La biofilia e l’educazione in Natura negli spazi educativi all’aperto

Il gioco e la Natura sono elementi fondamentali per l’apprendimento, consentono una crescita esperienziale, al giusto ritmo e lo sviluppo di un sapere intuitivo. Come possiamo dunque progettare uno spazio all’aperto che sostenga i processi di apprendimento spontanei dei bambini?

La biofilia (E.O. Wilson, 2002) può essere definita come la capacità umana di connettersi emotivamente con l’Altro vivo. Questo consente di sentirsi, e quindi di essere, parte di quella vita che percepiamo dentro e fuori di noi. Come ogni abilità emotiva, può essere nutrita o annichilita. L’agire educativo può cogliere ispirazione dalla natura in infinite forme e possiamo scegliere di introdurci a questa prospettiva considerando la Natura maestra nel senso tangibile dei ritmi che ci propone con il susseguirsi delle sue fasi in lento e continuo mutamento (J. Young, 1997 in C. Mancini 2020 educatori esperienziali in Natura).

La visione sull’apprendimento che propongo mette al centro l’esperienza, quello spazio in cui può manifestarsi ed attuarsi un tipo di intelligenza ampia nella quale pensiero, azione ed emozioni interagiscono e crescono come tutt’uno (K. Hahn, H.J. Pestalozzi). Diventa essenziale imparare a mettersi in ascolto, prima ancora di imparare il linguaggio della natura; risvegliare in sé le capacità percettive sensoriali e di attenzione, fino ad affinare una capacità di contatto con la natura che fa emergere una sapienza non razionale ma intuitiva, quella che risiede nel selvatico. Da adulti può risultare difficile lasciarsi andare alla propria biofilia, per chi vive una vita urbana e prevalentemente domestica è comune percepire il bosco, o altri luoghi selvatici, come un ambiente difficilmente accessibile in quanto separato dalla propria quotidianità; riconoscere la rilevanza della natura e la sua bellezza può non essere sufficiente per intraprendere un percorso che porti a conoscerla da vicino.

Il gioco come promotore della crescita umana

Nell’infanzia, il gioco è fondamentale per la sperimentazione e l’attivazione della maggior parte dei processi di apprendimento; in questo senso si può dire che giocare è il “mestiere” di ogni bambino. Per questo, gli adulti dovrebbero rivolgere attenzione e gratitudine verso ogni atto di gioco espresso in loro presenza. Le parole giocare e imparare sono profondamente intrecciate nel mondo quotidiano degli umani giovani. Il compito dell’adulto può essere quello di facilitare la cornice, la situazione, e di fornire gli stimoli alle forme di gioco adatte alla fase evolutiva in atto; in questo modo possiamo ammirare la natura umana fare il resto.

Crescere significa agire nell’ambiente e questo richiede occasioni di espressione e libertà di movimento. Se forniti di materiali e circondati da ambienti avvincenti e ricchi di occasioni, le persone che possono seguire la loro attenzione scelgono e inventano giochi naturalmente adatti ai propri bisogni emotivi ed evolutivi. L’apprendimento esperienziale (D. Kolb, 2001) valorizza gli aspetti spontanei e autentici di ogni individuo e gruppo ispirandosi alle modalità di apprendimento che esprimiamo nelle prime fasi della nostra vita (J.Piaget, 1966, L.Vygotsky, 1997): prima ci sono i sensi e il movimento, l’impulso ad agire, poi la voglia di capire e dare un nome alle cose, poi il bisogno di unire e distinguere per scegliere chi essere e come agire nel mondo. Nel nostro caso, la determinazione del nostro agire pedagogico. 

Come progettare uno spazio all’aperto 

All’esterno è importante il tipo di ambiente che offriamo e per sostenere i processi di apprendimento spontanei dei bambini, l’ambiente naturale è l’ideale. Possiamo pensare uno spazio ad oggi antropizzato, cementificato e riempito di giochi di plastica rendendolo così più addomesticato in una versione più organica, con forme ondeggianti, fenologie vegetative variegate e, particolarmente importante, una gestione dell’impatto umano diversificata da tenuto a curato a salvaguardato a “quasi selvatico”. La natura si allea prontamente con i bambini, la loro curiosità e la loro voglia di fare e di muoversi. Progettiamo in futuro ambienti verdi in cui i protagonisti siano gli elementi naturali e che possano avere spazi per incontrare i bambini: l’erba – bassa, alta, a mezza misura- fiori, piante da frutto piccole o più grandi, terra, sabbia, acqua, giochi di luci e ombre, cunette, zone da lancio e zone da corsa. Ci possono essere aree diverse, delimitate da piccole siepi, ciascuno con elementi naturali che si presentano in modo diverso (luce, ombra, spazi piccoli e intimi, spazi aperti, orto, punti di prospettiva e rifugio.).

Ogni elemento naturale e il modo in cui si presenta, richiama e risveglia le percezioni sensoriali dei bambini, creando sodalizi esperienziali che sono la base dell’apprendimento: profumi, percorsi da fare a piedi nudi, superfici diverse, sapori, forme, suoni. Importante è anche permettere l’azione con le mani, raccogliere, impastare, provare, costruire, trasportare, travasare. Ci possono essere piccoli habitat ricreati da noi basandoci sulle conoscenze dell’ecologia applicata. Possiamo puntare l’attenzione agli ecotoni, i margini e gli habitat che li compongono come ad esempio un gradiente ecologico dal prato libero e curato al ruscello artificiale o anche dal fiume di pietre alla zona di foresta di bambù o dalla zona di savana con erbe spontanee di ogni tipo, in diversi cicli di vita insieme verso una zona di arbusti da frutto qua e là.

Piaget parla di pensiero senso motorio alla base dello sviluppo dell’essere umano: in outdoor il pensiero senso motorio si sviluppa a tutto tondo, mettendo delle basi solidissime al pensiero formale. Lo spazio all’aperto consente anche lo sviluppo dell’attenzione e della capacità di connessione ad essa legata: uno spazio ricreato al naturale offre ampie vedute così come infiniti dettagli, consentendo un esercizio insostituibile di passaggio dal particolare al generale che è un vero allenamento dell’attenzione. Solo stando in natura si può imparare a stare in natura: i pericoli che secondo gli adulti ci sono fuori, sono una minaccia solo per i bambini che non sono abituati a stare fuori, che non si sono confrontati con l’ambiente naturale, che non lo conoscono, che non hanno potuto svilupparvi delle abilità di movimento e connessione. La natura consente anche un equilibrato sviluppo emotivo: le onde emozionali possono propagarsi liberamente all’esterno, evitano di essere pressate interiormente. La vitalità del bambino trova spazio di espressione, così non si accumula tensione. I bambini che possono stare all’aperto regolarmente, sono più sereni e quieti. Anche le diverse condizioni atmosferiche aiutano in questo senso, perché assorbono le energie dei bambini, cavalcano e valorizzano il loro stupore, invogliano il coinvolgimento e l’azione collaborativa. Vivere fuori stimola l’interazione con gli altri, e genera legami profondi di relazione, fra adulti, fra bambini, e fra adulti e bambini. È consigliabile quindi uscire con qualsiasi tempo atmosferico conoscendo la differenza tra meteo pericoloso e non per sperimentare senza timori l’outdoor in tutte le sue forme.

Per saperne di più puoi iscriverti al corso Il giardino dolcemente accidentato – Come progettare uno spazio educativo all’aperto organizzato da Nature Rock.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/08/biofilia-educazione-in-natura/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Dalle piante possiamo imparare chi siamo

L’etnobotanica e la paleoetnobotanica in particolare ci possono aiutare a ricostruire la storia della relazione tra l’uomo e il mondo vegetale: in che modo gli uomini hanno usato le piante per scopi alimentari, medicinali o per costruirsi ripari e come le hanno selezionate e modificate nel tempo.9596-10362

Lo studio approfondito di questa disciplina fa risalire l’alterazione dell’ambiente naturale da parte dell’uomo a tempi molto remoti. Tuttavia, nelle civiltà più antiche come nelle popolazioni indigene di molti paesi ancora adesso, ogni intervento umano era teso a un sostanziale equilibrio con la natura e non c’era traccia di quella netta separazione tra mondo umano e mondo naturale che contraddistingue ora la nostra civiltà. L’uomo stesso sembra non percepirsi più come parte integrante dell’ambiente in cui è nato con le conseguenze serissime che conosciamo.

Ne parliamo con la Prof. ssa Marta Mariotti, docente di Botanica Sistematica presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze

Che cos’è l’etnobotanica?

E’ la disciplina che studia l’uso che l’uomo fa delle piante, il suo rapporto con esse in vista di un uso a scopo alimentare, medicinale o per materiale da costruzione. Sempre quindi con una prospettiva di utilizzo e relazione. Parliamo sia le piante che crescono in ambiente naturale sia quelle coltivate in agricoltura.

Lei si occupa di paleoetnobotanica in particolare. Di che si tratta?

La paleoetnobotanica studia le piante del passato cercando di ricostruire la storia dell’utilizzo che l’uomo ne ha fatto.

Perché la paleoetnobotanica è così importante?

Perché ci fa conoscere il rapporto che l’uomo ha avuto con le piante, un rapporto che è cambiato nel tempo e che è diverso da cultura a cultura. Inoltre  gli interventi che l’uomo ha fatto in passato sulle piante hanno finito per incidere sull’equilibrio naturale. L’uomo ha, cioè, cambiato  i rapporti sia qualitativi che quantitativi all’interno delle comunità vegetali e ha iniziato un’alterazione dell’ambiente.

L’uomo fa parte dell’ambiente o è al di fuori dell’ambiente naturale?

Oggi lo si considera spesso al di fuori, come colui che lo invade e con la sua presenza lo altera e lo aggredisce. Personalmente però sono più propensa a considerarlo all’interno del sistema naturale nel quale è integrato anche se mi rendo conto che è diventato sempre più uno sfruttatore dell’ambiente stesso.

Ma se l’uomo fa parte dell’ambiente ed è integrato al suo interno, come mai tende a distruggerlo? Nessun altro animale lo fa.

E’ un problema di storia e di educazione. Se noi vediamo le popolazioni che ancora vivono nel Terzo Mondo, vediamo che l’uomo sfrutta comunque le piante che usa ma cerca di non abusarne e di tutelarle. La nostra civiltà invece ha imparato a prendere senza pensare cosa questo significhi non solo per le prossime generazioni ma anche per sé domani stesso. Questo è il suo atteggiamento.

Come si è creato questo distacco? Cosa ha determinato questo squilibrio?

E’ stato determinato dalla conoscenza che non c’è più. La responsabilità è essenzialmente dell’allontanamento dall’ambiente naturale e dall’inurbamento. Se ci pensiamo, in città non ci rendiamo conto delle stagioni che si susseguono, non abbiamo contatto con la natura se non solo marginalmente. Le civiltà contadine vivevano invece in equilibrio con essa. Non conosco alcuna popolazione contadina o che viva a stretto contatto con la natura e che non la rispetti. Ho conosciuto alcune popolazioni africane e, di certo, a nessuna di esse verrebbe mai in mente di prendere più di quanto sia prudente fare. Perché sa che se prende di più oggi, prenderà di meno domani. Questa è una consapevolezza che, chiusi nelle nostre città, abbiamo completamente perso. Questa stessa separazione c’è anche con le cose che mangiamo. Quasi nessuno sa cosa mangiamo davvero né ce lo chiediamo più.

Quando è iniziato questa progressiva separazione? Possiamo dire negli ultimi cento anni?

In realtà è iniziato tutto molto prima. Non è facile dire quando ed i tempi sono diversi da civiltà a civiltà. Direi che negli ultimi cento anni questo processo ha subito un’accelerazione.

Quindi il suo obiettivo è diffondere conoscenza in vista di un progressivo riavvicinamento tra uomo e natura?

In un certo senso sì. Quello che vorrei fare io è contribuire alla consapevolezza dei miei studenti. Per quanto riguarda invece la ricerca mi occupo dell’alimentazione del passato. In particolare del ruolo delle piante nella dieta del paleolitico.

Però la dieta paleolitica di cui si sente molto parlare ultimamente è a base di proteine animali.

Secondo la dieta del paleolitico, per come è diffusa e conosciuta,  solo pochissime piante sarebbero incluse. I cereali, ad esempio, non dovrebbero far parte dell’alimentazione umana almeno al di fuori dell’area di origine. I sostenitori della “Dieta Paleolitica” affermano che il nostro organismo non è in grado di metabolizzarli. Dal punto di vista biologico, però, queste affermazioni non sono state provate e spesso chi si occupa di dieta paleolitica non conosce bene la biologia delle piante. Nelle mie ricerche è, invece, emerso che in realtà almeno l’avena, uno dei cereali, è usata in Italia da più di 30.000 anni. A quel tempo, inoltre, venivano utilizzate piante che da noi hanno perso il loro ruolo all’interno dell’alimentazione umana.

Può farci qualche esempio? E perché secondo lei?

Un esempio può essere la Tifa, della quale venivano utilizzati i fusti sotterranei per ricavarne farina. Evidentemente la coltivazione del grano e dell’orzo, una volta arrivati dal MedioOriente, è risultata economicamente più redditizia della raccolta dei rizomi di Tifa, una pianta che è legata agli ambienti umidi.

Qual è il ruolo di questa disciplina nella salvaguardia dell’ambiente?

Consideriamo che quando si introduce una pianta estranea in un sistema naturale, i danni non sono la sua comparsa laddove non c’era, ma tutta  una serie di cambiamenti, anche molto più profondi, che la sua presenza comporta. Ogni pianta porta con sé una serie di microrganismi estranei al nuovo ambiente e stabilisce rapporti diversi con le altre piante. Interferisce, cioè, con l’equilibrio di un sistema ben oltre i cambiamenti che vediamo. Quando vengono importate delle sementi si introducono spesso, involontariamente, anche piante infestanti esotiche, indesiderate. Quando introduciamo  una specie esotica in grado di incrociarsi con una autoctona, diamo origine ad ibridi. Ad esempio, se si porta una pianta americana in Europa e questa è in grado di  ibridarsi con le europee, alla fine avremo la comparsa nelle popolazioni europee di alcuni geni di provenienza americana. Si tratta quindi di una modificazione della ricchezza genica della popolazione iniziale. Interventi di questo tipo alterano in modo profondo l’ambiente e questo nella conservazione della natura è un problema.

Nel tempo questa alterazione viene riassorbita? Penso ad esempio al caso del pomodoro.

Alcune piante come il pomodoro non sono mai riuscite a spontaneizzarsi e sono rimaste nel coltivato. Il problema invece è quando le piante “scappano” dalle coltivazioni.

Può farci un esempio?

I vitigni introdotti dall’America. Due secoli fa arrivarono come portainnesto per le nostre viti. Oggi invece andiamo nelle campagne e ci troviamo la vite americana inselvatichita.

Questo fenomeno porta anche a un cambiamento in specie e quantità per quanto riguarda i parassiti?

Sì, certo.

Importare piante diverse dalle nostre è legale?

Adesso ci sono leggi che lo impediscono ma una volta si faceva tranquillamente. Noi botanici per primi lo facevamo. Adesso per motivi di studio si può fare ma con molti accorgimenti e con periodi di quarantena.

Per quanto riguarda invece le piante geneticamente modificate?

Questo è un discorso molto grosso. L’uomo modifica selezionando da sempre. Le faccio un esempio: la pianta di fagiolo. Quando i fagioli sono maturi, apriamo il baccello (cioè il legume, il frutto) e togliamo i fagioli (i semi) dal suo interno. In natura, quando i fagioli sono maturi il baccello si apre da solo ed i fagioli cadono a terra.   L’uomo ha scelto da millenni piante che  sono difettose dal punto di vista genetico, i cui legumi non si aprono. Lasciate a se stesse queste piante non hanno la possibilità di riprodursi mentre messe in coltivazione l’uomo le preferisce perché invece di raccogliere per terra i semi, può raccogliere i baccelli che li contengono direttamente dalla pianta. La stessa cosa possiamo dire per i cereali che formano la spiga. In natura i chicchi (i frutti), via via che maturano, cadono sul terreno. L’uomo ha selezionato invece piante difettose con spighe che non lasciano cadere i loro chicchi e in questo modo può mietere il grano con le spighe integre. Altrimenti dovrebbe raccogliere tutti i chicchi caduti a terra. L’uomo quindi ha sempre selezionato varianti genetiche, spesso svantaggiose per la pianta, che però rendevano più facile la raccolta. Ha selezionato piante incapaci di affermarsi in natura e ha iniziato a coltivarle. Altre volte ha favorito quelle piante che avevano frutti più grandi, più gradevoli. Nel caso dei cereali spighe più compatte. In questo senso, quindi, l’uomo ha sempre scelto piante un po’ “anomale” che in natura non avrebbero continuato ad esistere. Poi ha sempre operato l’ibridazione e ha seminato sempre i semi più grandi. Ibridando si producono piante diverse dai genitori e questo è già scegliere organismi geneticamente “modificati”. La differenza è che oggi conosciamo tecniche di intervento mirate. L’uomo per millenni l’ha fatto inconsapevolmente mentre adesso lo facciamo in modo consapevole.

Sono pericolosi gli organismi geneticamente modificati?

Sono pericolosi nel momento in cui le multinazionali utilizzano queste conoscenze per sperimentare nei paesi in via di sviluppo piante che hanno controindicazioni. Oppure il far coltivare dal contadino ignaro una pianta che il primo anno ha una produzione altissima e il secondo anno, visto che la pianta non crescerà proprio, costringerlo ad acquistare  quel dato fertilizzante chimico messo in vendita dalla multinazionale stessa. Quindi la finalità non è più avere nelle mani piante che siano utili ma costringere all’acquisto di sostanze prodotte dalle multinazionali.

John Zerzan dice che il problema è l’agricoltura in sé e che nel momento in cui abbiamo iniziato a coltivare abbiamo alterato l’equilibrio naturale. Che ne pensa?

L’agricoltura inizia nel neolitico. L’uomo pensa di portare vicino a casa le piante che consuma e inizia, quindi a coltivarle. Non sono d’accordo che il problema sia l’agricoltura in sé ma l’uso egoistico e incosciente della domesticazione delle piante.

Per chi volesse saperne di più sull’etnobotnica o sui suoi progetti di studio?

Ci sono molte riviste scientifiche dedicate a questa materia e anche molti siti on-line sull’argomento. Purtroppo ci sono pochissime pubblicazioni divulgative che affrontano l’argomento con il necessario rigore scientifico.

Fonte: ilcambiamento.it

Torino: nelle scuole dei comuni Covar14 si impara anche a non sprecare il cibo

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Alle ormai tradizionali lezioni su raccolta differenziata e compostaggio domestico si affianca una nuova tipologia di intervento volta a sensibilizzare sul tema dello spreco alimentare. E’ in pieno svolgimento da un mese circa, il progetto scolastico gestito da Achab Group “La differenza si (ri)fa a scuola”, erede di quello dello scorso anno ed ennesima edizione, come da tradizione ormai pluriennale per Covar14, di interventi di educazione ambientale presso i plessi scolastici (scuole dell’infanzia, primarie e secondarie) dei 19 comuni consorziati (area sud ovest di Torino). Grande successo ha avuto l’iniziativa del Consorzio di affiancare alle ormai tradizionali lezioni su raccolta differenziata e compostaggio domestico una nuova tipologia di intervento (per le primarie e le secondarie di primo grado) ovvero quella volta a sensibilizzare sul tema dello spreco alimentare. Una visione proposta ai bambini che va dalll’impatto della produzione globale di cibo fino alla gestione del frigo di casa propria e che ha raccolto le preferenze di più di 100 classi. In totale (da segnalare anche la novità di lezioni sui RAEE per le scuole secondarie di primo grado) sono aumentate le adesioni rispetto allo scorso anno con ben 215 lezioni in classe, 37 laboratori di compostaggio domestico e 17 classi aderenti (anche superiori) a visite a impianti del territorio (termovalorizzatore del Gerbido o Ecocentri consortili). Per un totale di circa 4.500 studenti coinvolti e 269 attività. Tira le somme Leonardo Di Crescenzo, presidente del Consiglio di Amministrazione di Covar14 : “Il confronto con i 215 appuntamenti del 2016 prova che, anno per anno, cresce la sensibilità degli insegnanti verso questo argomento e le scuole si mettono in gioco per fare la loro parte. La loro collaborazione per la nostra attività è molto importante e proporre loro un’iniziativa che riscuote gradimento è un motivo di orgoglio”.

Come al solito l’offerta didattica è integrata da materiali informativi per gli insegnanti (spreco alimentare e RAEE i temi) e alunni con un opuscolo sul rifiuto organico a 360° (dalla raccolta differenziata al compostaggio, oltre che utili consigli per evitare lo spreco degli alimenti) e con interessanti pieghevoli sempre a tema RAEE e riciclo degli imballaggi.

Fonte (testo e foto): Achab Group

 

Imparare dall’orto: in Sicilia un’Aula Permanente di Ecologia

Promuovere l’ecologia ed il lavoro nell’orto come strumento per trasmettere l’educazione ambientale e molte altre competenze. È questa la finalità dell’associazione APE, Aula Permanente di Ecologia, che opera nella Sicilia orientale. Per saperne di più abbiamo intervistato Manuela Trovato, tra le fondatrici del progetto.

È partito nel 2012 in Sicilia, in collaborazione con la cooperativa Anima Mundi e con il comune di Savoca (in provincia di Messina), il progetto APE, Aula Permanente di Ecologia, un’aula all’aperto dedicata alla didattica in orto. Il focus principale dell’associazione che opera nella Sicilia orientale è quello di fornire servizi per la promozione di comportamenti e riflessioni sull’ecologia e la sostenibilità ambientale. In occasione dell’ultimo incontro degli Agenti del Cambiamento, abbiamo intervistato una delle quattro fondatrici di APE, Manuela Trovato che ci ha spiegato le finalità e attività portate avanti dall’associazione.

“Organizziamo corsi e laboratori di formazione per bambine e bambini presso la nostra aula didattica, che è un giardino all’aperto con un orto creato dai bambini  ed un grande orto condiviso. Inoltre organizziamo campagne di educazione ambientale nelle scuole, su temi differenti come l’educazione alimentare, l’economia circolare, l’energia ed il recupero dei materiali”.

Una peculiarità dell’Ape è quella di progettare tutte le attività portate avanti seguendo i principi della permacultura.580760_195426527308205_661790003_n

L’associazione si occupa della realizzazione di orti nelle scuole e offre supporto alle scuole nella creazione di orti scolastici sia dove ci sono dei giardini sia implementando sistemi orticoli in piccoli spazi o in cassette. “Noi – ci spiega Manuela – consideriamo l’orto uno strumento didattico trasversale. Tramite il lavoro pratico riusciamo infatti a trasmettere nozioni e concetti di matematica, scienze, biologia, storia e spesso anche inglese”.

“Preferiamo lavorare nell’orto soprattutto con le bambine ed i bambini della scuola primaria perché sono già consapevoli delle loro azioni e avvertiamo meno la paura che possano farsi male. Con le bambine ed i bambini della scuola materna in genere avviamo percorsi di avvicinamento e sensibilizzazione alle tematiche che poi permetteranno loro la creazione e la gestione di un orto. Le attività di Ape si rivolgono anche ai ragazzi della scuole superiori, in particolare con campagne di sensibilizzazione”.img_20150518_115843-1024x768

“Il nostro obiettivo – conclude Manuela – è far passare il concetto che l’orto è un luogo in cui possiamo insegnare non soltanto l’educazione ambientale ma molte competenze. Inoltre vorremmo trasmettere altri metodi di lavoro in classe come la facilitazione, la comunicazione non violenta, l’ascolto empatico e molte altre metodologie utili a trasmettere l’educazione ambientale”.

 

Visualizza APE sulla Mappa dell’Italia che Cambia! 

 

Il sito di APE 

 

Fonte: http://www.italiachecambia.org/2015/12/sicilia-aula-permanente-di-ecologia/

CycloLenti in Portogallo: vivere e imparare a Tribodar

“Non è una gomma, non è una caramella ma allora che cos’è…?”. Vi ricorda qualcosa? Come lo slogan di questo famoso marchio di caramelle il posto in cui ci troviamo “non è un ecovillaggio, non è una fattoria, non è una comunità, ma allora che cos’è…?”.

“If you can walk you can dance…” recita una scritta appoggiata all’ingresso. Se puoi camminare puoi ballare e se puoi sognarlo allora puoi anche realizzarlo. È così che, dal sogno di Michael, belga, e Moabi, portoghese, nasce Tribodar, uno spazio di apprendimento non formale su più livelli:
– Sociale
– Vita di comunità
– Crescita personale
– Coscienza ecologica e sostenibilità

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Siamo ad un paio di chilometri da Nisa, nell’entroterra del Portogallo, e qui comprare un terreno non è caro, parliamo di circa €4.000 all’ettaro. Facciamo subito la conoscenza di uno dei membri di vecchia data: Gennaro, napoletano, è architetto ed è appassionato di costruzioni naturali. Proprio qualche giorno fa hanno finito di costruire l’ossatura di un’abitazione con tetto reciproco. Una tecnica in cui le travi si autosostengono tra loro. Affascinante! Durante la nostra permanenza contribuiremo principalmente raccogliendo, pulendo e inchiodando delle canne sul tetto. Per quanto possa sembrare tutto caotico qui la giornata è abbastanza organizzata. Due ore al mattino e due al pomeriggio sono dedicate al “lavoro”, poi tutto il resto del tempo è per sé. Ciò solo dal lunedì al giovedì. Inoltre, a turno, due volte a settimana, in cambio di frutta, si va ad aiutare una coppia di anziani a riporre l’invenduto del mercato nel furgone. Venerdì, sabato e domenica sono giornate completamente libere da impegni collettivi. Ci sono sessioni di yoga, massaggi, oguno può organizzare dei workshop, cerchi di comunicazione, e la domenica mattina ci si riunisce per definire a grosse linee la settimana che viene: ossia turni per cucinare e progetti da portare avanti! Di solito, se il numero lo permette, cucini una volta alla settimana e poi non te ne preoccupi più… due volte al giorno “dlin dlin dliin” è il campanellino, il piatto ti aspetta in tavola!. Ma il “dlin dlin” non è l’unico suono. Dei lunghi “ihhh ohhhh” si ripetono durante la giornata. È l’asinello, che insieme ai due inseparabili gattini, sono gli unici animali di Tribodar. È un cucciolo e necessita di compagnia. Tra tutti i volontari, cibo e carezze di certo non gli mancano. Una grande terrazza coperta e ombreggiata da una vite funge da cucina comune. Sono almeno tre i frigoriferi presenti… ma attenzione solo uno è quello funzionante, gli altri sono usati come degli armadi. In un angolo delle mensole contengono vestiti di tutti i generi. Si tratta dello spazio in cui ognuno può lasciarvi o prendere qualcosa.tribodar2

L’assortimento di nazionalità è sorprendente: scozzesi, canadesi, francesi, inglesi, olandesi, italiani e chi più ne ha più ne metta. È divertente vedere come ognuno si improvvisa cuoco per un giorno, ovviamente quando è un italiano a cucinare, è tutta un’altra storia!  Tribodar non ha un’attività economica fissa. Sebbene l’uso del denaro sia ridotto al minimo ci sono comunque delle spese. Gli introiti principali provengono dal Tribojam, il festival che organizzano una volta all’anno, e il contributo che i volontari a breve termine danno per sostenere le spese vive, come viveri e materiali vari. Sono organizzati con un sistema a scaglioni temporali. Più tempo rimani e più il tuo contributo economico si riduce, fino ad annullarsi. Passa dai 6€ al giorno la prima settimana, ai 5€ la seconda, 1€ se si rimane per un mese e nulla se si rimane per più tempo.  Nei mesi di settembre e ottobre sono in programma costruzioni di casette con tetto reciproco, quindi, chiunque fosse interessato  ad apprendere questa tecnica è il benvenuto.tribodar3

Prima di andare via, Gennaro, con forbici alla mano, e con molta pazienza,  soddisfa uno dei clienti più difficili dal barbiere: Marco. Un taglio qui e un taglio là e la testa riesce di nuovo a sentire il vento che passa tra i capelli.

A Tribodar una cosa è certa: nonostante ci sia un’organizzazione di base, qui non ci sarà mai nessuno che verrà a dirti cosa fare, tutto parte da te, tutto è semplicemente spontaneo.

 

Intervista ai membri di Tribodar

 

Com’è iniziato Tribodar?

Moabi: Tribodar è iniziato con un sogno. Io e Michael abbiamo ragionato a lungo sulle cose che ci piacciano e non. Dalle nostre conversazioni è emerso un punto fondamentale per entrambi, ossia che il sistema attuale di educazione si basa poco sullo sviluppo individuale della persona e ciò che lo rende felice. Questo ci ha dato la forza di creare un luogo in cui ognuno abbia la possibilità di imparare in un modo diverso.

Che cos’è Tribodar oggi? 

Michael: È l’inizio di una comunità e un centro d’apprendimento. Alcuni sono alla ricerca di modi di vivere sostenibili, altri vengono per vedere ed imparare ciò che facciamo. C’è chi viene per una settimana o due, chi per un mese, chi ci rimane. Questo costante movimento influisce molto sulla vita di comunità. Oggi siamo strutturati in modo che una persona nuova che arriva, anche se rimane per un breve periodo, possa velocemente capire come funziona, inserirsi e dare il suo contributo.

C’è stato un momento specifico nella tua vita in cui hai realizzato che il tuo sogno era realizzabile?
Michael: Sono cresciuto in un contesto abbastanza alternativo. Mia madre è un insegnante Steineriana e mio padre uno psichiatra convertito alla medicina alternativa e all’educazione spontanea. Credo di essere cresciuto con un gran senso di libertà che mi ha fatto realizzare che c’è assolutamente bisogno di un nuovo modo di fare la scuola. Uno dei motivi per i quali le persone si sentono bloccate nelle loro vite è perché ci sono delle condizioni non dette che fanno credere che non si è liberi di scegliere la propria strada.  Sin da bambino sei abituato a dover stare seduto, zitto e fare ciò che l’insegnante ti dice. Si cresce, ed è lo stesso all’università, infine entri nel mondo del lavoro e ancora una volta finisci col fare quello che il tuo capo ti dice di fare. Se non c’è nessuno che ti dice di fare diversamente allora non lo fai, ma soprattutto non sei preparato per farlo. Hai paura e ti blocchi. Per me era chiaro che avrei scelto un’altra via e già venti anni fa pensavo ad una soluzione che mi permettesse di non essere vincolato alle logiche della società moderna e così alla fine sono arrivato al concetto di comunità.tribodar4

Qual era la tua vita prima e come sei arrivato qui in Tribodar?

Gennaro: Qualche anno fa abitavo a Napoli e conducevo una vita del tutto comune. Ho una laurea in architettura e lavoravo tutto il giorno in ufficio per una grossa azienda che costruisce infrastrutture pubbliche. Non ero per niente soddisfatto e quindi ho lasciato il lavoro e sono  partito per il Sud America. Un lungo viaggio che mi ha cambiato la vita. Mi capitò di partecipare ad un progetto di permacultura in cui ho scoperto e studiato diversi tipi di costruzioni naturali. Da qui è nata la mia passione per questo tipo di costruzioni. Al termine del viaggio, con un amico d’infanzia, siamo venuti in Portogallo e ci siamo fermati a Tribodar. Qui ho avuto la possibilità di provare e sperimentare ed è così che oggi mi sono specializzato in costruzioni con legni tondi.

Elena: Vivevo a Berlino e una mia amica stava pensando di trasferirsi in Portogallo e unirsi a qualche ecovillaggio. La cosa mi ha incuriosito e ho deciso di accompagnarla, così solo per un mese. Berlino è fredda e l’idea di un po’ di caldo non mi dispiaceva. Sono arrivata a gennaio e dopo un paio di giorni ho pensato: “questo è il mio posto”. Così, ancora prima di ripartire, avevo già acquistato il biglietto per ritornare ad aprile, ed eccomi qua!

 

Che suggerimenti dareste a chi vuole intraprendere la stessa strada?

Moabi: Prima di tutto consiglierei di iniziare un qualsiasi progetto con un gruppo di amici e comunque in almeno cinque persone. Noi eravamo in due e con un bambino. È stata una bella prova. Inoltre è fondamentale, se si è un gruppo, che le idee e la visione siano ben chiare in modo che tutti remino nella stessa direzione.

Michael: Sicuramente una cosa che mi sento di consigliare è di non iniziare immediatamente un nuovo progetto, ma darsi il tempo di guardarsi intorno per conoscerne altri. In questo modo si ha la possibilità di:
– Valutare se unirsi a qualche progetto esistente o meno. Partire da zero è molto duro, soprattutto all’inizio, inoltre c’è troppa gente che vuole cominciare il proprio progetto e pochissimi che vogliono unirsi ad uno esistente. Se tutti facessero così non ci sarebbero più comunità ma solo tanta gente che vorrebbe crearne una.
– Imparare da altre realtà cosa ci piace e cosa non ci piace. Iniziare un ecovillaggio è un po’ come reinventare un nuovo mondo sotto diversi aspetti, quello sociale, economico, alimentare, edilizio, gestione dell’acqua e tanti altri. Sono tutte dinamiche abbastanza complesse già di per sè ed è quindi fondamentale fare dell’esperienza in tal senso per non ritrovarsi completamente spaesati.

Quali sono i progetti futuri di Tribodar?

Uno dei più grandi progetti è quello di iniziare una “scuola democratica”, ossia una scuola in cui i bambini e gli adulti possano imparare senza un programma predefinito. Guidati dai propri interessi piuttosto che da materie imposte, in completa libertà. Oggi sperimentiamo una sorta di educazione informale che si basa semplicemente sulla spontaneità.

Contemporaneamente vorremmo sviluppare una comunità su un’altro terreno qui vicino di nostra proprietà. Un posto in cui le persone possano vivere in armonia con la natura, ma soprattutto un’area più riservata in modo che i membri permanenti non debbano vivere nello stesso luogo in cui c’è il centro d’apprendimento. Infine vorremo sviluppare Tribojam, un festival che vede quest’anno la sua seconda edizione. Si tratta di un evento con dei nuovi concetti. Ad esempio non ci sono gruppi ingaggiati per suonare, ma tutta la musica è improvvisata. Inoltre proponiamo una serie di workshop sulla sostenibilità ambientale, libera educazione, crescita personale e così via.

 

Il sito di Tribodar 

Il blog CycloLenti 

fonte:  italiachecambia.org/

 

Gli sradicati

“Oggi, a furia di allontanarci dalla natura, ci siamo separati dalla nostra stessa natura. Abbiamo prodotto una novità assoluta: le prime generazioni nella storia dell’umanità di ‘senza radici’. Abbiamo prodotto degli esseri umani da allevamento intensivo, privi dei punti di riferimento di un bagaglio di cultura ed esperienze tramandate e privi anche del bagaglio di esperienze proprie, dirette e concrete”.

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Quando ero bambina, negli anni cinquanta e sessanta, nei cortili di Milano senza un albero risuonavano le voci dei bambini che giocavano. “Vado giù a giocare”, “vai fuori a giocare” erano frasi scambiate quotidianamente tra madri e figli. Nessuno con un grano di sale in zucca si sarebbe sognato di poter tenere dei bambini chiusi tutto il giorno tra quattro mura, come in galera. Negli anni sessanta cominciò il boom edilizio e le case nuove di periferia, o almeno quelle da un certo prezzo in su, venivano costruite mantenendo un’area di terreno a verde: il giardino. Ci sembrò una meravigliosa novità finché non scoprimmo, adulti e bambini, che in quei giardini non si poteva giocare. Né si poteva usufruirne in alcun modo: erano giardini “per bellezza”. Una cosa che ci apparve del tutto insensata e ci lasciò, adulti e bambini, esterrefatti. Fino a che, anno dopo anno, giardino dopo giardino “per bellezza”, ci convincemmo che era la cosa giusta: niente schiamazzi (solo quelli del traffico, delle televisioni a tutto volume, delle liti in famiglia), nessuno che sciupasse il tappeto erboso condito di pesticidi e concimi chimici. E già lì fu evidente che l’uomo moderno può essere convinto di qualsiasi cosa, avendo il cervello imbottito dei precetti dei media-vocedelpadrone in ogni loro forma, cominciando dalla pubblicità, ed essendo di conseguenza sotto ipnosi ventiquattro ore su ventiquattro. Ma per essere ipnotizzati ci vuole una certa predisposizione. Per creare questa predisposizione bisogna, prima di tutto, distruggere la comunità umana e la sua istintiva solidarietà, e secondariamente interrompere il flusso delle esperienze tramandate di generazione in generazione. Alla fine degli anni sessanta e durante gli anni settanta, anni di lotte di classe, di forti ed estesi movimenti anticapitalisti, di contestazione di tutta l’organizzazione economica e sociale, di cultura antiautoritaria, pedagoghi, psicologi e pediatri erano concordi nell’affermare e spiegare che il gioco era una delle prime necessità del bambino, assieme al cibo e all’affetto. Il gioco libero e autonomo, quello in solitudine e quello in compagnia, era una necessità imprescindibile per lo sviluppo fisico e mentale dei bambini. Bisognava lasciarli giocare liberamente. L’occhio degli adulti doveva essere discreto, limitarsi a sventare eventuali pericoli.

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Quanto al bullismo, ai tormenti che oggi quotidianamente bambini infliggono ad altri bambini, erano praticamente impossibili, dato che in ogni gruppo di gioco convivevano età diverse, sessi diversi, fratelli e cugini e amici di questo e di quello. E dato che le madri si affacciavano alle finestre, le portinaie (figure scomparse con l’apparire dei citofoni e del metro quadro abitabile pagato a peso d’oro) ci tenevano d’occhio, gli artigiani che lavoravano nei cortili (in quei tempi selvaggi non esistevano le ASL benché ci fosse un ambulatorio in ogni quartiere) erano pronti a redarguire i prepotenti. Il gioco spontaneo, non inquadrato, non competitivo, non finalizzato a diventare campioni sportivi ricchi e famosi, era più importante della scuola. Non sarebbe stato necessario, allora, affannarsi a ripeterlo: che gli adulti lo ritenessero necessario o no, riuscivano comunque a capire che era naturale e inevitabile. Ma facevano bene a ripeterlo pediatri, psicologi e pedagoghi: a quei tempi in Italia esisteva il lavoro dei bambini, nel nostro sud c’erano ancora bambini muratori, braccianti, sguatteri. Era per loro che si ribadiva il diritto e la necessità del gioco, della libertà e spensieratezza dell’infanzia.

Quando sono a casa solo
e mi annoio, mi consolo;
chiudo gli occhi e sto salpando
verso i cieli, navigando,
navigando verso il mare
del Paese del Giocare,
là, nei luoghi assai lontani
dove vivon solo nani,
dove i fiori sono peri
e le pozze oceani veri
e le foglie son velieri
pieni di filibustieri,
dove passano volando

calabroni che ronzando
fan tremar le cime ardite
delle immense margherite…

Robert Louis Stevenson

Oggi in Italia lo sfruttamento del lavoro minorile non esiste più, e non esiste più nemmeno il gioco, la libertà e la spensieratezza dell’infanzia. I bambini sono chiusi tra quattro mura quasi ventiquattrore su ventiquattro, tra scuola a tempo pieno, compiti affibbiati dalla scuola a tempo pieno, sport, canto/musica/danza e lingue varie, più televisione videogiochi e computer. Totalmente avulsi dalla realtà e dalla complessità della vita concreta, alienati e incapaci. Molto progrediti… Infatti sanno le lingue straniere, sono dei maghi del computer, degli atletini e/o dei musicisti in erba. Li vogliamo scalpitanti e allenati alle gabbie di partenza, come veri purosangue assetati di vittorie.

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Il gioco collettivo insegnava ad organizzarsi, a collaborare, a prendersi cura dei più piccoli, ad essere leali e anche ad essere astuti, svelti, previdenti. Isolava i litigiosi, gli egocentrici e i prepotenti, che a quel punto erano fortemente incentivati a mitigare i propri difetti. Il gioco individuale insegnava a immaginare, fantasticare, riflettere. Tutti i giochi insegnavano la pazienza, la consapevolezza dei propri limiti e delle proprie qualità, la deduzione e l’immaginazione. Tutto ciò è stato spazzato via dal “progresso”: da una società sempre più rigida, competitiva, individualista e autoritaria. Si è dato per scontato che più scuola si affibbiava ai bambini e meglio era, ma la scuola è un’istituzione, non è neutra: rappresenta ed esprime l’organizzazione sociale di cui fa parte, ne persegue gli scopi. In una società di dominio e competizione qual è quella in cui viviamo, la scuola è strutturata in modo da formare individui privi di spirito critico, competitivi, specializzati, conformisti: ricettivi alle direttive e indicazioni che vengono dall’alto, alle “versioni ufficiali”, alle mode, al senso comune, e diffidenti e sprezzanti verso tutto ciò che se ne discosti. Per ottenere questo occorre che lottino con le unghie e coi denti per riuscire a svolgere una mole di lavoro sempre più imponente, non importa quanto utile, che li occupi davvero a tempo pieno, senza lasciare ai loro cervelli una via di fuga. Non più tempo per l’ozio, la noia, la riflessione, la fantasticheria, il coalizzarsi e organizzarsi con altri bambini. E dopo la scuola i nostri minimanager hanno già pronte le attività imposte dalle famiglie. Indispensabili per farsi strada nella mischia. Non abbiamo più il lavoro minorile ma i nostri “minori” non sono meno occupati e oberati, almeno a livello psicologico, dei piccoli braccianti e muratori degli anni cinquanta. Sicuramente più dei pastorelli e camerierini di quel tempo, che lavoravano con la propria famiglia e potevano sdraiarsi su un prato o giocare a carte in cucina. Cosa rimane di libero? Il tempo passato davanti al televisore, al computer, al cellulare. Ho sentito genitori vantarsi di non chiedere alcun aiuto in casa ai propri figli, perché il loro primo compito deve essere studiare. È sottinteso che quello “studiare” significa “vincere”. Devono essere i primi. Imparare, cioè crescere, maturare, acquistare conoscenza non ha importanza, evidentemente. Perché imparerebbero molto di più se sapessero farsi il letto, lavare i piatti, fare la spesa e cucinare, aggiustare una presa o un rubinetto che perde. Far compagnia ai nonni, salutare i vicini, portare a spasso il cane.

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Se poi sapessero coltivare qualche pianta, cucirsi un orlo, riparare la gamba di un tavolo, le loro probabilità di sopravvivenza aumenterebbero del cento per cento: vorrebbe dire che sanno ingegnarsi e adattarsi, che hanno sviluppato un’intelligenza pronta e duttile, uno spirito d’osservazione a tutto campo. Ma per questo è necessario trasmettere le proprie conoscenze. Invece, nel progredito occidente, stiamo crescendo le prime generazioni di “senza radici”. Da quando gli esseri umani esistono, ogni generazione ha trasmesso le proprie conoscenze ed esperienze a quelle che la seguivano. È una delle condizioni imprescindibili per la sopravvivenza di una specie; tanto più imprescindibile per una specie, quella umana, dalla cultura vasta e complessa e dallo scarso istinto. È altrettanto importante, questa trasmissione di saperi, della trasmissione del patrimonio genetico. I genitori, i nonni, gli zii, i vicini di casa, l’intera comunità degli adulti raccontava ai bambini: la propria vita e le vite che aveva conosciuto, le idee che aveva maturato, le cognizioni apprese. Era una necessità primaria, né più né meno del gioco. E infatti ciò che più i bambini amavano, oltre al gioco, erano i racconti. Fino a qualche decennio fa, attraverso quei racconti si è tramandato a spizzichi e bocconi tutto il patrimonio culturale accumulato dagli uomini, tutte le esperienze che ci precedevano, i miti e la storia. C’erano racconti sulla guerra e sulla fame, sulla bontà e la malvagità, sullo sfruttamento e sul riscatto, sulla resistenza e la dignità, sulla sacralità del cibo e sul rispetto dei più deboli, sulla fatica e sulla festa. Tra ricordi e principi, parabole e aneddoti, concetti e idee, si trasmetteva una cultura ancestrale e attuale; i bambini crescevano legati a tutti coloro che li avevano preceduti, come da un reticolo di radici nascono i nuovi polloni: nutriti da tutte le sostanze che possiede il terreno dove spuntano. Ma oggi, a furia di allontanarci dalla natura, ci siamo separati dalla nostra stessa natura. Abbiamo prodotto una novità assoluta: le prime generazioni nella storia dell’umanità di “senza radici”. Abbiamo prodotto degli esseri umani da allevamento intensivo, privi dei punti di riferimento di un bagaglio di cultura ed esperienze tramandate e privi anche del bagaglio di esperienze proprie, dirette e concrete. Abituati ad obbedire senza chiedersi perché: tutta la loro vita è organizzata e indirizzata dagli adulti: insegnanti di scuola, istruttori sportivi, insegnanti di musica, animatori e chi più ne ha più ne metta.

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Abituati a competere: a scuola bisogna essere tra i primi, a calcio bisogna vincere la partita, in ogni attività bisogna puntare ad essere più e meglio degli altri e poi magari i genitori li portano a scalare il Monte Bianco, tanto perché gli rimanga chiaro che l’uomo non ha limiti e la natura è qualcosa da conquistare e sottomettere. Obbedienza e competizione preparano il servo perfetto per una società di dominio senza più limiti. Televisione e strumenti digitali fanno il resto. L’immaginazione è una dote indispensabile per la sopravvivenza umana. Non serve a un batterio, probabilmente, e neanche a un lombrico, che hanno il loro corrispondente dell’immaginazione in dote già dalla nascita. Ma serve a qualsiasi animale abbia necessità di apprendere dopo la nascita una parte delle proprie cognizioni. Bene, “immaginazione” ha la stessa radice di “immagine” perché è la capacità di creare immagini mentali. Il neonato, sentendo la voce o l’odore della madre, immagina probabilmente il suo volto, il suo abbraccio o il sapore del suo latte. Poi ci saranno le parole da decifrare e trasformare in immagini e idee: un continuo allenamento mentale, come muoversi e camminare è un allenamento per i muscoli. Ma, se a un bambino piccolo dessimo una seggiolina a rotelle che lo porta ovunque, che ne sarebbe delle sue gambe? Atrofizzate proprio nell’età in cui dovrebbero svilupparsi. Potrebbe più camminare, correre, saltare? E, se a un bambino piccolo scodelliamo continuamente immagini televisive e cartoni animati e poi, quando riesce a usare le dita, gli forniamo strumenti che schiacciando dei tasti gli permettono una fittizia e astratta comunicazione con gli altri esseri umani e un fittizio e mutilato rapporto con la realtà e con la vita, cosa succederà alle sue capacità mentali? Proprio nell’età in cui la sua esperienza e la sua immaginazione dovrebbero svilupparsi; e immaginazione significa sapersi immedesimare negli altri, saper prevedere i pericoli, saper valutare le conseguenze. Significa responsabilità, compassione, accortezza. Cosa succederà alla sua capacità di esprimersi con parole, gesti, espressioni del viso, toni di voce? Tutto quello che serve per “incontrarsi” con gli altri umani e non solo. Cosa succederà ai suoi sensi, al tatto, alla vista, all’olfatto, all’udito? Tutto quello che serve a percepire e comprendere il mondo. Noi non lo sappiamo. Nessuno delle generazioni precedenti lo sa. Perché non si può sapere, e nemmeno immaginare, ciò di cui nessuno ha mai avuto esperienza prima. Possiamo però vederne le conseguenze. Nei ragazzi incapaci di vivere, che non riescono a studiare né a lavorare, terrorizzati dalla continua già sperimentata competizione della nostra società, convinti fino in fondo all’anima della propria incapacità, rinchiusi nella “comoda” irrealtà di rapporti mediati da internet. Sono ormai un’epidemia, che trova le famiglie del tutto impotenti e sole.

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Nelle inaudite e inspiegabili violenze di gruppi di adolescenti “normali”, che in maniera evidente non hanno né la capacità di immedesimarsi nelle sofferenze altrui, né tanto meno quella di immaginare le conseguenze che i loro atti faranno ricadere sulle proprie stesse vite. E poi ci sono i comportamenti di massa. Le caratteristiche ormai di una nuova specie umana: la paura o l’indifferenza nei confronti della natura. Quando io ero bambina, il più grande divertimento di qualsiasi bambino era poter scorrazzare in un vasto spazio libero e selvaggio: un prato, un bosco, il mare. Di fronte a qualsiasi ambiente del genere, nessun adulto con un grano di sale in zucca avrebbe tentato di trattenerci. Lo stesso valeva per fonti e ruscelli. Un surrogato erano i giardini pubblici. Meglio che niente, anche se non si poteva correre nell’erba, far capriole, rotolarcisi, arrampicarsi sugli alberi. Questo rapporto dei cuccioli d’uomo con la natura è continuato, pur diluendosi via via, fino a una ventina d’anni fa. Oggi nei parchi cittadini ci sono prevalentemente i cani, dato che non si può piazzarli davanti a un televisore o appassionarli a un videogioco, né si accontenterebbero di rapporti “virtuali” coi loro simili. Del resto, i bambini attuali guardano un prato, un bosco, un fiume come qualcosa di estraneo e incomprensibile. Come i canarini nati in gabbia (non) guardano il cielo e rifiutano di uscire dalla gabbia anche se la porta è aperta. Forse come i polli d’allevamento intensivo guardano il mondo oltre la porta del capannone. Eppure basterebbe poco, prima che sia troppo tardi. La maggior parte dei bambini è cento volte più disponibile a far qualcosa in compagnia che a ottundersi davanti a uno schermo. La maggior parte dei bambini possiede ancora curiosità e senso del mistero. Basterebbe ricordare. Siamo stati tutti bambini, anche se ci sembra impossibile. Non si tratta, in effetti, di alieni: si tratta di comuni esseri umani in uno stadio della loro esistenza. Basterebbe ricordassimo le decine di giochi di gruppo che nessun grande organizzava; ricordare i duelli, gli agguati, le galoppate a rotta di collo delle nostre immaginarie avventure; ricordare come rompevamo le scatole ai genitori per comperare il granturco in sacchettini che vendevano nella piazza e come ci emozionavano i piccioni posati sulle nostre braccia per mangiarlo. Ricordare il fascino indescrivibile del soldino al posto del dente che ci era caduto, dei doni magicamente portati dalla Befana o da Babbo Natale o da Gesù Bambino. Sarebbe sufficiente dedicarci a loro quel tanto che basta per ridargli tutto questo, per aiutarli a scoprire la vita. E forse richiederebbe meno tempo che scarrozzarli in auto da piscine a palestre ad effimere scuole di discipline nate da effimere mode. I figli di una mia amica hanno in casa un folletto che ruba le cose lasciate in disordine. I folletti possono esserci in tutte le case, anche in un appartamento di due stanze. E anche dalla finestra di un appartamento di due stanze si possono soffiare nel cielo le bolle di sapone fatte con una “cannuccia” di cartoncino arrotolato e un po’ di acqua e sapone. E poi, con i nostri bambini, potremmo anche riprenderci i marciapiedi e le piazze e i cortili, e prima di tutto i “giardini per bellezza”. Proviamoci almeno, a ritrovare quegli spiritelli incapaci di camminare ma solo di correre e saltellare, ridenti, vocianti e canterini che sono sempre stati i bambini dagli albori dell’umanità fino a due, tre decenni fa. Ci guadagneremmo tutti: potremmo tornare a goderci lo spettacolo dei loro giochi dalle finestre e dai balconi. Gratis. Potremmo ravvivare le nostre speranze e la nostra fantasia per rispondere alle loro domande. Potremmo sentirci immortali guardandoli crescere.

… È questa una mattina
che non c’è scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d’albaspina.

Le siepi erano brulle, irte; ma c’era
d’autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera
bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.
Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino

ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.

Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza.

S’inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo, esile
e vada a rifiorir lontano.

S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo
petto del bimbo e l’avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo…

Giovanni Pascoli

Fonte: il cambiamento