I misteri dell’Imu agricola: Roma è comune “parzialmente montano”

Nella capitale non si pagherà l’Imu agricola perché il comune è considerato parzialmente montano. I colli di Roma non sono mai stati così alti come negli ultimi mesi. Nonostante l’altitudine della capitale sia di appena 21 metri sul livello del mare, infatti, Roma è stata inserita nella fascia P dei comuni parzialmente montani, quelli che l’Imu agricola non la pagano. Si tratta di un fatto inspiegabile se non con i soliti accomodamenti all’italiana. Procediamo con ordine. I terreni agricoli non avevano mai pagato l’Imu, poi arrivò Mario Monti con il Salva Italia e estese la tassa anche agli agricoltori. Enrico Letta pensò di sgravarne alcuni, poi è arrivato Matteo Renzi che ha deciso di non far pagare l’Imu agricola ai comuni montani. Ecco il lato grottesco della faccenda è la definizione di ciò che è montagna. Inizialmente si era optato per una tripartizione basata su una tabella Istat: da 0 a 280 metri slm la categoria NM(comune non montano), da 281 a 599 metri slm la categoria P (comune parzialmente montano), da 600 metri slm in su la categoria T (comune totalmente montano). Secondo la tripartizione iniziale i comuni NM avrebbero pagato l’Imu agricola, i comuni P una tassa agevolata e i comuni T sarebbero stati esonerati. Lo scorso 24 gennaio, però, il Consiglio dei Ministri ci ha ripensato e ha esonerato dal pagamento anche i comuni parzialmente montani, Roma compresa. Già perché nonostante i suoi sette colli oscillino fra i 46 metri Celio, Aventino e Campidoglio e i metri del Quirinale e, nonostante la “vetta” della Capitale siano i 139 metri di Monte Mario, Roma è stata inserita fra i comuni parzialmente montani. Se si aggiunge che sono state inserite nella classificazione T anche località bagnate dal mare come MattinataPeschici e Vieste, il pasticciaccio è servito. Le incongruenze rilevate da Il Fatto Quotidiano un mese fa sono parecchie: tantop per rimanere in Puglia, Alberobello e Locorotondo che si trovano, rispettivamente, a 428 e 410 metri slm sono considerati comuni NM, non montani. Stessa sorte per Matera che si trova a 400 metri di altezza slm. La lista delle incongruenza è lunghissima. In Liguria, per esempio, vengono assoggettati al pagamento alcuni comuni che non avevano mai pagato l’Imu come San Biagio della Cima e Vallebona, mentre vengono esentati Taggia e Sanremo. Fra i sindaci sale il malcontento. Su Grandain, un sito di informazione locale il sindaco di Santo Stefano Belbo, Luigi Genesio Icardi, ha espresso qualche settimana fa il suo dissenso nei confronti di questa nuova tassa disincentivante per uno dei settori sui quali dovrebbe puntare il nostro Paese:

Il governo Renzi aveva bisogno di soldi per finanziare i famosi 80 euro da dare agli operai in busta paga e l’ha fatto prendendoli ai contadini, come una sorta di Robin Hood al contrario, che prende ai poveri, ai lavoratori, dimenticandosi poi di banche ed altri soggetti ben più meritevoli di esser tassati.”

Santo Stefano Belbo si trova a un altezza di 170 metri slm ed è dunque considerato come comune non montano. Il sindaco vorrebbe esentare la cittadinanza dal pagamento dell’Imu agricola, ma non può:

l’applicazione da parte del Comune è un obbligo di Legge e oltretutto i soldi dell’Imu agricola il Governo ce li ha già presi. Il 27 dicembre scorso, infatti, il Ministero della Finanze ha comunicato di aver effettuato un prelievo, una trattenuta sui fondi destinati al Nostro Comune di circa 210 mila euro, cioè esattamente il gettito dell’Imu agricola stimato dal Governo. Non solo, nelle norme è anche previsto che questo buco di 210 mila euro debba essere sanato con l’imposizione da parte del Comune dell’Imu sui terreni agricoli. Siamo diventati degli esattori del Governo Romano, che tira la pietra e nasconde la mano, e cosa ben più grave, l’Imu, cioè ‘imposta municipale unica, per com’era stata concepita, doveva servire al territorio, ma in realtà va a finanziare il governo, non un solo euro resta ai Comuni per il territorio. Questo modo di procedere del Governo, che applica delle politiche predatorie del territorio, mina nelle fondamenta i principi costituzionali di autonomia degli enti locali,

spiega Icardi che si chiede – e non da solo – come sia possibile che la capitale venga classificata come comune montano, mentre non lo sono molti comuni delle colline delle Langhe.IceRide-Greenpeace-Roma-1-620x483

Fonte: Il Fatto Quotidiano

© Foto Getty Images

Italia dei veleni: bambini a rischio, ma la ricerca non viene finanziata

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In questi ultimi mesi, purtroppo, ci siamo abituati a scoprire, giorno dopo giorno, un’Italia avvelenata, dove convivono le Terre dei Fuochi, le discariche abusive, i terreni contaminati, le persone che muoiono di tumore. A dare un quadro ancora più netto della pericolosità insita di questi luoghi, un tempo decantati per la loro bellezza, arriva in questi giorni il terzo dossier “Sentieri” dell’Istituto superiore di Sanità, sugli effetti sulla salute delle popolazioni esposte ai Sin, i Siti di interesse nazionale per le bonifiche. Lo studio ha il compito di approfondire il livello di compromissione della salute dei 5 milioni di italiani che vivono in territori tendenzialmente pericolosi, in prossimità di discariche, di industrie e di terreni inquinati. I risultati, come ci si poteva aspettare, non sono rincuoranti. La cosa che stupisce ancora di più, però, è che l’importanza di sviluppare questo filone di ricerche per comprendere meglio l’incidenza che questi veleni hanno sui nostri bambini viene, tutt’oggi, sottovalutata. Spesso non ci facciamo caso, ma i bambini corrono, giocano e respirano quell’aria malsana ricca di inquinanti. Il loro metabolismo è più veloce del nostro, per questo sono più esposti a rischi di malattia.

Quelli che vivono vicino alle aree contaminate hanno un rischio di morte più alto del 4%, già nel primo anno di vita. Oltre a questo, però, non ci è dato sapere, visto che il primo progetto di studio epidemiologico dedicato ai bambini che vivono in queste aree compromesse continua a giacere nei cassetti dell’Istituto superiore di Sanità. Parte di questi dubbi e l’assoluta necessità di indagare gli effetti di tutti questi veleni sulla salute dei bambini lo sono chiari nel nuovo rapporto “Sentieri”, di cui abbiamo parlato prima. Il settimo capitolo, in particolare, affronta questo tema, poco esplorato e soprattutto delicatissimo, dei rischi per la salute infantile. Per poter condurre la terza parte dello studio, i ricercatori dell’ISS hanno lavorato su tre banche dati diverse, incrociando le rilevazioni sulla mortalità aggiornate al 2010, l’incidenza oncologica per gli anni 1996-2005 e dati di ospedalizzazione relativi al periodo 2005-2010. Dalle analisi emergono con forza: la gravità dell’esposizione all’amianto, che genera mesotelioma e tumore maligno della pleura; una maggiore incidenza di tumore del fegato, legato a un “diffuso rischio chimico nei SIN”; le patologie del sistema urinario, per le quali si ipotizza un nesso causale legato ai solventi alogenati dell’industria calzaturiera. Non ultime le malattie respiratorie e i tumori al polmone. Le conclusioni di questi dati dovrebbero fungere da campanello d’allarme per la politica sanitaria e ambientale, spingendo chi di dovere ad acquisire maggiori conoscenze dei contaminanti presenti nei territori e delle conseguenze a essi legate. Ma non solo. Si sa che sono 5 milioni gli italiani che vivono in uno dei 44 siti di interesse nazionale per le bonifiche (Sin); di questi, un quinto sono bambini e giovani al di sotto dei 20 anni d età, la fascia più fragile ed esposta. Tuttavia su di loro grava un buco informativo che si spera possa essere colmato nel più breve tempo possibile. La sottostima di questo problema, fa notare il Fatto Quotidiano, era già nota agli esperti italiani.

Un anno fa, durante un workshop organizzato dal Dipartimento ambiente e prevenzione primaria (Ampp)dell’Iss, erano state descritte le evidenze epidemiologiche disponibili sui fattori di rischio ambientale per l’insorgenza dei tumori infantili riferiti a 23 siti, su 44, di interesse nazionale per le bonifiche e coperti dalla Rete dei registri tumori (Airtum).

Secondo i dati, in quei particolari siti, “sono stati registrati circa 700 casi di tumori maligni tra i ragazzi di età compresa tra 0 e 19 anni (più di 1.000 casi includendo anche i giovani adulti, 0-24 anni). Con picchi nelle realtà più compromesse della mappa dei veleni: a Massa Carrara, area interessata dal siderurgico e petrolchimico, le esposizioni agli inquinanti hanno portato a un eccesso di mortalità del 25% nei bambini sotto l’anno di vita e del 48% in quelli da 0 a 14 anni. A Taranto gli stessi valori sono superiori del 21% e del 24%, a Mantova – tra industrie metallurgiche e cartarie, petrolchimico e discariche e area portuale – addirittura del 64 e 23%”.

Il progetto per colmare questo buco informativo, nonostante la sua complessità, ha costi molto ragionevoli: costerebbe circa 350mila euro. Nulla, in confronto ai 250 milioni che nel bilancio del Ministero della sanità vanno sotto la voce “tutela della salute pubblica”. Poco rispetto allo studio approvato sulla sigaretta elettronica (415mila euro) o sul Piano di monitoraggio e di intervento per l’ottimizzazione della valutazione e gestione dello stress lavoro correlato proposto da Inal (480mila euro). Eppure, ad oggi, lo studio proposto dagli epidemiologi su tutti i bambini dell’Italia dei veleni non ha ancora trovato posto. I proponenti si limitano a dire: “Finora, in effetti, non abbiamo avuto fortuna. Abbiamo avuto un momento di gloria nel 2006-2007 con la ricerca finalizzata, poi nel 2009 col Ccm e adesso fatichiamo un po’ ma non demordiamo, stiamo continuando a fare richieste”. Anche perché, fare prevenzione per i bambini, significa fare prevenzione per tutti e quei dati che allo stato attuale non ci sono, potrebbero essere importantissimi. Anche considerato il fatto che ogni giorno, in un punto diverso d’Italia, si scoprono nuovi veleni, nuovi siti contaminati. L’ultimo, quello che riguarda Cassino, nella zona agricola di Nocione, dove un’area di 10mila metri quadrati, intrisa di veleni, dove pascolavano le pecore è stata recintata. Rifiuti ospedalieri e discariche abusive hanno contaminato terra e acqua. Un disastro annunciato, e denunciato ad esempio da Legambiente nel 1998, perpetrato per oltre due decenni e che, ad oggi, richiede almeno 213 mila euro di spesa preventivata per gli interventi.

(Foto: AZRainman)

Fonte: ambientebio.it