Post-pandemia: c’è la green economy nel futuro dell’Italia?

Numerose indagini e statistiche sembrano confermare che, in particolare durante e dopo la pandemia, il nostro Paese si è orientato verso un’economia più sostenibile, sia dal punto di vista delle imprese che da quello delle scelte d’acquisto dei singoli. Agnese Inverni della Cooperativa agricola sociale O.R.T.O. analizza i dati e prova a trarre alcune conclusioni in merito. Le imprese italiane sono sempre più green: questo è quanto emerge dall’undicesimo rapporto GreenItaly della Fondazione Symbola e di Unioncamere che analizza lo sviluppo delle attività produttive ecosostenibili sul territorio nazionale. Dal rapporto risulta che nel periodo 2015-2019 più di 432.000 imprese italiane dell’industria e dei servizi, ovvero il 31,2% del totale, hanno investito in prodotti e tecnologie per la sostenibilità ambientale. Il picco massimo è stato raggiunto nel 2019 con quasi 300.000 aziende che hanno puntato soprattutto su efficienza energetica, utilizzo di fonti di energia rinnovabile, minore consumo di acqua e riduzione dei rifiuti. La pandemia da Covid-19 ha contribuito alla momentanea riduzione degli eco-investimenti da parte delle imprese che tuttavia li ritengono un’ottima strategia da adottare sempre più spesso negli anni a venire. È ormai evidente la necessità di un cambio di paradigma nell’organizzazione del sistema produttivo che dovrà essere orientato in direzione della sostenibilità economica, sociale e ambientale. La vecchia concezione secondo cui non sia possibile conciliare il profitto e la tutela della natura ha rivelato la sua infondatezza: ad oggi è sempre più chiaro agli occhi di produttori e consumatori che la green economy è la migliore strategia di sviluppo per il futuro. Il 2020 è stato un anno indubbiamente difficile in Italia e nel resto del mondo. Tante delle nostre certezze sono crollate e ci siamo ritrovati a riflettere sulla stile di vita delle nostre società e sulle azioni e le scelte individuali che compiamo ogni giorno. La percezione comune è che la propagazione della pandemia sia stata favorita, in una certa misura, dallo sviluppo di un modello economico improntato su consumismo sfrenato e globalizzazione. Questa presa di coscienza, seppur destabilizzante, è stata la scintilla che ha innescato il cambiamento di mentalità i cui effetti saranno dirompenti nel prossimo futuro.

Già da alcuni anni gli italiani dimostrano una crescente sensibilità nei confronti delle tematiche ambientali e stanno modificando le proprie abitudini in funzione dell’ecosostenibilità. Per capire l’entità del fenomeno possiamo fare riferimento al 6° Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile, un’indagine realizzata da Lifegate in collaborazione con Eumetra MR. Il documento (elaborato a gennaio 2020 prima dell’emergenza sanitaria) mostra che per il 62% degli italiani quello della sostenibilità è un tema sentito e non solo una moda passeggera; il 72% si sente coinvolto nelle questioni ambientali e il 32% si dichiara addirittura “appassionato” al tema. Sul fronte degli acquisti gli italiani sono disposti a spendere di più principalmente per prodotti a km0 (nel 44% dei casi), per prodotti bio (36%) e per giocattoli per bambini realizzati con materiali sostenibili (36%). I giovani della Z-generation sono disposti a spendere di più anche per energia rinnovabile (40%) e per sistemi di domotica per il risparmio energetico (35%). La tendenza dei consumatori italiani è quella di ridurre la propria impronta ecologica anche attraverso le nuove tecnologie che si rivelano una buona soluzione per tagliare gli sprechi, ridurre il consumo di energia e conservare le risorse naturali. Un’idea diffusa è che non sia necessario sacrificare la qualità della propria vita per essere più green e che, al contrario, modificare alcune abitudini possa migliorare notevolmente la salute e il benessere personale. Proprio in virtù di questa convinzione, negli ultimi anni si sta verificando un cambiamento significativo delle tendenze alimentari degli italiani che si mostrano sempre più attenti al cibo sano, biologico ed ecofriendly. Il rapporto “Bio in cifre 2020” realizzato da Sineb-ISMEA attesta che nella prima metà dell’anno il consumo di prodotti agroalimentari biologici è cresciuto del 4,4% rispetto al 2019 raggiungendo la cifra record di 3,3 miliardi di euro. L’emergenza sanitaria ha contribuito all’aumento delle vendite di prodotti biologici dato che, durante il lockdown nazionale, molti italiani hanno trascorso più tempo in cucina e sono stati più attenti nella scelta delle materie prime alimentari, preferendo quelle di alta qualità e a ridotto impatto ambientale. I consumatori, ora più che mai, sono influenzati nelle loro scelte di acquisto anche da alcuni parametri legati alla sostenibilità del prodotto quali il materiale del packaging, le emissioni di CO2 nelle fasi di trasporto e distribuzione, il consumo di acqua e la gestione dei rifiuti. Alla luce di tutte queste considerazioni, è facile immaginare che il modello di consumo della società post-pandemica sarà orientato in direzione della sostenibilità; è necessario infatti realizzare più prodotti e servizi innovativi che sappiano rispondere al bisogno dei clienti di vivere in armonia con la natura. Molte imprese italiane stanno attuando un percorso di transizione ecologica delle proprie attività e già da alcuni anni investono in tecnologie green e nell’assunzione di personale specializzato nella sostenibilità ambientale.

Gli eco-investimenti si sono rivelati una strategia vincente anche di fronte alla crisi innescata dalla pandemia da Covid-19: nell’ultimo anno il 16% delle imprese votate al green è riuscito ad aumentare il proprio fatturato e il 9% di esse ha assunto nuovo personale (contro rispettivamente il 9% e il 7% delle aziende meno attente all’ambiente). La riconversione ecologica del sistema produttivo potrebbe dunque favorire non solo la ripresa economica ma anche l’aumento dell’occupazione lavorativa; in particolare i più giovani potrebbero usufruire di nuove opportunità e specializzarsi in settori professionali del tutto inesistenti fino a qualche anno fa.

Le competenze relative all’ecosostenibilità e anche una certa sensibilità nei confronti delle tematiche ambientali sono considerate delle capacità molto importanti in ambito aziendale: per alcune imprese sono ormai essenziali tanto quanto la conoscenza lingua inglese o delle principali applicazioni software di produttività personale.

Il rapporto “Green Jobs: Towards decent work in a sustainable, low-carbon world” realizzato dall’UNEP (United Nations Environment Programme) nel 2009 definisce i green jobs come quelle occupazioni nei settori dell’agricoltura, del manifatturiero, nell’ambito della ricerca e dello sviluppo, dell’amministrazione e dei servizi che contribuiscono in maniera rilevante a preservare o restaurare la qualità ambientale. Sono incluse tutte le professioni che aiutano a mantenere la biodiversità e gli equilibri ecosistemici, a ridurre il consumo di materiali e di energia, a decarbonizzare le attività economiche e a diminuire o eliminare l’inquinamento e la produzione di rifiuti. È una definizione di ampio respiro che prende in considerazione diverse specializzazioni nei più svariati settori economici, dall’agricoltura ai servizi informatici, dall’industria alla ricerca scientifica, dal commercio all’arte e alla cultura. Le possibilità lavorative che si presentano sono molteplici e in continua evoluzione; da ogni attività riconvertita in chiave green è possibile generare nuove idee e nuove occupazioni innescando così un circolo virtuoso di sostenibilità. I settori che più necessitano di personale specializzato in tal senso sono l’edilizia e l’industria che richiedono sempre più spesso l’intervento di ingegneri e chimici ambientali. Anche l’energy manager è diventato una figura irrinunciabile all’interno delle aziende dato che si occupa dell’uso razionale dell’energia. Stessa importanza assume l’informatico ambientale che progetta software per il monitoraggio dei consumi e dei sistemi di riscaldamento e raffreddamento in ambito domestico. Se da una parte i consumatori italiani richiedono l’applicazione di tecnologie sempre più green, dall’altra avvertono il bisogno di ritornare alla natura, alla semplicità, a uno stile di vita più genuino e autentico. E quale modo migliore di farlo se non attraverso l’alimentazione? Come diceva il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach “siamo ciò che mangiamo” e ad oggi molti italiani sono interessati a conoscere sempre meglio il cibo di cui si nutrono. Nel 2019 le imprese agro-alimentari biologiche in Italia hanno superato le 80.000 unità e hanno generato una filiera di produzione e distribuzione che necessita continuamente di nuovi biocontadini con competenze specifiche di agroecologia.

Sta prendendo sempre più piede anche la figura del culinary gardener, ovvero il produttore-consulente che collabora con chef e ristoratori per rifornirli delle migliori materie prime alimentari. È un esperto che sa come valorizzare le varietà ortofrutticole tipiche del territorio per creare menù originali e allo stesso tempo vicini alla tradizione culinaria italiana; spesso pratica il foraging, cioè la raccolta e la preparazione in cucina di erbe spontanee, garantendo al cliente ingredienti 100% naturali e a km0.

Sono molti altri i green jobs che saranno sempre più richiesti nei prossimi anni: il mobility manager per la gestione di sistemi di trasporto a basso impatto ambientale, il bioarchitetto per la progettazione di design sostenibile, l’operatore di ecoturismo, l’esperto di moda vegan ecc.. Non c’è settore produttivo che non possa reinventarsi in chiave green e quindi le possibilità occupazionali sono pressoché illimitate. Quel che è certo è che siamo di fronte a una grandiosa opportunità che consentirà di assumere circa 480.000 nuovi professionisti “verdi” in Italia e di creare ben 24 milioni di posti di lavoro in tutto il mondo entro il 2030. D’altronde la parola crisi deriva dal greco krisis, che significa “scelta”, proprio ad indicare come ogni problema, se analizzato attentamente, riveli da sé la soluzione per risolverlo.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/09/green-economy-italia/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

L’economia del futuro deve essere decarbonizzata altrimenti non ha prospettive’, intervista ad Edo Ronchi | 2° parte

In occasione degli Stati Generali della Green Economy in programma il 3 e 4 novembre in versione digitale causa Covid, abbiamo raggiunto Eco Ronchi per sapere quali saranno le riflessioni condivise sull’economia verde ai tempi della pandemia

Quest’anno Gli Stati Generali della Green Economy lanciano un appello alla Comunità europea facendo da megafono al mondo delle imprese. Di cosa si tratta?

Un appelloche qualifica un gruppo consistente di imprese italiane. Per ora l’iniziativa è europea con il gruppo più consistente a livello comunitario che si è espresso per tenere alta l’attenzione climatica nell’uso del Recovery fund. Abbiamo il timore che finanziando gli interventi per il clima possa finanziare anche gli investimenti che generano le emissioni di gas serra. Pensi a certe rottamazioni alla leggera di veicoli ad emissioni di Co2, oppure a certe infrastrutture stradali che comportano aumento di emissioni di gas serra. Insomma bisogna essere coerenti anche perché l’investimento nella carbonizzazione cioè in infrastrutture e impianti che abbiano elevate emissioni di gas serra o che abbiano comunque un aumento di gas serra è un investimento di corto respiro visto che significa buttare via i soldi. E quindi noi siamo convinti che destinare il 37% degli investimenti del Recovery and Resilience Facility, il più importante strumento di finanziamento del pacchetto Next Generation Eu, a favore del clima sia una quota apparentemente consistente ma in realtà è bassa. Bisogna portarla almeno al 50% anche per finanziare le misure di adattamento climatico di cui dicevamo prima, per la prevenzione del dissesto idrogeologico e l’aumento della resilienza del territorio verso le alluvioni e anche verso le ondate di calore. 

Da ex subcommissario per il risanamento ambientale dell’Ilva di Taranto, cosa ne pensa della possibilità di finanziare l’impianto con il Recovery fund?

Non si finanzia più il carbone ma si finanzia la conversione verso l’idrogeno o tecnologie intermedie che abbassino le emissioni di gas serra, questo vuol dire. Quindi benissimo investire nell’Ilva ma non nell’altoforno a carbone, ma nelle misure verso la conversione all’idrogeno. Ovviamente nessuno pensa che si possa fare la conversione dell’Ilva all’idrogeno in 6 mesi. Forse neanche in qualche anno. Si tratta di investire verso la transizione anche prevedendo tappe intermedie. L’importante è che non si tenda a mantenere o aumentare le emissioni di gas serra, ma per ridurre le emissioni di gas serra. 

Di recente l’Italia ha iniziato a recepire il pacchetto di direttive sull’economia circolare. Siamo sulla buona strada? L’emanazione dei decreti “End of waste”, per il riutilizzo delle materie prime seconde, procede a rilento…

Anche in questo caso, negli anni come Fondazione sullo sviluppo sostenibile ci siamo battuti parecchio. Tutti d’accordo sull’economia circolare. Del resto chi vuole mantenere un’economia inefficiente basata sullo spreco delle risorse con alti costi? Poi però quando si tratta di fare le misure non si riescono a cogliere le priorità. Il riciclo va favorito e agevolato. L’End of waste nella normativa europea è una procedura che con le nuove direttive è stata semplificata favorendo, con l’autorizzazione “caso per caso”, la procedura più semplice per il riutilizzo dei materiali. Noi in Italia cosa abbiamo fatto? Con sofferenza abbiamo recepito il potere di affidare alle Regioni le autorizzazioni al riciclo “caso per caso”. Ma siamo l’unico paese europeo che ha istituito una specie di procedura speciale di controllo di secondo livello affidata all’Ispra. Una procedura bizantina che ha come effetto l’appesantimento del riciclo con l’End of waste, rendendolo più complicato rispetto allo smaltimento e all’incenerimento. Speravamo nel pacchetto di recepimento delle direttive per semplificare certi passaggi. Ma non è accaduto.   

Le percentuali di raccolta differenziata raggiunte in Italia sono sempre più alte. Ma il sistema impiantistico è adeguato al trattamento delle frazioni raccolte separatamente?

Se vuoi fare il riciclo hai bisogno di impianti che facciano la una buona selezione, una buona preparazione e una buona attività di riciclo. E’ evidente. Siamo tra i leader europei del riciclo quindi gli impianti li abbiamo. In alcune regioni sono carenti e succede che i rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata viaggino per centinaia di chilometri. Compreso l’organico che per l’80% è perlopiù formato da acqua. Se portiamo questi rifiuti in giro verso le località in cui ci sono gli impianti direi che questa non è una buona soluzione anche dal punto di vista degli impatti energetici e ambientali. 

Per accelerare la transizione verso l’economia circolare occorre non solo favorire il riciclo ma fare in modo che i materiali abbiamo un mercato. Che spinta potrebbe arrivare dall’applicazione dei cosiddetti appalti verdi, obbligatori ma poco utilizzati?

Nel network delle Green city, dove abbiamo fatto un po’ di istruttoria sul tema degli appalti verdi, risulta che le amministrazioni, soprattutto quelle piccole, hanno bisogno di essere supportate tecnicamente. Abbiamo proposto l’intervento dell’Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, come supporto anche per stipulare questi appalti verdi che richiedono modalità tecniche e anche capacità di conoscere il mercato e le produzioni, per sapere se le specifiche che istruiscono poi corrispondono ai prodotti che io trovo sul mercato. Questa capacità ce l’hanno poche Regioni e pochi Comuni. Quindi molte stazioni appaltanti, pur avendo in genere buone intenzioni trovano difficoltà a gestire in maniera efficace gli appalti pubblici verdi. Non è semplice compilare la parte del bando sulle prescrizioni delle caratteristiche che devono avere i beni e i servizi forniti. È una difficoltà operativa che abbiamo riscontrato tra gli amministratori che vogliono applicare davvero i Criteri ambientali minimi, non quelli che cercano le scuse per non fare niente. 

Fonte: ecodallecitta.it

Imprese oltre la crisi anche grazie alla green economy e all’economia circolare

La bellezza e la cura dell’ambiente sono il miglior marketing che possiamo avere per il nostro territorio, per le nostre aziende

“Investire in questi modelli, per un territorio, è fondamentale, va a beneficio dell’ambiente ed è un’opportunità per le imprese: il miglior marketing per attrarre nuove imprese e per aiutare le imprese ad essere ancora più competitive”.

“La bellezza e la cura dell’ambiente sono il miglior marketing che possiamo avere per il nostro territorio, per le nostre aziende. Lo sapevano già i cittadini senesi che intorno al 1300 fecero mettere per iscritto nella loro Costituzione che il buon governo deve avere a cuore massimamente la bellezza della città. E scommettere sulla qualità, sempre. La scommessa sulla quantità in Italia non paga, ce ne sono di esempi. Per cui di certo la competitività di un territorio e delle sue imprese sta massimamente in tre fattori, tutti fondamentali: bellezza, ambiente e qualità”.

Ne abbiamo parlato con Elisa Poggiali, ingegnere con esperienza di lavoro sia nel pubblico che nel privato, sia nella progettazione che nella consulenza ed un filo conduttore ricorrente: l’ambiente, l’economia e le loro relazioni. Dal 2017 è tra le 100 esperte nazionali nei Settori STEM (Scienza Tecnologia Ingegneria e Matematica) raccolte in un database: 100eperte.it. Un progetto a cura dell’Osservatorio di Pavia e dell’associazione Gi.U.Li.A., in collaborazione con la Fondazione Bracco e con il supporto della RAI Radiotelevisione italiana, volto a dare voce ad esperte, nelle materie di loro competenza, attraverso i media. Scrive di tecnologie e soluzioni per l’ambiente e di modelli di green economy ed economia circolare per riviste specializzate.

Le imprese, che ha conosciuto o che ha intervistato, che hanno investito in green economy ed economia circolare, specie laddove sostenute dalle associazioni e delle pubbliche amministrazioni, si può dire che sono uscite dalla crisi: hanno visto aumentare export o hanno sviluppato più innovazione e, trainato da questi trend, è cresciuto il loro fatturato.

Quali sono gli obiettivi della green economy e dell’economia circolare?

In generale riguardano l’efficienza energetica, la riduzione degli inquinanti immessi e della CO2 prodotta, l’uso di fonti rinnovabili, la riduzione rifiuti attraverso il principio delle tre R (Riciclo/Riuso/Recupero) e la riprogettazione a monte dei prodotti, in un sistema ciclico (da qui il termine circolare) verso il progressivo azzeramento degli scarti. L’economia circolare è un sottoambito della green economy: la creazione di un sistema ciclico di processo dove per tutti gli scarti ottenuti si è trovato il modo di: riciclare o recuperare o riusare. E laddove ciò non è possibile, si agisce sulla ri-ideazione e riprogettazione: dei materiali componenti (riciclati, riciclabili, recuperati, recuperabili), delle migliori soluzioni per rendere un oggetto/prodotto scomponibile (per il successivo riciclagio/recupero), anche grazie ai più avanzati sistemi di automazione.

Come si capisce bene, i risparmi ottenuti, sono davvero importanti. A tal punto da diventare un fattore di competitività rispetto a chi non ha investito in questi modelli.

Dall’ambiente come costo e limite, all’ambiente come opportunità di crescita…

La tutela dell’ambiente e delle risorse, dal 1992 con la prima importante Conferenza ONU sull’Ambiente, il Summit ONU di Rio de Janeiro che definisce lo sviluppo sostenibile e fin dai primi trattati sottoscritti dai Paesi del mondo, non sono più visti come un obbligo, un limite, un adempimento da assolvere e basta, ma diventano – in questi quasi 30 anni – sempre più un’opportunità per le imprese.

Un modo funzionale per superare le crisi, come già sapevano e facevano in passato gli imprenditori dei distretti, per citarne due, del tessile di Prato e del cartario di Lucca. L’utilizzo degli scarti come materia “prima seconda”, gli stracci e la carta usata, era già praticato dalle imprese che sapevano quanto fosse importante, specie per un Paese povero di risorse come l’Italia, poter reperire materie prime a basso costo.

Quali sono i dati della Green economy italiana?

Che la green economy sia un’opportunità per le aziende lo confermano i dati: già 385.000 sono le aziende che in Italia hanno scommesso sulla green economy per superare la crisi. 1/4 delle imprese italiane del manifatturiero. 110 mld € di valore, il 13% dell’economia nazionale.

Imprese che, nel 2017, hanno avuto visto aumentare l’export rispetto a chi non ha investito in green (34% contro 29%), che hanno sviluppato di innovazione (il doppio delle imprese che hanno investito rispetto a quelle che non hanno investito). E trainato da export e innovazione, che hanno visto aumentare il fatturato (32% contro 24%).

C’è poi il primato dell’Italia per il biologico (export) e il primato in Europa per l’Italia come recupero di materia prima secondaria (terza la Germania). Altro dato significativo: la green economy e l’economia circolare producono occupazione: 3 milioni di green jobs, il 13% degli occupati. Nel 2018 nella green economy si registrano 474.000 nuovi occupati e, cosa ancora più importante, si tratta di dati in crescita.

Questi valori provengono del Rapporto GreenItaly di Unioncamere e Fondazione Symbola (2018), ma ce ne sono altri che, con altri parametri valutati, ci rappresentano lo stesso quadro: una fetta importante di economia e di lavoro che cresce, e l’Italia che su questo ha anche un peso in Europa.

La green economy conviene anche perché ce lo dice il marketing

La green economy conviene perché si risparmia e rende le aziende più competitive, ma la green economy conviene anche perché si aumentano le fette di mercato e ce lo dice il marketing. Tanti sono i settori in cui i consumatori – sempre più attenti e consapevoli – cercano prodotti che hanno basso impatto sull’ambiente e sicuri per la salute, e che scelgono aziende che hanno questo atteggiamento “responsabile” (verso l’ambiente e verso i lavoratori). Pensiamo ad aziende della cosmetica, del tessile, alle imprese agricole e agroalimentari: tutti settori dove questa attenzione è massima e sempre crescente, ma non solo.

Una ricerca, generica per quanto riguarda i prodotti, della Ipsos Italia, ma recente (maggio 2019) ci dice che secondo il 77% degli italiani le aziende dovrebbero ridurre le emissioni e gli impatti ambientali, per il 50% degli italiani dovrebbero essere attente alle condizioni di lavoro dei propri dipendenti e per il 37% si dovrebbero migliorare la qualità dei propri prodotti/servizi a beneficio dei consumatori.

Quali sono i settori dove la green economy ha preso maggiormente piede?

Dall’agricolo, all’agroalimentare, all’edilizia e poi l’arredo, i rivestimenti, l’automotive, il tessile, la cosmetica, il chimico. Le aziende più circolari, più green, sono già distribuite in tanti settori, ma le applicazioni di green economy ed economia circolare sono quanto mai necessarie proprio dove si hanno gli impatti maggiori, in termine di inquinamento prodotto e di scarti da smaltire. Che sono anche i settori dove il consumatore più chiede attenzioni e accorgimenti, sia nei prodotti che nei processi. Per entrambi questi motivi anche dove più conviene all’impresa.

Faccio qualche esempio. Nell’edilizia, una start up fiorentina ha messo a punto un nuovo sistema di costruzione, tutto circolare: una filiera di produzione dei mattoni che parte dalla demolizione dell’edificio esistente e attua il recupero in loco e diretto dei materiali grazie a una pressa ad alta compressione, che dai mattoni recuperati “rigenera” nuovi mattoni. Nell’arredo: molte le aziende che producono mobili di design, realizzate con materiali riciclabili e oggetti monomaterici o facilmente disassemblabili, in modo da agevolarne il riciclo al 100%. Con una qualità dei materiali e con una bellezza dei prodotti che contribuiscono ad allungarne la vita, rendendo più efficiente l’uso della materia e dell’energia impiegate.

E poi, nei rivestimenti: tutto (o quasi) si ricicla diventando altra materia, senza sacrificare estetica, qualità e funzionalità. Aziende che producono pavimenti e rivestimenti continui a base d’acqua, atossici e certificati, materiali eco-compatibili, di riciclo e completamente riciclabili come inerti.

E ancora, nella cosmesi, produzioni che utilizzano scarti agroalimentari come materia prima, ricchi di antiossidanti, leviganti, idratanti, al pari o più di materie prime vergini. E nella moda: tessuti e coloranti, sempre più naturali, sempre più frequentemente ricavati dagli scarti agricoli.

Un interessante progetto in corso riguarda anche più settori: l’automotive, il ferroviario e la nautica. Si chiama REVYTA e il nome sta per riciclo vetroresina camper nautica e ferroviario. È partito nel 2018 in Toscana, a Livorno e molti sono i partner di progetto: le aziende coinvolte in questi tre settori nei distretti regionali presenti, le aziende chimiche, i centri di ricerca e poli tecnologici. Gli obiettivi riguardano l’automazione avanzata per il disassemblaggio dei prodotti a fine vita e il riciclo o recupero della vetroresina, finora di difficile attuazione ma che potrebbe evitare ingenti costi di smaltimento e di materia prima e impatti significativi dal punto di vista ambientale.

Ogni anno in Europa sono prodotte 800.000 tonnellate di vetroresina, di queste, 100.000 ton in Italia con un trend in continua crescita, anche perchè le applicazioni del materiale sono svariate e riguardano anche ulteriori settori come l’edile, l’arredo urbano, l’elettrico. Il 90% di questa vetroresina è ad oggi destinato alla discarica, per cui sistemi di riciclo e recupero validi sono di indubbio e significativo vantaggio dal punto di vista dell’ambiente. Ma anche per i costi evitati: la resina vergine ha un prezzo che va dai 1.500 ai 6000 euro alla tonnellata; utilizzare resina riciclata che abbia le stesse caratteristiche meccaniche e funzionali della vergine può offrire risparmi importanti a tanti settori. Il progetto sta raccogliendo i primi risultati, sono in corso di valutazione questi processi e taluni prototipi. L’aspetto essenziale è che il recupero o riciclo avvenga senza aggravio ambientale, ovvero senza l’utilizzo di sostanze pericolose, con basso livello di emissioni e altri impatti prodotti. In modo che il bilancio ambientale sia effettivamente positivo.

Tecnologie, innovazione e salvaguardia dell’ambiente, che davvero vanno a beneficio di tutti.

Fonte: https://www.peopleforplanet.it/imprese-oltre-la-crisi-anche-grazie-alla-green-economy-e-alleconomia-circolare/

Conclusa la VI edizione degli Stati Generali della Green Economy

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Partecipazione record con 2600 presenze. Edo Ronchi: “Ci aspettiamo che la green economy entri nei programmi politici dei principali partiti italiani”

Imprenditoria verde e mondo politico italiano cominciano a dialogare per una concreta transizione verso la green economy. Agli Stati Generali della Green economy 2017 si sono confrontati, infatti, la green economy italiana e gli esponenti dei partici politici. La due giorni verde, che è stata organizzata dal Consiglio Nazionale della Green Economy in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente, il Ministero dello Sviluppo Economico e la Commissione Europea, con il supporto della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, si è conclusa oggi a Rimini nell’ ambito di Ecomondo. Partecipazione record per questa sesta edizione degli Stati Generali della Green economy: 2.600 presenze, oltre 1.500 utenti per la diretta streaming italiana, cui vanno aggiunti tutti coloro che hanno seguito la diretta streaming in inglese dedicata agli utenti internazionali, più di 80 relatori italiani e stranieri. Anche quest’anno grande partecipazione on line al dibattito. Su Twitter, l’hashtag #statigreen17 è stato tra i primi cinque trending topic in Italia nella giornata del 7 novembre tra le 12 e le ore 16. Quasi 2.000 tweet complessivi, oltre 160.000 gli account raggiunti (317.000 impressions, visualizzazioni nella timeline) e circa 300 utenti che hanno partecipato attivamente alla discussione. Bene anche il live streaming dalla pagina Facebook dell’iniziativa: la diretta della sessione plenaria con la partecipazione del ministro Galletti ha raccolto 2.300 visualizzazioni raggiungendo nella giornata una copertura di oltre 23.000 utenti.

“Abbiamo registrato – ha detto Edo Ronchi, del Consiglio Nazionale della Green Economy- una positiva disponibilità degli esponenti delle forze politiche ad aprire un dialogo sul programma di transizione alla green economy. Ci proponiamo di proseguire su questa strada per far sì che la green economy entri nei programmi dei partiti politici in vista del prossimo appuntamento elettorale. Che questo tema sia di grande attualità lo ha dimostrato il record di partecipazione registrato quest’ anno”

Oltre a Gian Luca Galletti, Ministro dell’Ambiente, sono intervenuti Simona Bonafè – Partito Democratico, Massimo De Rosa – Movimento 5 Stelle, Stefano Parisi – Energie per l’Italia, Claudia Maria Terzi – Lega Nord e  numerosi e esperti internazionali come Cao Jianye, Consigliere scientifico – Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia, Woodrow Clark, l’ economista americano sostenitore della green economy, l’eurodeputata Monica Frassoni e rappresentati di gruppi industriali italiani e stranieri.,

Per maggiori informazioni sugli Stati Generali della Green Economy: www.statigenerali.org

Fonte: ecodallecitta.it

Stati Generali delle Green Economy su SEN: ‘Troppo ottimismo su efficienza e rinnovabili’

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Un sostanziale disallineamento con gli obiettivi posti dall’Accordo di Parigi e un quadro troppo ottimistico sull’efficienza energetica e le fonti rinnovabili. Alcune osservazioni sulla Strategia Energetica Nazionale. Mancanza di un raccordo tra la SEN, la Strategia Energetica Nazionale, e il processo di elaborazione del Piano nazionale energia e clima e un sostanziale disallineamento con gli obiettivi posti dall’Accordo di Parigi; un quadro troppo ottimistico sull’ efficienza energetica e le fonti rinnovabili. Queste alcune osservazioni sulla nuova SEN presentate, quale contributo alla consultazione, dal Gruppo di lavoro Politiche climatiche ed energetiche, composto da oltre 50 tra esperti e rappresentanti di associazioni di diversi settori, nell’ambito del processo partecipativo degli Stati generali della green economy. Il documento inoltrato al Ministero dello sviluppo economico rappresenta una piattaforma condivisa per una serie di proposte sulla SEN e anche alcune indicazioni per il futuro Piano nazionale energia e clima. In particolare il disallineamento della SEN con l’accordo di Parigi sul clima, appare evidente nella scelta di un orizzonte temporale di poco più di un decennio, che non consente di valutare in modo adeguato la compatibilità di investimenti ritenuti strategici nella transizione energetica, a cominciare da quelli sulle infrastrutture. Inoltre, sottolinea il Documento del gruppo di lavoro, l’adozione dei target del Pacchetto europeo clima ed energia, che è già oggi insufficienti a conseguire gli obiettivi di Parigi, porta a sovrastimare il carbon budget realmente disponibile per l’Italia. Secondo il Documento, per limitare l’aumento della temperatura media globale tra 1,5 e 2°C rispetto al periodo pre-industriale le emissioni italiane di gas serra dovrebbero dimezzarsi tra il 1990 e il 2030, mentre lo scenario di riferimento utilizzato nella SEN prevede un taglio del 30% (oggi il taglio conseguito è già di circa il 20%).

Secondo l’unico scenario emissivo adottato nella SEN, da qui al 2030 dovremmo rallentare il processo di decarbonizzazione già in corso, ma per poter rispettare gli impegni di Parigi a partire dal 2030 dovremmo nuovamente accelerare, arrivando a neutralizzare le nostre emissioni di carbonio entro il 2050” – afferma Andrea Barbabella, Coordinatore insieme a Natale Massimo Caminiti del Gruppo di lavoro e Responsabile ricerche e progetti della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile – per evitare nuovi stop and go, che sarebbero dannosi all’ambiente quanto alla competitività del nostro sistema industriale, è necessario introdurre nella SEN almeno un secondo scenario compatibile con gli obiettivi di decarbonizzazione a medio e lungo alla base dell’Accordo globale sul clima”.

Il documento critica anche le valutazioni ottimistiche fatte in materia di efficienza energetica e fonti rinnovabili. Sul lato dell’efficienza si fanno continui riferimenti al fatto che l’Italia, che ha valori di intensità energetica (ossia quantitativi di energia consumata per unità di PIL) inferiori agli altri partner europei, sia già a buon punto. Ma, considerando anche le differenze in termini di clima o di struttura produttiva, e guardando non solo al valore assoluto ma agli avanzamenti compiuti negli ultimi anni, l’Italia in realtà farebbe peggio della media e delle altre principali economie europee. Per quanto riguarda le rinnovabili, i buoni risultati raggiunti, più volte richiamati dalla SEN, sono in realtà messi in crisi da quanto accaduto negli ultimissimi anni, con un forte rallentamento nella crescita di queste tecnologie che addirittura, nel settore della produzione elettrica, ha portato per la prima volta nella storia recente a un calo della produzione rinnovabile e a una ripresa di quella da fonti fossili, con le emissioni che sono passate da 309 gCO2eq nel 2014 a 331 nel 2016). Il Documento chiede, pertanto, di puntare a obiettivi più ambiziosi, in linea con gli impegni di Parigi, e pari a un taglio dei consumi finali di energia del 40% rispetto allo scenario tendenziale e ad almeno il 35% di rinnovabili. Per conseguire tali obiettivi dagli Stati generali arriva la proposta di attivare un fondo nazionale per la transizione energetica, alimentato da un processo di riallocazione degli incentivi ambientalmente dannosi e da un meccanismo efficace di carbon pricing. Per quanto riguarda gli strumenti di promozione dell’efficienza energetica, quelli attuali andranno resi più efficaci e armonizzati per riuscire a promuovere la riqualificazione profonda degli edifici, sfruttare il potenziale significativo ma ancora inespresso del terziario e dell’industria e sviluppare la mobilità sostenibile e sistemi di trasporti più efficienti. Altri due temi vengono richiamati nel documento predisposto dal Gruppo di lavoro degli Stati generali. Il primo riguarda il ruolo del comparto forestale e agro-zootecnico che nella SEN risulta marginale ma che, invece, presenta potenziali importanti, legati ad esempio alla filiera del biogas/biometano o alla capacità di assorbimento della CO2. L’altro tema fa riferimento alla necessità di verificare l’effettivo fabbisogno di nuovi impianti e infrastrutture, anche alla luce di un nuovo scenario al 2050 allineato con Parigi, e di valutare più accuratamente le ricadute in termini di politica industriale per evitare di ripetere gli errori del passato, come quelli che hanno portato al crollo degli investimenti e degli occupati nel settore strategico delle fonti rinnovabili.

Fonte: ecodallecitta.it

 

‘La città futura’, manifesto della green economy per l’architettura e l’urbanistica

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In Italia la V edizione degli Stati generali della green economy ha dedicato un gruppo di lavoro composto da docenti, imprese, enti di ricerca, associazioni ambientaliste all’elaborazione di un manifesto della green economy per l’architettura e l’urbanistica: “La Città Futura”

Una road map in sette tappe per portare a compimento la rivoluzione green nelle città italiane. Questo il cuore del ‘Manifesto della green economy per la città futura’, elaborato in preparazione degli Stati generali della green economy 2017 e presentato mercoledì 5 aprile a Roma, in occasione del meeting di primavera organizzato dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile. Temi cardine del Manifesto sono lotta ai cambiamenti climatici, tutela del patrimonio naturale e culturale, rigenerazione urbana, riqualificazione della città e del patrimonio edilizio, benessere dei cittadini. A livello europeo e internazionale sono già molte le città che hanno avviato programmi e iniziative in direzione green. Ecco alcuni esempi: Copenhagen, nel 2009, ha fissato l’obiettivo di diventare carbon neutral entro il 2025; Amburgo ha pianificato una rete ciclo-pedonale alla quale sarà riservata la circolazione nel 40% della città entro il 2035; negli Stati Uniti, nell’era Trump, 25 città riunite nel Sierra Club hanno adottato un programma per arrivare a consumare solo energia rinnovabile, puntando a raggiungere l’adesione complessiva di 100 città; il “Programme National de Rénovation Urbaine” della Francia che ha attivato la rigenerazione di 530 quartieri in tutta la Francia, con circa 4 milioni di abitanti, con un fondo economico, in partnership pubblica e privata, di oltre 40 miliardi.

In Italia nel 2016, la V edizione degli Stati generali della green economy ha dedicato un gruppo di lavoro – composto da oltre 60 esperti, tra cui docenti di oltre 20 Università italiane, imprese del settore edile, enti di ricerca, associazioni di imprese, associazioni ambientaliste – alla elaborazione di un manifesto della green economy per l’architettura e l’urbanistica: “La Città Futura”.

Il Manifesto –ha dichiarato Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile – vuole aprire un’interlocuzione con l’architettura e con l’urbanistica, come chiave per il rilancio del protagonismo delle città italiane. Tale interlocuzione, infatti, non solo arricchisce la cultura, la vision, le scelte e l’impostazione della progettazione architettonica e della pianificazione urbanistica, ma può diventare anche un traino formidabile per lo sviluppo di una green economy nelle città”.

Al Manifesto della green economy per la città futura hanno già aderito architetti di fama internazionale dai 5 continenti con le rispettive organizzazioni tra cui Richard MeierRichard RogersThomas HerzogKen Yeang, Albert Dubler in qualità di Presidente dell’International Union of Architects, Georgi Stoilov in qualità di Presidente dell’International Academy of Architecture, l’intera Fondazione di Architettura Australiana), autorevoli architetti italiani tra cui Paolo DesideriLuca ZeviFrancesca Sartogo, due dei principali sindacati Italiani con l’adesione di Susanna Camusso per la CGIL e Annamaria Furlan per la CISL, associazioni nazionali del settore quali l’ANCEFedercasa e ANIEM, le principali organizzazioni di imprese della green economy italiana componenti del Consiglio Nazionale della green economy, Enti e Istituti di ricerca e di urbanistica e architettura tra cui la Presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica Silvia Viviani e il Presidente dell’ENEA Federico Testa.

Il Manifesto è stato presentato e aperto alle adesioni in occasione del Meeting di Primavera, organizzato dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile in preparazione degli Stati generali della Green Economy 2017. Il Meeting, aperto dagli interventi del Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti e del Presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile Edo Ronchi, ha visto la partecipazione di autorevoli relatori quali Thomas Herzog uno dei principali architetti bioclimatici a livello internazionale, il Presidente del Consiglio Nazionale dell’ANCI Enzo Bianco, il Prof. Fabrizio Tucci della Sapienza Università di Roma, la Presidente nazionale di Legambiente Rossella Muroni, il Direttore del CRESME Lorenzo Bellicini, il Vice Presidente di ANCE Filippo Delle Piane, il Vice Presidente di ANIEM Marco Razzetti, la Presidente di Politecnica e membro della Direzione nazionale di Legacoop Produzione&Servizi Francesca Federzoni e la Presidente del Dipartimento Progetto sostenibile ed efficienza energetica dell’Ordine degli Architetti di Roma e provincia Patrizia Colletta. Il Meeting è realizzato in collaborazione con il DiPSE (Dipartimento Progetto Sostenibile ed Efficienza Energetica) dell’ordine degli architetti di Roma e provincia.

 La road map in 7 tappe

  1. Puntare sulla green economy per affrontare le sfide delle città
  2. Affrontare la sfida climatica con misure di adattamento e di mitigazione centrate sulla riqualificazione bioclimatica ed energetica
  3. Fare della tutela del capitale naturale e della qualità ecologica dei sistemi urbani la chiave del rilancio di architettura e urbanistica
  4. Tutelare e incrementare il capitale culturale, la qualità e la bellezza delle città
  5. Promuovere la rigenerazione urbana e la riqualificazione del patrimonio esistente
  6.   Qualificare gli edifici pubblici con progetti innovativi e con la diffusione dell’approccio del ciclo di vita
  7. Progettare un futuro desiderabile per le città

Il Manifesto della green economy per la città futura è aperto all’adesione di tutti coloro che vogliano sostenere il movimento delle città italiane verso uno sviluppo sostenibile, a partire dal 5 aprile, è possibile sottoscriverlo accedendo al sito web: www.statigenerali.org/manifesto

 

Fonte: ecodallecitta.it

Decreto Ronchi vent’anni dopo, come cambia il pianeta rifiuti

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Nell’anniversario della riforma dei rifiuti una pubblicazione a più voci traccia un importante bilancio, mentre un’indagine Ipsos dice che il 93% degli italiani considera la raccolta differenziata un’utile necessità. Per le 6.000 imprese della green economy dei rifiuti un fatturato di 50 mld di euro. Sono passati 20 anni da quando il D.Lgs 22/97, il cosiddetto “Decreto Ronchi” sui rifiuti, ha cambiato radicalmente i modelli di gestione dei rifiuti e ha attuato una riforma organica e sistemica recependo e coordinando, tre direttive europee sui rifiuti, sui rifiuti pericolosi e sugli imballaggi. Il bilancio di questi primi 20 anni è particolarmente positivo: nel 1997 veniva smaltito in discarica l’80% dei rifiuti urbani (21,3 Mton) con una raccolta differenziata che era al di sotto del 9%; nel 2015, nonostante i rifiuti urbani prodotti siano aumentati di quasi 3 Mton, quelli smaltiti in discarica sono scesi al 26% (7,8 Mton), la raccolta differenziata è arrivata al 47,6% e il riciclo/recupero di materia dei rifiuti speciali è aumentato da 13 Mton a 83,4 Mton. (Dati Ispra)

Gli stessi italiani, come dimostra un’indagine IPSOS promossa da CONAI (Consorzio Nazionale Imballaggi) dal titolo “1997-2017 | 20 anni dal Decreto Ronchi: gli italiani e la raccolta differenziata”, hanno cominciato ad avere un approccio più responsabile sul tema, con il 91% che fa abitualmente la raccolta differenziata, il 93% che la considera una utile necessità e il 91% che la mette al primo posto tra i comportamenti anti-spreco e tra le buone abitudini ambientali.

Per ricordare questo anniversario e fare un bilancio a 20 anni da quella riforma, la Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile ha realizzato una pubblicazione “La riforma dei rifiuti a 20 anni dal D.Lgs 22/97 e alla vigilia del nuove Direttive rifiuti-circular economy”.

“Con quella riforma – ricorda Edo Ronchi – scegliemmo di anticipare, non senza difficoltà, gli indirizzi europei sulla gerarchia nella gestione dei rifiuti, assegnando una netta priorità al riciclo rispetto al largamente prevalente smaltimento in discarica e anche rispetto alle proposte che assegnavano priorità all’incenerimento di massa, Quella riforma ha consentito di far decollare l’industria verde del riciclo dei rifiuti. Quel sistema potrebbe consentire di raggiungere anche i nuovi e più impegnativi target europei di riciclo a condizione che venga applicata in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale recuperando i ritardi che ancora persistono in alcune grandi città (come Roma e Napoli) e in 5 regioni del Sud: Basilicata (31% RD), Puglia (30%), Molise e Calabria (25%), Sicilia (13%). Il recupero di questi ritardi sarà essenziale per raggiungere i nuovi obiettivi europei: il 60% di riciclo dei rifiuti urbani per il 2025 e 65% entro il 2030. Molto importante sarà anche aggiornare i decreti sul recupero dei rifiuti speciali per avere una più estesa ed efficiente diffusione del riciclo con il regime di end of waste”.

Le parole chiave della riforma

I buoni risultati sulla raccolta differenziata, testimoniati dai numeri, si devono a un impianto normativo lungimirante. Il Decreto istituì, infatti, il sistema CONAI-Consorzi di filiera degli imballaggi che negli anni ha assicurato il ritiro e l’avvio al riciclo di tutte le frazioni raccolte di carta, vetro, plastica, legno, alluminio e acciaio versando un corrispettivo ai Comuni per i maggiori oneri sostenuti per la raccolta differenziata e assegnando priorità alle frazioni delle RD dei comuni, strategiche per la sostenibilità della gestione dei rifiuti urbani. Il decreto ha anche introdotto il CAC (contributo ambientale CONAI), una prima forma di EPR (responsabilità estesa del produttore) che in questi anni è stato pagato da oltre 1 milione di imprese con una elusione quasi nulla. Anche il sistema italiano di gestione dei rifiuti d’imballaggio ha raggiunto buoni risultati; l’avvio al recupero degli imballaggi è salito dal 33% del 1997 al 78,5% dell’immesso al consumo nel 2015 ed è già stato superato l’obiettivo del 65% (siamo al 67%) di avvio al riciclo dei rifiuti da imballaggio che la nuova Direttiva indica per il 2025. Queste importanti quantità di rifiuti avviati al riciclo hanno fatto crescere un settore industriale della green economy che vede i rifiuti come risorsa e che conta oltre 6.000 imprese (in aumento del 10% rispetto al 2008) con circa 155 mila addetti e un fatturato di circa 50 miliardi di euro. Considerando anche le imprese che gestiscono rifiuti come loro attività secondaria o che utilizzano il recupero di rifiuti nel proprio ciclo produttivo, contiamo altre 3.150 realtà produttive e ulteriori 183 mila addetti. Il numero complessivo di aziende coinvolte in questo settore sale a oltre 9 mila per complessivi 328 mila addetti.

La raccolta differenziata piace agli italiani

A guardare i risultati della ricerca Ipsos, la raccolta differenziata piace agli italiani che comprendono anche come essa sia essenziale per ridurre lo spreco di materiali. Il 91% dice infatti di farla abitualmente e ben il 93% la considera una utile necessità e il 32% è convinto che non rappresenti un problema, ma piuttosto una risorsa. Gli italiani poi in maggioranza (58%) si dicono più attenti al riciclo dei materiali, anche se un’alta percentuale (68%) non nasconde la fatica di gestire quantità crescenti di rifiuti. E sempre la raccolta differenziata è, per il 91% degli italiani, la pratica ambientale più diffusa tra quelle anti-spreco e tra le buone abitudini in tema di mobilità. Il “fastidio” nel fare la raccolta differenziata è determinato, per il 26% degli insoddisfatti, dal fatto che non si sa come differenziare alcuni materiali. Ma perché gli italiani scelgono di differenziare i rifiuti? Qui le percentuali tendono ad avvicinarsi: il 58% dice che si fa perché si è più attenti all’ ambiente, ma per il 42% si fa perché è obbligatorio. Le raccolte differenziate dei rifiuti “più gettonate” (91%) sono quelle di carta, vetro e plastica. La responsabilità per il problema rifiuti e per i cassonetti sommersi dalla spazzatura per oltre la metà degli italiani (53%) è suddivisa fra tutti, cittadini e istituzioni. Il sondaggio affronta anche il tema imballaggi e, su questo fronte, i consumatori ritengono che le imprese si stanno impegnando per migliorare gli imballaggi in sostenibilità (71%) e nella facilità di riciclo (73%). Infine, il 37% afferma di conoscere CONAI, cui viene attribuito anche un buon voto: 7.4 su 10.

Vent’anni di Decreto Ronchi: una pubblicazione con Edizione Ambiente

Per fare un bilancio a vent’anni dalla riforma, anche in vista del recepimento delle direttive europee sulla circular economy, la pubblicazione raccoglie interventi di alcuni dei maggiori esperti del settore (Andrea Bianchi, Paola Bologna, Roberto Cavallo, Stefano Ciafani, Edoardo Croci e Denis Grasso, Sonia D’Angiulli, Paola Ficco e Corrado Carrubba, Franco Gerardini, Paolo Giacomelli, Michele Grillo e Gustavo Olivieri, Rosanna Laraia, Stefano Leoni e Emmanuela Pettinao, Stefano Maglia e Paolo Pipere, Letizia Nepi, Elisabetta Perrotta, Gianni Squitieri). Mentre per tastare il polso degli italiani in materia è stata realizzata da Ipsos, per conto del Conai (Consorzio Nazionale Imballaggi), l’indagine “1997-2017 | 20 anni dal Decreto Ronchi: gli italiani e la raccolta differenziata.

Fonte: ecodallecitta.it

 

Green economy: arriva il decalogo verde italiano

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Nella Giornata conclusiva degli Stati Generali della Green Economy si traccia il percorso per uno sviluppo sostenibile dell’economia italiana. Ecco le 10 proposte di policy del Consiglio Nazionale green economy

Varare una nuova strategia energetica nazionale per attuare l’Accordo di Parigi sul clima, indirizzare i più di 200 miliardi di dollari detenuti dal sistema bancario mondiale verso investimenti green, migliorare la disponibilità di infrastrutture per il riciclo dei rifiuti in alcune zone arretrate del Paese, vietare dal 2030 l’immatricolazione di auto a benzina e diesel. Queste alcune delle indicazioni contenute pacchetto di proposte di policy, presentate dal Consiglio Nazionale della green economy, composto da 64 organizzazioni di imprese verdi nella giornata conclusiva degli Stati Generali della green economy, necessarie per avviare l’Italia sulla strada della green economy e attivare uno sviluppo durevole, una ripresa degli investimenti e dell’occupazione.

Le proposte di policy presentate dal Consiglio Nazionale agli Stati Generali della Green Economy – ha sottolineato Edo Ronchi, Presidente della Fondazione Sviluppo Sostenibile – costituiscono un driver per un nuovo sviluppo per l’Italia. Per rilanciare benessere, qualità ambientale e occupazione servono idee per nuovi beni e nuovi servizi: quelli di una green economy. Il Piano nazionale industria 4.0, per diventare motore di innovazione e rilancio delle imprese italiane, ha bisogno di ben più forti scelte in direzione green.

Ecco nei particolari questo decalogo green:

Attuare l’accordo di Parigi sul clima attraverso la definizione di una nuova strategia energetica nazionale che parte da tre nuovi target: tagliare le emissioni di gas serra del 50% rispetto al 1990,  ridurre i consumi energetici del 40% rispetto alla scenario tendenziale,  soddisfare il 35% del consumo finale lordo di energia con fonti rinnovabili. Tutto ciò attraverso un Fondo per la transizione energetica alimentato dalla riallocazione dei sussidi dannosi all’ambiente e da una carbon tax progressiva che parta da 25 euro a ton/CO2 nel 2017 per raddoppiare nel 2030, integrata con l’ETS (Emission Trading System)

Sostenere l’impegno dell’Italia per l’attuazione dell’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile attraverso l’aggiornamento triennale della strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile che contenga come obiettivo chiave quello della green economy.

Sostenere le politiche finanziarie e fiscali in direzione green attraverso politiche pubbliche che incentivino gli operatori finanziari verso eco-investimenti; il sostegno allo sviluppo dei green bonds e una riforma fiscale ecologica.

Promuovere strumenti di contabilità non finanziaria per indirizzare le imprese alla valorizzazione dei capitale naturale allargando la platea delle imprese che devono fare una rendicontazione non finanziaria ed estenderla anche a Comuni, Regioni e Stato.

Potenziare gli strumenti per lo sviluppo delle start up green semplificando e velocizzando le procedure, agevolando l’accesso ai finanziamenti, istituendo un Osservatorio e sviluppando acceleratori dedicati.

Implementare e diffondere il marchio “made green in Italy” nell’agroalimentare per sostenere la qualità e sostenibilità ecologica dei prodotti agricoli. La gestione di questo marchio deve essere trasparente sull’origine dei prodotti e deve essere garantito da un efficace sistema di controllo

Sostenere una rapida definizione e il recepimento del nuovo pacchetto delle direttive europee sulla circular economy per i rifiuti. Nel recepimento deve essere previsto che la prevenzione della produzione dei rifiuti venga incrementata con una strategia nazionale che attivi strumenti economici e leve fiscale e che la tariffa venga applicata in modo omogeneo a livello nazionale con incentivi per i comportamenti virtuosi di cittadini e imprese. Si deve puntare sulla raccolta differenziate di qualità e minimizzare il ricorso alla discarica.

Promuovere ed estendere il Green Public Procurement valorizzando le norme del Codice degli appalti attraverso un sistema di monitoraggio che consenta una raccolta dati omogenea e l’introduzione di un Piano nazionale di formazione sul GPP.

Riformare i servizi idrici anche per affrontare l’adattamento climatico riducendo l’impatto ambientale delle attività di regolazione e approvvigionamento anche rispetto ai servizi eco-sistemici fare un uso efficiente delle risorse ed incentivare il riciclo. Per la realizzazione delle infrastrutture idriche è necessario poi l’introduzione di criteri ambientali minimi nelle gare per l’aggiudicazione di lavori e servizi.

Sviluppare politiche e misure per una mobilità più sostenibile prevedendo, seguendo l’esempio di Olanda e Norvegia, che dal 2030 ci sia il divieto di immatricolazione per le auto con alimentazione diesel e benzina fossili (le auto quindi potranno avere solo alimentazione elettrica, ibrida, da biocarburanti e gas). E’ necessario anche varare un Piano nazionale della mobilità che investa nella mobilità sostenibile e incoraggiare la sharing mobility.

Fonte: ecodallecitta.it

Le energie rinnovabili e la green economy non basteranno a salvarci

In tempi di crisi si fa un gran parlare di energie rinnovabili e di green economy; ma sono davvero la soluzione che salverà il pianeta? I consumi aumentano a dismisura anche in paesi che hanno complessivamente miliardi di abitanti; quale green economy potrà mai stare dietro a simili livelli produttivi, a ritmo così forsennato?

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Che si producano milioni di prodotti inutili con le fonti fossili o con il solare, sempre prodotti inutili saranno e quello che si guadagna ambientalmente o energeticamente da una parte, lo si perde dall’altra. Per quanto sia certamente meglio utilizzare il solare piuttosto che il petrolio, comunque si sprecano preziose risorse non rinnovabili per produrre qualcosa di inutile. Pensiamo alle automobili; si fa un gran parlare dell’auto elettrica come se fosse la soluzione magica. Ma ve le immaginate centinaia di milioni di auto elettriche di quante risorse ed energia hanno bisogno per essere prodotte? Risorse che non sono di certo rinnovabili, perché quello che c’è dentro ad un’auto ha poco di rinnovabile. A meno che non la si voglia fare tutta di legno, ma allora non è più un automobile ma un carretto e serve il cavallo, difatti è lì che andremo a finire se non fermiamo la follia della crescita. Inutile poi diminuire il consumo di carburante per automobile se poi ogni anno le vetture aumentano sempre di più e vanificano il risultato ottenuto dal minor consumo. Per sostenere con la green economy la crescita che fa felici industriali e governanti, dovremmo lastricare l’intero pianeta di pannelli solari e nemmeno basterebbe; pannelli solari che a loro volta hanno bisogno di materiali ed energia per essere prodotti, materiali che spesso non sono rinnovabili. Per quante fandonie si possano raccontare per poter continuare a vendere qualsiasi cosa, fortunatamente dai limiti terrestri non si scappa. La vera green economy e l’uso delle energie rinnovabili hanno senso solo se si mette in discussione la crescita e se per ogni prodotto ci si chiede se veramente è utile e quale è il suo grado di rinnovabilità. A certi nuovi convertiti, a cui non è mai interessato nulla dell’ambiente, importa maggiormente il portafoglio; lo dimostra in Italia il boom del fotovoltaico che spesso è stato solo speculazione. Il fotovoltaico fra le energie rinnovabili è quella che ha il rendimento minore ed è la meno interessante da un punto di vista ambientale. Ha molto più senso coibentare la casa con materiali naturali, quelli sì rinnovabili; e con quelli si abbassano drasticamente i consumi di riscaldamento e raffrescamento fino quasi a eliminarli del tutto, come per le case passive. Sono tanti coloro che hanno installato pannelli fotovoltaici nella propria casa o azienda e hanno continuato a consumare come e più di prima; in questo caso più che green economy si tratta di stupid economy. Agire così non ha senso e ha solo arricchito imprenditori senza scrupoli che si sono buttati sul fotovoltaico esclusivamente perché rendeva; poi gli stessi li vedi andare in giro in mega SUV, Maserati o Ferrari, che in quanto a protezione ambientale e risparmio energetico sappiamo bene essere il top. Per quanto ci si possa illudere o mettersi adesso questa copertina trasparente della green economy, non si scappa: è la crescita il problema e finchè quella non sarà messa in discussione e accantonata, non ci saranno rinnovabili o green economy che tengano. Anche le multinazionali dell’energia, dopo aver inquinato tutto l’inquinabile, si stanno buttando sulle rinnovabili ma dal punto di vista centralizzato, cioè l’energia ce la devono comunque vendere loro, mica ci dicono di renderci autonomi, che è invece la peculiarità principale delle energie rinnovabili stesse. Le risorse sono finite, inutile prenderci in giro; tutto quello che si produce deve essere attentamente vagliato per fare in modo che sia rinnovabile o comunque, se si utilizzano risorse finite, occorre fare in modo che i prodotti si possano riparare, riciclare, rendendone la vita più lunga possibile: l’esatto contrario di quello che dice il dogma del PIL, che per crescere ha assolutamente bisogno di usa e getta a ritmo continuo e più le discariche aumentano e più il PIL gioisce. Ma verrà un giorno, non molto lontano, che malediremo i sacerdoti del PIL mentre ci ritroveremo a scavare nelle discariche per trovare materiali preziosi che nel tempo della follia consumistica avevamo così stupidamente buttato per fare ingrassare industriali e politici senza scrupoli.

Fonte: ilcambiamento.it

Civitanova Marche, Greenpeace protesta contro le trivelle a 3 km dalla costa

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Non ci si riesce a credere, ma la piattaforma offshore Sarago Mare A è posizionata a soli tre chilometri dalla costa di Civitanova Marche, uno splendido monumento all’atteggiamento che l’Italia ha assunto negli ultimi due decenni nei confronti del proprio comparto turistico. Invece di investire su un settore non delocalizzabile che, in passato, faceva invidia al mondo, si punta alle risorse fossili che concentrano i benefici dell’industria estrattiva. Un gruppo di attivisti di Greenpeace ha inscenato una protesta pacifica, girando un ironico video proprio sotto la struttura gestita dalla Edison. I due protagonisti si sono finti turisti di un possibile futuro prossimo in cui la balneazione si svolgerà all’ombra della piattaforma petrolifera. “Stop trivelle” è lo slogan dello striscione che compare nel video con cui l’associazione ambientalista mette in guardia l’opinione pubblica dai piani del governo di Matteo Renzi, intenzionato a concedere alla compagnie petrolifere i permessi per estrarre petrolio nei nostri mani. Nelle ultime settimane, oltre 43mila persone hanno già firmato la petizione di Greenpeace per chiedere una radicale revisione della strategia energetica basata sull’estrazione di petrolio e gas dai fondali marini. Negli ultimi mesi abbiamo assistito a un attacco inedito e su vasta scala ai nostri mari Con questa protesta vogliamo mostrare in maniera concreta la minaccia che incombe sui litorali italiani. È davvero questo il futuro che vogliamo, fatto di airgun, trivelle e piattaforme? Di petrolio sotto i nostri fondali ce n’è pochissimo: quantità irrisorie per il fabbisogno energetico del Paese, ma occasione di profitto per una manciata di aziende. Dovrebbe essere chiaro a tutti che il gioco non vale la candela, ha spiegato Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace. Greenpeace ha inoltre ricordato come il Ministero dell’Ambiente abbia autorizzato, fra il 3 e il 12 giugno, ben undici progetti di prospezione di idrocarburi in mare con la tecnica dell’airgun. L’area concessa alle compagnie petrolifere copre tutto l’Adriatico e una parte significativa dello Ionio. Matteo Renzi ha smesso da tempo di parlare di green economy e il suo Governo, anche nelle scelte compiute nel settore energetico, assomiglia sempre di più alla politica che diceva di voler “rottamare” fino a un paio d’anni fa. E l’industria petrolifera ringrazia.

Fonte: Greenpeace