È bastato un virus per creare il panico mondiale, con tanto di crisi economiche, perdite di punti del PIL, turismo in pericolo, merci e container fermi, fabbriche vuote, personale a spasso. Tutto questo è un poco simpatico regalo della globalizzazione.
È bastato un virus per creare il panico mondiale, con tanto di crisi economiche, perdite di punti del PIL, turismo in pericolo, merci e container fermi, fabbriche vuote, personale a spasso. Tutto questo è un poco simpatico regalo della globalizzazione, che poi è il nome più gentile di mercantilizzazione. Nel mondo dove tutto è mercato e le merci devono attraversare continenti in meno di un attimo, ci si è accorti che chi dipende da questo sistema va in tilt in poco tempo. Non sembrerebbe una bella cosa, infatti è il cappio che ci siamo messi al collo da soli.
Se la Cina è il supermercato mondiale, quindi anche il nostro, e se per qualche motivo si ferma, cosa succede? Grandissimi problemi.
La mercantilizzazione infatti significa la dipendenza totale. Siamo dipendenti dai combustibili fossili, dagli alimenti chimici e dal supermercato cinese che grazie al suo esercito di schiavi ci rifornisce di tutto a prezzi irrisori. E così la nostra società è un gigante dai piedi di argilla che va in crisi velocemente proprio a causa delle sue dimensioni, della sua rigidità e della sua incapacità di reagire a eventi improvvisi. E’ chiaro che i fautori di quello che erroneamente si considera progresso, della tecnologia lanciata a tutta velocità al solo servizio del profitto, non possono che percorrere la strada della dipendenza perché è quella che gli garantisce i maggiori profitti. E quindi ci siamo cacciati in questa situazione estremamente pericolosa dove basta un niente per metterci nei guai. Ma quando suonano questi campanelli d’allarme, si spera che passi la nottata e poi si continua tutto come prima, senza avere imparato nulla e soprattutto senza fare nulla per evitare nuove possibili crisi. Perché la mercantilizzazione non può aspettare, non si può fermare e chi primo arriva, vince. Quale è la soluzione per non rimanere incastrati in questo gioco perverso? Innanzitutto diventare il meno dipendenti possibile nei due aspetti fondamentali per la sopravvivenza: il cibo e l’energia. Poi si dovrebbero progressivamente diminuire i consumi superflui e la conseguente dipendenza dai supermercati cinesi o di chiunque sia, che sfornano cianfrusaglie a getto continuo. Contare il più possibile sulle nostre forze, riscoprire i tanti talenti e risorse che abbiamo, senza doverle fare arrivare da chissà dove. Abbiamo troppo abbandonato la nostra eccezionale creatività e capacità di saper fare, abbiamo importato cibo spazzatura che è un insulto alla nostra tradizione di cibo sublime e cosa ci ha portato tutto questo? Le case piene di merci di scarsissima qualità, poco durevoli e i nostri corpi avvelenati da alimenti che non meritano questo nome. Per non parlare poi dell’inquinamento e delle montagne di rifiuti che sono il fardello immancabile della mercantilizzazione. Di fronte ad una presa di coscienza in cui si iniziasse ad emanciparsi, gli apprendisti stregoni della crescita e del falso progresso, grideranno allo scandalo, al ritorno indietro, all’autarchia, senza tenere presente che indietro ci torniamo di sicuro se si prosegue nella strada della dipendenza totale e sarà un indietro doloroso dalle tinte assai fosche. Meglio quindi andare avanti e progredire nella giusta direzione, quella della riscoperta di quanto di bello, efficace, utile e importante abbiamo già qui da noi in Italia senza dover dipendere dal vero virus che è quello della mercantilizzazione di tutto e tutti
I cambiamenti e le crisi sociali, culturali ed ambientali degli ultimi tempi hanno portato all’insorgenza di nuove patologie e disagi che, per essere affrontati, richiedono nuovi strumenti. Da qui nasce l’idea di proporre il percorso “La TERRApeutica”, rivolto ai professionisti della relazione d’aiuto e a tutti coloro che vogliono intraprendere un percorso di conoscenza personale rispetto al proprio rapporto con il mondo che cambia. Sei appuntamenti rivolti a professionisti della relazione d’aiuto e a tutti coloro che vogliono interrogarsi rispetto al proprio rapporto con il mondo che cambia. Tra i docenti del percorso La TERRApeutica ci sarà anche Daniel Tarozzi che riporterà alcune delle storie dell’Italia che Cambia, esempio di benessere e trasformazione positiva di una situazione di crisi.
La presentazione si terrà il 14 aprile alle 11 presso la sala Polivalente F. Lavoratori di Recco, in provincia di Genova.
Il percorso, proposto dalla scuola di energetica Junghiana Hui Neng, parte dalla considerazione di diversi aspetti che sempre più caratterizzano il nostro tempo e risuonano nei cambiamenti feroci che la globalizzazione ha portato con sé:
– La perdita delle certezze legate al lavoro e ai suoi diritti: la sollecitazione continua di flessibilità e resilienza nonché la necessità di convivere in una crescente incertezza verso il futuro.
– I flussi migratori sempre più massicci, sia dal nostro paese verso paesi stranieri sia ingressi o tentativi di ingresso nel nostro paese da parte di persone provenienti dal sud del mondo
– I cambiamenti climatici consistenti, sintomi di un sistema diretto al collasso, carestie e guerre.
Sempre più persone, in questo scenario, manifestano disagi e patologie. Al contempo aumenta la tendenza individualista che determina chiusure e stili di vita sempre più volti alla protezione del proprio piccolo spazio che si percepisce costantemente minacciato dall’esterno, atteggiamento fomentato dalla comunicazione distorta dei media.
Di fronte a questo nuovo tipo di sofferenza i tradizionali canali di aiuto si trovano impreparati a fornire risposte efficaci. Sorge così la necessità di immaginare un percorso indirizzato a tutte le professioni di aiuto per integrare le proprie competenze con strumenti e modalità volti alla comprensione di questi nuovi segnali di disagio.
“Da diversi anni ormai – scrivono i promotori del percorso “La TERRApeutica” – a partire dal movimento che ci ha fatto incontrare e costruire Ca’du Neng, abbiamo introdotto nei nostri programmi didattici materie rivolte all’educazione e al rapporto con la vita rurale, non solo come vita ‘in campagna’ ma, soprattutto, come approccio interiore. Desideriamo interrogarci sulla nostra vita e sui sentieri a disposizione, lavorando per renderla più sostenibile, equilibrata, felice.
Pensiamo che un primo imprescindibile passo verso il cambiamento – prima di tutto personale e poi auspicalmente dei nostri clienti/pazienti/utenti tanto in percorsi terapeutici che in processi educativi, ma più semplicemente di chi ci è prossimo – possa essere rappresentato da:
– l’osservazione della natura e dei suoi cicli
– il recupero e la valorizzazione della relazione umana con l’ambiente visto come essere vivente da curare e rispettare
– l’acquisizione della consapevolezza del concetto che le risorse non sono infinite
– la ricerca di armonia ed equilibrio che tenga conto di tutte le differenze (umane e naturali)
– la conoscenza di esperienze positive già realizzate in Italia e nel mondo che vedono nel lavoro della terra una fonte inesauribile di benessere ed evoluzione (ad esempio orti urbani, transition town, eco villaggi, co-housing, cooperative di comunità, etc.).
Destinatari di “La TERRApeutica” sono psicologi, psicoterapeuti, operatori sociali e sanitari, educatori, insegnanti, assistenti sociali, animatori di comunità, counselor, operatori di cooperative sociali. Il percorso si rivolge però anche a tutti coloro che vogliono intraprendere un percorso di conoscenza personale rispetto al proprio rapporto con il mondo che cambia.
Oggi le politiche alimentari e agricole sono ostaggio del business internazionale, della globalizzazione, degli interessi delle multinazionali. Un problema dalla gravità ormai evidente che raggiunge il suo apice. L’antidoto? Un cambio di paradigma che parta dal basso, da chi la terra la ama e la lavora, in alleanza con chi gode dei suoi frutti. L’obiettivo? Una nuova democrazia alimentare.
Era il 1993 quando dai contadini del Costa Rica e dello stato indiano del Karnataka nascevano le prime marce di protesta che poi hanno dato vita al movimento internazionale Via Campesina, che oggi conta 164 organizzazioni nazionali e locali e rappresenta circa 200 milioni di contadini nel mondo. Quando era ormai chiaro che sul cibo si sarebbero giocate le strategie del futuro, nasce l’idea della sovranità alimentare come solidarietà e cooperazione contro la competitività di un mercato senza scrupoli. Da allora si è iniziato a combattere contro le pressioni, contro i negoziati commerciali che spingevano i produttori a competere fra loro, che esercitavano sui contadini le pressioni e le coercizioni del mercato mondiale, contro lo strapotere delle multinazionali dell’agroalimentare. Via Campesina ha cominciato ben oltre vent’anni fa a sottolineare la necessità di una nuova sovranità alimentare dove i movimenti sociali si sostituissero ai governi come fonte di legittimazione delle scelte; dove comunità resilienti coltivassero su piccola scala quanto occorre rilocalizzando il sistema alimentare; dove l’arte dell’agricoltura soppiantasse il business dell’agricoltura. Ma gli attivisti sono stati attaccati su più fronti, accusati di voler fare gli interessi dei produttori a danno dei consumatori, ai quali invece le grandi industrie avrebbero assicurato abbondanza di prodotti a basso prezzo. Così è stato, ma mai come oggi si comprendono i limiti e le trappole di un simile approccio. Ci ammaliamo a causa di ciò che mangiamo, il cibo industriale (tanto e a basso costo) ci fa male, non è fatto per noi né per l’ambiente, i cui segnali ormai non sono più ignorabili. «Banane e soia vendute migliaia di chilometri lontano da dove sono state prodotte? Non è l’unico mercato possibile» spiega Olivier De Schutter, docente all’univesità di Louvain e membro della Commissione Onu sui diritti economici e sociali. «I mercati e i sistemi locali e regionali sono stati strenuamente osteggiati ma oggi gli attivisti della sovranità alimentare sono in grado di evidenziare e provare i rischi cui i paesi vanno incontro quando dipendono dalle importazioni per il cibo e quindi dai prezzi imposti dal mercato globale». E oggi non sono più solo gli attivisti di Via Campesina o di altri movimenti di resistenza contadina a comprendere l’importanza di una sovranità alimentare. Essa è invocata anche dalle autorità che si occupano di politica alimentare che hanno un briciolo di lungimiranza. E il fronte impegnato in questa battaglia ha fatto un salto di qualità. «Ha gettato ponti tra i consumatori nelle città e i contadini- spiega De Schutter – Le persone da consumatori passivi si trasformano in cittadini attivi che esigono di avere il controllo su ciò che mangiano, si rafforzano i legami sociali e dunque la cooperazione. Si privilegia la resilienza al posto dell’efficienza ed è proprio la resilienza che sta alla base della nascita del movimento della Transizione nel 2006, le cosiddette Transition Towns. Le parole chiave sono resilienza, appunto, diversità e ridotta dipendenza. Si tratta di un movimento che afferma come le soluzioni siano da trovare localmente, usando risorse del posto, diversificando le risposte». In Italia, poi, da acuni anni a questa parte si assiste alla crescita di un movimento di resistenza contadina che afferma la propria identità anche all’esterno delle stesse certificazioni del biologico, perchè «i cibi genuino non hanno bisogno di timbri e burocrazia, ma di coerenza e consapevolezza» dicono le realtà che aderiscono a Genuino Clandestino. Non ultimo, la sovranità alimentare è allineata con l’agroecologia, spiega sempre De Schutter, un approccio che punta a ridurre l’uso di fonti esterne fossili, a riciclare il rifiuti e a combinare i differenti elementi della natura nel processo di produzione al fine di massimizzare le sinergie tra di essi. Ma l’agroecologia è anche più di questo: è certamente un modo nuovo di pensare al nostro rapporto con la natura e sta crescendo come movimento sociale. Secondo De Schutter, è la vera rivoluzione verde di cui abbiamo bisogno in questo secolo, ci invita ad abbracciare la complessità della natura e a considerare il contadino come uno scopritore che procede sperimentando e osservando le conseguenze delle combinazioni, individuando ciò che funziona meglio e costruendo su di esso un sapere solido che va condiviso e diffuso. Esattamente il contrario di ciò che fa l’agricoltura “moderna”, che punta a semplificare la natura e a piegarla ai propri bisogni, privatizzandola quando si può. Il legame tra sovranità alimentare, movimento della transizione ed agroecologia è dunque una diagnosi condivisa e una gestione comune dell’ecosistema in cui viviamo. Il sistema alimentare mainstrean, quello attuale e industriale, è basato sulle multinazionali, è energivoro, ci fa ammalare, è ossessionato dai prezzi, sfrutta il terreno e causa danni. E’ dunque il momento per dar corpo e voce all’alternativa che permetta alle persone di “democratizzare” e rilocalizzare la produzione del cibo, in cui si badi meno all’efficienza e più alle esigenze effettive delle persone. Ci sono forti resistenze, è indubbio. Ma si può procedere mattone dopo mattone, passo dopo passo, campo dopo campo.
Personalmente, provo un’eccitazione strana quando vengo a contatto con una nuova idea. Non con un’idea qualsiasi, ovviamente: parlo di quelle rarissime idee che ti colpiscono in profondità perché aggiungono dei tasselli a quel mosaico abbozzato che hai sempre in un angolo della mente e che s’intitola “La mia rappresentazione del mondo”. Quelle che ti fanno cambiare paio d’occhiali, che ti forniscono una nuova chiave di lettura con cui ti sembra di poter abbracciare tutto. Che posso dirvi, soffrirò di una malattia strana, sta di fatto che le idee mi eccitano. Amo quell’attimo di epifania in cui un’idea nuova ti esplode sotto la pelle e ti sembra di capire improvvisamente tutto. Purtroppo non mi capita spesso. Anzi è vero il contrario: mi capita molto di rado, tanto più di rado quanto più vado avanti con gli anni. Mi è successo quando ho scoperto per la prima volta la teoria della relatività, quando ho letto “Modernità liquida” di Zygmunt Bauman o “Shock Economy” di Naomi Klein, quando ho incontrato la meccanica quantistica e una manciata di altre volte. Recentemente qualcosa di simile mi è capitato quando ho intervistato Roberto Mancini, professore di Filosofia teoretica all’Università di Macerata e di Economia umana all’Università di Mendrisio, Svizzera, autore del recente saggioTrasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche.
Mi è capitato spesso di chiedermi: “Cos’è il capitalismo?”, dandomi ogni volta risposte diverse. E’ un modello economico? Un’idea del mondo? Un modo di vivere? Un insieme di valori? La risposta ovvia, che mi sono sempre dato, è che il capitalismo è tutte queste cose insieme. Tuttavia non mi è mai sembrata sufficiente: mancava di chiarezza e non definiva come questi aspetti stavano insieme, qual era la forma risultante complessiva. Ecco in poco più di 20 minuti d’intervista Roberto Mancini mi ha fornito la forma esatta del capitalismo, tanto che ora ce l’ho bene impressa in mente: è un albero.
CHIOMA, TRONCO, RADICI
Per Mancini il capitalismo non è semplicemente un sistema economico ma una civiltà, cioè come una struttura complessiva che colonizza e condiziona tutti gli aspetti della vita. Esso si presenta come un organismo a tre livelli, molto simile a un albero: un livello superficiale, la chioma, che è quello dell’organizzazione economica, delle imprese, delle banche, delle borse; un livello intermedio, il tronco, importante perché svolge una funzione vitale di mediazione, che è il capitalismo come cultura e come organizzazione politica: rapporti di forza politici, governi, ma soprattutto linguaggio quotidiano, categorie di interpretazione della realtà come competizione, flessibilità, mercato; infine il livello più profondo, le radici, ovvero il livello del mito: quell’intuizione iniziale che non viene messa in discussione e a partire dalla quale si pensa alla vita in un certo modo. Ma in cosa consiste il mito del capitalismo? E a quando risale? “Se il capitalismo come organizzazione è moderno, il mito ad esso sotteso è antico quanto la storia dell’occidente” afferma Mancini, che ce lo rappresenta come un quadrato fatto da quattro asserzioni semi-assiomaiche: 1. “L’uomo è egoista e calcolatore per natura”, 2. “La natura è avara e non ci dà ciò di cui abbiamo bisogno per vivere tutti, dunque la competizione è obbligata”; 3. “La morte vince sulla vita, quindi non dobbiamo convivere ma sopravvivere, ovvero differire il momento della morte scaricando prima le situazioni di morte sugli altri (morte civile, morte sociale, morte giuridica, ecc)”; 4. “Gli dei possono pure esistere ma sono indifferenti a noi per cui dobbiamo cavarcela da soli”. Dentro questa cornice abbastanza cupa e angosciosa è cresciuta la cultura del capitalismo.
LE TRE SVOLTE NECESSARIE
Dal momento che il capitalismo abbraccia ormai tutti gli ambiti della nostra vita e permea la nostra società sia a livello economico, che politico-culturale, che mitico, una vera e propria alternativa al capitalismo deve necessariamente contemplare tre svolte: una svolta a livello tecnico organizzativo, una svolta a livello culturale e politico e una svolta a livello mitico o “spirituale”, intendendo con spirituale non un aspetto religioso quanto l’orientamento al senso della vita. Dunque l’alternativa al capitalismo non si trova in una semplice ricetta economica ma risiede in un processo più complesso e multidimensonale. E la prima svolta necessaria, afferma Mancini, è proprio quella spirituale: “Occorrono persone orientate diversamente verso il senso della vita: non nasciamo per competere, produrre, lavorare, accumulare e poi morire, non è questo il destino umano. Se io mi convinco profondamente di ciò non accetto più un’economia capitalista e allora cambiano gli stili di vita, cambiano le scelte quotidiane.” La seconda svolta è di tipo politico-culturale: “Dovremo sostituire la parola competizione con cooperazione, flessibilità con dignità e costruire un altro orizzonte in cui questi concetti diventino categorie di uso quotidiano. Inoltre si costruiranno non più politiche di asservimento ai mercati, in cui i mercati finanziari sostituiscono la democrazia, ma politiche che invertano la tendenza, cioè che sacrifichino i mercati per elevare e sviluppare la democrazia. Il livello intermedio è particolarmente importante perché assicura la mediazione fra l’orientamento e il senso delle persone e le tecniche economiche.” Infine l’ultima svolta è quella da cui spesso tendiamo a partire: le ricette economiche, i nuovi modelli tecnici. Essi altro non sono che il frutto delle svolte precedenti, dunque restano schemi sterili e difficilmente applicabili se non arrivano alla fine di un percorso e una presa di coscienza collettivi. Tuttavia esistono già alcuni modelli che negli anni e in alcuni luoghi specifici hanno dimostrato di poter fungere da alternative valide al capitalismo: vediamo quali sono.
LE ALTERNATIVE
Nel suo libro Trasformare l’economia Mancini passa in rassegna e analizza i vari modelli di altra economia alla ricerca di nuove vie percorribili. Dal modello delle relazioni di dono dell’Africa e dell’America Latina, all’Economia gandhiana, passando per quella islamica, quella olivettiana “di comunità”, l’economia di comunione di Chiara Lubich, la bioeconomia di Nicholas Georgescu Roegen (da cui attinge ampiamente il modello della decrescita), l’Economia del Bene Comune di Christian Felber, l’Economia partecipativa e solidale. “La conclusione a cui sono giunto – afferma Mancini – è che non esiste un modello supremo di ‘altra economia’ ma dobbiamo lavorare ad un modello integrato. La soluzione, se la troveremo, arriverà dall’incontro delle culture. Se noi lavorassimo a un modello integrato dove si raccogliesse il meglio che questi modelli ci danno potremmo mettere a punto un metodo per la scienza economica, che sia un modello di servizio all’umanità e in armonia con la natura.” “Non basta la lotta alla politica dell’auterità, se restiamo dentro ai parametri del capitalismo e sosteniamo che lo stato deve investire per generare lavoro restiamo sempre all’interno di questo sistema che ha le crisi come dinamica strutturale della propria riproduzione. Occorre una rivoluzione nel modo di sentire e di pensare in modo che l’essere umano ritrovi la sua dignità, in modo da non poter essere più trattato né come un esubero (un essere inutile) né come una risorsa (un essere strumentale che però non ha un suo valore autonomo).”
IL RUOLO DEI MEDIA
A dispetto di tutte le iniziative nate e che continuano a nascere nei territori, i media continuano a dipingere il nostro paese come privo di speranze. Come mai? “Tutto quello che cresce in una società per potersi sviluppare ha bisogno di rispecchiarsi, deve trovare uno specchio sociale che lo rende riconoscibile e l’amplifica. Oggi tutti i nostri specchi sociali, dai media, alla scuola, all’università, agli intellettuali, ai social network, difficilmente sono in grado di rispecchiare il meglio che cresce in una società, che resta non rappresentata, mentre grande rispecchiamento hanno tutti i messaggi negativi. La rassegnazione viene rispecchiata, l’iperadattamento, il cinismo diventano il principio di realtà. Le realtà feconde vengono ricacciate in una zona d’ombra dove non vengono riconosciute al punto che anche i loro protagonisti spesso sono divisi, frammentati, dispersi.”
LA GLOBALIZZAZIONE
Un trasformazione dell’economia è realizzabile all’interno di una società globalizzata? Per Mancini “La globalizzazione ha significato non una unificazione dell’umanità ma una divisione sistematica dell’umanità nell’unica unificazione realizzata che è stata quella sotto il mercato”. Per creare una vera alternativa dobbiamo “ritrovare il rapporto fra persona, comunità e coralità, intendendo con quest’ultima l’appartenenza a una cittadinanza umana globale. Non sarà un movimento di globalizzazione intesa come omologazione e sradicamento. Dovrà essere un rilocalizzare per permettere un tessuto democratico della società, che non potrà essere né individualista né massificato ma dovrà avere comunità aperte, non sette xenofobe, razziste, ripiegate su se stesse sul modello leghista. Lo spazio comunitario è senza dubbio quello più adatto per esercitare la pratica democratica, la cura concreta del bene comune: “La comunità è la dimensione che permette alla persona di fiorire e di esprimersi. Poi c’è un livello più grande, quello della coralità: la nazione, il continente, la globalità. Siamo spesso ignari della cittadinanza cosmopolita, dell’appartenenza ad un unica cittadinanza mondiale. Però la coralità è indispensabile, da un lato nel nome di una stessa dignità umana, dall’altro perché le sfide maggiori che ci si presentano sono sfide di portata mondiale: dal mercato globale, alla sfida ecologica, al cambiamento climatico. O si costruisce una risposta globale democratica col concorso delle tradizioni e dei popoli oppure le nostre risposte rischiano di essere sterili e dal fiato corto.” Dopo l’intervista, prima di salutarci, Mancini ci accompagna in una trattoria a conduzione familiare a poche decine di metri dall’Università. Macerata è una cittadina graziosa, vi si respira un’atmosfera genuina. Mentre mangiamo degli ottimi Vincisgrassi penso a tutte le realtà che abbiamo incontrato in giro per l’Italia e alle nuove che continuano a segnalarci, che prima o poi incontreremo, penso ai dati macroscopici sui cambiamenti dei consumi, sull’esplosione del biologico e del chilometro zero e la crisi della grande distribuzione e vedo tutte queste nozioni inquadrate nella cornice teorica che ci ha appena fornito l’intervista. Una svolta spirituale sicuramente è già in corso e si vedono i segnali di quella culturale-politica. Quella tecnica sembra ancora lontana ma chissà, probabilmente sarà inevitabile.
Tanti motivi per cui fare in casa conviene di Romina Rossi
Sono cresciuta in una famiglia matriarcale in cui fare le cose in casa era la norma. Al supermercato, che allora era semplicemente la bottega di paese, si andava una volta la settimana, a prendere quello che non si aveva in casa e che non si riusciva a produrre. Così si passava l’estate a fare marmellate, succhi di frutta e conserve e a mettere quanta più frutta e verdura nei vasi in modo che si potessero avere, anche nelle grigie giornate invernali, i sapori, i colori e i profumi dell’orto sotto casa. Il pane che si cuoceva nel forno era in grado di riempire la stanza da solo con la sua calda fragranza, il dolce che dentro al forno lievitava faceva venire l’acquolina; la pasta era fatta con le uova delle galline del nostro pollaio, la carne che finiva sulla tavola era quella dei capi allevati per uso domestico. D’inverno, essendo meno le ore di luce da poter dedicare ai lavori in campagna, tre generazioni di donne passavano le serate a cucire, lavorare a maglia o fare altri lavoretti sedute davanti al camino o alla stufa. Anche da grande l’autoproduzione alimentare è rimasta la norma, un’abitudine che si è estesa anche ad altri prodotti non alimentari come creme, saponi, scrub, vestiti, riciclo di mobili e altro. Quello che può apparire come un passatempo è in realtà un’attività che cela diversi significati e un sacco di buone ragioni per cominciare a fare da sé. Perché alla lunga, l’autoproduzione è un atto d’amore nei confronti di se stessi e del pianeta.
I MOTIVI DELL’AUTOPRODUZIONE
Risparmio economico
Se fare le cose in casa può sembrare complicato (“non ho tempo” e “non sono portata/o per questo genere di cose” sono le frasi che si sentono più spesso al riguardo) e necessitare di molto tempo, in realtà diventa una fonte di risparmio di denaro. Si compra di meno, si spende di meno, perché non si pagano marche e pubblicità legate ai prodotti che portiamo a casa. A ciò si unisce il risparmio di tempo: facendo in casa, si evita di passare il fine settimana o le poche ore libere in coda alla cassa con un carrello straripante di prodotti e uno scontrino lungo quanto un lenzuolo. Ci si può riappropriare del proprio tempo e trascorrerlo in modi più gratificanti che spendere l’intera giornata al centro commerciale.
Risparmio ecologico.
Produrre e fare in casa permette di evitare l’acquisto di merci provenienti dall’altro capo del mondo, con un enorme dispendio di carburante che si traduce in sperpero di risorse prime e inquinamento dell’intero pianeta. La frutta e la verdura dell’orto non hanno bisogno di ingombranti imballi di plastica o strati di cellophane dentro i quali avvizzire; la crema o il dentifricio fatti in casa non necessitano di scatole, foglietti e altri supporti che hanno il solo scopo di rendere la confezione più costosa.
Antistress naturale
Quando vi sentite nervosi e irritati mettete le mani in pasta e fate: bastano 10 minuti passati a impastare pane, dei biscotti, sferruzzare con la lana o anche raccogliere le erbe aromatiche da seccare per non ricordarsi più il motivo per cui si era arrabbiati. Provate per credere!
Ribellarsi alla globalizzazione
Cucinare con verdure raccolte nell’orto significa scegliere cosa piantare, piuttosto che doversi accontentare di quello che si trova nei banchi dei supermercati, ormai uguali in tutto il mondo. Ci sono varietà di frutta e verdura che non si trovano più in negozio, ma che invece sono buonissime e salutari, semplicemente perché il “mercato” non le vuole più. È una pacifica ribellione al mercato globalizzato; è far parte di quella parte di popolazione che non si lascia omologare dal sistema.
Conoscere gli ingredienti
Sapere cosa si mangia o cosa ci si spalma sulla pelle è importantissimo. Molti prodotti alimentari sono farciti di conservanti, coloranti e additivi dannosi per la salute. Non va meglio per i prodotti di bellezza, molti dei quali purtroppo contengono agenti chimici, di derivazione dal petrolio, che sono tossici e cancerogeni.
Riciclo e creatività
Fare in casa permette di riciclare un sacco di cose che altrimenti sarebbero da buttare: con i fondi del caffè si può fare lo scrub per il corpo. I vecchi vestiti diventano pezze da usare in cucina o per spolverare; dai pezzi di lana avanzata nasce una colorata e allegra coperta. Frutta e verdura rovinata sono ottime come base per succhi freschi o per insolite e originali ricette.
Attività ludica formato famiglia
Fare in casa molto spesso è l’occasione per passare del tempo insieme in famiglia, coinvolgendo anche i bambini. Che si tratti di zappare l’orto, raccogliere pomodori, fare conserve, biscotti o altro, state certi che anche i bambini più irrequieti si calmeranno e si divertiranno. Fategli impastare la pasta o permettetegli di aiutarvi a fare una torta oppure insegnategli come si piantano le fragole, e avrete la loro totale attenzione e concentrazione. Sarà per loro uno dei giochi più belli che abbiano mai fatto.
Un augurio per il 2014 attraverso le parole di Jared Diamond che ci racconta uno dei motivi per cui ce la faremo a superare le crisi che incombono
Un augurio per il 2014 attraverso le parole ottimistiche con cui Jared Diamond conclude il suo grande libro “Collasso”:
«Il mio ultimo motivo di speranza [che l’umanità possa sopravvivere al collasso] è frutto di un’altra conseguenza della globalizzazione. In passato non esistevano nè gli archeologi, nè la televisione.
Nel 15° secolo, gli abitanti dell’isola di Pasqua che stavano devastando il loro sovrappopolato territorio non avevano alcun modo di sapere che, in quello stesso momento, ma a migliaia di km, i vichinghi della Groenlandia e i khmer si trovavano allo stadio terminale del loro declino, o che gli anasazi erano andati in rovina qualche secolo prima, i maya del periodo classico ancora prima e i micenei erano spariti da due millenni. Oggi, però, possiamo accendere la televisione o la radio, comprare un giornale e vedere, ascoltare o leggere cosa è accaduto in Somalia o in Afghanistan nelle ultime ore. I documentari televisivi e i libri ci spiegano in dettaglio cosa è successo ai maya, ai greci e a tanti altri.
Abbiamo dunque l’opportunità di imparare a dagli errori commessi da popoli distanti da noi nel tempo e nello spazio. Nessun’altra società ha mai avuto questo privilegio. Ho scritto questo libro nella speranza che un numero sufficiente di noi scelga di approfittarne.»
Jared Diamond, Collasso, Torino 2005, p 530
L’opportunità di imparare dagli errori commessi è stata moltiplicata dall’accesso a internet (by the way, è strano che Diamond non ne parli scrivendo nel 2005 e non nel 1975); tuttavia per usare internet senza cadere in complottismi o negazionismi di ogni sorta è quanto mai necessario avere un po’ di cultura storica e di metodo scientifico. Ma qui mi taccio e auguro solo buon anno a tutti.
Un viaggio intorno al mondo alla ricerca dei frutti più esotici,da Los Angeles a Bali, dalle Hawaii all’Umbria, dal Mango Festival di Miami alle piantagioni di banane dell’Honduras
Si è aperta con The Fruit Hunters la sedicesima edizione del festival Cinemambiente di Torino. La proiezione del documentario sui “cacciatori di frutti esotici” è stata introdotta dall’attore Bill Pullman, dal regista Yung Chang e da Isabella Della Ragione, unica partecipante di questo viaggio da Los Angeles a Bali, dalle Hawaii all’Umbria, dal Mango Festival di Miami alle piantagioni di banane dell’Honduras, a caccia di frutti esotici, perduti, frutti di una bellezza e con un sapore impensabili. Il lungometraggio parte da un assunto: la storia dell’uomo è contraddistinta dalla “maturazione” del rapporto con la frutta che ne segna le tappe evolutive. La prima fase, quella degli ominidi raccoglitori, è quella in cui l’uomo inizia a riconoscere (dalla forma, dal colore e dall’odore) i frutti e inizia a raccoglierli e a cibarsene. La seconda è quella agricola, in cui l’uomo inizia coltivare i frutti, a rendere sistematico il proprio rapporto con essi. La terza fase è quella della loro industrializzazione, della loro globalizzazione che crea una sorta di “estate globale permanente”, in cui, potenzialmente, ogni frutto è disponibile ovunque e sempre. È un’idea di paradiso terrestre che si collega a un legame ancestrale fra l’uomo e la frutta: Adamo fu cacciato dall’Eden per aver assaggiato una mela, il Buddha ebbe la sua illuminazione all’ombra di un fico. La globalizzazione, però, favorisce la monocultura e così se, per esempio, si impone un solo tipo di banana come è accaduto per la Cavendish, il rischio – altissimo – è che una malattia si porti via un’intera qualità di frutta, privandone i consumatori di tutto il mondo. Ecco perché in Honduras si sta tentando di creare una nuova generazione di banani ibridi.
Il documentario di Chang è una ricerca dei frutti più esotici, ma anche dei suoi difensori, come David Fairchild che un secolo fa portò nell’America del Nord ben 20mila specie diverse di frutta. Anche Bill Pullman si fa paladino della biodiversità con il suo immenso giardino sulle colline di Hollywood. E nel film c’è anche un’italiana, Isabella Della Ragione che, perpetuando un’antica tradizione famigliare, esplora i frutteti umbri a caccia dei fichi rinascimentali oramai scomparsi e rintracciabili solamente bei dipinti del Rinascimento. Un documentario davvero sorprendente, per la qualità delle immagini e per l’originalità del tema, così a portata di mano e così incredibilmente inesplorato.
Il carbone è stato il motore dell’economia mondiale dalla rivoluzione industriale fino alla metà del secolo scorso. Tuttora il suo consumo in termini assoluti è in continuo aumento: si è passati da 3400 milioni di tonnellate nel 1988 a 6200 nel 2005. Tuttavia, il suo contributo alla produzione di energia mondiale è progressivamente calato per l’espandersi dell’uso del petrolio e del gas naturale: era il 50% nel 1962, si è ridotto al 23% nel 2000. Resta comunque il combustibile più utilizzato per la produzione dell’energia elettrica: 2\5 della produzione mondiale è affidata a impianti a carbone. La sua utilizzazione a questo scopo è in aumento: negli ultimi dieci anni, la produzione mondiale di energia elettrica è raddoppiata (soprattutto per effetto dello sviluppo industriale di Cina e India), e ben 2\3 dell’incremento è dovuto a centrali alimentate a carbone. Così il carbone, il combustibile più antico e quello che sembrava destinato a scomparire per primo, anche perché è il principale responsabile del cambiamento climatico tra i combustibili fossili (produce emissioni di gas serra circa doppie di quelle prodotte dal petrolio), sembra destinato a nuovi inaspettati trionfi, sia perché costa poco sia perché le riserve sono considerate pressoché inesauribili: il rapporto tra riserve accertate e produzione indica che ci sarà ancora carbone per i prossimi duecento anni. Non bisogna sorprendersi quindi se nei paesi in via di sviluppo i vantaggi del carbone in termini di disponibilità e economicità, superino gli svantaggi, in termini di inquinamento delle aree ove sono dislocate le miniere e danni globali per l’aumento del cambiamento climatico: così tra il 2001 e il 2011 il consumo di carbone è triplicato in Cina (l’energia così prodotta in Cina è maggiore di tutta l’energia prodotta dal petrolio estratto nel Medio-oriente!). Eppure, non è così. Il consumo di carbone è effettivamente in calo negli Stati Uniti, ma per ragioni che ben poco hanno a che vedere – come diremo fra breve – con un impegno ambientale per evitare l’aggravarsi del cambiamento climatico. Viceversa, il consumo è in consistente aumento nell’Unione europea, cioè nei paesi che da anni sono in prima fila per contenere il cambiamento del clima. Ciò che, se non altro offre un ulteriore dimostrazione del fatto che nel settore del clima ben poco avviene per effetto diretto di politiche ambientali: i maggiori vantaggi per contenere il cambiamento climatico sono infatti offerti per il verificarsi di crisi economiche (con contestuale riduzione della produzione industriale e del consumo di energia: è ciò che è accaduto nei paesi del blocco sovietico allorché esso si è dissolto) o per il vantaggio economico offerto dall’utilizzo di fonti di energia alternative (così, è stata la scoperta del petrolio nel Mare del Nord che ha provocato l’abbandono del carbone in Inghilterra negli anni Ottanta). E quest’ultimo è il caso anche degli Stati Uniti.
L’irruzione sul mercato del gas proveniente da fracking in quantità enormi ha fatto sì che attualmente questo combustibile costi addirittura meno del carbone. Siccome le riserve di gas da fracking attualmente note ne garantiscono la disponibilità per vari decenni (e molti giacimenti sono ancora da individuare), molti gestori di impianti per la produzione di energia elettrica hanno abbandonato il carbone: le previsioni sono che entro il 2017 in almeno il 15% delle esistenti centrali il carbone verrà sostituito dal gas. Per i nuovi impianti il gas è poi preferito non solo per ragioni puramente economiche, ma anche perché gli impianti richiedono tempi nettamente inferiori per essere messi in funzione, i permessi sono più rapidi da ottenere e minori le regole da rispettare; soprattutto, dovrebbero entrare in vigore nuove e più restrittive regole nel quadro della politica, già da tempo promessa dall’Amministrazione Obama, per contenere il cambiamento climatico. In base a queste regole, favorite dal via libera all’estrazione del gas da fracking, gli impianti a carbone dovranno adottare tecnologie (quali la c.d. carbon capture and storage, CCS) che renderanno l’energia prodotta assai più costosa di quella ottenuta con il gas, ma più compatibile con una politica di contenimento del cambiamento climatico.
Si sa, però, che viviamo in tempi di globalizzazione. E allora, dove va il surplus di carbone prodotto negli Stati Uniti? Semplice, va verso mercati dove il combustibile necessario deve essere importato e dove ancora il carbone costa meno di altre fonti di energia: verso la Cina e verso l’Europa. Così, le esportazioni di carbone statunitense verso questi due mercati sono in rapido aumento. In Europa l’acquisto di carbone dagli Stati Uniti è così aumentato di oltre il 30% nei soli primi sei mesi del 2012 e si parla addirittura di un ritorno all’età dell’oro per questo combustibile. Certo, l‘energia prodotta costa ben di più che quella prodotta dal gas di fracking negli Stati Uniti. Ma è assai più a buon mercato del gas che arriva in Europa dalla Russia o dall’Algeria (che costa il triplo del gas americano). Né ci sono concrete speranze che la situazione muti a breve termine, anche perché l’estrazione del gas da fracking è qui ancora sui blocchi di partenza sia da un punto di vista dell’arretratezza delle tecnologie disponibili sia – e soprattutto- per l’opposizione di molti gruppi ambientalisti (ma anche, ovviamente, di coloro che hanno interesse a mantenere alto il prezzo del gas). Così il paradossale risultato dell’opposizione alla ricerca e all’estrazione del gas da fracking produce il risultato di incrementare non l’uso di energie rinnovabile ma quello del peggior nemico del clima, il carbone.
Il risultato è che uno dei maggiori vanti dell’Unione europea, e cioè la politica ambientale, e specificatamente la politica di contenimento del cambiamento climatico che dovrebbe essere un modello per il mondo, sta scomparendo sotto cumuli di carbone.
Non certo la politica ambientale, ma solo la recessione e la crisi economica hanno permesso infatti all’Europa nel 2009 di rispettare il proprio progetto di ridurre le emissioni di CO2 all’80% del livello del 1990 (che è la base di riferimento della Convenzione quadro per il contenimento del cambiamento climatico). Ma nel 2011 le emissioni hanno ricominciato a salire e indubbiamente l’incremento dell’uso del carbone renderà sempre più difficilmente raggiungibile il progetto.