Inquinamento atmosferico industriale: in Europa costa centinaia di miliaridi

L’inquinamento atmosferico causato dalle industrie in Europa provoca danni alla salute e all’ambiente stimati fino a 430 miliardi di euro per un solo anno, è quanto ha dichiarato l’Agenzia europea dell’ambiente (AEA).

Secondo il nuovo rapporto dell’agenzia, nel 2017 l’inquinamento atmosferico industriale è costato alla società tra i 277 miliardi e i 433 miliardi di euro. Questo rappresenta circa il 2-3% del PIL europeo ed è superiore alla produzione economica totale di molto stati membri in quell’anno. Mentre l’industria europea ha compiuto “progressi significativi” nella riduzione del suo impatto ambientale e climatico, “i costi sociali o “esternalità” causati dall’inquinamento atmosferico del settore rimangono elevati. Secondo il rapporto, degli oltre 11.000 siti che segnalano emissioni inquinanti, 211 sono responsabili della metà dei costi totali. Questi si trovano principalmente in Germania, Regno Unito, Polonia, Spagna e Italia. Secondo l’agenzia dell’UE, l’inquinamento atmosferico causato dalle centrali termiche – per lo più alimentate a carbone – è il più pericoloso per la salute e l’ambiente, seguito dalle emissioni dell’industria pesante, della produzione e della lavorazione del carburante. Seguono le industrie più leggere, la gestione dei rifiuti, l’allevamento e il trattamento delle acque reflue. Secondo lo studio, tra i 30 impianti più inquinanti del continente, 24 sono centrali termoelettriche che si trovano in Europa occidentale, di queste, sette sono in Germania. L’impianto industriale europeo più inquinante si trova invece in Polonia, mentre i successivi quattro sono in Germania. Nonostante i lievi miglioramenti, l’inquinamento atmosferico rappresenta ancora un grave rischio per la salute della popolazione europea. Infatti, i livelli di particolato fine, ozono e ossidi di azoto sono spesso al di sopra degli standard di qualità dell’aria.

Fonte: ecodallecitta.it

Greenpeace in azione a Roma: “Yes, we can stop TTIP”

Il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti punta ad abbassare standard di sicurezza e tutele in quasi tutti i settori dell’economia, dall’agricoltura all’industria tessile, dall’informatica al settore bancariogreen peace

La giornata di mobilitazione nazionale contro il TTIP (Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti) è stata inaugurata da uno striscione che Greenpeace ha calato dalla terrazza del Pincio uno striscione raffigurante il presidente Usa Barack Obama intento a parafrasare il proprio arcinoto slogan elettorale: “Yes we can stop TTIP!”

Come abbiamo già spiegato da tempo su Ecoblog, il TTIP è una minaccia per la democrazia, la protezione dell’ambiente, gli standard di sicurezza sulla salute, le condizioni dei lavoratori, a tutto vantaggio delle multinazionali, a cui verrebbe dato un potere senza precedenti. Milioni di persone si sono già mobilitate in tutta Europa per fermare questo accordo, scegliendo di difendere gli standard comunitari sulla sicurezza del cibo, sull’uso di sostanze tossiche, sull’assistenza sanitaria e sui diritti dei lavoratori. Negli scorsi giorni Greenpeace ha allestito una sorta di aula studio a ridosso della Porta di Brandeburgo per consentire ai berlinesi di conoscere che cosa potrebbe accadere se Ue e Usa riuscissero a condurre in porto questa intesa.

“È necessario uno stop immediato ai negoziati sul TTIP, ed è l’ora della trasparenza”, dichiara Federica Ferrario, responsabile campagna Agricoltura di Greenpeace Italia:

“Chiediamo che vengano immediatamente resi pubblici i capitoli mancanti dell’accordo, oltre a quelli già noti grazie ai leaks di Greenpeace Olanda, e che si dia inizio a un vero dibattito pubblico. Sono molti i cittadini e i rappresentanti della società civile che hanno già espresso forte preoccupazione su questo trattato: è ora fare chiarezza”.

L’obiettivo del TTIP è quello di abbattere le cosiddette barriere al commercio tra Stati Uniti e Unione europea, e proteggere gli investimenti esteri prima di ogni altra cosa. Con tariffe sul commercio transatlantico già molto basse, il focus dei negoziati è rimuovere le barriere “non tariffarie”, che si tradurrebbe nell’abbassare standard di sicurezza e tutele in quasi tutti i settori dell’economia, dall’agricoltura all’industria tessile, dall’informatica al settore bancario. Un caso esemplare sono gli evidenti tentativi di eliminare con il TTIP l’applicazione del principio di precauzione, anche per permettere l’ingresso libero sul mercato europeo dei “nuovi OGM”, camuffati con nomi fantasiosi come “prodotti delle moderne tecnologie agricole”.

Fonte:  Askanews

L’ultimo tranello dell’industria del biotech

L’ultima battaglia dell’industria degli ogm: fare pressione perchè la Commissione Europea deregolamenti le nuove tecniche di modificazione genetica, eliminando iter autorizzativi e lasciando mano libera senza rendiconti né studi, nè tantomeno etichettature.biotech_ogm

Ma la cosa è trapelata e l’associazione TestBiotech, insieme ad altri gruppi della società civile, ha annunciato mobilitazioni contro la possibilità che la UE ceda a queste pressioni. E’ stato anche pubblicato un dossier legale, di cui TestBiotech si fa forte, redatto dal professor Ludwig Kraemer (QUI il testo completo), che contesta i nuovi metodi richiesti che non prevederebbero autorizzazioni, né registrazioni per l’immissione in commercio e nemmeno informazioni in etichetta. Gli attivisti e la società civile chiedono invece che anche i prodotti ogm ottenuti con le nuove tecniche sottostiano a regole severe e iter autorizzativi, unici in grado di garantire almeno un minimo di trasparenza, sebbene a maglie molto larghe. Il professor Kraemer nel suo dossier sostiene come anche le nuove tecnologie della manipolazione genetica siano riconducibili pienamente ai criteri stabiliti dalla direttiva europea 2001/18. I nuovi metodi utilizzano sequenze corte di DNA sintetico per introdurre specifiche modifiche. «Siamo veramente a una svolta, le nuove tecniche, note come genome editing, hanno la capacità di stravolgere il genoma. Non ci sono prove per asserire che ciò possa essere sicuro. Se tali tecniche non saranno severamente regolamentate, non ci sarà trasparenza né diritto di scelta, nè garanzia alcuna per salute e ambiente» ha detto Christoph Then di Testbiotech. «E’ urgente che la Commissione Europea prenda una posizione chiara».

Il dossier è stato commissionato da Arbeitsgemeinschaft bäuerliche Landwirtschaft (AbL), Bund für Umwelt und Naturschutz Deutschland (BUND), Bund Ökologische Lebensmittelwirtschaft (BÖLW), Gen-ethisches Netzwerk, Greenpeace, Interessengemeinschaft für gentechnikfreie Saatgutarbeit (IG Saatgut), Testbiotech e Zukunftsstiftung Landwirtschaft (ZSL).

Fonte: ilcambiamento.it

Big Sugar e i mercanti del dubbio

C’è l’industria dei farmaci, dell’agroalimentare, del tabacco, del petrolio e c’è anche… Big Sugar. Secondo il documentario “Merchants of doubt” è da lì, da loro che tutti hanno imparato a manipolare opinione pubblica e decisori piegandoli agli scopi del mercato.zucchero_carie

I ricercatori dell’Università della California, sede di San Francisco, hanno analizzato (leggi qui lo studio integrale) 319 documenti interni di industrie dolciarie, fatti girare dal 1950 al 1971, momento chiave per le regole di salute pubblica che riguardavano proprio il problema dello zucchero e della carie dentaria. La loro conclusione è stata pubblicata su PLoS Medicine e ha rivelato ciò che loro stessi dicono essere stato l’esempio di come agiscono i “mercati del dubbio” (definizione che ha dato il titolo al documentario appena uscito). A farlo notare è Lindsay Abrams, autrice per Salon. I soggetti coinvolti nel commercio dello zucchero sapevano fin dagli anni ’50 i danni che esso comportava per i denti – sostengono gli autori dello studio – e si erano anche accorti che il metodo migliore consigliato dai dentisti per evitare le carie era quello di ridurre il consumo di zucchero. Le prove erano troppo evidenti per essere ignorate, così l’industria architettò un piano per distogliere l’attenzione dalle politiche di riduzione del consumo di zucchero. Vennero finanziato costosi e complicati esperimenti (falliti) sostenendo che sarebbero stati ridotti gli effetti dannosi e l’industria ha fatto in modo che i programmi di ricerca statali seguissero quella strada. La natura di quegli esperimenti ha dimostrato che l’industria stava cercando di fare tutto il possibile pur di non accettare l’ovvio, cioè la necessità di raccomandare alla gente di ridurre il consumo di zucchero. L’industria ha portato avanti ricerche per un improbabile vaccino contro le carie e per sviluppare un enzima che si sarebbe potuto aggiungere ai cibi per ridurre l’impatto dello zucchero sui denti. “Perché la gente dovrebbe rinunciare al piacere?” si chiedeva in un articolo il professor Bertram Cohen, che guidava i progetti di ricerca. “E’ ovviamente meglio eliminare gli effetti dannosi”. Quell’articolo, fa notare lo studio pubblicato su PLoS, non faceva menzione del fatto che il lavoro di Cohen era finanziato dall’industria del cioccolato e dei dolci. “Si potrebbe dire, sulla base della logica e delle evidenze, che eliminando il consumo di zucchero si eliminerebbe il problema perché si eliminerebbe ciò di cui i batteri delle carie si nutrono” aveva detto a suo tempo il direttore scientifico del NIDR, il National Institute of Dental Research (oggi National Institute of Dental and Craniofacial Research). “Ma bisogna essere realisti” aveva aggiunto. “Benchè ciò sia stato dimostrato su modelli animali, non è praticabile come misura di salute pubblica”. Il National Caries Program (NCP), lanciato nel 1971 con l’obiettivo di eradicare la carie nel giro di un decennio, si è poi chiuso ignorando tutte le strategie per limitare il consumo di zuccheri e non aveva nemmeno individuato i test che avrebbero potuto stabilire quali cibi erano più dannosi per i denti. Il programma si rivelò un fallimento e non fu una sorpresa; gli autori dissero che la carie dentaria, benchè largamente prevenibile, restava un problema cronico per i bambini americani. E lo è tuttora. E gli autori dello studio dichiarano anche che l’industria continua a sostenere come, al massimo, le politiche di salute pubblica debbano concentrarsi sulla riduzione degli effetti deleteri dello zucchero anziché sulla riduzione del consumo di zucchero stesso. “Queste tattiche sono molto simili a quelle già messe in atto dall’industria del tabacco” spiega Stanton Glantz, co-firmatario dell’articolo. E quelle multinazionali non sono più ammesse a partecipare alle discussioni dell’Oms. “Le nostre conclusioni vogliono essere una sveglia per i governi e i decisori”. Si auspica che lo siano. Anche perché, oltre alle carie, occorrerebbe considerare gli effetti deleteri che il consumo di zucchero ha sull’organismo umano in generale.

Fonte: ilcambiamento.it

 

Biciclette, un milione di occupati in Europa entro il 2020. Lo studio “Ciclismo per la crescita”

L’industria delle due ruote e tutte le attività ad essa connesse, cicloturismo in primis, rappresentano uno dei settori più vivaci dell’economia europea. Secondo lo studio della Federazione Europea dei Ciclisti,ad oggi nel vecchio continente sono più di 650 mila i lavoratori del settore e nel 2020 saranno un milione. Investire nella bici fornisce il migliore ritorno economico nel settore dei trasposti381392

L’ultimo studio della Federazione Europea dei Ciclisti(ECF) dal nome “Ciclismo per la crescita” sviscera i dati di uno dei settori economicamente più vivaci del vecchio continente. In Europa l’indotto dell’industria della bicicletta occupa più di 650mila lavoratori, più di quelli impiegati nel settore estrattivo minerario (615 mila addetti) e più del doppio di quello siderurgico (31 mila lavoratori). La parte del leone la fa il settore del cicloturismo, che vede impegnati più di mezzo milione di addetti, a seguire quello della vendita e riparazione (80587 lavoratori), poi quello della costruzione delle infrastrutture (23417 addetti), vendita e riparazione (22629 lavoratori) e infine quello dei servizi (4224 addetti).
Durante la presentazione dello studio a Bruxelles, Kevin Mayne (direttore del settore sviluppo dell’ECF) ha lanciato un messaggio ai governi europei e al nuovo presidente Juncker: “Investire sul ciclismo su due ruote è la scelta più giusta e i benefici a lungo termine si vedranno sui bilanci della spesa sanitaria, in quello dei trasporti e nel cambiamento climatico. Adesso siamo in grado di dimostrare che ogni nuova pista ciclabile costruita crea nuovi ciclisti e questo contribuisce alla crescita dei posti di lavoro. Investire nella bicicletta fornisce il migliore ritorno economico di qualsiasi altro investimento fatto nel settore dei trasposti”.  Nel rapporto è incluso anche un piano di azione e i relativi benefici che potrebbe apportare all’economia europea. Il piano d’intervento si spinge fino al 2020 dove, a fronte di un raddoppio degli investimenti da parte della Comunità Europea e di piani nazionali per incentivare l’uso delle due ruote (per esempio sgravi fiscali per i ciclisti), il numero dei lavoratori sale fino a quota un milione. Inoltre, a parità di investimenti, il tempo di permanenza nella aziende di un lavoratore dell’industria delle due ruote è tre volte superiore a quello dei lavoratori dell’industria automobilistica. Lo studio si chiude ricordando che il settore del ciclismo non richiede un alto livello di qualificazione per potervi accedere e questo gli permette di offrire una oggettiva opportunità per l’ inclusione europea sopratutto in questi anni di crisi economica.

Fonte: ecodallecitta.it

Consumi energetici in calo: colpa della crisi o merito dell’efficienza?

Negli ultimi anni, il settore industriale ha ridotto i consumi energetici molto più del comparto civile: segno che in Italia è la crisi il vero “motore” dell’efficienza energetica? Un’analisi dei dati disponibili380650

Un quantitativo di energia primaria pari a circa 1.200 Gwh (Gigawattora), corrispondenti a 268.000 tonnellate di CO2 non emesse in atmosfera. A tanto ammontano, secondo i dati Enea, i benefici in termini di risparmio energetico ottenuti in Italia nel 2012 (l’ultimo anno per cui sono disponibili le stime ufficiali, ndr) grazie agli interventi di efficientamento sugli immobili incentivati col meccanismo della detrazione fiscale del 55% (attualmente l’aliquota è fissata al 65%, ndr).
Cifre significative, ma inferiori ai valori record raggiunti nel 2010, quando il risparmio energetico annuo era stato superiore del 35%, con 2.032 Gwh/anno di energia “salvata”. Per il 95%, gli interventi di incremento dell’efficienza hanno riguardato persone fisiche, e per il 64% si è trattato di operazioni di sostituzione degli infissi (168.000 interventi sul totale delle pratiche). Seguono l’ammodernamento dell’impianto di riscaldamento (25%) e l’installazione di pannelli solari termici per la produzione di acqua calda (9% del totale). Per il 70%, inoltre, le azioni di riqualificazione energetica incentivati nel 2012 hanno riguardato immobili riscaldati con impianti a metano (seguono le biomasse al 13% e l’elettricità al 7%). Il 22% degli interventi complessivi, infine, è stato realizzato sul territorio della sola regione Lombardia, mentre un altro 38% ha riguardato Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna. Il Piemonte, in particolare, detiene per il 2012 il record di energia risparmiata pro capite, con 49 Gwh/anno per abitante.

Leggi tutti i dati nel Rapporto Enea 2012 sulla detrazione fiscale del 55%

Più in generale, al di là degli interventi sull’edilizia incentivati col 55%, nel 2012 l’Enea ha certificato per l’Italia risparmi energetici complessivi pari a oltre 73.000 GWh, quasi il 30% in più rispetto al 2011. Un calo dei consumi che, però, ha interessato soprattutto i settori trasporti e industria (vedi oltre per ulteriori dettagli) più che il civile, che anzi ha visto crescere il suo peso percentuale sui consumi nazionali dal 34,5% del 2011 al 36,7% dell’anno successivo (anche se, ampliando l’analisi al periodo 1990-2011, il residenziale è il settore che ha conseguito i progressi più regolari, mentre l’industria ha avuto significativi miglioramenti di efficienza solo a partire dal 2005).

Scarica il Rapporto 2012 sull’efficienza energetica dell’Enea

Per lo meno negli ultimissimi anni, dunque, nonostante i buoni risultati delle detrazioni sull’efficienza in edilizia, il calo complessivo dei consumi dipende forse più dalla crisi delle industrie che dalla maggiore attenzione degli italiani. Qual è dunque il peso effettivo delle buone pratiche in tema di efficienza sul bilancio energetico complessivo dell’Italia? Sono gli atteggiamenti virtuosi dei cittadini, in aumento negli ultimi anni, a incidere davvero sul calo dei consumi, o è piuttosto la crisi economica ad aver condotto forzatamente il nostro paese a una progressiva riduzione del fabbisogno energetico nazionale?  Proviamo a ragionare sulle cifre disponibili. Sempre nel 2012, secondo i Dati provvisori di esercizio elaborati da Terna, in Italia la richiesta complessiva di energia elettrica ha raggiunto i 325.300 Gwh, in diminuzione del 2,8% rispetto al 2011, nonostante un giorno lavorativo in più (il 2012 è stato un anno bisestile, ndr). Particolarmente significativo, nel quadro generale del crollo dei consumi, sembrerebbe il peso della crisi sofferta dai principali settori industriali. Tra il 2011 e il 2012, infatti, i consumi elettrici dell’industria sono calati del 6,6%, mentre il comparto domestico ha visto una riduzione di appena l’1% (in aumento, invece, i dati di terziario e agricoltura). Risultano in calo, in dettaglio, i consumi di tutti i principali settori industriali (dal siderurgico all’alimentare, dalla produzione di elettricità alle costruzioni), ad eccezione dell’estrazione di combustibili e del comparto acquedotti.

Consulta i Dati Terna relativi ai consumi elettrici del 2012

Un dato, quello del ruolo preponderante della crisi industriale nel crollo dei consumi nazionali, confermato anche dal Ministero dello Sviluppo Economico che, nel Bilancio energetico nazionale 2012 (l’ultimo di cui è stata pubblicata la versione definitiva, ndr), certifica un calo annuo dei consumi totali di energia del 3,5%, con trasporti e industria ai primi due posti tra i settori che fanno registrare una contrazione (rispettivamente con il -9,2% e -7,6% rispetto all’anno precedente). Secondo le stime del MISE, invece, il fabbisogno energetico del comparto civile (che a differenza dei dati Terna include anche il gas naturale e altri combustibili) risulta addirittura in aumento dello 0,9% annuo, nonostante i risultati della detrazione fiscale del 55% registrati dall’Enea e il calo del fabbisogno elettrico contabilizzato da Terna.

Scarica il Bilancio energetico nazionale 2012 del MISE

Un trend che sembrerebbe essere confermato dalle prime cifre, ancora provvisorie, relative al 2013, che fotografano di nuovo una maggiore contrazione per il settore industriale a fronte del comparto domestico. Sul calo dei consumi, insomma, almeno da un paio di anni a questa parte sembrerebbe avere inciso più la crisi economica, che colpisce in modo particolare l’industria, che le buone pratiche domestiche “pro efficienza” o, in particolare, gli interventi di ristrutturazione edilizia a fini energetici realizzati da privati cittadini (che pure hanno mostrato, fin dalla loro introduzione nel 2007, potenzialità molto importanti). È d’altra parte la stessa Enea, nel suo “Rapporto 2012 sull’efficienza energetica”, ad auspicare, pur sottolineando i buoni risultati già raggiunti dall’Italia, una più incisiva «azione di sensibilizzazione sui temi del risparmio e dell’efficienza energetica attraverso la quale programmare percorsi informativi ed educativi mirati. È infatti questa la chiave per raggiungere ulteriori e più ambiziosi risultati: soltanto una domanda sempre più consapevole e competente potrà essere in grado di stimolare un’offerta sempre più innovativa».

Va detto, in ogni caso, che l’intera Unione Europea è piuttosto in ritardo sul suo obiettivo complessivo in termini di aumento dell’efficienza energetica (l’unico non vincolante del “Pacchetto clima 20-20-20”, ndr), e che anche il monitoraggio puntuale e dettagliato dei progressi effettuati dai singoli stati – con il confronto tra le diverse voci e il contributo dei vari comparti al target di risparmio – risulta tuttora difficile, se paragonato ad esempio con la contabilizzazione della produzione di energia da fonti rinnovabili. Una “ingiustizia” a cui potrebbe porre definitivamente rimedio il nuovo pacchetto di impegni climatici UE al 2030, che dovrà essere approvato dall’Unione nei prossimi mesi.

(Photo ©Eco dalle Città)

Fonte: ecodallecitta.it

Contaminazione da arsenico, dove in Italia

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Nella tavola periodica si chiama As. Il suo nome completo è arsenico, ed è uno degli elementi chimici più amati da autori di libri e film gialli per la sua altissima pericolosità: l’esposizione acuta, infatti, può essere fatale. Ma anche la cronica, meno interessante per letteratura e cinematografia ma più rilevante nel mondo reale, è altrettanto pericolosa, tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità ha ufficialmente classificato l’arsenico, specie quello inorganico trivalente, tra le sostanze “cancerogene per gli esseri umani”. Alla luce di tutto questo, non possono non destare preoccupazioni gli ultimi risultati dello studio Sepias – Sorveglianza epidemiologica in aree interessate da inquinamento ambientale da arsenico di origine naturale o antropica, condotto dai ricercatori dell’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr e pubblicato sulla rivista Epidemiologia e prevenzione. Nel lavoro, presentato oggi a Roma, gli scienziati hanno sottoposto a biomonitoraggio quattro aree italiane (il viterbese, l’AmiataTaranto e Gela), registrando nei residenti di ognuna di esse – seppure in misura diversa – concentrazioni di arsenico superiori ai valori di riferimento. “Le aree sono state scelte in base al tipo di inquinamento cui erano soggette”, spiega a Wired.it Fabrizio Bianchi, dirigente di ricerca dell’Ifc-Cnr. “In particolare, l’Amiata e il viterbese hanno un inquinamento di tipo naturale: l’arsenico è presente nelle rocce, nei sedimenti e nelle acque. A Taranto e Gela, invece, deriva da attività antropiche, come ammettono le stesse industrie locali, che emettono quintali di arsenico nell’ambiente”. I ricercatori, dice Bianchi, hanno sottoposto a 282 persone (scelte con un campionamento randomizzato e rappresentativo) un questionario per valutarne lo stile di vita e la situazione clinica. Su ciascuno dei partecipanti sono state inoltre effettuate analisi delle urineprelievo del sangueecodoppler e visita cardiologica. È bene ricordare che, mentre esistono delle soglie stabilite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’Unione Europea per quanto riguarda i valori di arsenico nelle acque e negli alimenti, per urina e sangue non ci sono valori analoghi, perché l’intossicazione dipende fortemente da meccanismi individuali di risposta. “Nonostante questo, comunque”, precisa Bianchi, “sono stati elaborati diversi valori di riferimento, in base a esposizione, possibili rischi per la salute, biomonitoraggi futuri e altri parametri. E noi abbiamo tenuto conto di tutti questi valori”. Gli scienziati, nell’analisi, hanno inoltre preso in considerazione i fattori genetici ed epigenetici che determinano la diversa risposta dei singoli soggetti all’esposizione all’arsenico. E hanno osservato“valori medi di concentrazione elevati, per quanto riguarda l’arsenico inorganico, in un soggetto su quattro del totale, ma con rilevanti differenze: 40% Gela, 30% Taranto, 15% viterbese, 12% Amiata”. Dati che sono “da usare con cautela in considerazione dei piccoli campioni”, ma che comunque“testimoniano l’avvenuta esposizione” alla sostanza. Al sud peggio che al centro, insomma. E attività antropiche molto più dannose e incidenti rispetto a quelle naturali. Incrociando i dati clinici con le risposte al questionario, gli scienziati hanno evidenziato “associazioni statisticamente significative” tra concentrazione di arsenico e fattori di rischio: “Il fattore di rischio più importante è l’esposizione occupazionale nelle aree industriali di Gela e Taranto”, dice ancora Bianchi. “Per quanto riguarda le altre due regioni, invece, i fattori di rischio sono il consumo di acqua per uso civico (cucina e igiene personale) e la contaminazione degli alimenti. Per quest’ultimo punto, comunque, sono necessari ulteriori studi più focalizzati sulle abitudini alimentari dei soggetti”. Come intervenire, dunque? “Abbiamo anzitutto sottomesso un protocollo di presa in carico dei soggetti con valori più elevati, che è già stato approvato dal Ministero della Salute”, spiega Bianchi. “Quello che suggeriamo è di intervenire al più presto per rimuovere o diminuire il più possibile le fonti da esposizione primaria, tra cui gli stabilimenti che riversano arsenico nelle falde acquifere. E poi è assolutamente necessario continuare e ampliare il biomonitoraggio, così come avviene negli Stati Uniti e in molte nazioni europee”.

Fonte: Wired.it

Credits immagine:  Al_HikesAZ/Flickr

Scuole come industria, educazione come merce. Proviamo a cambiare

Così come la distruzione del pianeta da parte dell’uomo è avvenuta soprattutto negli ultimi cinquanta-sessant’anni, con un’accelerazione spasmodica delle attività distruttive dovuta all’industrializzazione e poi al consumismo e alla globalizzazione, allo stesso modo la distruzione dell’animo umano, la degenerazione psichica e culturale hanno avuto un’accelerazione incontrollabile nelle ultime generazioni. Dovute agli stessi motivi.scuola_pubblica

Mentre si distrugge la natura e ci si allontana da essa,  ci si distrugge: l’uomo è natura, come tutti gli altri esseri viventi. L’inquinamento di aria, acqua e suolo mina la salute fisica, una società e una vita quotidiana sempre più artificiali deteriorano la mente e i sentimenti. Sono le ultime generazioni a pagare più delle altre lo scotto per l’inquinamento materiale, poiché lo subiscono fin dalla nascita e dalla prima infanzia e sono sempre le ultime generazioni a subire, più di tutte quelle che le hanno precedute, la deformazione dello spirito e della mente: perché non hanno avuto esperienza, e quindi non hanno memoria, di un mondo dove i rapporti tra gli esseri umani avevano ancora qualcosa di naturale, solidale e comunitario; né di un mondo dove il rapporto tra gli umani e la natura era ancora considerato essenziale e vissuto in modo semplice e non competitivo. I bambini e i giovani di oggi, come memorie ed esperienze infantili, hanno i videogiochi, le lavagne interattive sulle quali non si scrive e non si impara (…Lo spostamento di un contenuto con un gesto dimostrativo identico per ogni contenuto, non ne consente l’acquisizione….  Proprio perché il computer evita agli studenti buona parte del lavoro mentale, esercita un effetto negativo… – Manfred Spitzer “Demenza digitale”  ), i cellulari e i tablet con i quali si cammina fissando uno schermo e non vedendo ciò che ci circonda e non parlando con chi ci sta intorno, gli  i-pad con cui non si sentono i rumori della vita e si ascolta una musica che gli altri non sentono.
Avranno un addestramento all’isolamento che nemmeno i carcerati in regime di 41bis, un tirocinio alla demenza che non lascerà loro scampo: efficace, pervasivo, precocissimo. Ci sono i cartoni animati per i neonati, i finti cellulari per chi ancora non coordina i movimenti delle dita e inventeranno altro. Ci sono paesi dove si comincia a far usare il computer nella scuola dell’infanzia, cioè quando i bimbetti traballano sulle gambe e più che parlare farfugliano. Senza ancora conoscere il mondo reale, vengono tuffati nel mondo “virtuale” e lì sprofonderanno per non venirne più fuori.
E ci sono quelli già “sprofondati”. In Germania i centri di cura per il recupero delle dipendenze da internet e simili hanno cominciato ad essere aperti fin dal 2003. E poi è stato un crescendo in tutto il mondo: il governo cinese stima che il 13% degli adolescenti sia digital-dipendente, così come lo sono il 18% degli studenti britannici, l’11% dei giovani sudcoreani; nel 2009 negli USA si apre il primo ospedale dedicato unicamente alla cura della dipendenza digitale, e nel 2009 si apre un reparto analogo al policlinico Gemelli di Roma. E quando si parla di “dipendenza” non si usa un eufemismo: i sintomi sono molto simili a quelli delle tossicodipendenze, le conseguenze si assomigliano. Con la differenza che la loro “droga” questi giovani e bambini la possono trovare facilmente, gratuitamente, legalmente nella loro stessa casa, nella loro stessa scuola. Quello che non mancherà, agli zombie-robot in erba, sarà una forte carica competitiva, una buona dose di aggressività indefinita (la maggior parte dei videogiochi e dei cartoni animati sono violenti e una ragione ci sarà; senza contare la violenza sparsa a piene mani nella maggior parte dei film e programmi televisivi e, dato che nel modo in cui oggi si vive, la televisione è la prima famiglia e comunità a cui i pargoli sono indotti a far riferimento), accompagnata, e non è una contraddizione, da una passività completa nei confronti della “autorità”: economica, politica, scientifica. La perdita di autonomia psicologica, di esperienza autonoma, di autonoma iniziativa e di spirito critico conduce a questo. Anche la scuola attuale conduce a questo, con il suo carico sempre maggiore di lavoro, privo spesso di valore culturale ed educativo, inadatto a sollecitare la curiosità, l’inventiva, la fantasia, la collaborazione, ma adattissimo a selezionare i più competitivi, i più acritici, i più inconsapevolmente servili, i più frustrati: o a farli diventare tali. Una società basata sul dominio ha bisogno di servi e dominatori, ogni dominatore deve saper essere servo di chi gli sta sopra: i due ruoli si accompagnano e sovrappongono inevitabilmente ed, essendo ambedue innaturali, richiedono molta “cultura”. Forse per questo il PROGRAMMA SCOLASTICO è diventato così importante. La scuola e gli insegnanti corrono per attuare il Programma Scolastico ma nessuno sa davvero come, chi, perché abbia scelto il Programma Scolastico, nessuno sa bene cosa sia, in cosa consista, che scopi abbia e nessuno può metterci becco, tantomeno genitori e famigliari. Né del resto sembrano volerlo: il Programma Scolastico è una divinità suprema, alla quale bisogna credere, obbedire e per la quale combattere, cominciando dagli insegnanti per finire con i bambini di sei anni.   Così i ragazzi di oggi nella società di oggi crescono senza imparare quasi niente di ciò che è utile per la vita, né moralmente né materialmente: non sanno attaccarsi un bottone né far fronte agli imprevisti; non sono capaci di cucinare e lavare i piatti né di immedesimarsi nelle altrui gioie o pene. Ma oggi è assodato e accettato da (quasi) tutti che la scuola sia un bene in sé, che l’istruzione data dallo Stato sia un bene in sé. Indipendentemente da che tipo di Stato si tratti. Come se la scuola fosse qualcosa di trascendentale e di neutro. Fino a un’epoca molto recente, la scuola era il privilegio delle classi dominanti. Il luogo dove si addestrava a dominare. Per questo bisognava che i bambini futuri dominatori considerassero naturale e benefico il dominio e a questo pensava la scuola, poi bisognava che fossero messi in grado di esercitarlo. I bambini futuri dominatori venivano educati con la disciplina e con la sferza, perché per essere feroci bisogna prima aver subito la ferocia. La scuola dell’obbligo nasce con l’industrializzazione, quando diventa necessario addestrare anche i dominati, in questo caso le classi subalterne. Bisogna addestrare i figli dei contadini a diventare operai. Bisogna diventare meccanici e tornitori, tipografi e muratori, operaie tessili e commesse. La scuola di Stato, cioè la scuola di chi ha il potere nello Stato, diventa un obbligo. E un bene. Così come la tecnologia digitale nasce quando la grande industria ha bisogno di risparmiare sulla manodopera, di diventare globale e multinazionale e quindi di comunicazioni veloci ed economiche (in “tempo reale”) tra tutte le sue componenti (filiali, uffici, dirigenti locali, clienti e fornitori, governi ecc.) in tutto il mondo, e di controllare in maniera capillare, pervasiva e totale la società: dalle carte di credito agli spostamenti, dalle telefonate alle merci acquistate, “dalla culla alla tomba” e in mezzo ci sta anche il voto elettronico. E allora, negli ultimi tempi di dominio globale del capitalismo, cioè dell’ultimo impero in ordine di tempo, anche l’istruzione-competizione deve diventare globale, cioè non deve lasciare più alcuno spazio di esperienza autonoma e di educazione comunitaria ai bambini e ai ragazzi: le nuove generazioni devono essere addestrate a lavori molteplici e flessibili, devono essere educate e costrette all’isolamento individuale, devono essere educate a consumare acriticamente e maniacalmente qualsiasi prodotto l’industria globale proponga.  Eppure, e nonostante tutto, c’è una bella luce gagliarda nella tenebra educativa di una società decadente e in decomposizione: aumentano vertiginosamente le iscrizioni alle scuole “alternative”: montessoriane, steineriane, libertarie; e aumentano le “scuole a casa”, cioè i genitori che decidono di istruire ed educare autonomamente i loro bambini, senza mandarli a scuola. Evidentemente c’è in molti un sano, irriducibile istinto che ci ancora alla natura e alla “nostra” natura. Tutte queste scuole educano al senso critico, al rispetto reciproco, alla collaborazione; insegnano a fare con le mani, a ragionare con la propria testa, a non accettare supinamente ciò che viene imposto dall’alto; non costringono, non reprimono, non soffocano la fantasia e la curiosità, non mortificano gli impulsi gioiosi dell’infanzia ma educano alla discussione e all’ascolto, alla tolleranza e alla dignità. Educano alla responsabilità individuale e collettiva. “Il nostro obiettivo è elaborare una pedagogia che insegni ad apprendere per tutta la vita dalla vita stessa”, dicono le scuole steineriane; parlano di accogliere, comprendere, riflettere; di attività motorie perché i bambini  sono corpi e anime e ambedue devono svilupparsi armoniosamente. “Ogni bambino, seguendo il proprio disegno interiore di sviluppo e i suoi istinti-guida, accende naturalmente il proprio interesse ad apprendere, lavorare, costruire, portare a termine le attività iniziate, sperimentando le proprie forze, misurandole, controllandole… suscitando gioia ed entusiasmo” dicono le scuole Montessori.  “L’educazione libertaria riconosce ai bambini la capacità di decidere individualmente e in gruppo come, quando, cosa e con chi imparare” dicono le scuole libertarie, e parlano di sviluppo di ogni talento e capacità della persona nella sua interezza, mente e corpo. “Ecologia, empatia, rispetto, comprensione, libertà” dice Scuola di Paglia, una scuola libertaria pugliese.  E’ così evidente la differenza con quello che magnificano e propongono le scuole “normali”, statali e non: la differenza è il rispetto e il valore del bambino; la differenza è la considerazione e il valore che si dà al legame tra il bambino e il mondo che lo circonda, il mondo della famiglia, della comunità, della natura.  Da una parte la scuola è considerata alla stregua di una merce da vendere, se privata, o da rifilare ai genitori: conta la quantità, più ore si fanno a scuola e meglio è, se non ci si può permettere la “qualità” (e la qualità, oltre alle tante ore, deve dare un surplus di competizione e tante lingue straniere fin dalla prima infanzia, in primis naturalmente l’inglese, oltre a tanta tecnica digitale fin dalla prima infanzia). Il bambino deve essere “allenato” come un atleta da olimpiadi, perché si deve preparare a gareggiare e vincere. Le scuole “alternative” parlano un’altra lingua. Non vantano le possibilità di attrezzature particolari o discipline “all’avanguardia”. Vantano l’obiettivo di sviluppare anime e corpi, aiutando i bambini a comprendere e a godere la vita, a viverla in comunità rispettose ed unite. Vantano l’attenzione, il “chinarsi” sul bambino invece di sovrastarlo, l’ascolto. Vantano un’educazione e un’istruzione che parte dal bambino, dalle sue qualità peculiari, dalle sue esigenze infantili, e che le intreccia con quelle dei suoi compagni e con la vita tutta. E’ chiaro che le scuole “alternative” sono adatte ad un’altra società, alternativa a quella attuale. E, per realizzarla, non possiamo prescindere dall’educazione dei nostri bambini e dalla loro felicità.

La prima Alba ha trovato un bambino,
laggiù verso est l’ha trovato.
Quando l’ha trovato gli ha parlato.
Egli sorride,
pronto alla vita,
ha una voce forte e allegra.
E’ un bimbo luminoso,
colmo di pace.
(Canto Navajo)

Fonte: ilcambiamento

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Industria dei Biocarburanti, “le maniere forti dei Governi al CFS”

Nel corso dei negoziati all’interno del Comitato Mondiale sulla sicurezza alimentare (CFS), i governi stanno difendendo gli interessi dell’industria dei biocarburanti: “non solo hanno rifiutato di approvare le raccomandazioni sui biocarburanti, ma hanno anche sistematicamente respinto ogni riferimento ai diritti umani, ai legami con l’aumento dei prezzi del cibo e al land grabbing”. Lo rende noto l’Aiab. Intanto, la società civile si mobilita.7

I movimenti della società civile, tra cui ‘La Via Campesina’ hanno accusato i governi di negoziare sugli agrocarburanti, nell’ambito del Comitato Mondiale sulla sicurezza alimentare (CFS), in difesa degli interessi dell’industria dei biocarburanti, piuttosto che delle tante persone che soffrono la fame proprio a causa delle politiche che incentivano questo tipo di carburanti.

Nel corso dei negoziati, i governi non solo hanno rifiutato di approvare le raccomandazioni sui biocarburanti, ma hanno anche sistematicamente respinto ogni riferimento ai diritti umani, ai legami con l’aumento dei prezzi del cibo e al land grabbing. I governi hanno riconosciuto che le colture finalizzate alla produzione di biocarburanti competono con le colture alimentari e ne influenzano i prezzi, ma non hanno avuto il coraggio di proporre alcuna azione per fermare tutto questo. La predominanza nei colloqui dei Paesi a favore degli agro carburanti ha indotto decisioni estremamente favorevoli per l’espansione di questo tipo di combustibili. Al contrario, la posizione dei governi che hanno mostrato forti perplessità in merito è stata per lo più ignorata. “I piccoli produttori hanno espresso con forza le proprie opinioni sulle difficoltà quotidiane: le colture di biocarburanti competono con quelle finalizzate all’alimentazione, per la terra che coltivano e per l’acqua di cui hanno bisogno per sostenersi. Si sono rivolti a questa assemblea per difendere il proprio diritto al cibo dall’impatto dei biocarburanti, ma le raccomandazioni finiscono nel difendere in maniera preponderante gli interessi dell’industria degli agrocarburanti e legittimano le violazioni del diritto al cibo” . Nel mese di giugno l’High Level Panel of Experts (HLPE) – Gruppo di esperti di alto livello – ha pubblicato su richiesta del CFS un rapporto sulle politiche di biocarburanti allo scopo di dare un valido contributo ai negoziati. Il documento ha chiaramente sottolineato l’esistenza di un legame tra politiche energetiche e sicurezza alimentare, ma ha anche evidenziato che uno dei fattori chiave alla base della volatilità dei prezzi dei prodotti alimentari degli ultimi anni è proprio rappresentato dai biocarburanti. Queste tesi sono state avvalorate anche da altre ricerche indipendenti, di cui una della Commissione Europea. Le stime attuali suggeriscono che circa sei milioni di ettari di terra nell’Africa sub-sahariana sono sotto il controllo di imprese e società europee di agro carburanti, mentre 293 appezzamenti di terra, oggetto di land grabbing su scala globale sono utilizzati ai fini della produzione di questi combustibili “verdi”, coprendo una superficie globale di oltre 17 milioni di ettari. Lunedì scorso, più di 80 organizzazioni della società civile hanno inviato una lettera ai membri del CFS, avvertendo loro che le attuali raccomandazioni non sono in grado di sostenere in nessun caso il diritto al cibo né possono contribuire a fermare la fame indotta dai biocarburanti.

Note:

Il CFS è un forum che rientra nel Sistema delle Nazioni Unite per la revisione delle politiche in materia di sicurezza alimentare mondiale. La società civile partecipa al CFS attraverso il più grande meccanismo internazionale di organizzazioni della società civile che cercano di influenzare le politiche e azioni l’agricoltura, la sicurezza alimentare e la nutrizione. Il mandato e lo spirito della riforma del CFS è quello di creare un organismo inclusivo che comprenda tutti i paesi e le parti interessate. Al centro della riforma del CFS vi è un Quadro Strategico Globale incentrato sul diritto al cibo che fornisce una guida chiara per coordinare le azioni in materia di sicurezza alimentare e nutrizione. L’High Level Panel of Experts (HLPE) fornisce analisi scientifiche finalizzate a informare i governi sulle questioni prioritarie.

Fonte: ilcambiamento

Passaporto dei prodotti, l’idea europea per massimizzare risorse e riciclo

Il Commissario all’Ambiente Ue Janez Potocnik lancia la proposta di un “Passaporto dei prodotti” per raggiungere target ambiziosi sulla produttività delle risorse117075788-586x414

Il Commissario all’Ambiente dell’Unione Europea Janez Potocnik ha lanciato oggi l’idea, proposta in origine da quattro paesi dell’Ue, tra cui l’Italia e molte ong, imprese ed associazioni di consumatori, di istituire un “Passaporto dei prodotti” al fine di massimizzare l’uso delle risorse europee e del riciclo. In una riunione tenutasi a Bruxelles il Commissario Potocnik ha dunque rilanciato l’iniziativa, che ha il dichiarato scopo di creare una sorta di economia circolare delle risorse interne all’Unione Europea, possibile tuttavia solo con un know-how completo sulla composizione del prodotto e su come può essere smantellato e riciclato.

Secondo stime recenti, l’Ue potrebbe ridurre realisticamente fra il 17% e il 24% la richiesta di materiali per la sua economia, aumentando il Pil e creando fra 1,4 e 2,8 milioni di posti di lavoro.

ha spiegato Potocnik, aggiungendo che solo se cambiamo veramente il modo in cui produciamo e consumiamo, l’industria europea può rimanere competitiva.

All’interno di questo progetto saranno previste norme anche riguardanti l’uso di agenti chimici e prodotti nocivi sulle risorse agricole e ci si concentrerà sull’eliminazione progressiva dei sussidi “nocivi per l’ambiente”, come quelli ai carburanti fossili e sull’uso dell’acqua in agricoltura, nell’industria e nell’energia.

Fonte: ecoblog