Exe.it: il primo Data Center in Italia a emissioni zero

Lo sapevate che i data center, se prendiamo in considerazione l’Europa, il Nord America e l’Oceania, sono la prima causa delle emissioni di anidride carbonica? Exe.it è una società che opera nel bolognese dal 1988 nel settore dell’informatica, fornendo servizi ad ampio spettro e di specializzazione. Con il suo Green data center è diventata la prima società in Italia a fornirsi di un data center completamente a emissioni zero, strutturato per l’efficienza energetica.

Dopo aver incontrato Gianni Capra, amministratore della società Exe.it Srl Sb, mi capita spesso di domandare a persone molto informate sul tema dei cambiamenti climatici se conoscono una delle cause di questo problema. In molti mi rispondono: “gli allevamenti intensivi, la produzione e il consumo di carne in generale”. A quel punto rispondo: “ma sai che un quarto d’ora di video su You Tube consuma in termini di emissioni quanto tre giorni di un frigorifero casalingo?” e vedo gli occhi dei miei interlocutori sgranarsi, come a pensare che io sia un tantino pazzo. Non hanno tutti i torti, lo devo ammettere, ma in tanti non sappiamo una cosa davvero importante: esistono documenti ufficiali che certificano come prendendo in considerazione l’Europa, il Nord America e l’Oceania, i data center costituiscono i massimi emettitori di CO2. Se si considera il mondo nel suo complesso sono gli allevamenti intensivi ad essere i maggiori emettitori. Conosciamo tutto di Steve Jobs ma poco di personaggi come Gianni Capra, uno di coloro che hanno trovato una soluzione al problema senza farci sudare freddo mentre guardiamo il video della band che amiamo.

Scopriamo la storia di Exe.it e del suo Green data center.

Che cos’è Exe.it?

Exe.it Srl Sb (vi spieghiamo dopo cosa significa quella sigla finale) nasce nel 1988 come azienda di informatica dedicata ai servizi.  La vera svolta avviene però con la nascita di internet: dopo questo evento, Exe.it si è immediatamente proposta come hosting, realizzando siti internet e offrendo servizi di providing. Qualche anno dopo si è spostata verso i servizi informatici a più ampio raggio rivolti alle aziende, partendo dai lunghi noleggi di hardware. Da azienda commerciale è diventata così un’azienda specializzata nei servizi, cambiando completamente la mentalità aziendale.

Già in questa prima fase di internet, Exe.it si appoggiava ad un data center nella sua vecchia sede di Bologna: si tratta di una sala macchine che ospita server, storage, gruppi di continuità e tutte le apparecchiature che consentono di governare i processi, le comunicazioni così come i servizi che supportano qualsiasi attività aziendale. Se tutti noi abbiamo un blog personale, è all’interno di un data center che questo gira, è grazie a questo assemblamento di macchine (e non solo) che possiamo vederlo. Dopo venticinque anni di attività. la Exe.it ha deciso di costruirsi un proprio data center, oggi attivo a Castel San Pietro Terme in provincia di Bologna. Perché, e cosa ha di particolare?20139671_1476862075694062_4788166544982053265_n-1

Il Primo Green data center in Italia

“Da una piccola ricerca che abbiamo effettuato, abbiamo scoperto che la preoccupazione numero uno in termini di emissioni di CO2 da parte della Comunità Europea, del Parlamento Australiano e Canadese e del Congresso Statunitense sono i data center: una notizia che non sa quasi nessuno” ci spiega allora Gianni Capra, Amministratore di Exe.it Srl Sb.  “Se si considera il mondo nel suo complesso sono gli allevamenti intensivi ad essere i maggiori emettitori. Eppure, ad esempio, nella nostra regione, l’Emilia Romagna, il più grande emettitore di Co2 è un data center molto importante”. Perché questo? Perché anche solo soffermandosi sul territorio italiano, i data center sono migliaia e ognuno consuma delle quantità spropositate di energia elettrica. La causa della loro massiccia presenza è che la totalità delle comunicazioni oggi passa attraverso un data center: cinema, televisione, musica, radio, ovviamente internet e quant’altro. L’esplosione degli smartphone non ha fatto altro che incrementare questa tendenza.

“Avendo preso atto di questo, la nostra idea era quella di provare a costruire, progettare e realizzare il primo data center in Europa ad emissioni zero. Non ci siamo riusciti perché siamo stati preceduti da altri nove data center che sono in Nord Europa (tre in Islanda, due in Norvegia, due in Finlandia e due in Svezia) mentre realizzavamo il nostro. Dunque il nostro Green data center è l’unico data center ad emissioni zero nell’area compresa tra Amburgo, Lisbona ed Atene.6883_1009784319068509_6582728425691563248_n

La struttura

Per raggiungere questo obiettivo, Exe.it ha progettato una struttura che ospita il data center a zero emissioni di anidride carbonica: “Una componente fondamentale di questa struttura è il legno: tutto il data center è costruito con questo materiale, che permette un livello di efficienza termica non comparabile con qualsiasi altra tipologia costruttiva. Le pareti in legno hanno una caratteristica fortemente isolante e conferiscono allo stabile un’altissima efficienza energetica. Noi non abbiamo nemmeno l’aria condizionata negli uffici e non ne sentiamo minimamente l’esigenza. Si aggiunga a questo il tetto completamente ricoperto di pannelli fotovoltaici, in sovrapproduzione di energia da anni ormai. Inoltre i nostri armadi Rack, le strutture dove si installano i server fisici, sono a bassissima densità: noi ne mettiamo al massimo ventuno su quarantadue posti disponibili, permettendo un minore surriscaldamento. Un altro aspetto è l’alta temperatura di funzionamento dei data center: di solito in questo ambiente si lavora a diciotto-venti gradi massimo, e per far questo bisogna raffreddare l’ambiente con i condizionatori. Noi lavoriamo a ventisei-ventotto gradi e tutto è studiato in funzione di questo. Altro aspetto importantissimo è la rinuncia totale ai dischi rigidi: nel nostri data center ci sono solo memorie allo stato solido, come quelle dei nostri telefonini o delle nostre macchine fotografiche. Il combinato disposto di tutte queste scelte permette di condizionare soltanto il ventuno per cento del tempo annuo, contro il cento per cento di un data center tradizionale, che tra l’altro consuma il cinquantacinque per cento del totale proprio per condizionare. Questa è la dimostrazione che un data center ad emissioni zero è sostenibile anche economicamente, persino a queste latitudini”.20604263_1491017070945229_4216119595084781855_n

Le certificazioni

Un altro aspetto che conferma la veridicità e la non autoreferenzialità di quanto affermato da Capra sono le certificazioni ufficiali, obiettivo centrale che Exe.it ha perseguito come dimostrazione del proprio lavoro: “Siamo convinti che la divulgazione sia importante, ma allo stesso tempo crediamo che la certificazione che attesti la veridicità di quanto dichiarato lo sia altrettanto. Ecco perché ci siamo sforzati di ottenerla, sottolineo la parola vera perché ce ne sono molte di certificazioni false! Quelle vere vengono rilasciate da enti accreditati, che fanno capo ad un unico organismo nazionale che risponde al Ministero dello Sviluppo Economico e che si chiama Accredia. Il 27 gennaio 2016 noi abbiamo avuto la nostra certificazione di essere un data center ad emissioni zero da parte di un ente accreditato, con un traguardo in più, molto difficile da ottenere: il diritto legale di emettere delle sub-certificazioni a costo zero da rilasciare a tutti coloro che trasferiscono tutti o in parte i propri dati informatici qui da noi. Oggi tutti i nostri clienti ricevono dunque una certificazione vera, con un numero identificativo univoco che rimanda ad un database che è dell’Ente no-profit che ha stabilito le normative: il massimo dell’oggettività possibile.13007143_1058858434161097_2085150427746808041_n

Gianni Capra, amministratore della società Exe.it

La Società Benefit

Exe.it è anche una SB, una società Benefit, società Profit che però formalizzano e rispettano una particolare attenzione all’ambiente, al sociale o ad entrambe le cose. La Società Benefit è ora riconosciuta ufficialmente dallo Stato Italiano, primo paese in Europa e secondo solo agli Stati Uniti nel Mondo a riconoscere giuridicamente questa formula societaria, con la legge numero 208 del 29/12/15. “Anche questo aspetto della Società Benefit è una certificazione, abbiamo pensato subito che facesse al caso nostro. Lo dimostra anche il nostro stabilimento, dove ci sono tante aree dedicate unicamente al benessere delle persone che lavorano qua. Abbiamo costruito una sala musica, una taverna, una palestra, ci sono gli orti dove poter raccogliere delle verdure: tutto è a disposizione di tutti i dipendenti e questo rende più gradevole il vivere in un posto, quello di lavoro, che porta via tanto tempo della nostra esistenza. Essendo una Benefit Corporation abbiamo tante altre cose formalizzate e inserite nello Statuto, quali per esempio il recupero totale delle acque piovane e una rigorosa raccolta differenziata”.

Arrivato il momento dei saluti, Gianni mi esprime un desiderio: “Noi siamo fieri di questa primogenitura in Italia per quanto riguarda il data center, ma non deve rimanere un unicità: vorremmo che la dimostrazione che un data center, l’oggetto più inquinante al mondo, può essere sostenibile al cento per cento ed emettere assolutamente zero anidride carbonica, fosse divulgato e diffuso.”

Nel nostro piccolo ci abbiamo provato, speriamo di essere seguiti sempre di più anche noi.

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2018/01/io-faccio-cosi-194-exe-it-primo-data-center-italia-impatto-zero/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

FabLab Milano: la fabbricazione digitale incontra la condivisione

Un laboratorio di fabbricazione digitale completamente attrezzato, un luogo di condivisione e coworking aperto a studenti, docenti, imprese, ricercatori, artigiani, liberi professionisti. Situato nel quartiere della Bovisa, il FabLab Milano facilita lo scambio di idee e la nascita di nuovi progetti offrendo a chiunque la possibilità di sperimentare e acquisire competenze tecniche.  Alcuni mesi fa a Milano abbiamo intervistato il Lab Manager di FabLab Milano, Salvatore Saldano. Ecco cosa ci ha raccontato.

Fablab, come dice la parola stessa è un laboratorio di fabbricazione digitale, qui al FabLab Milano cosa fabbricate e come lavorate?

Il FabLab Milano è uno dei tanti laboratori nel mondo di fabbricazione digitale, ma ciò che forse lo rende speciale è che è partito da un progetto della fine degli anni 90 del Prof. Neil Gershenfeld del MIT di Boston che ai tempi decise di far mettere in pratica la materia di studio ai propri studenti, piuttosto che tenerli inchiodati sui libri. Da lì a poco è diventato un modello che poi è stato ripreso un po’ in tutto il mondo, arrivando in Italia nel 2011 al FabLab Torino e nel 2013, primo a Milano, è approdato al nostro FabLab Milano. Ovviamente tutto ciò che facciamo è basato sulla fabbricazione digitale, sul rapporto tra ciò che è digitale e ciò che è materia, ovvero la trasformazione dal bit all’atomo. L’icona che rappresenta ciò che facciamo è la stampante 3D, che è poi anche lo strumento che ci permette di capire in maniera molto semplice come funziona questo passaggio dallo spazio virtuale fatto di bit, che è il computer, allo spazio reale fatto di materia costruendo appunto oggetti con la stampante 3D. Al FabLab Milano affittiamo uno spazio molto grande: 350 mq interni e 350 mq di terrazzo, siamo vicini al Politecnico di Milano, Poli Design, e all’interno del nuovo polo manifatturiero di Milano. Per questo tra i nostri clienti e collaboratori abbiamo studenti, professori e aziende. Però chiunque può usufruire dei servizi che offriamo, primo fra tutti il “do it yourself” (fai da te, ndr): abbiamo uno spazio, degli strumenti, delle competenze e quindi ci sono delle risorse umane che si mettono a disposizione di chi ha bisogno di realizzare un progetto o se ha un problema con la sua stampante 3D e ha bisogno di una consulenza. Abbiamo creato una community di persone che frequentano lo spazio regolarmente e si mettono a disposizione degli altri o semplicemente svolgono il loro lavoro come in un qualunque coworking. Uniamo l’aspetto del fare legato alla fabbricazione digitale con l’aspetto del coworking, mettendo a frutto l’eterogeneità delle competenze e delle persone che frequentano lo spazio. Questa eterogeneità è molto importante perché spesso genera preziose sinergie. Grazie al coworking abbiamo ragazzi che si occupano di videogame, altri che si occupano di grafica, di crowdfunding, stagisti, ragazzi che fanno alternanza scuola-lavoro: cerchiamo di diventare sempre più un contenitore per catalizzare diversi contenuti, affinché questi possano diventare più trasversali possibili. Il fatto di avere dei ragazzi giovani, dei professionisti o in alcuni casi delle piccole startup ci porta a creare una sorta di filiera dove chi viene da fuori può trovare un servizio completo. Se qualcuno ha un bisogno inespresso, o un problema da risolvere, da noi è facile trovare una soluzione utilizzando diversi approcci. Ovviamente non siamo ferrati in tutto, né abbiamo questa aspirazione, però la passione che abbiamo nel condividere la conoscenza, che è poi la vera base culturale e motivazionale dei Fablab di tutto il mondo, ci porta ad essere sempre al passo coi tempi ed aggiornati e quindi il più delle volte riusciamo a trovare soluzioni più che soddisfacenti per i problemi più disparati.15965120_706044056240771_2646192397460527930_n

Cosa intendete per ritorno all’Umanesimo e al “saper fare”?

Siamo reduci da un periodo di depressione dovuto ad una crisi che ha messo in ginocchio il mondo intero, ma al tempo stesso, grazie ad internet, abbiamo avuto la fortuna di dar vita al movimento Open Source che ha facilitato la condivisione di tutto ciò che è legato al fare, cercando di connettere persone in tutto il mondo, rendendole informate ed abili su cose che poi un domani potrebbero fare in prima persona. Quindi il fatto di avere accesso a documentazione, informazione ed anche usare i social per condividere in maniera istantanea qualunque tipo di esperienza, genera un flusso di pensieri e di consapevolezza, che forse negli ultimi 30/40 anni si era un po’ perso. Il fatto di dover delegare ad altri e non saper fare, perché tanto c’è qualcuno che lo sa già fare, ha portato ad avere sempre meno coscienza su quello che si fa. È proprio trascurando il saper fare che alla lunga sono venuti fuori i problemi come la scarsa etica imprenditoriale a livello della sostenibilità, con aziende che si concentrano solo sul profitto senza tenere in considerazione quello che di negativo generano con le loro attività. Quindi dando maggior consapevolezza, facendo conoscere ed educando le persone anche su ciò che è ancora nuovo come la stampa 3D ad esempio, ci porta a ridurre i problemi e le eventuali criticità che sommate negli anni ci possono portare a un punto di non ritorno.

La fabbricazione digitale nasce dalla libera condivisione delle informazioni e spesso costituisce una sorta di passatempo, ma può diventare anche un’occupazione remunerativa?

L’Open Source, come dicevo prima dà una scintilla, con questa ci puoi accendere un fuoco, oppure spegnerlo. Quindi se hai passione in ciò che fai da quella scintilla può nascere una grossa fiamma. Non parlo di fiamme e scintille a caso, ma perché la passione è un vero e proprio fuoco, lo stesso fuoco che si è generato in me quando ho conosciuto i Fablab nel 2013. Inizialmente ho cominciato a dedicarmi a questo settore come volontario, come alcuni dei ragazzi che sono qui, e poi con la passione e la voglia di fare, lo spirito di sacrificio e la voglia di raggiungere un obiettivo, sono riuscito a diventare Lab Manager del FabLab, visto che con un partner che è diventato socio, Loris Dall’Ava, abbiamo creato una startup che è Sharing Mode che da spin off è diventata azienda finanziatrice del FabLab stesso. Ma il fatto di aver avuto la fortuna di creare un business grazie al FabLab non mi ha portato certo a mollare il FabLab; non mi sembrava corretto anche perché io e tutte le persone che fanno parte del FabLab abbiamo dentro di noi la voglia di condividere, ma soprattutto di migliorarci e migliorare. Quindi quando prendo gratuitamente un’informazione dalla rete dei makers, la faccio mia e poi la ricondivido, perché il mio amalgamare, aggiungere o magari togliere possa essere utile a qualcun altro e questo crea, oltre che ricchezza una crescita. Quindi non ho voluto abbandonare il progetto, bensì cercare di farlo crescere.17903575_754642051380971_4097720880410312305_n

Nel secolo scorso Gandhi ipotizzava che il movimento basato sull’autosufficienza locale dello Swadeshi potesse evolvere facendo in modo che si lavorasse da casa. Ci porteranno a questo le stampanti 3D?
Avendo noi un luogo fisico di riferimento, ma attingendo parte di ciò che facciamo da internet rendiamo locale ciò che è globale. Globale nel senso di rete, di network, di connessione con il mondo esterno. Essendo però locali abbiamo come punto di riferimento il luogo fisico in cui ci troviamo: siamo nel quartiere Bovisa e attraverso la nostra attività cerchiamo di far crescere il quartiere stesso con un valore aggiunto dato dalle nostre specifiche competenze. Ciò che lega molto il nostro quartiere con lo Swadeshi è il fatto che dando ad altri la possibilità di essere autosufficienti, riesci a produrre ricchezza, competenze, ed anche possibili partnership e sinergie che poi danno vita a nuovi progetti, nuove idee e nuovi sviluppi. Le stampanti 3D si trovano già in varie case e noi lavoriamo anche con numerosi privati cercando di aiutarli con i problemi che a volte sorgono con le loro stampanti domestiche.

Tra le varie idee che sono sorte, avete avuto quella di creare una rete di Fablab, è così?
Riguardo al progetto di network tra fablab, al momento devo ammettere che si sta rivelando di difficile realizzazione, almeno qui a Milano. Perché per quanto io abbia tutta la voglia di questo mondo di entrare in connessione con realtà locali milanesi, essendo dei progetti nati da privati, c’è una componente di sostenibilità economica che porta a guardare solo al proprio orticello. Quindi se io ho la mia società e questa mia società funziona, faccio fatica a collaborare con un altro che fa le mie stesse cose, perché magari ho paura che quell’altro mi soffi il lavoro. Ma questo modo di pensare è paradossale perché in antitesi con lo spirito che ha dato inizio al movimento dei fablab. Per cui, pur tra mille difficoltà a livello locale, portiamo avanti questo intento anche in altri modi, ad esempio con delle attività come il Fablab Tour che facciamo insieme ad Intel, abbiamo coinvolto altri 9 fablab per portare nuove competenze, strumenti e progetti da condividere grazie alla connessione tra noi. Quindi se adesso come FabLab Milano riusciamo a collaborare con i Fablab di Padova, Verona, Palermo, Cagliari, Roma, Bologna, Cuneo, Torino e altri ancora, è perché c’è una rete, dei valori condivisi, ma altri aspetti che ci distinguono e che rendono il valore specifico di ciascuno. Quindi il modo per disinnescare la competizione esistente tra i vari fablab è metterci intorno a un tavolo e cercare di evidenziare le nostre peculiarità: noi ad esempio siamo bravi con il 3D printing, altri con l’e-wearable, ovvero tutti quei dispositivi elettronici intelligenti che possono essere indossati, come lo smart whatch. In questo periodo con il Fablab Tour abbiamo lavorato intorno al concetto dell’”internet delle cose”: ovvero con la possibilità di mettere in connessione dei dispositivi online e controllarli da remoto o fare in modo che i dispositivi stessi si controllino tra loro da remoto. In questo caso l’e-wearable diventa uno strumento per controllare in maniera attiva le attività di altri dispositivi. Ho fatto l’esempio dello smart watch perché è quello più iconico, ma di wearables ce ne sono di diversi tipi ed esistono anche tanti progetti Open Source legati a questo concetto. Noi ad esempio ad un concorso di Intel abbiamo lavorato su un dispositivo che si chiama “Vita”, che attraverso un sensore è capace di rilevare i dati vitali di una persona per inviarli ad un parente o al proprio medico. L’internet delle cose entrerà sempre più a far parte del nostro quotidiano.12801312_554934371351741_6774308440964710098_n

Altri progetti?

Poiein: deriva dal greco e significa poesia. Gli abbiamo dato questo nome perché la poesia che vogliamo raccontare è quella del riuso di un oggetto che dovrebbe avere un valore ma è stato scartato a causa di un’imperfezione. Quindi insieme ad Anita Angelucci, una designer che ha avuto l’idea di riutilizzare questi oggetti, abbiamo deciso di riutilizzare gli scarti realizzati con il vetro di Murano lavorato. Il valore economico di un manufatto realizzato con vetro di Murano in origine è altissimo. Il mastro artigiano però quando inizia a plasmare il vetro, se trova delle venature o delle imperfezioni che reputa troppo pregiudicanti per il valore dell’oggetto finale, butta via l’oggetto. Sicché Anita ed io abbiamo cercato di ridare valore a questo oggetto e, visto che spesso l’oggetto in questione non ha una forma ben definita che permetta una vera e propria funzione, abbiamo deciso di farci aiutare dalla tecnologia 3D raccontando l’ibridazione tra l’artigianato classico e quello attuale, ovvero l’artigianato digitale. Per fare ciò abbiamo scansionato in 3D l’oggetto, unico nella sua imperfezione, per costruire, tramite modellazione 3D un reticolo che faccia da protesi all’oggetto. In questo modo sia la protesi che l’oggetto diventano funzionali e dipendenti l’uno dall’altro e l’oggetto originario può diventare così da scarto che era, ad esempio un vaso porta fiori.

Cos’è per te l’Italia che cambia?

Dopo questo periodo di crisi che ha messo in ginocchio tutti quanti, questo è un momento di reset dove tutti partiamo più o meno da zero e quindi è un’occasione per ripartire e magari costruire una strada migliore. Il vento del cambiamento soffia già da tempo, per cui gli strumenti ci sono, le tecnologie e le informazioni sono sempre più accessibili, quindi cerchiamo di rimboccarci le maniche e riprendere la cultura del fare che ha contraddistinto l’Italia negli ultimi secoli. Pur essendo consapevole che ci saranno sempre degli ostacoli da superare, il mio auspicio è che ci diamo da fare perché le possibilità ci sono, basta crederci!

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2017/07/io-faccio-cosi-176-fablab-milano-fabbricazione-digitale-incontra-condivisione/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Roma Makers: a Garbatella un FabLab per progettare un futuro condiviso

Connettere i makers della capitale e promuovere la cultura dell’artigianato digitale, seguendo i principi della sharing economy e dell’open source. Con questi obiettivi è nata l’associazione Roma Makers che ha come sede operativa un FabLab a Garbatella, storico quartiere romano che accoglie molteplici iniziative basate sulla condivisione e lo scambio di saperi.

Tante persone, in Italia e nel Mondo, conoscono Roma per il suo centro storico, le sue meraviglie, i suoi scorci e le sue bellezze architettoniche e monumentali. Ad uno sguardo più attento scopriamo però anche che è una città enorme (1285.30 km quadrati), policentrica e frammentata. La Storia che vi raccontiamo oggi è l’esperienza di Roma Makers  e del loro FabLab di via Magnaghi 59, nel quartiere di Garbatella: testimonianza di una città abitata da persone che guardano al presente e al futuro, oltre che al passato, convinte che l’artigianato e il digitale non siano assolutamente due categorie da contrapporre e che l’incontro tra realtà diverse e la capacità di fare rete autentica possano alleviare il senso di una città che sembra così enorme da non incontrarsi mai. Roma Makers “è il network nato con lo scopo di connettere tutte le singole realtà legate al mondo dei Makers  presenti sul territorio di Roma” (tratto dal sito romamakers.org), ed ha la sua sede operativa nel FabLab presente nel quartiere Garbatella, nato nel 2013 nella sede provvisoria di via Frediani da una rete romana di Makers entusiasmati dall’idea di attirare sempre più gruppi di persone a questo tipo di realtà. Dopo una fase di autofinanziamento da parte dei soci, aumentando la risposta da parte del territorio, da luglio 2015 il laboratorio si è ingrandito (oggi è grande 150 metri quadrati) e trasferito nella sede di via Magnaghi 59. “Noi abbiamo aperto un FabLab per motivi di esigenze: più persone avevano la necessità di avere un posto fisico per potersi incontrare e scambiarsi idee e opinioni, e anche per utilizzare determinate tecnologie: dal laboratorio classico di falegnameria ad una stampante 3d, fino ad un saldatore”, ci racconta Silvio Tassinari, co-fondatore del FabLab Roma Makers. “Il problema è che ognuno singolarmente dovrebbe investire tanti soldi per avere un laboratorio attrezzato, che tra l’altro non sfrutterà mai completamente. Mettendo gli strumenti di ognuno a sistema, come si fa qui, tante persone possono avere a disposizione attrezzatura professionale, grazie alla condivisione del mezzo. Ogni lavorazione sul macchinario ha un costo per il tesserato, che comunque è inferiore ai prezzi di mercato a livello service. Una quota andrà al laboratorio per sostenere le spese, un’altra quota al privato che ha concesso lo strumento a disposizione. Questo offre la possibilità a tutto il territorio, alle persone che vogliono partecipare a questa attività di far crescere il laboratorio in un volano sostenibile, poiché tutti gli utili vengono reinvestiti nel Fab Lab”.garba

Costituita formalmente nel 2013, l’associazione Roma Makers raggruppa una delle più attive comunità di makers romani

 

Officine Roma makers è infatti un’Aps, un’associazione di promozione sociale, e l’ingresso al FabLab è aperto a tutti: “Questo FabLab è un’associazione che ospita persone dai dieci ai novanta anni. È aperto al professionista, allo ‘smanettone’, al curioso, allo studente. È una realtà mista, quindi si innestano molteplici dinamiche che hanno portato più persone sia a creare delle piccole startup che ad incontrarsi in questo posto anche non sapendo nulla di questi mondi, ben entusiaste però di imparare nuove tecnologie, di utilizzarle, di sperimentare”.

Per poter accedere al FabLab Roma Makers è necessario un tesseramento di cinquanta euro annuali, che permette l’accesso dalle 17 alle 22 al laboratorio, con copertura assicurativa compresa. Ma lo spazio è aperto anche al mattino, quando solitamente si incontrano soprattutto persone legate agli ambienti lavorativi come piccoli artigiani, start-up e piccole aziende, oltre che studenti. All’interno del FabLab si trovano vari laboratori: uno in 3d (con attrezzature sia di modellazione che di stampa 3d), uno di taglio e fresatura, uno di crafting, uno di elettronica e robotica e uno di interaction design, oltre ad un laboratorio Mini Makers per bambini. Oltre agli spazi interni al laboratorio, Roma Makers ha aiutato ad aprire dei Fab Lab all’interno di alcuni istituti scolastici, sia nel comune di Roma sia fuori dal comprensorio romano. “Più i FabLab aprono a Roma, più noi siamo contenti” ci spiega Leonardo Zaccone, co-fondatore del FabLab Roma Makers “la città è grande, i FabLab sono pochissimi e c’è bisogno più di collaborazione che di competizione. Più saranno diffusi i FabLab in città e in Italia, più la gente li vedrà come punto di aggregazione e formazione, aumenteranno il numero di persone che verranno al FabLab e sapranno anche cosa fare all’interno dello spazio. C’è necessità di comunicare che ci sono questi spazi perché tanta gente non sa proprio che esistono i coworking o i FabLab: in molti comprano una stampante 3d, poi vengono da noi e ci dicono che se avessero saputo della nostra esistenza non l’avrebbero comprata e avrebbero invece usato le nostre. Più siamo più si saprà che esistiamo”.

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L’associazione Roma Makers ha come sede operativa un FabLab a Garbatella

 

Il FabLab a Garbatella: una città policentrica che si incontra

Il FabLab Roma Makers ha la sua sede nel quartiere Garbatella a Roma, anche se nessuno dei fondatori è originario di questo luogo: la scelta non è stata casuale, perché il quartiere è una realtà particolare di Roma, che si contraddistingue per la sua caratteristica di condivisione e per la presenza di numerose realtà socialmente impegnate nel tessuto romano. Per una città fortemente policentrica e frammentata come Roma, è un posto molto particolare, adatto ad accogliere iniziative di condivisione e scambio di saperi tipiche del FabLab. Ci racconta Zaccone: “Ci teniamo sempre a dirlo: il fatto che oggi il nostro quartier generale sia a Garbatella è un segno distintivo, è uno dei quartieri con il maggior numero di realtà socialmente impegnate a partire da centri sociali importanti come La Strada e Casetta Rossa, qua sono sorti i primi orti urbani e qua è sorto il primo coworking comunale dell’urban center Millepiani. Per noi quindi nascere a Garbatella significava entrare in un tessuto civico di condivisione molto ampio e mettersi in rete con tutte queste realtà. Ad un certo punto abbiamo cominciato a lavorare a stretto giro con il coworking Millepiani: nascono in Italia tanti coworking e FabLab insieme, noi siamo uno dei rari casi di coworking e FabLab che condividono lo spazio, ma che vivendo uno molto vicino all’altro hanno cominciato a lavorare insieme, ad offrire corsi comuni, una tessera comune, a fare la mensa comune”.

 

L’Artigianato Digitale: il concetto di Chiralità

Quando ci si approccia ai concetti di FabLab e di Makers, ci si trova spesso di fronte al concetto di artigianato digitale  come nuovo punto di incontro rispetto al forte contrasto tra produzione di massa e produzione artigianale. Ma il mondo del digitale, della prototipazione e della stampa 3d è in grado di conciliarsi con l’originalità del pezzo unico tipica dell’artigianato? “Bisogna superare dei piccoli pregiudizi per capire in che direzione andare – ci spiega Zaccone – il primo è quello che confonde il concetto di ‘artigianale’ con ‘manuale’. In realtà quasi nessuna lavorazione è manuale perché noi usiamo comunque degli strumenti tecnologici di tutti i tipi”. Tuttavia, mentre le macchine di fabbricazione di massa sono state create per creare un sistema produttivo sempre uguale a se stesso nei processi e nei prodotti, nella fabbricazione digitale da FabLab rendere il sistema uguale sempre a se stesso, è praticamente impossibile.

“Noi per descrivere questa dicotomia abbiamo coniato un termine: chirale. La chiralità è la qualità delle mani, che sono uguali ma non sovrapponibili, uguali ma non perfettamente identiche, e viene mutuata nella chimica per tutte quelle molecole che sono speculari ma non sovrapponibili. Noi in realtà lo abbiamo mutuato in senso estetico filosofico per dire che tu puoi considerare un oggetto veramente artigianale quando puoi vedere dieci produzione artigianali, le riconosci come lo stesso oggetto ma in realtà non sono mai perfettamente sovrapponibili, non sono perfettamente identiche. Questa è la qualità è la chiralità dell’oggetto artigianale: il problema non è se fatto a mano o con una macchina, bensì se è una produzione di massa oppure una produzione chirale dove gli oggetti non sono mai identici a se stessi”.garba2

Roma makers è un’associazione di promozione sociale, e l’ingresso al FabLab è aperto a tutti

Agricoltura e FabLab: un’integrazione possibile

“La cosa che mi ha affascinato di più della digital fabrication è che non essendo un settore ma un insieme di processi, è possibile applicare questi processi a qualunque settore”. Mauro Jannone è un collaboratore del FabLab di Roma Makers e Tech Manager al Fab Lab di Bracciano , in provincia di Roma, nato nel 2015 e specializzato nel settore della coltivazione denominato “Agri-food”.

“Io personalmente sto facendo un percorso che ha a che fare con la natura e la sostenibilità, sto cercando di mettere insieme questi due percorsi con degli studi che sto facendo riguardo l’agricoltura. Esiste un nuovo trend che è l’agricoltura di precisione, che prevede l’utilizzo di sensori da applicare ai seminativi, sia di piccole dimensioni che di grandi dimensioni, che permettono di individuare anche un piccolo batterio su un’unica foglia. Si tratta di tecnologie che grazie alla digital fabbrication sono alla portata di tutti: ad esempio fare una sonda che misura l’umidità del terreno può costare molto poco e permettere di far risparmiare l’80% di acqua che si immette normalmente nel campo”.

 

A Bracciano sono stati realizzati numerosi progetti in tal senso, che vanno dalla fusione di design artigianale e agricoltura  fino appunto alla realizzazione di sonde low-cost  capaci di misurare la temperatura e l’umidità del terreno.

 

Il sito di Roma Makers 

Fonte:  http://www.italiachecambia.org/2016/04/io-faccio-cosi-117-roma-makers-garbatella-fablab-progettare-futuro-condiviso/