali ed economiche, le malattie, l’inquinamento? La colpa è dei banchieri? Dei politici? Del vicino che fa fare i bisogni del cane sul marciapiede? È colpa nostra? È colpa della “gente” che – come noi – permette al sistema di comandarla a suo piacimento? Ma soprattutto, è utile cercare un colpevole?
C’è un racconto molto interessante che è stato tramandato oralmente per generazioni all’interno della tribù degli Xoulhata dell’America Centrale. Recita all’incirca così:
Un giorno un uomo scoprì che il suo vicino di casa gli aveva rubato la pecora e l’aveva arrostita. L’uomo si arrabbiò molto, andò a casa del vicino con l’intenzione di fargliela pagare. Ma il vicino, che di mestiere faceva il pescatore, gli disse: “Ho rubato la tua pecora per nutrire i miei figli perché non ho più niente. La colpa non è mia ma del mio vicino che ha rubato l’acqua del lago, facendo morire i pesci”. Allora l’uomo andò a casa del vicino del vicino con l’intenzione di fargliela pagare, ma questo, che di mestiere faceva l’agricoltore, gli disse: “la colpa non è mia ma del Dio della pioggia, che non ha fatto piovere e quindi io ho dovuto prendere l’acqua dal lago per innaffiare i miei campi”.
Allora l’uomo andò da Dio della pioggia con l’intenzione di fargliela pagare ma il Dio disse: “la colpa non è mia ma di tuo figlio che mi ha pregato a lungo perché non facessi piovere” Allora l’uomo andò da suo figlio con l’intenzione di fargliela pagare, ma il figlio disse: “la colpa non è mia ma tua, che non mi fai uscire quando piove. E visto che io voglio giocare fuori prego perché non piova”. Allora l’uomo non seppe più cosa fare.
Ora i lettori più attenti si saranno accorti da alcuni dettagli che il racconto non può essere attribuito veramente alla tribù degli Xoulhata, in primo luogo perché la tribù degli Xoulhata non aveva problemi a far uscire i bambini di casa quando pioveva e in secondo luogo perché essa non aveva una tradizione narrativa orale vera e propria visto che non è mai esistita. Me la sono appena inventata, così come il racconto in questione, perché attribuirlo a una tribù di nativi americani faceva decisamente più effetto. Comunque non è questo il punto. Il punto è: di chi era, secondo voi la colpa nel racconto? Del vicino? Del vicino del vicino? Del Dio della pioggia? Del figlio? Dell’uomo stesso?
Ci ostiniamo in ogni situazione a voler individuare un colpevole a cui addossare tutta la resposabilità di qualcosa. Ma ha senso? E se non lo ha, perché continuiamo a farlo? Come l’uomo del racconto, siamo spesso ossessionati dalla ricerca del colpevole. È un gioco che ci appassiona molto: qualsiasi cosa succeda di sbagliato la prima cosa che ci chiediamo è: di chi è la colpa?
Di chi è la colpa se le cose non vanno in questo mondo e ci troviamo ad affrontare problemi enormi come i cambiamenti climatici, le disuguaglianze sociali ed economiche, le malattie, l’inquinamento?
La colpa è dei banchieri? Dei politici corrotti? Del vicino che fa fare i bisogni del cane sul marciapiede? E allora vai con le crociate purificatrici, con la caccia alle streghe.
È colpa nostra? È colpa della “gente” che – come noi – permette al sistema di comandarla a suo piacimento? Perché non alziamo tutti la testa assieme e non ci ribelliamo uniti? Siamo tutti pecore! E allora vai con la autofustigazioni e le reprimenda.
Insomma, in qualsiasi modo la si metta non quadra. Il punto è che cercare e punire il colpevole di turno non serve a modificare di una virgola il sistema, perché una volta che lo avessimo punito e tolto di mezzo ci accorgeremmo che il sistema ne ha già prodotto un altro uguale al precedente, e che quel colpevole era nient’altro che il risultato inevitabile del sistema stesso. Allora la colpa è del sistema? Bah, che io sappia i sistemi non sono particolarmente interessati alle colpe o ai meriti, si limitano semplicemente a funzionare in determinati modi. Peraltro dare la colpa “al sistema” spesso sottintende implicitamente l’identificare il sistema con un gruppetto di persone ultrapotenti che sedute intorno a un tavolo in qualche stanza segreta decidono le sorti del mondo schiacciando qualche tasto. Che poi magari quel tavolo esiste anche, non lo metto in dubbio, ma pensare che sia “colpa loro”, che siano loro il problema, ci fa mancare di nuovo il bersaglio. Se anche eliminassero le persone potenti in questione, essere sarebbero rimpiazzate in un batter d’occhio da altre, sedute ad un altro tavolo ma con le stesse identiche caratteristiche. Perché? Perché il sistema che ha prodotto quel tavolo è rimasto immutato. Ma quindi non si può fare niente? Fortunatamente non è così. Una volta appurato che il gioco del “Di chi è la colpa?” non porta a niente e fa parte dei meccanismi di questo sistema possiamo aprirci ad altri giochi. Ci sono tanti altri giochi interessanti a cui giocare, che vanno – questi sì – a cambiare il funzionamento del sistema. Giochi basati sulla collaborazione, che ci aiutano a riconoscere i meccanismi a cui tutti inconsapevolmente prendiamo parte e a non giudicare gli altri e noi stessi. Parlo di “giochi” come la sociocrazia, la facilitazione, la comunicazione non violenta, che cambiano il nostro modo di rapportarci con gli altri e con noi stessi. Io non sarei in grado di spiegarveli in maniera esaustiva, ma in Italia esistono persone preparatissime che tengono corsi e incontri formativi, che possono spiegarci come introdurre questi piccoli tasselli di cambiamento nelle nostre vite e nel rapporto con gli altri. Quindi se questo articolo vi è sembrato interessante o vi ha incuriosito, magari andateveli a cercare e ad approfondire.
Se invece lo avete trovato inutile, noioso o poco interessante che dire… mi dispiace, colpa mia!