«Sfidiamo la precarietà con il chilometro zero»

Giovani, precari, scollocati loro malgrado; ma non si sono persi d’animo e, grazie alla creatività e all’intraprendenza, hanno dato vita a una sfida imprenditoriale che punta sulla sostenibilità dei prodotti a chilometro zero. «Perché tutti, con le proprie scelte personali, possono contribuire a sconfiggere un sistema iniquo e malato» dicono.chilometro_zero

Le presentazioni sono d’ordinanza. Fabio Papurello ha 30 anni, Gabriele Ricca ne ha 31 e Ivan Grippa va per i 42. Ognuno di loro ha un suo percorso che, come tanti altri giovani di questi tempi, è fatto di precarietà. Ma, all’ennesima risposta non trovata nel “sistema”, hanno deciso di procedere dando corpo e vita alla loro idea: aprire un sito che metta in contatto produttori agricoli e consumatori delle stesse zone senza intermediari, in modo da far circolare beni primari a chilometro zero. Il sito si chiama agrobiokilometrizero.com

«Ognuno di noi ha un suo percorso – spiega Fabio – Io per esempio sono sempre stato precario, ho acquisito diverse abilità in differenti campi, ho vissuto all’estero per un periodo, ma più acquisivo abilità più faticavo a trovare lavoro e che la fortuna non ha aiutato. L’ultimo lavoro passato da precario ha visto la fine poiché l’azienda ha chiuso per colpa della crisi. Mi occupavo di un area e-commerce, ricevevo gli ordini, cercavo online prezzi concorrenziali (ebuyer) e gestivo qualche lavoro di magazzino». Ivan lavora ancora, mantiene una famiglia, ma si spende moltissimo per il progetto, sentendolo anche suo, «perché sento una spinta verso il cambiamento; poi… non voglio solo cambiare le cose dal lato lavorativo, ma anche a livello umano» spiega. «C’è chi ha perso il lavoro, ci siamo ritrovati tutti e tre all’interno di un contesto politico e abbiamo iniziato a capire che probabilmente ci volevano soluzioni differenti» continua Fabio, che ha avuto l’idea per partire.

Fabio, come ti è venuta l’idea di questo progetto?

«L’idea mi frullava in testa da tempo, perché vedevo che esistevano gruppi d’acquisto isolati, poco considerati e altri invece che detenevano strani monopoli e non erano gestiti in modo totalmente etico. Così ho incluso Gabriele nella creazione della mappa e ho chiesto ad altri di aiutarmi a condividere il progetto. Volevamo crearci una sorta di lavoro, ma allo stesso tempo non sapevamo come fare e ci piaceva il fatto anche solo di sensibilizzare le persone alla filosofia del chilometro zero. Eravamo e siamo profondamente arrabbiati per la situazione che siamo costretti a vivere e abbiamo iniziato a fare riflessioni sul sistema economico che ci controlla. Siamo arrivati a comprendere che le nostre scelte di vita possono determinare il crollo di un intero sistema. Nel percorso abbiamo pensato: “Manca il lavoro perché abbiamo centralizzato l’economia e quindi per quante competenze possiamo avere, diverrà sempre più un gioco contorto; riprendiamoci gli spazi, perché tutti inclusi noi stessi possano tornare ad avere un lavoro normale”. Poi esiste un discorso etico contro l’industria».

Come avete organizzato e pianificato le cose da fare?

«La verità? Abbiamo buttato uno schizzo su carta, l’idea iniziale era solo quella di creare una mappa in cui venissero inseriti i vari produttori, con un’area feedback in cui la gente potesse commentare e puntare il dito contro chi si comportava male. Volevamo già gestire il trasporto a chilometro zero per crearci un lavoro, ma anche perché sapevamo che il cittadino profondamente apatico sarebbe andato dai produttori una, due, tre volte e poi per questioni di ritmi di vita non l’avrebbe più fatto. Allora ci siamo proposti per fare consegne a domicilio. Ancora non sapevamo bene come fare, sembrava semplice ma in realtà non lo era. Inizialmente pensavamo solo di realizzare consegne su chiamata, ma la gestione era lunga e non volevamo gestire il denaro del consumatore finale. Da lì abbiamo creato un area e-commerce multivendor, dove ora abbiamo alcuni spazi per il produttori e altri dove c’è merce in conto vendita biologica non certificata, perché lavorata secondo i canoni della permacultura, almeno alcune cose. Abbiamo rialzato il prezzo del prodotto di pochissimi centesimi per permetterci di pagare le commissioni paypal, ma si parla di 50 centesimi, perché non facciamo intermediazione. L’idea é nata anche perché qualcuno chiedeva di comprare online. Poi é esplosa, ma abbiamo sempre avuto l’intenzione di non snaturarla. Il commercialista ci aveva detto semplicemente di usare i corrieri. Avremmo fatto arrivare l’olio dalla Calabria, saremmo partiti alla grande e avremo tagliato fuori i piccoli, perdendo l’etica del chilometro zero. La filosofia di vita non ci consente di deviare, noi volevamo e vogliamo far lavorare i produttori “vicini”. Attualmente grazie al blog la visibilità cresce e noi siamo soli, pertanto abbiamo deciso di cambiare la politica offrendo lo spazio e-commerce a chi vuole organizzare gruppi Gas, dandogli però un’etica, uno spazio autogestito a pagamento (poco) nella propria città o borgo di appartenenza, dove seguendo regole specifiche può decidere di mettere in contatto diversi produttori».

Come funziona tutto il procedimento?

«C’è grande facilità nella gestione degli ordini, che vengono pagati all’acquisto, facciamo consegna a domicilio sull’area di Torino e cintura. Chi vuole organizzare il Gas nella propria città fuori al di fuori di Torino, può decidere di organizzare una propria politica di trasporto, oppure di tenere la merce in magazzino. A noi interessa che rispetti delle regole fondamentali: la merce deve essere prodotta localmente, distribuita entro un’area massimo di 200 chilometri e non deve arrivare da altri continenti, deve essere lavorata in modo naturale, no ogm, no pesticidi. Non necessariamente deve essere certificata (sulla mappa chi fa permacultura é segnato in blu, perché lo consideriamo il superbiologico, ma non esiste certificazione). Chiunque si comporti male, anche se paga una quota di 10 euro mensili, viene desettato dalla piattaforma; se si tratta solo di un prodotto, cancelliamo il prodotto. Chi invece semplicemente vuole usufruire della mappa e chiamare per suo conto un produttore con cui si trova bene e andare a trovarlo, può farlo senza che noi ci mettiamo becco. Anzi a noi non interessa come, ci interessa che le persone diventino sensibili alla questione, infatti molti servizi sono totalmente liberi sulla nostra piattaforma. Sulla mappa dei produttori inseriamo nomi, siti, numeri di telefono. Noi offriamo un implemento, un servizio d’élite; a noi fa solo piacere se la gente inizia a boicottare i supermarket per tornare a favorire l’economia locale e magari anche a mangiare sano. Inoltre abbiamo un’area social, che abbiamo inserito dopo che avevamo visto il blog fare faville, con condivisione su progetti della permacultura, traduzione di articoli sulle green energy, antibiotici naturali e quant’altro. Abbiamo aperto un social interno sullo scambio libero di semi e piante, anche se abbiamo il problema che è bombardato dagli spammer e attualmente stiamo cercando una soluzione».

Gli obiettivi che vi ponete?

«Non ci poniamo grossi obbiettivi, le idee nascono giorno per giorno e hanno fatto diventare il portale sempre più una piattaforma multiservizio. Abbiamo cambiato strategie diverse volte, cercando anche di includere la rete in questo, vorremmo essere un corpo unico, a volte però non ci riusciamo e allora dobbiamo fare di testa nostra. Il problema principale é che molti interessati sono persone di mezza età e la paura é che non sappiamo usare il paypal o il postepay, ma abbiamo pensato anche a questo, almeno con i produttori abbiamo risolto. Inoltre attualmente stiamo seguendo corsi di permacultura sinergica e bioedilizia. Con pochi soldi stiamo facendo tutto questo perché vogliamo offrire anche servizi sul portale, ma ci vuole tempo. Vogliamo che il progetto vada oltre il chilometro zero, che arrivi a toccare quei fili che possono portare le persone a cambiare prospettiva, attraverso i blog ma anche attraverso qualcosa di concreto, che possa portare molti ad abbracciare un processo di decrescita. L’importante é che la gente inizi a cambiare direzione e modo di vedere le cose, perché la società sta arrivando al collasso».

Avete pensato a qualche progetto di crowdfunding per finanziarvi?

«Abbiamo aperto un’area crowfounding e all’inizio le donazioni le abbiamo fatte noi, per vedere se partivano, ma non hanno avuto molto successo; anzi pur avendo già il progetto semirealizzato e averci speso qualche soldino non é stato per nulla facile. Abbiamo usato i soldi che ci siamo autoversati per costruire l’e-commerce, differenziare le bacheche e comprare plugin aggiuntivi. Attualmente, visti i corsi che stiamo seguendo, abbiamo deciso di trasformare quell’area in una proposta di ecovillaggio per arrivare a un progetto comune e iniziare a coltivare anche i nostri prodotti in modo condiviso. Ci siamo appassionati di bioedilizia e di case passive, perché siamo strozzati dalla crisi e abbiamo visto che se la gente torna a casa e non deve pagare gas, luce, acqua e affitto, vive molto più serena, anche solo con 800 euro al mese».

Fonte: ilcambiamento.it

 

Ufficio di scollocamento: cambiare vita e lavoro, istruzioni per l’uso

«Decrescita non è parola da associarsi a privazione, così come non è privazione lo scollocamento, bensì sfida e opportunità»: Paolo Ermani, presidente dell’associazione Paea, ha incontrato a Torino una vasta platea di persone che vuole cambiare vita e paradigma. Non è affatto impossibile.cambiare_vita_scollocamento

Una vasta platea di persone intenzionata a cambiare non solo prospettiva, ma anche stile di vita e ritmo di lavoro, ha ascoltato a Torino Paolo Ermani, presidente dell’associazione Paea, che ha tenuto una conferenza sulle opportunità offerte dai cosiddetti “uffici di scollocamento”. L’iniziativa era organizzata dall’Associazione RIP, Riprendiamoci Il Pianeta. «Generalmente siamo portati ad interpretare il concetto di decrescita come qualcosa di negativo perché lo associamo alla perdita, alla preoccupazione, alla paura e di contro interpretiamo la parola crescita come qualcosa di positivo – ha spiegato Ermani – Forse questo stesso pregiudizio lo applichiamo al mondo del lavoro, infatti il collocamento viene visto come un’opportunità, come qualcosa di desiderabile, di positivo e lo scollocamento come perdita, come qualcosa di negativo. Invece il concetto di scollocamento ha un’accezione positiva di sfida e opportunità. Infatti l’essere umano ha grandi potenzialità e capacità immense con cui deve ritornare in contatto riscoprendo la propria creatività tornando anche ai lavori manuali».

Secondo Ermani, il sistema economico vigente:

•    Ha generato una crescita infinita in un mondo finito;

•    Ha generato violenza nei confronti dell’ambiente che è stato derubato delle sue risorse, sono state distrutte le biodiversità ed è aumentato l’inquinamento e la quantità di rifiuti;

•    Ha generato ingiustizie sociali specie nei paesi più a sud del mondo non tenendo conto dei diritti umani di base;

•    Ha generato una perdita di senso generale che si manifesta in termini di cronica mancanza di tempo, di insoddisfazione, di degenerazione dei rapporti.

«Il sistema ha potuto tutto ciò perché ha trovato in noi dei complici – ha proseguito il presidente di Paea – Ed è da questo sistema che dobbiamo scollocarci! Si deve rimettere al centro: la persona (relazioni, spiritualità e lavoro); l’ambiente; la finanza e l’imprenditoria etica. L’uomo deve smettere di delegare, deve iniziare ad assumersi le proprie responsabilità, deve riappropriarsi del potere insito nella sua stessa natura e tutto questo deve essere orientato alla realizzazione di un modello alternativo di vita». E questo modello alternativo ha precise caratteristiche:
•    Si riduce il tempo di lavoro, il consumo di energia, gli sprechi e i rifiuti;

•    Si rivaluta il proprio modo di vita a favore di un ritmo più lento e umano;

•    Si ripristina un’agricoltura sostenibile;

•    Si ricostruisce e riaggiusta ciò che già c’è;

•    Si riutilizza;

•    Si ricicla;

•    Si rinuncia al superfluo;

•    Si riconquistano il tempo e lo spazio per stare con se stessi e con gli altri;

•    Si reinveste su se stessi.

«Da questa riorganizzazione della società scaturiscono nuove opportunità lavorative in diversi ambiti – è ancora Ermani – come per esempio energie rinnovabili, bioedilizia, risparmio energetico,  risparmio idrico, settore artigianale (riparazioni), agricoltura biologica, informazione ambientale, medicina e alimentazione naturale. In realtà le attività utilizzabili ai fini del sostentamento e dell’espressione della creatività umana, secondo Ermani, sono tante quanti sono gli individui e forse addirittura quante sono le doti che ciascuna persona ha nel suo bagaglio culturale e psicofisico. L’uomo dovrebbe aprirsi alla sperimentazione lavorativa e scoprire i suoi talenti seguendo le proprie aspirazioni più vere e non indotte. Quando il lavoro diventa la materializzazione della propria aspirazione ecco che automaticamente viene meno il senso di fatica, di travaglio, di sforzo e alienazione. E questo accade ancor più se il lavoro è svolto in un gruppo o in una comunità dove si sta costruendo un presente e un futuro migliori per se e per gli altri».
Per un approfondimento sull’argomento utile la lettura del libro“Ufficio di scollocamento” scritto da Paolo Ermani e Simone Perotti e del libro “Pensare come le montagne” di Paolo Ermani e Valerio Pignatta.
Lunedì 31 marzo 2014, sempre presso il polo culturale Lombroso 16, in via Cesare Lombroso 16 a Torino alle ore 21 ci sarà la prossima conferenza dal titolo “Crescere in umanità:risveglio interiore e cambiamento sociale”. Il relatore sarà Roberto Mancini. Nel pensare di cambiare il mondo ciascuno di noi dovrebbe sviluppare una dose sufficiente di innocuità e dovrebbe essere disposto ad assumersi le proprie responsabilità e maturare la visione del bene comune.
Consulta il sito di Paea per conoscere i prossimi appuntamenti sull’Ufficio di scollocamento e i corsi al Parco dell’Energia Rinnovabile in Umbria.

fonte: il cambiamento.it

Pensare come le Montagne

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Ufficio di Scollocamento - Libro

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Vivere felicemente nella semplicità: Etain Addey e il bioregionalismo

Vivere felicemente nella semplicità. Etain Addey è l’incarnazione di uno stile di vita che segue solo i ritmi della natura e di un tempo ancestrale regolato dai luoghi e non dall’uomo.

Oggi molte persone – soprattutto giovani – stanno immaginando, progettando e realizzando un ritorno alla campagna e alla vita contadina. Etain Addey questo ricongiungimento lo ha realizzato nei lontani anni ’80 quando, dopo aver vissuto a Roma per molto tempo, ha cominciato ad avere la sensazione di “vivere in un mondo”, come spiega lei stessa, “in cui tutto si può comprare”. Quando Etain ha deciso di cambiare vita e seguire l’obiettivo di un sostentamento autosufficiente, non sapeva ancora nulla del mondo contadino. “All’inizio non riconoscevo un’erbaccia da un pomodoro” – scherza – ma questo fa parte della vita, il processo è lungo, ci vuole pazienza”. Non si può avere fretta, per vivere in armonia con il luogo  è necessario prendere coscienza del luogo stesso, diventare “nativi”. Per noi oggi è molto più difficile riscoprire le logiche di questo tipo di vita, perché siamo bombardati dalla cultura del consumo che ci ha abituato a pensare che tutto ci è dovuto.8473388543_b64c29dcc9_b

“Quando vivi un luogo in maniera profonda” – spiega Etain – “cominci a renderti conto che non sei l’unico essere vivente e che tutti gli altri intorno a te hanno bisogno delle stesse cose di cui ha bisogno tu”. Questa consapevolezza ti porta a rispettare il laghetto più vicino alla tua abitazione, perché non è solo il tuo orto ad avere bisogno di acqua ma tutto l’ecosistema che vive grazie a quel lago. Oggi abbiamo perso la cultura del limite, non sappiamo riconoscere i contorni che prima eravamo in grado di sentire istintivamente. Anche gli animali le hanno insegnato molto, come la capretta che ogni giorno riusciva a trovare un buco nel recinto per scappare e andare a pascolare quando e dove voleva lei. “Era molto ironica. Ci faceva capire che non avevamo nessun autorità per tenerla chiusa lì dentro”.8474476704_c51f44ee04_b

I primi anni in cui Etain Addey aveva cominciato a seguire questo stile di vita non sapeva cosa fosse il bioregionalismo (vedi box a destra), ma superata la fase iniziale in cui poteva dedicarsi solo ad imparare i principi dei lavori manuali che sono alla base dell’agricoltura e dell’allevamento, si è potuta concedere le letture per conoscere la filosofia che è alla base di tutto questo. Ha incontrato Giuseppe Moretti, uno dei padri del bioregionalismo italiano, e ha comprato tutti i libri di Gary Snyder. In quel periodo si è resa conto che molti in Italia, come lei, seguivano la strada del bioregionalismo senza saperlo. Per questo ha sia iniziato a tradurre in italiano i testi stranieri sia a scrivere lei stessa delle teorie bioregionali.8474478288_8df05e2101_b

Lo spazio di Etain è però più ristretto rispetto a quello tradizionalmente contenuto all’interno di una bioregione. “Mi sposto solo quando è davvero necessario ma non vado molto lontano”. A parte le visite ai suoi figli e nipoti in Inghilterra, ad Etain non piace allontanarsi dalla “sua” terra. Sia perché non può lasciare molto a lungo il lavoro nei campi e gli animali, sia perché non le piace invadere uno spazio che non conosce e in cui quindi potrebbe provocare turbamenti. Il turismo crea molti danni all’equilibrio di un luogo, non solo per l’inquinamento provocato dai mezzi di trasporto ma anche per gli shock culturali che provochiamo abitualmente a molte popolazioni che non hanno nulla a che vedere con i nostri modelli e stili di vita. Il viaggio ha senso se lo si fa per un motivo.8473386819_705a1f675b_h

Per questo Etain accoglie nella sua casa di legno le tante persone che si recano da lei per i motivi più svariati. Porta l’esempio di una sua amica che doveva operarsi di cancro e aveva bisogno di allontanarsi dalla sua famiglia per stare sola con sé stessa ed essere in grado di superare una prova tanto difficile. “Il viaggio acquista importanza se diventa un motore di incontro e di scambio”, spiega. Confessa che è normale scendere a compromessi, ma l’importante è fare delle scelte secondo coscienza. Anche il rifiuto della tecnologia trova i suoi limiti. Etain vive senza lavatrice né lavastoviglie ma da qualche tempo si è concessa una vecchia automobile per riuscire a risalire dal fiume quando si incontra con i suoi amici. Anche internet le ha risolto parecchi problemi “soprattutto perché mi è capitato” – racconta – “di andare in un ufficio postale che non aveva francobolli”. Vivere secondo coscienza, la propria, significa insomma mettere in dubbio le proprie abitudini e saper scegliere senza perdere la componente spirituale che permette di percepire il limite, mantenendo la consapevolezza che è il luogo a contenere l’uomo e non viceversa.

Elena Risi

Fonte: italiachecambia.org

Cosa si nasconde dietro il paradigma della crescita

Come ci ricorda Ivan Illich, il più grande pensatore del Novecento, il concetto di “sviluppo economico” nella sua accezione attuale fa la sua comparsa il 10 gennaio 1949, nel celebre “Discorso dei Quattro Punti” rivolto alla nazione dal presidente americano Truman, alla vigilia della ricostruzione post-bellica.crescita_economica_strozzi

Fino ad allora, tale espressione era relegata all’evoluzione delle specie animali, al gioco degli scacchi e poco altro. Da quel giorno, e in meno di una generazione, hanno invece cominciato a pullulare le più disparate teorie sull’opportunità di inscatolare all’interno di quel concetto il vero destino dell’evoluzione del genere umano: se da un lato si ricordano i cosiddetti“pragmatisti”, coloro cioè che attribuivano alla vocazione imprenditoriale l’unica rotta salvifica perseguibile; dall’altro lato, vi erano quelli che potremmo definire gli “aspiranti politici”, prevalentemente intenti a salvaguardare gli aspetti più “soft” del new-deal espansionistico, come per esempio l’intima realizzazione di se stessi. L’unico aspetto che
accomunava le due correnti di pensiero era, guarda caso, che la salvezza sarebbe necessariamente dovuta passare per la crescita: entrambi sostenevano che l’unica via percorribile sarebbe stata l’incremento della produzione e, con essa, una maggiore dipendenza dai consumi. La cosa vagamente ironica, ci ricorda sempre l’immenso Illich, è che ciascuno dei due “schieramenti” utilizzava, in difesa delle proprie ragioni, la foglia di fico della Pace. Tanto che, all’epoca, schierarsi contro lo sviluppo, oppure contro quella che sarebbe diventata (come la chiamo io) l’ipnosi consumistica globale, significava essere additati come nemici della Pace. Persino Gandhi fu spesso rappresentato come uno sciocco, un romantico o uno psicopatico, tanto che molti suoi insegnamenti furono astutamente distorti (e,aggiungo, violentati) nell’equivoco concetto di “strategia di sviluppo non violento”. Oggi, dopo 65 anni, è cambiato qualcosa? A cosa ha portato quel new-deal? Quali sono stati gli effetti sulla civiltà di quella rivoluzionaria intuizione di Truman?
All’indomani del Dopoguerra, l’Occidente ha cavalcato a spron battuto gli stilemi della crescita ad ogni costo. Ai quali, aggiungo io, è stata surrettiziamente affiancata la suggestione sociale dell’irrinunciabilità. Tutto, in un modo o nell’altro, avrebbe potuto (e dovuto) essere raggiungibile: il lavoro, la carriera, il successo, i viaggi, le esperienze, fino a farcire queste prospettive con le loro derivazioni idealistiche: la libertà, l’amore, la bellezza… La postmodernità ha astutamente previsto, per i suoi abitanti,l’illusoria prospettiva della panpossibilità:tutto sarebbe stato a portata di mano! Questo new-deal era, fuori da ogni discussione, diabolicamente perfetto: da un lato, garantiva continuità al paradigma economico dello sviluppo indiscriminato; dall’altro lato, soggiogava intere popolazioni, subordinandole a un imperativo di crescita che avrebbe sempre più richiesto un loro radicale asservimento al mondo del lavoro. Utile o inutile, questo era di secondaria importanza. Gratificante o umiliante, questo era di importanza, invece, nulla. E le persone? Ci arriviamo… Sempre in quegli anni, ci ricorda stavolta Zygmunt Bauman, il maggior sociologo vivente, assistiamo all’esaltazione di un ruolo sociale con cui molti di noi, ancora oggi, fanno quotidianamente i conti: la figura del manager.
Come molti di voi, so benissimo anch’io cosa significhi essere oggi un manager. Tuttavia, solo recentemente ho imparato che questo ruolo prende forma e vita, proprio in quegli anni, con il solo scopo di intermediare tra la catena di montaggio e la proprietà, divenuta ormai incapace di controllare direttamente tutte le microfunzioni del processo produttivo. Il manager, diversamente da quanto comunemente si crede, non è deputato a prendere decisioni, non gli vengono richieste particolari doti di lungimiranza o di problem-solving. No, niente di tutto ciò! Fin dai suoi albori, il manager deve fare essenzialmente due cose: osservare e riferire. Il perfetto morphing tra un vigilante e una spia. Avvilente? Forse, ma comunque ben remunerato! Unico requisito? La piena fiducia da parte della proprietà. (Quando mi viene chiesto come mai oggi non ci sia meritocrazia nel mondo del lavoro in Italia, io rispondo sempre: “La meritocrazia c’è eccome: si tratta solo di stabilire con quali prassi e atteggiamenti lo si vuole riempire, questo concetto…”.). La figura del manager è quella che oggi, con decine di chili di manuali di organizzazione aziendale sugli scaffali delle librerie, potremmo definire una commodity: un servizio cioè esternalizzabile, in quanto rappresenta un’inutile (a volte, dannosa) interferenza tra la base produttiva e il vertice decisionale della piramide aziendale. Dico “dannosa” perché, in molti casi, assolvere a una mera funzione di rendicontazione di quanto avviene sotto di loro, implica per la proprietà un assorbimento di risorse economiche che potrebbero compromettere la salute stessa dell’organizzazione. O che, comunque, potrebbero essere destinate ad investimenti a più alto ritorno. Ma lo sappiamo: come tutte le cose, la fiducia ha un prezzo, no?
Quindi, paghiamo pure la fiducia – si disse – ma insistiamo però su un altro imperativo, che ha preso sempre più piede dagli anni del boom economico ai giorni nostri: quello della produttività. E, con essa, arriviamo finalmente anche alle persone (che, come ormai sarà chiaro, occupano un ruolo periferico in tutto questo palinsesto organizzativo).
La produttività, per tutti i policy-maker (dal Presidente del Consiglio, al numero uno di Confindustria, fino al vostro caporeparto), è uno snodo strategico imprescindibile: va salvaguardata a tutti costi. Ma… senza esagerare. Perché, se la carichi troppo, la schiena del ciuco rischia pur sempre di spezzarsi. Ed è così che, come ci ricorda il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, grazie anche a un progresso tecnologico ben più che lineare (esponenziale), dagli anni Settanta ad oggi la produttività del lavoro è cresciuta nelle economie occidentali a ritmi forsennati. Molto superiori – per esempio – alla dinamica dei salari reali medi. Ed ecco che, per i più avvezzi alle relazioni macroeconomiche, si spiegano così anche le vere cause degli attuali livelli (sub)occupazionali. Pensiamoci: per ottenere lo stesso bene o servizio finale – un cesto di mandarini, un stampa fotografica, un nuovo contratto telefonico o un qualsiasi altro bisogno (per lo più, indotto) – al giorno d’oggi occorrono molte ore di manodopera in meno. La filiera è molto più corta e, soprattutto, dove si può fare a meno dell’uomo, subentra la tecnologia. Quella di cui tuttavia non si può fare a meno è chiamata manodopera qualificata: sempre più rara, sempre più strategica, ma pagata sempre meno, in quanto, mediamente, i salari comunque diminuiscono (e, da qui, il tema delle disuguaglianze distributive, che non affronterò in questa sede, perché troppo vasto). Tuttavia, proprio per tutelare la produttività (occhio: non i lavoratori), nel decennio a cavallo del nuovo millennio i soloni dell’organizzazione aziendale introducono un concetto nuovo, tanto suggestivo quanto ipocrita: la worklife balance (equilibrio lavoro-vita privata): nell’ambito di una vita dedicata prioritariamente al lavoro, occorre cioè consentire all’unità produttiva di distrarsi (dedicandosi alla famiglia, al tempo libero, agli hobby…). Infine, è di un paio d’anni fa quella che mi piace definire “la controriforma”, perfettamente illustrata da una docente della SDA Bocconi, santuario italiano della dottrina neoliberista: la work-life balance deve progressivamente essere sostituita con la worklife integration: lavoro e vita privata non devono cioè essere due “momenti” che, alternandosi, si completano vicendevolmente, bensì divengono due fasi della nostra vita che si compenetrano simultaneamente. Così, per fre un esempio banale, nessuno storcerà il naso se un lavoratore effettuerà una telefonata personale dall’ufficio, ma – simmetricamente – lo stesso lavoratore sarà poi dotato di blackberry, tablet o altri astutissimi “malefit” aziendali, in modo che possa poi essere mantenuto agganciato alla sua attività di giorno e, spesso, di notte (o, come oggi è molto più cool affermare, 24/7). In questa prospettiva, e citando ancora una volta Bauman,“[…] quei confini sacrosanti che separavano la casa dal luogo di lavoro, e il tempo da dedicare alla carriera da quello cosiddetto “libero”, sono praticamente svaniti; dunque, ogni attività della nostra vita diventa una scelta: seria, dolorosa e spesso seminale, tra carriera ed obblighi morali, tra impegni professionali ed esigenze vitali, nostre e di tutti coloro che hanno bisogno del nostro tempo, della nostra compassione, delle nostre cure, del nostro aiuto e della nostra assistenza.”
Questa è l’attuale situazione, cari amici de “il Cambiamento”. Ve l’ha provata a delineare, per sommi capi, una persona che, pesantemente radicata in questo mondo da una dozzina d’anni, ha la presunzione di conoscerla piuttosto bene e che ha deciso anche lui di fare il manager: cioè… osservando e riferendo. Il mio think-net si chiama “Low Living High Thinking”. Vivere basso e pensare alto è più di un semplice motto. E’ più che altro un destino. Ed è comune. Solo che, purtroppo, ancora in molti non lo sanno…

Fonte: ilcambiamento

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