Greenpeace salva le api e le porta in 100 città europee

In 100 città europee circa 1000 volontari di Greenpeace hanno spiegato ai cittadini l’importanza delle api per una grande manifestazione in difesa degli impollinatori. Da Amburgo a Roma, da Sofia a Malaga oltre mille volontari e attivisti di Greenpeace hanno lavorato oggi in Italia, Austria, Bulgaria, Germania, Grecia, Ungheria, Slovacchia, Spagna e Svizzera per diffondere presso i cittadini l’importanza degli impollinatori messi in pericolo dall’uso eccessivo dei fitofarmaci tra cui i potenti neonicotinoidi per cui in alcuni stati europei è in atto una moratoria prossima allo scadere. Le api da miele,con altri impollinatori, contribuiscono a farci arrivare sulla tavola di 1 dei 3 bocconi di cibo che mangiamo. Le api impollinano 71 delle 100 colture che costituiscono il 90% dell’approvvigionamento alimentare del mondo. I prodotti dannosi per le api sono usati proprio in agricoltura e in fitocoltura.campagna-salviamo-le-api-di-greenpeace

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Gli eventi di Greenpeace perciò si sono svolti anche sotto forma di pacifiche proteste nei pressi sei vivai mentre nei mercatini altri volontari hanno raccolto firme a favore di una petizione da inviare al ministro per l’Agricoltura. Greenpeace in Italia ha coinvolto ben 23 città con diversi eventi declinati come flash mob o come food coocking con ingredienti tipici ottenuti grazie al silenzioso lavoro di impollinazione delle api. Spiega Federica Ferrario, responsabile campagna Agricoltura sostenibile di Greenpeace Italia:

Il declino delle api è un sintomo di un sistema agricolo industriale fallimentare, basato su un uso sempre più crescente di prodotti chimici di sintesi ed energia, monocolture su larga scala e la dipendenza da poche multinazionali agrochimiche. Le api non si limitano a produrre miele, come molti pensano. Un terzo del cibo che mangiamo e la maggior parte della flora spontanea dipende dalla loro opera di impollinazione. Le bancarelle dei mercati sarebbero quasi vuote senza il lavoro delle api, dovremmo scordarci mele, mirtilli, zucchine, broccoli, cipolle, mandorle, caffè, e molto altro ancora. Per proteggere le api e l’agricoltura dobbiamo lavorare con la natura, non contro di essa. Solo un’agricoltura ecologica e sostenibile ci permetterà di garantire diversità e sicurezza alimentare e proteggere le api a lungo termine. È ora che i politici europei ascoltino “il ronzio” delle tante persone che si stanno mobilitando per salvare le api, è il momento per loro di agire.

Foto | Courtesy @Greenpeace

Fonte: ecoblog.it

 

Trivellazioni: “decreto Zanonato applicazione di una legge nefasta”

Il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato con il decreto ‘contro le trivelle’ non fa altro che applicare una legge che ha riportato le piattaforme petrolifere sotto le spiagge degli italiani. È quanto sostiene Greenpeace che commenta la firma del decreto di riordino delle zone marine aperte alla ricerca e coltivazione di idrocarburi annunciata dal ministro.petrolio_trivellazioni8

“Il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, sbandierando urbi et orbi un decreto ‘contro le trivelle‘ non fa altro che applicare il nefasto Art. 35 della Legge 83/2012 che ha riportato le piattaforme petrolifere sotto le spiagge degli italiani”, così Alessandro Giannì, direttore delle Campagne di Greenpeace Italia commenta la firma del decreto di riordino delle zone marine aperte alla ricerca e coltivazione di idrocarburi annunciata dal Ministro. Non solo, con questo decreto il Governo amplia le aree coinvolte dalle esplorazioni offshore, avvicinandosi alle Baleari e confermando la famigerata estensione verso e oltre l’Isola di Malta: un atto che Greenpeace definisce irresponsabile, contestato ovviamente dai maltesi che, non ha caso, hanno ricominciato quest’estate a sequestrare i pescherecci siciliani. Il vero problema, come tutti sanno – compreso il Ministro Zanonato – è che ci sono decine di istanze di ricerca per giacimenti di petrolio presentate negli scorsi anni in aree oggi “vietate”. In Italia il procedimento amministrativo è spezzato in tre fasi, con tre distinti processi di Valutazione di Impatto Ambientale: prospezione sismica, trivellazione esplorativa e trivellazione commerciale. La domanda di cui tutti attendono risposta è se il ministero dello Sviluppo economico (MISE) e il ministero dell’Ambiente considerano o meno un “diritto acquisito” dei petrolieri quello di realizzare oggi nuove trivellazioni a meno di 12 miglia dalla costa, per il fatto di aver ottenuto anni fa (con procedimenti talvolta contestabili) l’autorizzazione alla prospezione sismica o alla trivellazione esplorativa. “Invece di annunciare nuovi decreti basati su vecchie leggi che già in passato hanno creato molti problemi, il Ministro Zanonato farebbe bene a dire chiaro e tondo che tutte le prossime richieste di attività di ricerca e sfruttamento di idrocarburi in mare dovranno conformarsi alla legge in vigore” – continua Giannì. Sul tema Greenpeace ha già scritto al ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, che ha risposto confermando per iscritto che l’effettuazione di tre separati procedimenti di Valutazione di Impatto Ambientale (per la prospezione sismica, le trivellazioni esplorative e per quelle commerciali) deriva dalla “configurazione del procedimento principale, autorizzatorio o concessorio, nel quale la procedura di VIA si inserisce.” Quindi, delle due l’una: o il “procedimento principale” al MISE è costituito da tre fasi distinte e separate (e quindi ogni fase deve rispettare la norma vigente al momento) oppure lo spezzettamento della VIA di un procedimento unico costituisce l’ennesima violazione italiana della Direttiva 85/337/CEE sulla valutazione dell’impatto ambientale. “Greenpeace attende che qualche petroliere si permetta di richiedere una qualunque autorizzazione ad attività in aree non incluse oggi nella “mappa del petrolio” del Ministro Zanonato. Se questo tipo di istanza venisse accolta, chiameremo in tribunale il MISE che ci dovrà spiegare perché la legge non è uguale per tutti” – conclude Giannì.

Fonte: il cambiamento

Indonesia: “l’olio di palma è la prima causa di deforestazione”

La principale causa della deforestazione in Indonesia tra il 2009 e il 2011 continua a essere la produzione di olio di palma. È quanto rivela il rapporto pubblicato ieri da  Greenpeace che denuncia come dall’olio di palma dipenda ben un quarto della perdita di superficie forestale del Paese.indonesia__foreste

La principale causa della deforestazione in Indonesia tra il 2009 e il 2011 continua a essere la produzione di olio di palma. È quanto rivela il rapporto pubblicato ieri da  Greenpeace International dal titolo “Certificando la distruzione”, che denuncia come dall’olio di palma dipenda ben un quarto della perdita di superficie forestale del Paese. La ricerca, condotta sul campo dagli attivisti, dimostra come la maggior parte della deforestazione avvenga in concessioni controllate da membri della RSPO (Tavola Rotonda per l’Olio di Palma Sostenibile) un’organizzazione nata per garantire la sostenibilità della produzione dell’olio di palma in Indonesia. Tra queste la multinazionale Wilmar International con sede a Singapore. Il dato più allarmante contenuto nel rapporto è proprio che il 39 per cento degli incendi forestali che hanno coinvolto la Provincia di Riau nel primo semestre del 2013 si sono verificati in concessioni certificate come “sostenibili” dalla stessa RSPO. La RSPO si vanta di annoverare tra i propri membri i leader della sostenibilità nel settore dell’olio di palma ma gli standard della propria certificazione lasciano gli stessi membri liberi di distruggere le foreste, drenare le torbiere e appiccare incendi dolosi. “Anno dopo anno gli incendi forestali creano il caos, rendendo irrespirabile l’aria dall’Indonesia a Singapore e producendo migliaia di sfollati dalle aree forestali in fiamme – denuncia Chiara Campione, responsabile della campagna Foreste di Greenpeace Italia -. I membri della RSPO dicono di avere delle precise politiche che vietano l’uso del fuoco per preparare il terreno alle nuove piantagioni ma non si rendono conto che le torbiere, una volta distrutta la foresta e drenata l’acqua diventano delle polveriere. Basta una scintilla per scatenare l’inferno”. Dal mese di giugno, Greenpeace ha contattato più di 250 aziende internazionali che consumano olio di palma per i propri prodotti chiedendo come fanno a garantire che le loro filiere non siano contaminate da fenomeni come la deforestazione e l’incendio delle ultime torbiere indonesiane. Dalle risposte ricevute finora sembra che la maggior parte di queste si basi solo ed esclusivamente sulla certificazione RSPO per garantire la sostenibilità dei propri prodotti. L’unica soluzione per le aziende che acquistano olio di palma indonesiano è andare oltre la certificazione RSPO. Alcuni lo stanno già facendo. Questa è la sfida che Greenpeace lancia oggi all’industria dell’olio di palma. “Sapone, cioccolata, sughi pronti, biscotti, shampoo e persino prodotti per la pulizia della casa sono tutti fatti con olio di palma. Le aziende che producono questi comunissimi beni di consumo devono poter garantire a noi consumatori che acquistando questi prodotti non stiamo inconsapevolmente accelerando la distruzione di uno degli ultimi polmoni del Pianeta e i cambiamenti climatici” – conclude Campione.

Fonte: il cambiamento

Greenpeace: nuovo record delle rinnovabili in Italia

“L’evoluzione è chiarissima. Avanzano le fonti rinnovabili e arretrano le fossili. Viene da chiedersi se la politica ne sia al corrente”. In Italia le rinnovabili segnano un nuovo record: le fonti pulite nel mese di giugno hanno generato il 50,2 per centro dell’elettricità italiana.energia_pulita3

Nuovo record delle fonti rinnovabili in Italia: nel mese di giugno (dati Terna) le fonti pulite hanno generato il 50,2 per cento dell’elettricità italiana, coprendo il 44,3 per cento della domanda. In un anno (confrontando giugno 2012 con giugno 2013) la quota delle fonti rinnovabili sulla produzione netta è passata dal 38,2 per cento al 50,2 per cento, mentre i consumi complessivamente sono diminuiti del 6,2 per cento. Mentre fotovoltaico, eolico e idroelettrico fanno registrare livelli record di produzione, la produzione termoelettrica crolla (-22,8 per cento), con impianti a gas e – dato parzialmente inedito – anche a carbone, in netto calo. I dati di giugno sono peraltro la conferma di una tendenza registrata finora lungo tutto il primo semestre del 2013. Con una produzione in calo del 4,1 per cento, il comparto termoelettrico ha registrato una contrazione del 16,3 per cento mentre idroelettrico (+37,9 per cento), eolico (+31,4 per cento) e fotovoltaico (+15,2 per cento) sono cresciute significativamente, rappresentando il 41 per cento della produzione nazionale (+9,6 per cento rispetto al 2012). Lo scorso 16 giugno hanno coperto il 100 per cento del fabbisogno nazionale, azzerando per due ore il costo dell’elettricità. “L’evoluzione è chiarissima. Avanzano le fonti rinnovabili e arretrano le fossili. Viene da chiedersi se la politica ne sia al corrente” afferma Andrea Boraschi, responsabile dalla campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia. “Mentre la generazione di energia pulita – che fa risparmiare sull’import di fonti fossili, crea lavoro e azzera le emissioni inquinanti – è oramai in grado di dare un contributo essenziale al fabbisogno del Paese, da più parti giungono segnali inquietanti, di fondi a pioggia per premiare produzioni vecchie e inefficienti, sempre più incapaci di tenere il mercato”. Sembra che il Ministero per lo Sviluppo Economico stia approntando, senza trovare resistenze da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, un piano di sussidi per il settore termoelettrico pari a 400-500 milioni di euro all’anno, nei prossimi tre anni, fino a crescere a 1,5-2 miliardi all’anno dal 2017. “Abbiamo l’occasione storica di lasciarci alle spalle le fonti più sporche e inquinanti, a partire dal carbone che appare economicamente conveniente solo perché il sistema ETS (Emission Trading Scheme), in Europa continua a non funzionare. Già oggi le rinnovabili fanno risparmiare al Paese 8-10 miliardi di mancate importazioni fossili. Cosa aspettiamo a imboccare senza esitazioni la strada della rivoluzione energetica, come altri Paesi stanno già facendo?” conclude Boraschi.

Fonte: il cambiamento