Hawaii: l’elettricità si produce con le onde marine

Nell’arcipelago è partito il primo impianto che trae energia elettrica dalle onde del mare4735204073_9eb2552524_b

Al largo della costa della Hawaii, due boe “speciali” utilizzano l’energia prodotta dalle onde dell’oceano per generare elettricità. È questo il primo impianto che trae energia direttamente dal moto ondoso negli Usa. Una volta generata, la corrente elettrica viaggia attraverso un cavo sottomarino per circa un miglio fino a una base militare, entrando nella rete elettrica dell’isola di Oahu, isola principale dell’arcipelago. Secondo alcune stime, il movimento incessante del mare racchiude un’energia sufficiente per soddisfare un quarto del fabbisogno energetico dell’America e ridurre così drasticamente la dipendenza del paese dal petrolio, gas e carbone. Ma la tecnologia è ancora troppo in ritardo rispetto alle altre fonti rinnovabili, come quella del sole e del vento. Da qui il progetto pilota alle Hawaii, perfette, con per le sue onde così potenti, per la sperimentazione di tecnologie rinnovabili marine. L’arcipelago, infatti, non solo ha un gran bisogno di abbassare gli alti costi di elettricità, alimentata dal petrolio trasportato via mare, ma dovrà raggiungere l’obiettivo di sfruttare energia al 100% rinnovabile entro il 2045. E, secondo gli studiosi potrebbero volerci dai 5 ai 10 anni prima di avere una tecnologia per le rinnovabili marine in grado di fornire una valida alternativa ai combustibili fossili. Gli sviluppatori stanno ancora lavorando sul un design più efficace per sfruttare meglio il moto ondoso e su un dispositivo che riesca a resistere alle tempeste e all’azione corrosiva dell’acqua marina. “Abbiamo avuto il modo di progettare qualcosa che può rimanere in acqua per molto tempo, ma non di essere in grado di sopravvivere”, spiega Patrick Cross, collaboratore dell’ Hawaii Natural Energy Institute presso l’Università delle Hawaii a Manoa. Gli Stati Uniti si sono posti l’obiettivo di ridurre le emissioni di carbonio di un terzo dai livelli del 2005 entro il 2030 e molti gli Stati stanno già cercando di sviluppare più energia per i prossimi decenni. “Gli Stati Uniti potrebbero ottenere dal 20 al 28% del proprio fabbisogno energetico dalle onde”, spiega uno dei finanziatori del sito, Jose Zayas del Wind and Water Power Techonologies Office all’Energy Department degli Stati Uniti. “ La tecnologia energetica del moto ondoso è allo stesso punto di come l’industria solare ed eolica erano nel 1980. Entrambi hanno ricevuto ingenti investimenti pubblici e crediti d’imposta che hanno contribuito a farli diventare fonti di energia sufficiente a basso costo per competere con i combustibili fossili”.

Riferimenti: via PhysOrg

Tratto : galileonet.it

 

Plastica alle Hawaii, raccolte 57 tonnellate di reti da pesca e rifiuti

Un team di 17 subacquei NOAA a bordo della nave a vela Oscar Elton Sette è tornato da una missione durata 33 giorni per rimuovere i detriti marini da Papahānaumokuākea alle Hawaii, patrimonio dell’umanità e una delle più grandi aree protette marine in tutto il mondo.

I subacquei del NOAA, il National Oceanic and Atmospheric Administration, in 33 giorni di missione in acque poco profonde, hanno rimosso dai 10 atolli disabitati del Papahanaumokuakea Marine National Monument circa 57 tonnellate di reti da pesca abbandonate e rifiuti. Sulle coste del Midway Atoll National Wildlife Refuge, il team ha esaminato e rimosso quasi 6 tonnellate e mezzo di rifiuti di plastica raccogliendo tra gli altri 7.436 frammenti di plastica dura, 3.758 tappi di bottiglia, 1.469 bottiglie di plastica e 477 accendini. Ha detto Mark Manuel direttore della Coral Reef Ecosystem Division e responsabile scientifico per la missione:

La quantità di rifiuti marini che troviamo in questo luogo remoto e incontaminato è scioccante. Ogni giorno, abbiamo tirato su le reti da pesca abbandonate e caricando al massimo la nave. Ma altri rifiuti attendono di essere raccolti.

Negli atolli Pearl e Hermes i subacquei hanno incontrato e liberato tre tartarughe marine aggrovigliate nelle reti da pesca abbandonate e hanno impiegato diversi giorni a rimuovere una super rete da pesca di 28 metri che si estendeva per 16 metri di profondità e pesava 11 tonnellate e mezzo. La rete, per essere recuperata, è stata tagliata in 3 pezzi e caricata sulla Oscar Elton Sette ma oramai aveva già distrutto il corallo dell’atollo. Le Northwestern Hawaiian Islands, oltre ad essere un importante sito culturale per i nativi hawaiani, sono il rifugio di più di 7.000 specie marine, tra cui la foca monaca hawaiana a rischio estinzione; 14 milioni di uccelli marini, rare e minacciate di uccelli terrestri, e tartarughe marine verdi. Essi comprendono 5.178 chilometri quadrati del più sano e meno disturbato barriera corallina habitat nelle acque degli Stati Uniti. I sommozzatori hanno lavorato su piccole barche, osservando attentamente le barriere coralline di Maro Reef e degli atolli di Perla, Hermes e Midway. La missione è annuale e nata nel 1996
e da allora sono stati rimossi oltre 904 tonnellate di rifiuti marini, tra cui le reti che sono un pericolo per la foca monaca, tartarughe e uccelli marini che dipendono dalla barriera corallina poco profonda per la sopravvivenza. Le reti inoltre rompono e danneggiano i coralli mentre vanno alla deriva trascinate dalle correnti. Una volta che si sono fermate possono soffocare i coralli e impedirne la crescita.reti-da-pesca-620x350

Ha spiegato Kyle Koyanagi coordinatore regionale per la raccolta dei rifiuti marini del programma del NOAA:

Speriamo di poter trovare un modo per evitare che le reti da pesca abbandonate entrino entrare in questo luogo speciale. Fino a allaora la loro rimozione è l’unico modo per impedire che danneggino fragile ecosistema della barriera corallina.

Purtroppo le reti raccolte non sono riciclate, ad esempio per ottenere filato nylon 6 ma bruciate per creare energia con la Covanta Energy and Schnitzer Steel che servirà a alimentare le case hawaiane. Le Northwestern Hawaiian Islands sono probabilmente l’ultimo paradiso terrestre incontaminato se escludiamo le 52 tonnellate di attrezzi da pesca che si accumulano qui perché portate dalle correnti del Pacifico. Non c’è una stima precisa del genere di rifiuti che giungono su questi atolli ma si ritrovano boe, bottiglie, giocattoli, infradito, casse e altri rifiuti, nonostante le isole siano disabitate. I rifiuti marini sono una minaccia per il nostro ambiente, la sicurezza della navigazione, l’economia e la salute umana. Enormi quantità di materie plastiche derivate dal consumo, metalli, gomma, carta, tessuti, attrezzi da pesca abbandonati, vasi e altri oggetti persi o scartati entrano nell’ambiente marino tutti i giorni. La missione del NOAA è di capire e prevedere i cambiamenti nel contesto della Terra, dalle profondità del mare alla superficie e di conservare e gestire le nostre risorse costiere e marine.

Fonte:  NOAA
Foto |NOAA @ facebook

Giornalisti in viaggio premio alle Hawaii per parlare bene dei MUOS

I MUOS, le antenne americane in Sicilia sono un progetto che per gli Stati Uniti ha un valore fondamentale e per dimostrarlo pagano il viaggio alle Hawaii ai giornalisti del mainstream italiano per rabbonire l’opinione pubblica

Scrive Massimo Zucchetti su Il Manifesto:

Giunge noti­zia con­fer­mata che il Dipar­ti­mento di Stato Usa ha invi­tato i gior­na­li­sti delle mag­giori testate ita­liane ad andare a visi­tare i Muos già fun­zio­nanti all’estero, in Vir­gi­nia e alle Hawaii. Per dimo­strare come i para­bo­loni siano del tutto inno­cui e la gente viva loro vicino in asso­luta con­ten­tezza, leti­zia e salute. Il viaggio-premio avverrà fra fine feb­braio ed i primi di marzo, in modo da otte­nere buoni arti­coli sulla stampa locale — ita­liana ed euro­pea -, quag­giù nelle colo­nie, in vista del grande avve­ni­mento, ormai tra­pe­lato: l’accensione del Muos intorno ad aprile. Magari il 25 del mese, in modo che in futuro si possa sosti­tuire la festa della libe­ra­zione con l’anniversario della messa in fun­zione del defi­ni­tivo sistema per la guerra totale che per­mise il trionfo della demo­cra­zia. Sarà dav­vero un bella scam­pa­gnata, cui pur­troppo – inspiegabilmente – noi del Mani­fe­sto non siamo stati invi­tati: già imma­gino l’infornata di giornalisti ita­liani – fino al giorno prima con­vinti che MUOS fosse il nome di un poke­mon – in visita alle basi, con la loro brava cartelletta-briefing, le foto ricordo e – come fu anche in occa­sione della visita dei giornalisti a Niscemi lo scorso luglio – le belle gri­gliate offerte nei prati den­tro le basi. Non potrà che sor­tirne un ottimo ritorno d’immagine, pen­sano i nostri “alleati” sta­tu­ni­tensi. Certo, pare che il MUOS in Vir­gi­nia sia in un posto niente di che, ma quello alle Hawaii merita dav­vero un’escursione. Pec­cato che nel pacchetto-vacanze non sia com­preso anche l’altro Muos, quello in Austra­lia, desti­na­zione un po’ meno bana­lotta delle ormai sfrut­tate Hawaii.Immagine

I MUOS ovvero le Mobile User Objective System ossia le antenne militari installate a Niscemi servono agli Usa per controllare quanto accade nel Mediterraneo e nel 2011 Ecoblog raccontava di come Wikileaks avesse già svelato le pressioni statunitensi nel merito: no al Ponte sullo stretto e si alle antenne militari. I Comitati cittadini di siciliani che si battono perché non siano attivate le antenne poiché come scrivono sul loro sito:

La salute potrebbe essere compromessa dall’esposizione prolungata a campi elettromagnetici di media intensità (rischio di tumori, leucemie, caterratte, …). Inoltre, l’esposizione a campi molto intensi può essere fatale (ad esempio, per un errore di puntamento di una parabola).

Ma che importa: a breve avremo valanghe di articoli con salamelecchi agli americani scritti da prestigiose firme del giornalismo italiano e da firme di pseudo ambiantalisti che per un viaggetto alle Hawaii saranno disposti a raccontare che sì le onde elettromagnetiche fanno durare l’abbronzatura più a lungo. Cari lettori di Ecoblog, quando leggerete quei mirabolanti articoli, voi saprete perché sono stati scritti.

Fonte: ecoblog.it

Alle Hawaii i pesci mangiano plastica: i rischi per l’uomo

Nelle isole Hawaii il 19% dei pesci catturati presenta residui plastici nell’organismo. Risalendo la catena alimentare potrebbe danneggiare anche l’uomo 88613690-586x374

Uno se le immagina come isole ricolme di frutti e fiori, oasi di natura incontaminata, sfiorate appena dal progresso. Nulla di tutto ciò: alle Hawaii i pesci mangiano plastica e tali quantitativi plastici ingeriti dai predatori, sarebbero in grado di mettere a rischio la salute dell’uomo. Un’equipe di ricerca ha analizzato il contenuto dello stomaco di 600 pesci catturati nel corso degli ultimi sei anni, scoprendo come in sette specie di predatori su dieci siano presenti residui plastici. Non tutti, però, sono colpiti dal ”fenomeno” allo stesso modo: i ricercatori hanno infatti trovato plastica nel 19% dei pesci catturati. La specie con la maggiore quantità presente nello stomaco è l’Opah, conosciuto anche come Pesce Luna, mentre altre specie quantitativamente più numerose, sono risultate meno esposte, su tutte i tonni. Gli effetti dell’ingestione di plastica sulla salute di questi pesci predatori e sugli esseri umani che se ne nutrono restano ancora incerti, ma i risultati dello studio non lasciano dubbi sulla gravità del fenomeno:

I pesci lungo tutta la catena alimentare ingeriscono nel corso della loro vita una qualche forma di inquinamento da plastica,

rilevano i ricercatori americani. Il problema non è limitato all’oceano Pacifico. In un recente rapporto dell’agenzia federale dell’Ambiente tedesca e della Commissione Ue, è stato reso noto come tre quarti della spazzatura che si trova in mare sia plastica, tra cui soprattutto teli, buste e cassette per il pesce di polistirolo. Ovviamente dal fenomeno non si salva neanche il Mediterraneo in cui, come riporta lo stesso studio, la quota di rifiuti di plastica presenti supererebbe l’80%. Qualche anno fa Legambiente aveva addirittura lanciato l’allarme per l’insorgenza, al largo dell’Isola d’Elba, di una vera e propria isola di rifiuti di plastica simile – anche se di superficie inferiore – al più noto Pacific TrashVortex oceanico. Una volta entrata nella catena alimentare, la plastica arriva anche sulle nostre tavole. Una ricerca dell’Università di Siena ha fatto notare che micro particelle di plastica – con uno spessore di meno 5 millimetri, derivate dalla degradazione di rifiuti plastici – interferiscono con le capacità riproduttive delle balenottere. Che sono mammiferi, proprio come l’uomo. Il problema  – al quale è dedicato un lungo capitolo del documentario Trashed – non può più essere relegato a livello locale: è, a tutti gli effetti, un’emergenza globale.

Fonte:  Ansa