In Piemonte, e più precisamente in 19 Comuni del canavese, saranno i giovani a diffondere atti gentili: è partito in questi giorni il progetto “Ragazze e Ragazzi Spazio alla Gentilezza”, che vedrà l’attivazione in ogni paese di un Consiglio Comunale presieduto da giovani che insieme metteranno in pratica azioni concrete per creare comunità e rispondere ai bisogni dei territori.
Torino – Chi ha detto che i giovani sono svogliati, pigri, inconcludenti? E chi ha detto che non hanno voglia di lavorare o di partecipare alla vita della propria città? La lista dei luoghi comuni e dei falsi stereotipi sulle nuove generazioni la conosciamo bene e oggi vogliamo parlarvi di un progetto appena partito che li vede protagonisti e che ci dimostra, ancora una volta, quanto la loro partecipazione alla vita politica sia fondamentale per il futuro dei luoghi in cui viviamo, dal piccolo paese alla grande città!
Il suo nome è “Ragazze e Ragazzi Spazio alla Gentilezza”. L’obiettivo? Dare spazio ai giovani per cambiare le nostre città dal basso grazie alla loro inventiva, creatività e voglia di mettersi in gioco. Il progetto intende renderli protagonisti di pratiche gentili per accrescere il benessere delle comunità: così sta partendo sul territorio del Canavese, in provincia di Torino, creando una rete solida che promuove partecipazione e senso di comunità. E il sogno è dargli ampia diffusione con una ricaduta in sempre più comuni italiani.
Comuni in rete per promuovere la gentilezza
In particolare, saranno 19 i Comuni canavesani (e uno limitrofo) che a partire da gennaio parteciperanno a “Ragazze e Ragazzi Spazio alla Gentilezza”: l’iniziativa prevede, nel corso del 2022, di attivare in ogni paese un Consiglio Comunale dei Ragazzi e delle Ragazze che coinvolge anche le scuole del territorio (dove presenti) e insieme ai giovani vuole generare buone pratiche di gentilezza, ossia azioni concrete e positive messe in atto per rinforzare i comportamenti civici e sociali e dare una risposta ai reali bisogni della comunità. Insomma, si tratta di un progetto di cittadinanza attiva a tutto tondo che vuole dare spazio ai più giovani affinché siano loro a ideare, costruire e realizzare nuovi progetti condivisi nei luoghi in cui vivono e che hanno a cuore. Il progetto è sviluppato dall’Associazione Cor et Amor, che coordina l’attuazione del Progetto Nazionale Costruiamo Gentilezza ed è sostenuto dalla Regione Piemonte con il Bando 5 a favore degli Enti del Terzo Settore. Massimo Stellato è il segretario e co-progettatore dell’Associazione Cor et Amor e racconta che «questo progetto rappresenta una grande opportunità per fornire ai giovani degli strumenti pratici utili a dare risposte ai propri bisogni e a quelli della comunità. L’esperienza maturata sarà condivisa e diffusa nell’ambito del Progetto Nazionale Costruiamo Gentilezza, affinché altri Comuni ed enti possano beneficiarne. Ringraziamo tutti i sindaci e gli enti che ci hanno dato fiducia».
Tra i comuni in questione ci sono Bollengo, Burolo, Candia C.se, Cascinette d’Ivrea, Castellamonte, Favria, Lessolo, Livorno Ferraris, Maglione, Mathì, Nole, Nomaglio, Pavone C.se, Quagliuzzo, Quincinetto, Rivarolo C.se, Rueglio, Strambino, Strambinello, Vistrorio.
Il progetto
Durante tutto il percorso i ragazzi saranno affiancati da tutor locali e a condividere buone pratiche di gentilezza innovative parteciperanno anche gli studenti dell’ente di formazione Ciac, che proporranno le proprie idee ai diversi consigli comunali dei giovani.
A partecipare all’attuazione del progetto non mancherà poi il Consorzio in Rete che metterà a disposizione la propria esperienza in ambito educativo, Aiga Ivrea e l’Associazione Camera Civile di Ivrea che si occuperanno della parte normativa relativa alla formazione dei ragazzi e Volto, ente per il volontariato che sosterrà il progetto con la propria consulenza tecnica. Per ogni comune i giovani eletti saranno responsabilizzati nell’individuare un bisogno della propria comunità su cui agire e lavoreranno insieme per generare una buona pratica di gentilezza. Infine, insieme a Radio Spazio Ivrea verrà data voce alle esperienze vissute dai giovani partecipanti per diffondere le buone pratiche attivate.
Un progetto a costo zero
Uno degli aspetti centrali del progetto, così come testimoniato dalle precedenti iniziative organizzate dall’associazione Cor et Amor, è la sua realizzazione a costo (quasi) zero: pensiamo al progetto delle Panchine viola della Gentilezza realizzate da cittadini, insegnanti e bambini di tutta Italia che riportano frasi positive per promuovere atti gentili come buona pratica sempre più diffusa, oppure l’iniziativa degli assessori alla gentilezza ormai presente in tutte le regioni o l’introduzione della più recente Cronaca Viola, un genere giornalistico, libero e condiviso, per portare alle persone un’informazione diversa. In questo modo il progetto di “Ragazze e Ragazzi Spazio alla Gentilezza” dimostra che con le idee e la collaborazione reciproca spesso non sono necessari soldi per mettere in atto un cambiamento.
Un’orchestra è un microcosmo che rispecchia la società ideale: al suo interno si coltivano cooperazione, condivisione, affiatamento, cultura e amicizia. Da questa riflessione è nata Sanitansamble, progetto educativo e musicale che, nel difficile contesto del Rione Sanità di Napoli, offre ai più piccoli un futuro lontano dalla strada.
Napoli, Campania – Nell’area metropolitana di Napoli si possono trovare molte iniziative per lo sviluppo sociale: essendo questa una città molto popolosa e variegata, una pletora di situazioni e contesti sociali diversi tra loro prendono vita. Una di esse, radicata nel Rione Sanità, adopera la musica come mezzo per dare un’alternativa all’illegalità. Si tratta del progetto Sanitansamble, che nasce nel 2008 per promuovere la pratica collettiva musicale come mezzo di organizzazione e sviluppo della comunità, dove si trovano aree e contesti sociali difficili. Il Rione Sanità, ricco di un patrimonio storico-artistico di straordinaria importanza, negli ultimi anni ha subito un movimento spontaneo di valorizzazione che vede protagonisti soprattutto i giovani, spesso ritenuti appartenenti a contesti di degrado e marginalità. Sanitansamble si basa invece sul principio che tutti i ragazzi hanno il diritto a crescere in un ambiente sicuro, sereno e ricco di stimoli, dato che crescere in un contesto difficile come il Rione Sanità di Napoli può voler dire subire gli effetti di una povertà educativa le cui conseguenze si ripercuotono inevitabilmente sul percorso di crescita. L’associazione offre ai giovani di questo quartiere l’opportunità di accedere a una formazione musicale di alto livello, promuovendo al tempo stesso un’idea di comunità diversa, inclusiva, armoniosa e solidale. Il progetto – composto da oltre 80 giovani, dai 7 ai 24 anni – è affidato a 14 maestri e al direttore Paolo Acunzo. Abbiamo contattato lo staff di Sanitansamble per porre qualche domanda sulla sua attività.
Come si è originato e da cosa deriva il nome dell’associazione ?
Il nome Sanitansamble nasce dall’unione di due parole, Sanità – il rione di Napoli dov’è nato nel 2008 il progetto – ed ensamble, che è una parola francese con cui si definisce una formazione musicale d’insieme.
La vostra attività ha portato dei cambiamenti concreti sul territorio?
Dall’avvento di Sanitansamble il territorio intero ha tratto beneficio e cambiamento positivo: per esempio, sono nate nuove attività commerciali e ricettive, in passato praticamente assenti, che ormai costituiscono un punto di attrazione e ritrovo per molti cittadini provenienti da tutte le zone della città. Inoltre sono stati individuati tre obiettivi ben precisi da conseguire: offrire un percorso musicale gratuito rivolto a giovani residenti in aree e contesti sociali difficili; prestare assistenza pedagogico-educativa ai ragazzi coinvolti, dando loro un’opportunità formativa con docenti qualificati; offrire modelli educativi e culturali ispirati al programma attuato in Venezuela dal maestro José Antonio Abreu.
Potete spiegarci meglio quest’ultimo punto?
Questo metodo didattico che abbiamo deciso di adottare è denominato “El Sistema”: si tratta di un modello con accesso gratuito per bambini e ragazzi ideato dal Maestro José Antonio Abreu in Venezuela che promuove la pratica collettiva musicale, utilizzandola come mezzo di organizzazione e sviluppo della comunità in aree e contesti sociali difficili.
Qual è stata la più grande sfida che avete dovuto superare?
Superare lo scetticismo iniziale degli abitanti del quartiere. È una grande soddisfazione vedere i ragazzi aggirarsi orgogliosamente nel quartiere “imbracciando” gli strumenti nelle loro custodie, fieri di appartenere all’Orchestra. Oggi anche i familiari dei ragazzi contribuiscono alla formazione di questa realtà e tutt’ora sono un punto fondamentale per l’associazione. Molti bambini, insieme alle loro famiglie, hanno così conosciuto la storia e le attività di altre realtà del loro quartiere di cui ignoravano l’esistenza, sperimentando il confronto e la condivisione.
L’associazione ha intenzione di allargarsi ed estendersi anche in altre zone di Napoli attraverso la creazione di filiali?
Sta già accadendo: da più di un anno Sanitansamble ha esteso il progetto in un altro quartiere difficile della città e a Forcella è nata la Piccola Orchestra di Forcella, a cui ad oggi aderiscono 36 bambine e bambini tra gli otto e i dodici anni.
Quali sono state le conseguenze della pandemia sull’associazione?
Come per la scuola si è deciso di proseguire con le lezioni in modalità da remoto, tramite la cosiddetta DaD. Per quanto possibile e compatibilmente con gli ulteriori disagi che stanno affliggendo le famiglie dei nostri ragazzi, è stato così possibile garantire la continuità dello studio dello strumento. In alcuni casi abbiamo provveduto a consegnare dei tablet in comodato d’uso gratuito agli allievi e alle loro famiglie per permettere anche a chi non aveva gli strumenti di connessione idonei di poter svolgere le lezioni settimanali. I ragazzi sono stati tutti raggiunti in remoto dai maestri che svolgono con regolarità le lezioni individuali. A maggio siamo ripartiti in presenza e questa ripresa certamente ha contribuito a corroborare il senso di condivisione peculiare dell’orchestra e a restituire maggiore motivazione ai ragazzi da troppo tempo distanziati.
Come immaginate la vostra associazione tra una decina di anni?
Più ricca di giovani che hanno scelto la musica come strumento essere cittadini perbene. Allargare le attività è tra i nostri obiettivi, vogliamo raggiungere sempre più giovani discenti, inserendo coloro che si sono formati in seno al progetto e che intendono proseguire con la formazione musicale nel corpo docente, generando così anche un’opportunità professionale. È un processo circolare, ma che ha radici profonde nella storia musicale dei Conservatori napoletani e in quella moderna dell’esperienza de El Sistema venezuelano del M° Abreu.
Come si entra nel mondo Sanitansamble?
L’accesso ai laboratori musicali avviene attraverso sessioni periodiche di audizioni, la cui notizia viene diffusa tra le altre associazioni di quartiere operanti in rete che informano i propri utenti attraverso il web e i social, ma anche con un tam-tam spontaneo da parte dei bambini e delle famiglie. A coloro che intraprendono le attività didattico-musicali viene affidato lo strumento scelto ed affidato in comodato d’uso gratuito. Attraverso il percorso di apprendimento della tecnica strumentale, si inseriscono i bambini sin da subito nel gruppo orchestrale considerato come una piccola “società”, in cui si sperimenta l’aspetto sano e bello del vivere insieme, promuovendo dunque una forma di cittadinanza attiva.
Questo contributo è stato realizzato dagli studenti e dalla studentesse delle scuole secondarie di secondo a conclusione dell’attività “Un giornalista in classe”, percorso di giornalismo ambientale condotto dalle giornaliste e giornalisti di Italia che Cambia all’interno del progetto SOStenibilmente. #SOStenibilmente è un progetto nazionale di educazione ambientale promosso da CIFA ONLUS e co-finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, volto a costruire una cultura basata sul rispetto dell’ambiente e sui principi dello sviluppo sostenibile, promuovendo il protagonismo giovanile e l’integrazione da parte di cittadini e rappresentanti delle istituzioni di una prospettiva rispettosa dell’ambiente nelle proprie scelte quotidiane.
Articolo scritto da Vittorio Grosso, Mattia Ottaviano, Luca Perna, Mario Murolo e Gennaro Testa della Classe 3I dell’ITI Marie Curie di Napoli.
Terra Futura è il titolo del suo ultimo lavoro, ma è anche un concetto chiave per costruire a partire da oggi il mondo di domani. Durante il 69° Trento Film Festival, Agenzia di Stampa Giovanile ha intervistato Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, sui temi dell’educazione e quindi sui giovani, sull’attivismo e soprattutto sulla responsabilità che le nostre azioni quotidiane hanno nei confronti della natura, dell’ambiente e del futuro.
Carlo Petrini – fondatore dell’associazione Slow Food, ideatore della rete internazionale di Terra Madre e autore di “Terra Futura. Dialoghi con Papa Francesco sull’ecologia integrale” – ha trascorso gran parte della sua vita cercando di promuovere attenzione e cura verso il nostro Pianeta. Lo ha fatto attraverso le armi della scrittura e dell’attivismo, ma soprattutto attraverso il duro lavoro nella ricerca di un dialogo tra società, istituzioni, culture, generazioni. Durante il secondo tempo del 69° Trento Film Festival lo abbiamo intervistato, cercando di concentrare la nostra chiacchierata sul grande obiettivo di Slow Food, sull’educazione e quindi sui giovani, sull’attivismo e soprattutto sulla responsabilità che le nostre azioni quotidiane hanno nei confronti della natura, dell’ambiente e del futuro.
Nel ciclo di incontri con Papa Francesco – dai quali poi è nata la pubblicazione “Terra futura. Dialoghi con Papa Francesco sull’ecologia integrale” – scaturisce la forza delle azioni umane quotidiane e comunitarie. Azioni che possono influenzare in positivo e in negativo il benessere del nostro Pianeta. Che ruolo hanno le scelte alimentari e le azioni a esse connesse nel mantenimento e nella cura ambientale?
Da oltre 30 anni il movimento Slow Food rivendica l’idea del cibo come centro della nostra esistenza. Se oggi la multidisciplinarietà legata al cibo (parlare di alimentazione vuol dire richiamare l’antropologia, la storia, l’economia, la genetica, la biologia etc.) è un’asserzione che cerca di permeare sempre più all’interno la nostra cultura, posso assicurare che sul finire del secolo scorso così non era; anzi, il cibo era addirittura totalmente estraneo al dibattito politico. Questo mi è sempre sembrato irragionevole, soprattutto perché la nostra stessa vita ci è data in quanto noi quotidianamente mangiamo; e dunque, più di qualsiasi altro argomento, il cibo merita di essere trattato con molta attenzione. Ecco che, insieme all’associazione che ho fondato, siamo arrivati a sostenere che mangiare è un atto politico. Ogni singolo individuo attraverso le sue scelte alimentari non influenza solo il sistema produttivo, ma anche le società, le economie e i territori a esso connesso. Proprio per questo viene da sé che i nostri comportamenti quotidiani, per quanto ci possano sembrare abitudini di poca rilevanza, possono avere un impatto determinante per il nostro benessere, per la salute di tutti gli esseri viventi e per la prosperità della nostra Terra Madre. Stiamo perdendo la capacità di sognare eppure l’Italia è costellata di straordinarie esperienze di cambiamento! Mentre gran parte dei mass media sceglie di non mostrare i cambiamenti in atto, noi scegliamo un’informazione diversa, vera, che aiuti davvero le persone nella propria vita quotidiana.
In che modo l’associazione Slow Food si impegna per promuovere un’alimentazione “buona, pulita e giusta per tutti”?
La principale caratteristica del nostro movimento è che ogni azione e ogni pensiero vengono promulgati nel pieno rispetto dei territori, delle società e delle culture in cui operiamo. Mi spiego meglio: Slow Food è un’associazione che dalla seconda metà degli anni Ottanta ha accettato la sfida di diffondere a livello internazionale la lotta all’omologazione e alla standardizzazione, ovvero a tutti quei processi sterili basati esclusivamente sul profitto economico che il modello capitalistico stava cercando di propagare ad un mondo sempre più globalizzato. Il nostro impegno quindi, che mira primariamente a difendere la biodiversità in tutte le sue forme (naturale, agroalimentare, sociale, culturale), è altamente diversificato a seconda dei territori. Sarebbe da stolti concentrarsi su di un unico modello adattabile in ogni area del pianeta: questo modo di ragionare, oltre a essere una logica altamente invasiva e ai limiti del colonialismo, porterebbe esclusivamente a una perdita di biodiversità e quindi a conseguenze catastrofiche per comunità ed ecosistemi. Ecco che le iniziative e i progetti delle nostre condotte italiane non possono essere riportate nelle comunità dell’Africa subsahariana; è necessario che i promotori delle iniziative siano donne e uomini che vivono da vicino il territorio, che conoscono le esigenze delle comunità e che sappiano valorizzare al meglio le peculiarità di ogni regione. L’educazione è il pilastro fondamentale su cui si deve basare questa rigenerazione ecologica. Una rivoluzione che non riguarda solo i sistemi produttivi e i sistemi economici, ma che deve senza ombra di dubbio rigenerare radicalmente anche il nostro modo di pensare. Allora a chi se non ai giovani, forti della loro fresca e rapida capacità di apprendimento, dobbiamo lasciare il messaggio che tutto è fortemente correlato e che la nostra salute dipende da quella del Pianeta in cui viviamo? Chi dobbiamo esortare, consci degli errori commessi finora, a sovvertire un paradigma che vede il profitto come una variabile di benessere e che non riconosce alcun valore ai beni relazionali e ai beni comuni, se non i futuri cittadini?
C’è però da fare molta attenzione, in quanto il processo educativo passa primariamente dal buon esempio. Se le generazioni più mature non sono disposte a segnare la strada a quelle che verranno, queste ultime si troveranno disorientate in un mondo che non sarà più in grado di generare salubrità e benessere per tutti. Anche in questo caso la soluzione è il dialogo. Un dialogo intergenerazionale in grado di confrontare la forza impulsiva, l’energia e la creatività dei giovani con l’esperienza, la saggezza e le suggestioni dei più “anziani”.
Inoltre sono fortemente convinto che, affinché si voglia diffondere un’educazione efficiente e strumentale all’elaborazione autonoma di pensieri critici e più consapevoli, il dialogo deve anche instaurarsi tra saperi scientifici, accademici e saperi tradizionali, popolari. Questo è il modello educativo che necessitiamo: un approccio che mi piace definire olistico, in grado di coniugare discipline umanistiche a materie scientifiche e che dal 2004, con la fondazione dell’Università di Scienze Gastronomiche, a Pollenzo cerchiamo di applicare.
Ritiene che il movimento ambientalista giovanile Fridays For Future possa portare dei risultati concreti? In che modo la voce dei giovani può essere ascoltata dalle istituzioni?
Voglio partire da una semplice riflessione: il futuro non è di certo di Carlo Petrini. Il futuro è dei giovani e se le cose non cambiano in maniera sostanziale, quando i diciottenni di oggi avranno la mia età vivranno in un mondo più che mai inquinato, poco salubre e con la fertilità dei terreni estremamente compromessa. Per non parlare degli ecosistemi marini, i quali già oggi si trovano a un punto di non ritorno. Ecco che i movimenti dei giovani sono di primaria importanza per il tessuto sociale di oggi e per il futuro di domani. Necessitiamo di questi gruppi che non si fermano solo alla propaganda o all’attivismo sterile, ma data l’energia e l’imperturbabilità propria delle giovani generazioni sono disposti a mettersi in prima linea nel concretizzare buone opere e azioni virtuose sia in campo sociale, sia in campo ambientale. Io credo che arrivati a questo punto le istituzioni non possano far altro che ascoltare la voce dei giovani e appoggiarli nelle loro lotte. Vorrei dire a questi nuovi rappresentanti della società civile che il tempo è dalla loro parte e che tra qualche anno saranno loro a occupare ruoli istituzionali. Ma non per questo devono accomodarsi e aspettare il loro turno, anzi. Condivisione e cooperazione saranno i valori di cui avvalersi per portare avanti le loro sfide e proprio per questo tengo a dare loro due suggestioni. Le comunità del futuro dovranno per forza di cose essere basate sull’austera anarchia e sull’intelligenza affettiva. Con austera anarchia intendo la capacità di prendere decisioni autonome, consapevoli e volte al bene comune. A differenza del rigido modello organizzativo che ha caratterizzato la nostra società da più di un secolo a questa parte, nelle comunità l’impegno e le progettualità nascono dalla cooperazione e dal confronto; sto parlando di una nuova organizzazione fluida che si modifica a seconda delle esigenze e dell’apporto che i singoli possono offrire in un dato momento. Il tutto regge solo ed esclusivamente se alla base delle comunità c’è l’intelligenza affettiva, cioè quel sentimento che lega ogni singolo individuo a una comunità di destino con cui condivide un percorso comune e che per questo è in grado di garantire il rispetto di ogni individualità. In altre parole, l’identificazione in un progetto comune genera una spontanea rete di relazioni e di vicinanze, che non può essere scalfita dall’esterno. Un collante molto più efficace di qualsiasi adesione formale o regola imposta dall’alto.
I disastri climatici, la mancanza di risorse, la distruzione degli ecosistemi, lo sfruttamento del terreno e il watergrabbing stanno causando molte problematiche soprattutto alle persone più svantaggiate, costrette a migrare e abbandonare le proprie abitazioni. A livello globale, perché secondo lei il grido d’aiuto delle persone è poco ascoltato e messo in secondo piano? Pensa che la logica del profitto stia sovrastando la giustizia sociale?
Come dicevo, un paradigma basato solo su consumo e profitto e che non lascia spazio al valore dei beni relazionali e dei beni comuni, oltre a essere disastroso e pericoloso è anche perdente. Questo è più che mai evidente, lo stanno dimostrando gli effetti sugli ecosistemi ma anche quelli sulla nostra stessa salute: a mio modo di vedere hanno ragione quegli scienziati che sostengono che anche questa terribile pandemia è una risposta della natura al depauperamento e alla sofferenza che le stiamo causando da decenni. Se noi non riusciamo a ricucire al più presto i forti legami con gli ecosistemi in cui viviamo, è ormai sotto gli occhi di tutti che anche a livello sociale vivremo dei grandi disagi. Risulta necessario quindi saper cogliere quanti più insegnamenti possibili da questo ultimo anno e mezzo. Proprio come l’epidemia, usciremo dalla crisi sociale – e quindi anche da quella economica – solo quando tutti saremo immunizzati da un modello che ha fatto di consumi bulimici e competitività la sua essenza. Per far sì che questo avvenga cooperazione e condivisione giocano ancora una volta un ruolo fondamentale: non possiamo più permetterci che nessuno venga lasciato indietro. A questo proposito, concludo riprendendo dalla Laudato Si’ uno dei concetti fondamentali e allo stesso tempo più rivoluzionari dell’enciclica di Papa Francesco: “Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”. Ecco che in tema di esempi, in tema di educazione all’ecologia e in tema di trovare un faro da seguire in questo particolare momento storico, Bergoglio risulta essere la figura più attenta, sensibile, propositiva e influente a livello globale. Consiglio a tutti dunque di leggere le sue encicliche e di far propri gli insegnamenti rigenerativi che questo straordinario Pontefice vuole infondere per curare la nostra società.
Due classi del liceo artistico di Biella hanno dipinto le pareti delle sale d’aspetto del reparto oncologia dell’ospedale cittadino, per trasmettere colore, sostegno e speranza alle persone che il reparto lo vivono quotidianamente.
Oncologia. Solo a leggere questa parola nel titolo molti avranno chiuso l’articolo. Un richiamo che può aver infatti innescato ricordi che spesso non si vogliono far riaffiorare. Meglio metterli da parte. O forse no. L’incertezza testimonia la delicatezza dell’argomento, che può non essere nuovo per chi sta leggendo queste righe. Non sono pochi ad aver sofferto per un conoscente: la fatidica parola ‘tumore’, quando sentita per la prima volta, risuona dentro di noi come un boato e lo specchio che riflette i nostri sentimenti incomincia a presentare alcune crepe. Può capitare che si rompa, in mille pezzi. Sono tutti drammi che non si possono spiegare a parole, solo vivendoli si può comprendere quello che per pazienti e familiari è spesso vissuto come una battaglia.
Quanto scritto finora può risultare triste, negativo. Come trasformare l’oscurità in colore? A volte, per dare un sostegno, basta un piccolo gesto. Uno sguardo, un abbraccio, un messaggio, che possono dare nuova forma a un dolore, rivelandosi un alleato in una guerra psicologica, oltre che fisica. La cura, spesso, passa proprio da un colore che si fa spazio nel buio. Ma come si può essere artefici di un sorriso o fabbricante di sogni, dando una scintilla positiva in situazioni tanto delicate? A Biella, il colore ha avuto un ruolo determinante – non solo a livello metaforico – in un nuovo progetto che ha visto protagoniste due classi di una scuola del territorio. Gli studenti delle classi IVF e IVH del Liceo artistico G. e Q. Sella, infatti, hanno ri-dipinto due sale d’aspetto del reparto oncologia del nosocomio cittadino, dando nuova vita alle pareti precedentemente monocromatiche. L’iniziativa – organizzata nell’ambito del PCTO, l’ex alternanza scuola-lavoro – ha preso il via con un incontro tra gli studenti e dottori, infermieri ed esperti, che hanno illustrato ai ragazzi il contesto in cui avrebbero dovuto operare. I giovani, dopo il confronto col personale ospedaliero, hanno elaborato ognuno una bozza di progetto differente e, alla fine, sono state selezionate due proposte. Sulla base dei due schizzi opzionati (che meglio hanno rappresentato il concetto di cura), entrambe le classi – non solo gli autori – hanno lavorato per tre giorni consecutivi alla realizzazione del progetto direttamente nelle sale d’attesa.
“Il direttore della Struttura Formazione e Sviluppo Risorse Umane dell’ASL di Biella Vincenzo Alastra con l’infermiera progettista di formazione presso la Struttura di Formazione e Sviluppo Risorse Umane dell’ASL di Biella Rosa Introcaso ci avevano chiesto di intervenire – spiega ai nostri microfoni Denise De Rocco, nelle doppie vesti di docente e ambasciatrice Rebirth/Terzo Paradiso – sulle due sale d’attesa del reparto di oncologia.
Dopo aver lavorato su una serie di parole chiave come malattia, cancro, aiuto, vita, disperazione, guarigione e speranza, gli studenti hanno ideato il progetto decorativo, finalizzando tutti i contenuti al concetto di cura, intesa verso se stessi, verso gli altri e a livello sociale. È stato molto significativo vedere gli alunni collaborare tra loro e applicare il concetto a loro indicato. Mentre dipingevano, inoltre, sono entrati a contatto con infermieri e con alcuni pazienti. L’esperienza è stata sicuramente molto forte e l’argomento, anche se delicato, è stato accolto bene. Il nostro obiettivo era portare colore, gioia, serenità”. I nuovi soggetti scelti per le pareti sono un albero e dei gomitoli di colore diverso che s’intrecciano in un punto centrale dove è rappresentato il Terzo Paradiso. Il segno-simbolo di Michelangelo Pistoletto, inoltre, è presente anche nel pavimento che collega (anche simbolicamente) le due sale d’attesa. Venerdì 8 novembre è stato inaugurato il lavoro degli studenti nell’ambito di una presentazione pubblica. “Siamo riusciti – raccontano gli alunni – a comprendere meglio, col supporto delle professoresse Landrino e De Rocco, le diverse tecniche da utilizzare nella pittura murale utilizzando colori acrilici. Abbiamo sviluppato, inoltre, una nuova capacità nel lavorare in gruppo, creando una sorta di ‘connessione’ tra noi compagni. Grazie a questo progetto abbiamo appreso che la cura è l’amore che si dà alle persone, così come quello che si riceve”.
Ecco, è questo il colore (che, in questo caso, possiamo piacevolmente confondere con l’assonante calore) a cui ci riferivamo all’inizio dell’articolo. Un colore che può dare speranza, vestendo con abiti di positività le pareti di un ospedale. Pazienti e familiari, d’ora in poi, non troveranno solo un anonimo muro ad accoglierli, ma una parete in grado di infondere un’energia differente, una carica nuova. Un semplice disegno può essere la cura: l’albero e un gomitolo non saranno in grado di cambiare il quadro clinico dei pazienti, ma potranno trasmettere qualcosa che sappia aiutare – oltre il confine del visivo – le persone che il reparto lo vivono quotidianamente. Un abbraccio degli studenti che viene trasmesso attraverso la loro arte. Ecco le piccole-grandi ‘cose’ che possono fare la differenza. “La malattia – queste le parole di una studentessa – ha diviso. Ma la cura ci ha uniti tutti”.
Nell’Appennino colpito dal terremoto del 2016,
grazie al progetto di Fondazione Edoardo Garrone e Legambiente le giovani
imprese locali fanno rete attraverso nuove forme di imprenditorialità che
uniscono sostenibilità ambientale e innovazione. “Ricostruire fiducia” è
infatti il tema scelto per l’ultima edizione di “ReStartApp per il centro
Italia”, incubatore temporaneo di impresa per il rilancio dell’economia
appenninica. Supportare le giovani imprese di
Lazio, Marche e Umbria, che, nel contesto di forte discontinuità e incertezza
creato dal terremoto del 2016, vedono e vogliono cogliere l’opportunità di
reinventarsi e riposizionarsi sul mercato, rivitalizzando l’economia del
territorio appenninico. È questa la scommessa di Fondazione Edoardo
Garrone e Legambiente, che insieme hanno realizzato ReStartApp per
il centro Italia. Il progetto ReStartApp per il centro Italia – a cui hanno dato il loro
patrocinio le Regioni Umbria, Lazio e Marche e Fondazione Symbola – ha
coinvolto nel 2018 oltre 30 aziende delle aree del cratere,
principalmente imprese agricole, agroalimentari, di allevamento, turistiche e
di artigianato. In un anno e mezzo di lavoro sul territorio, nell’ambito
di 8 coaching individuali e dell’avvio di 3 laboratori per la
creazione di reti d’imprese, si sono svolti 84 incontri e
oltre 600 ore di formazione professionale e consulenza, per fornire
supporto e strumenti concreti in diversi ambiti: dal controllo di gestione alla
ricerca di nuovi business e mercati, fino al marketing e alla comunicazione.
Gruppo di giovani
imprenditori delle Marche
Tra i risultati del
progetto, l’avvio di due progetti di rete – Amatrice terra
Viva nel Lazio e Rizomi, Terre fertili in rete nelle Marche
– finalizzati alla sperimentazione di nuove forme di collaborazione
imprenditoriale e alla nascita di nuove attività e sinergie sul
territorio. Amore per la terra, sostenibilità ambientale, tradizione e
innovazione, sinergia, agricoltura di qualità e valorizzazione dei prodotti
tipici, sono le parole chiave alla base di questi due progetti che guardano al
futuro dell’Appennino e delle sue comunità. Nel Lazio ReStartApp per
il centro Italia ha affiancato una rete già costituita, l’associazione Amatrice
Terra Viva, nata nel 2018 su iniziativa di 12 imprenditori tra Amatrice e
Accumoli e sostenuta da Alce Nero, storica azienda del biologico italiana,
con l’obiettivo di creare una filiera bio capace di valorizzare la cultura
cerealicola locale attraverso la coltivazione di grani antichi. Nelle Marche,
invece, ha preso forma Rizomi, Terre fertili in rete, progetto che
coinvolge oggi 5 aziende agricole, un laboratorio di cosmesi e uno di
trasformazione di erbe officinali: giovani imprese di prima generazione, nate
dopo il 2013, che condividono la scelta di tornare alla terra con un approccio
di autoimprenditorialità. Il fine è quello di innescare un processo virtuoso
che metta in comune conoscenze, informazioni, risorse, strumenti e
prodotti, all’insegna di un’agricoltura organica e rigenerativa, basata
sulla combinazione di pratiche tradizionali e moderne conoscenze scientifiche.
I giovani
imprenditori dell’azienda Bosco Torto
Quello che
Fondazione Garrone e Legambiente lanciano con ReStartApp per il
centro Italia è un messaggio forte e chiaro: per contrastare lo spopolamento di
questi territori occorre soprattutto ridare impulso all’economia locale,
sostenendo chi ci vive e lavora scommettendo su produzioni agricole e
agroalimentari tipiche, biologiche e di qualità, turismo sostenibile,
commercio, artigianato e sulle bellezze paesaggistiche di queste aree. Un mix
unico di risorse e produzioni che rappresenta un fattore competitivo
insostituibile sui mercati. Non dimentichiamo che se l’Italia è il Paese con la
più grande ricchezza e varietà di prodotti agroalimentari distintivi,
cioè con indicazione geografica, è anche grazie all’Appennino, che – stando ai
dati dell’Atlante dell’Appennino realizzato nel 2018 dalla Fondazione Symbola –
dà un contributo rilevante: il 42% del totale nazionale; oltre 25mila le
aziende che li producono, per un valore economico stimato in oltre 2
miliardi di euro, il 15% del totale nazionale DOP e IGP. Inoltre, le
imprese appenniniche sono quasi 1 milione, il 17,2% del totale nazionale,
attive principalmente nel commercio, nell’agricoltura, nella silvicoltura e
pesca, nelle attività manifatturiere, e nel turismo e ristorazione. Dalle
imprese dell’Appennino viene prodotto il 14% del valore aggiunto
nazionale, pari a 202,9 miliardi di euro, e il 16% del bestiame allevato
in Italia.
“Dal 2014, con i
nostri incubatori ReStartApp e ReStartAlp, ci occupiamo concretamente
del rilancio dei territori montani e marginali attraverso lo sviluppo di
nuove economie e puntando sul talento dei giovani – racconta Alessandro
Garrone, presidente di Fondazione Edoardo Garrone – Dal dialogo con
Legambiente, che grazie alla sua capillarità territoriale sin dall’inizio è
stata operativa accanto alle imprese colpite dal sisma, abbiamo intuito che la
nostra esperienza poteva essere messa efficacemente a servizio di quei giovani
imprenditori che, nonostante le difficoltà di sempre e la grave discontinuità
dei danni del terremoto, volevano continuare a dare vita all’economia della
loro terra.
Il Pastificio
Leopardi
Per questo abbiamo
studiato una formula che potesse rispondere in modo puntuale alla loro esigenza
di reinventarsi, cercando un nuovo punto di partenza, nuovi strumenti, nuovi
modelli di business, nuovi mercati da intercettare e collaborazioni strategiche
con altri imprenditori. È anche grazie al nostro supporto che oggi le realtà,
che con Legambiente abbiamo affiancato per oltre un anno e mezzo, sono in grado
di continuare il lavoro iniziato insieme. È un grande risultato, che ci
conferma anche il successo del nostro format: originale, flessibile e capace di
generare impatti positivi e tangibili in tutti i contesti in cui lo
decliniamo”.
“A quasi tre anni dal
sisma – spiega Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente –
sono ancora tante le difficoltà quotidiane che ogni giorno cittadini e
produttori locali si trovano ad affrontare, anche a causa di una burocrazia
lenta e macchinosa e di una ricostruzione che fatica a decollare. Quello
che serve è un cambio di passo al quale devono seguire azioni concrete per
ridare, soprattutto a chi ha deciso di rimanere in questi territori, più fiducia
nel futuro. Il progetto che abbiamo realizzato insieme alla Fondazione
Garrone e che unisce l’esperienza della Fondazione con quella della nostra
associazione ambientalista – da sempre vicina e operativa nei territori
terremotati – vuole contribuire a dare una mano proprio in questa direzione,
coinvolgendo anche il settore imprenditoriale locale e aiutando le imprese a
fare sinergia e rete in una chiave sempre più sostenibile e innovativa. Perché
aiutare il tessuto imprenditoriale dell’appennino ferito dal sisma, significa
contribuire anche al rilancio economico ed occupazionale di una delle zone più
belle d’Italia, che oggi rischia di spopolarsi e di andare incontro ad una
desertificazione produttiva”.
In città, lungo le sponde dei fiumi, in riva ai
laghi: sono sempre più numerose le esperienze che arrivano dal basso e che
vedono protagonisti i cittadini per ripulire e dare dignità ai luoghi in cui
viviamo. Ogni giorno veniamo a conoscenza delle bellissime storie di coloro che
si rimboccano le maniche per dare il proprio contributo al nostro pianeta. Non
gesti simbolici ma azioni concrete e mirate per restituire agli spazi la loro
bellezza. Oggi vi raccontiamo la storia di Elisabetta Reyneri e Matteo Pignata,
giovani torinesi che proprio in questi giorni sono scesi in strada per ripulire
e differenziare un tratto di viale Europa a Moncalieri. Elisabetta Reyneri e Matteo Pignata sono due giovani ed
intraprendenti ragazzi che vivono nella provincia torinese e che, stanchi di
essere testimoni dei continui rifiuti abbandonati lungo la strada che
quotidianamente percorrono, hanno deciso di armarsi di guanti, sacchi della
spazzatura e tanto entusiasmo, con l’obiettivo di pulirne e differenziarne
un tratto. A spingerli è la passione per la salvaguardia dell’ambiente,
oltre ad una sempre maggior consapevolezza del contributo che ognuno di noi può
dare. “Abbiamo parlato spesso di dare un contributo concreto e
sensibilizzare chi ci sta intorno, con la speranza che molti altri si possano
unire a noi in futuro. Passando parecchio tempo in macchina, ho raccontato ad
Elisabetta dello stato di degrado in cui versano i margini stradali,
soprattutto fuori città. – scrive Matteo in una riflessione sui social – Da
questa considerazione nasce la nostra iniziativa, che si è concretizzata ieri.
Ci siamo trovati a Moncalieri, lungo viale Europa, zona industriale, armati di
guanti e sacchi neri. La raccolta è durata poco più di due ore, il tempo
necessario per battere circa 400 metri di strada”.
Il ricco bottino
che Matteo ed Elisabetta hanno raccolto sembra una lunga lista della spesa:
rifiuti plastici (bottigliette, sacchetti, imballaggi, involucri di alimenti),
vetro (in particolare bottiglie), allumino, carta (soprattutto pacchetti di
sigarette), componenti di automobili (pneumatici, paraurti, cerchioni) e
qualche rifiuto eccezionale (tubi e un pezzo di un tetto con tegole). “La
situazione è decisamente peggiore di quanto potessimo aspettarci. Alla fine del
nostro breve percorso abbiamo riempito 4 sacchi neri, da almeno 10 kg l’uno, di
rifiuti ogni tipo che, stesi per terra in un parcheggio, coprono un’area
corrispondente a due posteggi auto” aggiunge Matteo. “Alla fine abbiamo
diviso il tutto per categorie omogenee e smaltito i sacchi negli appositi
bidoni per la differenziata”.
Un lavoro accurato
frutto di un amore per l’ambiente e per gli spazi in cui viviamo, ma che
trasmette anche tanta indignazione. Dalle parole di Matteo, che condivide sui
social, emergono considerazioni ragionate e consapevoli sull’emergenza rifiuti.
Sono parole che invitano i cittadini ad impegnarsi in prima persona per la
salvaguardia dell’ambiente nonchè riflessioni sulle ricadute che ha ogni
nostra azione sull’intera comunità e sulle nostre città.
A seguito le
riflessioni divise per punti:
1. “Purtroppo,
la verità è che tutto quel materiale finisce lungo la strada per via
dell’inciviltà della gente. Non riusciamo a darci una risposta sensata al
riguardo (non ci sarà mai una logica nel lanciare fuori dal finestrino una
bottiglietta d’acqua o nel depositare lungo la strada un pezzo di una tettoia!)
ma probabilmente è soltanto questione di comodità e di ignoranza delle
conseguenze del gesto (“Ho finito la bottiglietta, ma sì dai, la butto fuori
dal finestrino, tanto è una sola” – sí, per mille persone, per mille volte);
2. Se 4 sacchi
pieni di spazzatura sono il risultato del lavoro di due sole persone in due ore
per 400 metri di strada, facendo due calcoli, la quantità di rifiuti
sparsi sul nostro territorio risulta, purtroppo, terrificante;
3. Si può fare
qualcosa? Certamente sì! L’obiettivo di questa nostra prima iniziativa era
quello di verificare la situazione di persona e di sensibilizzare un po’ i
nostri amici e conoscenti sul problema, per poi arrivare ad organizzare altre
giornate come quelle di ieri, coinvolgendo il maggior numero di persone
possibile. Chiaramente il sabato pomeriggio di divertimento è altra cosa, ci
sono un sacco di attività più belle, meno faticose, in cui ci si sporca meno le
mani. Ma dedicare tre ore a questa attività ha ricadute positive per tutti.
La differenza la si
può fare con poco e in poco tempo, senza troppo clamore, non abbandonando
rifiuti in giro e, ogni tanto, rimboccandosi le maniche raccogliendo, ad
esempio, una bottiglietta da terra mentre si passeggia o si va al lavoro.
Purtroppo, la strada da fare è ancora lunga (più dei soli 400 metri che abbiamo
percorso che ci sono sembrati niente), ma se ognuno di noi si impegnasse anche
solo nel proprio piccolo, i passi in avanti che si potrebbero fare
sarebbero immensi!”
Foto copertina
Didascalia: Pulizia rifiuti in strada
Autore: Matteo Pignata
Licenza: Pagina fb Nicolò Pignata
Un’agricoltura lenta e locale che pur mantenendo
stretto il legame tra chi la pratica e la terra lascia all’agricoltore il tempo
e lo spazio per altre passioni. È questa la strada seguita da Damiano, il
giovanissimo contadino e musicista protagonista del primo documentario della
serie “TERRE” che narra la vita ed il lavoro di alcuni piccoli produttori
agricoli, partendo dalle zone piacentine. Damiano Sprega ha vent’anni ed è un agricoltore. Il primo
cortometraggio della serie di documentari “TERRE” è incentrato su di lui e
sull’azienda agricola Casa Della Memoria Casella (San Protaso di Firenzuola –
Piacenza). È una storia semplice, nel senso più positivo del termine. Damiano è
genuino e spontaneo, lo si percepisce vedendolo rispondere alle domande.
Il documentario non si apre però
discutendo di agricoltura. Damiano parla della sua più grande passione: la musica.
Racconta delle emozioni che gli dà, di come abbia intenzione di dedicare il suo
tempo e le sue energie in una carriera da musicista. Ma, allora? Stiamo andando
fuori tema? No, questo documentario ha un messaggio da estrapolare dalle
sensazioni del giovane agricoltore-musicista. L’agricoltore è un
mestiere totalizzante, per come lo intendiamo ai giorni nostri, l’imprenditore
agricolo deve produrre e guadagnare il più possibile, questo è il dogma.
L’agricoltura industriale spinge a produrre sempre più, così l’agricoltura è
nelle mani di poche persone che devono lavorare tantissimo, a questo siamo
abituati. Ma Damiano non vuole tutto ciò. Ama la sua terra, la stessa terra che
suo nonno ha coltivato e coltiva ancora con cura e dedizione. Rispetta la
natura e il lavoro con cui la sua famiglia può vivere dignitosamente e
sostenere la sua grande passione musicale. Non ha intenzione di lasciare
questa occupazione, gli piace. Dice che continuerà a prendersene cura, anche
l’agriturismo dovesse chiudere, anche se il contadino non sarà il suo primo
lavoro.
Damiano Sprega
Quando diciamo che
nel futuro bisognerà tornare ad un’agricoltura più lenta e locale,
legata al territorio, fatta dai contadini e non dai grandi imprenditori
agricoli quello che m’immagino sono tanti ragazzi come Damiano che torneranno
alla terra. Come molti giovani d’oggi avranno altre passioni, ma avranno anche
l’esigenza di rimanere a contatto con la natura e col cibo, prendendosi cura di
un campo, di un orto o un giardino. Sarà quell’attività quotidiana che ci
manterrà sani fisicamente e mentalmente. In futuro l’agricoltura non sarà per
forza un lavoro full-time? Potrà essere un lavoro che svolgeremo al di fuori
dalle logiche di mercato, allo scopo di produrre cibo e curare l’ambiente?
Queste sono le domande che sono sorte dalla visione del corto. In passato non è
stato così per vari motivi. I giovani che si affacciano all’agricoltura
adesso hanno davanti un nuovo mondo, hanno vecchi schemi da archiviare e nuovi
metodi da inventare. Non sarà facile, questo anche Damiano lo sa, ma è una
strada che vale la pena percorrere. Il progetto indipendente di documentari
“TERRE”, prodotto e ideato dalla casa di produzione MaGestic Film, si propone
di narrare la vita e il lavoro di alcuni piccoli produttori agricoli, partendo
dalle zone piacentine, espandendosi poi su altri territori, coinvolgendo anche
enti, associazioni e fondazioni locali. Qui in seguito il link al primo
episodio, scritto e diretto da Silvia Onegli, disponibile gratuitamente anche su YouTube.
Falegnameria, fablab, ecosartoria. Sono solo alcune delle proposte del CESP di Nuoro, un luogo di inclusione pensato per la formazione, l’apprendimento esperienziale e la valorizzazione delle competenze. Uno spazio di condivisione dove incontrarsi, scambiarsi saperi e trovare così anche nuove opportunità di inserimento nel mondo del lavoro. La Sardegna è una terra piena di iniziative, che vanno oltre i sei mesi della stagione estiva. C’è tanta voglia di crescere e di creare opportunità. E questo ce lo conferma un’esperienza che va avanti dal 2013: il CESP (Centro Etico Sociale Pratosardo). Gestito dalla cooperativa Lariso e finanziato dal Comune di Nuoro e dall’Aspal, il CESP di Nuoro è un centro dagli spazi ampi (1200 metri quadri) dove vengono proposti percorsi formativi, laboratori, momenti di aggregazione, condivisione di conoscenze.
«L’idea era quella di creare un luogo di inclusione
e quindi di abbandonare l’idea dello ‘svantaggio’ per aprirsi ad un discorso
basato sulle competenze», ci spiega Salvatore Sanna, referente del CESP.
«Abbiamo strutturato questo spazio pensando che ogni persona ha diverse
competenze su differenti livelli, ma porta comunque con sé il suo bagaglio di
esperienza».
Quando il centro è nato, nel 2013,
era ancora all’inizio ma la direzione era già molto chiara: creare un luogo
dove ci si potesse scambiare competenze e dove si potesse imparare a
relazionarsi con gli altri, a stare in società. «Molto spesso si pensa che
soltanto perché si ha un titolo di studio o un’esperienza lavorativa allora si
è pronti per un lavoro; in realtà, ci vogliono anche quelle competenze
trasversali che ci permettono di vivere e relazionarci con gli altri», racconta
ancora Sanna.
L’ecosartoria del
CESP
Passano gli anni e
il CESP si arricchisce: da «spazio diventa luogo», in cui l’ecosostenibilità
ha un ruolo strutturale. Nascono diverse sale, ognuna dedicata a qualcosa: la
Cukina per i laboratori di cucina, lo Spazio Performance dedicata alla
ciclomotricità e quindi a tutti quei corsi che prevedono una connessione fra il
corpo e la mente (yoga e tai chi, ad esempio), la Sala Relax, la Falegnameria,
l’Aula Informatica. Fra questi c’è un luogo importante, che è l’eco-sartoria,
che ha esteso i propri confini anche al di fuori del CESP ed è riuscita a
diventare una piccola azienda aprendo un microcredito: un gruppo di donne,
infatti, hanno occupato questo spazio nel 2015 e hanno cominciato a lavorare
come sarte, con grande attenzione all’ecosostenbilità e alla qualità dei loro
prodotti. All’interno di un luogo così ampio e diversificato non poteva mancare
l’Agorà. Il nome dice tutto: l’agorà è quello spazio dedicato
all’incontro, che può essere di qualsiasi tipo, ma che produce inevitabilmente
scambio e conoscenza. Ed è proprio grazie a questa apertura che il CESP è
riuscito a calamitare l’interesse sia del settore pubblico che di quello
privato.
Il FabLab del CESP
Da una parte,
infatti, è finanziato dal Comune di Nuoro, grazie ad un bando, e dall’Aspal
(Agenzia Sarda Politiche Attive del Lavoro). Dall’altra diversi privati si sono
avvicinati proponendo corsi e nuove forme di scambio. Un esempio?
Un’associazione che ha bisogno di uno spazio lo chiede al CESP e invece di
pagare un affitto in soldi, lo paga restituendo un corso gratuito ai cittadini.
Nel tempo, infatti, i laboratori e la formazione proposti dal CESP sono
diventati sempre più corposi, proprio perché la voglia di collaborare è
ricominciata e ha dato nuova spinta all’iniziativa di associazioni e singoli.
«Questo è un
luogo prezioso per la comunità», aggiunge Valeria Romagnoli, assessora per
le Politiche sociali, giovanili, delle pari opportunità e politiche per la
casa. Valeria rappresenta quella pubblica amministrazione che «ha deciso di
scommettere sul progetto», facendolo diventare uno strumento attivo nel campo
del lavoro. « Mantenendo questa filosofia delle competenze trasversali di vita,
abbiamo voluto scommettere su questo progetto innovativo dando la possibilità
di creare laboratori più corposi e che potessero dare accesso alla qualifica
delle competenze, che restituissero ai partecipanti qualcosa di spendibile nel
mondo del lavoro, sempre mantenendo attenzione all’inclusione sociale (per ogni
corso c’erano quindi dei posti riservati alle persone con disabilità, ai
soggetti svantaggiati, a disoccupati e inoccupati)».
Non mero
assistenzialismo, ma inclusione attiva, capace di valorizzare le
competenze del singolo e dare quella spinta in più verso il mondo del lavoro.
Una direzione «giusta»: ad esempio ai primi corsi attivati il CESP riceve 400
domande per soli 66 posti disponibili. Un segno che la voglia di fare c’è. Dal
CESP, infatti, passano circa 1500 persone l’anno, ci lavorano 90 associazioni e
ogni giorno ci sono almeno 6 ore impegnate in diversi corsi o laboratori.
Il laboratorio di
ecodesign
«Questo ultimo anno
questi percorsi formativi sono stati estesi al territorio: noi facciamo parte
di un distretto di 20 comuni ed è stata data la possibilità anche agli altri
comuni di poter iscrivere attraverso i loro servizi i cittadini per usufruire
dei nostri corsi. L’idea è che questo centro diventi un luogo che possa dare
risposte a tutto il territorio, non solo alla città di Nuoro», spiega
ancora Valeria Romagnoli. E in effetti, oltre ad essere benvoluto dal
territorio e dai cittadini, il CESP qualche soddisfazione concreta l’ha
avuta: 3 persone su 8 hanno avuto la possibilità di continuare a lavorare,
grazie ai corsi da loro proposti, oltre la stagione estiva. Qualcuno, dopo aver
partecipato ai laboratori, ha capito la sua strada e ha deciso di ricominciare
a studiare. Qualcun altro è diventato falegname e grazie ai contatti del CESP
ha iniziato a lavorare nel campo. Ora, l’obiettivo è «capitalizzare questa
esperienza, lavorare sulle tematiche importanti come ecosostenibilità e lavoro,
rafforzare l’innovazione sociale e recuperare il senso di comunità anche
attraverso lo scambio competenze». Nella speranza che la collaborazione fra
pubblico e privato continui e che il CESP diventi una realtà solida per
molti lunghi anni.
Contest fotografico
#Unfuturomaivisto, foto di Carlo Silva, Erice (Tp)
Fritz Lang, ilgrande regista di capolavori come Metropolis o Il grande caldo, amava definirsinon un artista ma un artigiano. Essere artigiani significa non solo essere capaci di creare, di trasformare la realtà attraverso le idee e il contatto conla materia, ma vuol dire anche essere portatori di un “saper fare” che viene dalontano e dovrebbe portare altrettanto lontano. Un sapere di conoscenze, altempo stesso filosofico e pragmatico, che rappresenta il patrimonio di un paesee di un popolo. Un sapere che si fa “tradizione” per essere tramandato allefuture generazioni, ma che al contempo dovrebbe sfuggire da essa, innovarsi,cambiare, più o meno lentamente, per essere un sapere attuale, necessario eutile. Quando manca questo passaggio, è una tradizione che muore e un sapereche scompare. E’ il caso, purtroppo, di molte nostre forme di artigianatosegnate non solo dal passo veloce dei tempi, ma da contraddizioni e dallamancanza di investimenti, non solo economici. In un paese come l’Italia, famosoper i suoi prodotti di qualità, in cui la disoccupazione giovanile è altissimama sempre di più scarseggiano calzolai, vetrai, sarti e scalpellini, lariscoperta del saper fare tradizionale dovrebbe essere un percorso naturale. Larealtà invece è tutt’altra. Tecnica e tradizione però possono non essere sufficienti:per affrontare la sfida, occorrono una forte consapevolezza degli effetti dellaglobalizzazione e la capacità di valorizzare, se necessario, il ruolo dellatecnologia. In generale, serve apportare innovazione, immaginare nuovi campi diapplicazione per antichi mestieri. E’ forse superfluo sottolineare come le“botteghe” rappresentino un forte elemento di attrazione turistica, grazie algusto del “fatto a mano” e al valore della “unicità” sempre più ricercati eche, per semplificare, definiamo come la forza del Made in Italy. Lecontraddizioni, come anticipato, si intrecciano però alle difficoltà di rendereazioni concrete le varie riflessioni sulle opportunità che l’artigianato, e inparticolare quello artistico, è in grado di offrire a giovani e territori. E’questo, in particolare, l’aspetto che ci interessa maggiormente esplorare.Perché, oltre alle prerogative culturali ed economiche, l’artigianato artisticopuò comprendere anche quelle sociali. Queste, addirittura possono essere laprincipale leva che permette la riscoperta dei “saperi” e la lorovalorizzazione, la loro seconda vita. Abbiamo voluto dare spazio, perciò, adiverse esperienze che si sono confrontate con l’artigianato partendo dal puntovista e da esigenze di natura sociale. Il risultato? Recuperate le tradizioni,recuperato il capitale umano; sperimentati interventi di inclusione sociale edi sviluppo locale; valorizzati saperi, giovani, territori. Da questo punto divista, lo spunto di riflessione è venuto dalla sperimentazione avviata con il bando della Fondazione CON IL SUD per promuovere interventicapaci di recuperare e valorizzare tradizioni artigianali tipiche diparticolari aree meridionali che sono in via di “estinzione”, creando attornoad essi occasioni di inclusione di soggetti svantaggiati e opportunitàprofessionali per le nuove generazioni.
“Le situazioni più
difficili creano possibilità…L’arte in sé è salvifica!” E’ uno dei messaggi che
abbiamo raccolto dall’intervista che il maestro Dalisi ha voluto concederci.
Crediamo che queste poche righe contengano un grande pezzo di verità sulla
“potenza” sprigionata dall’arte e dalla cultura quando incrociano il sociale.
Fare rete. Questo il valore più grande di RestartAlp secondo Paolo Cognetti, vincitore del premio Strega con il libro “Le otto montagne”. Lo scrittore, tornato a vivere fra le vette per tutelare e dare nuova vita al territorio, ha incontrato i giovani aspiranti imprenditori che stanno partecipando al percorso di formazione proposto da Fondazione Garrone e Fondazione Cariplo. A un certo punto della sua vita, quando ha cominciato a sentirsi a disagio e ad avvertire la necessità di staccare, ascoltare il silenzio e recuperare l’ispirazione, Paolo Cognetti ha deciso di tornare in Val d’Ayas, fra le “sue” montagne. Lo scrittore, vincitore del premio Strega con “Le otto montagne”, ha incontrato i ragazzi di ReStartAlp, giovani che vogliono andare a vivere e lavorare in montagna, cercando di rivitalizzare questi luoghi magici e spesso dimenticati con idee imprenditoriali fresche, innovative e connesse con il territorio.
Secondo Cognetti, il valore più grande del programma voluto da Fondazione Edoardo Garrone – in continuità con il progetto ReStartApp – e Fondazione Cariplo – nell’ambito del Programma AttivAree dedicato alle aree interne – è quello di “fare rete”: «Persone che cercano di fare quello che ho fatto sono completamente sole. Il valore di ReStartAlp è quello di far sentire che intorno a loro c’è una rete di persone simili. Sapere che intorno a te c’è qualcuno disposto ad ascoltarti e ad aiutarti ha un grandissimo valore».
Ancora prima del successo editoriale conosciuto grazie a “Le otto montagne”, Paolo Cognetti era un grande amante della solitudine e del silenzio che regnano fra le vette. Cresciuto qui, ha deciso di ritornarci e di attivarsi per tutelare e dare nuova vita al territorio, anche attraverso il suo progetto di animazione territoriale, che ha mostrato ai ragazzi di ReStartAlp.
«Per me – racconta – la montagna è stato un luogo di grande riapertura, per cui mi sento un abitante di questo posto». Fra le righe si può leggere un altro consiglio che regala ai futuri imprenditori a cui le due fondazioni stanno fornendo gli strumenti per dare corpo alle loro idee: giungete in montagna in punta di piedi, imparate a conoscere e ad ascoltare la terra che vi accoglie, parlate con chi ci abita e sentitevi anche voi parte di questa comunità. È questa la filosofia di ReStartAlp, che trova riscontro anche nel programma formativo dal forte imprinting esperienziale, che ha portato i partecipanti a conoscere imprenditori montani, personalità del posto – fra cui Paolo Cognetti – operatori forestali, agricoltori e allevatori. Tutti attori e membri della comunità culturale, sociale e economica che saranno contenti di accogliere nuove forze, giovani che, forse un po’ stanchi della città, sognano di costruirsi una vita e un lavoro in montagna.