Coldiretti: “Inquinamento dell’aria a Torino, basta usare l’agricoltura come capro espiatorio”

Sergio Barone: “È assolutamente ridicolo, per un’area urbana tra le più trafficate d’Italia, cercare nell’agricoltura il capro espiatorio dell’inquinamento dell’aria di Torino”

L’agricoltura non può essere responsabile del peggioramento della qualità dell’aria che, da settimane, sta nuovamente ammorbando Torino. Lo afferma Coldiretti Torino.

“Per una ragione molto semplice – precisa il presidente Sergio Barone – In questo periodo dell’anno l’agricoltura è praticamente ferma. Se si esclude la normale vita delle mucche e dei maiali nelle stalle, non ci sono concimazioni, a parte qualche agricoltore che si porta avanti col lavoro spargendo naturalissimo letame, concime principe dell’agricoltura sostenibile che accompagna la produzione di cibo fin dagli albori dell’agricoltura neolitica, cioè da 5.000 anni. È assolutamente ridicolo, per un’area urbana tra le più trafficate d’Italia, cercare nell’agricoltura il capro espiatorio dell’inquinamento dell’aria di Torino”.

Nel suo ultimo rapporto, l’Ispra, braccio tecnico del Ministero della transizione ecologica, ha indicato nel traffico e nelle emissioni industriali le prime cause di emissioni di gas serra. Ne è un esempio il peggioramento della qualità dell’aria dopo i miglioramenti registrati durante i lockdown del 2020: con le chiusure la qualità dell’aria è migliorata perché è crollato il traffico per il divieto degli spostamenti e per la didattica a distanza; questo mentre l’agricoltura e l’allevamento hanno continuato a funzionare a pieno regime per garantire i rifornimenti alimentari. Quando è tornato a crescere il traffico è tornato a crescere anche l’inquinamento da gas serra. Le emissioni dell’agricoltura sono limitate a queste fonti: per il PM10, gli scarichi dei mezzi agricoli, che sono in numero limitato in confronto al parco veicoli circolanti; l’abbruciamento delle stoppie e dei residui colturali, pratica sempre più limitata che oggi non attua quasi più nessuno; le emissioni di gas azotati, come l’ammoniaca, derivati dallo spandimento dei concimi, dall’urina dei bovini e dei suini; Per le emissioni di gas serra, il metano rilasciato dalle deiezioni e la flatulenze degli stessi bovini e suini che vivono nelle stalle. E, per quanto si consigli di migliorare l’alimentazione animale per ridurre le emissioni di gas intestinale, le stalle non sono certo l’attività economica prevalente per l’area urbana torinese. Se si guarda al particolato fine (Pm 10 e PM 2,5) da sempre si sa che è prodotto soprattutto dai fumi di combustione. I maggiori imputati sono i motori diesel e benzina più vecchi, i processi industriali che generano fumi e le centrali termiche non ancora metanizzate. Queste sono fonti dirette di produzione di polveri sottili.

La responsabilità della formazione di particolato da parte del comparto agricolo è, invece, soprattutto, di tipo indiretto: gli effluvi di ammoniaca provocati dalle deiezioni animali e dei concimi reagiscono negli strati alti dell’atmosfera formando anche loro, come avviene per i fumi, solfati e nitrati di ammonio, che costituiscono gran parte della componente, secondaria, inorganica, del particolato. Si tratta del cosiddetto “smog fotochimico” che si forma in alto, molto in alto, negli strati superiori dell’atmosfera, dove viene quasi sempre disperso dalle grandi correnti d’aria intercontinentali che, per l’area torinese, scorrono prevalentemente da ovest-sud ovest verso est. Visto che a ovest di Torino ci sono le Alpi che, in inverno, praticamente non ospitano attività agricole, questo particolato di origine agricola non investe l’area torinese ma vola verso altre zone della Pianura Padana. Inoltre, sempre a proposito di emissioni agricole di ammoniaca leggiamo sul sito di ARPA Piemonte che “dal punto di vista temporale, le emissioni di ammoniaca a seguito dello spandimento di reflui zootecnici si collocano nel periodo compreso fra febbraio e novembre, principalmente in primavera e autunno”, quindi, non può essere la concimazione dei campi la prima causa dell’inquinamento dell’aria di Torino nei mesi invernali.

Altro punto: gli studi sul contributo degli ossidi di azoto nella formazione del particolato e gli studi sul contributo dell’agricoltura nel diffondere ossidi di azoto sono ancora tutti troppo recenti per trarre conclusioni affrettate. Mentre i contributi delle emissioni al suolo di PM10 e di ossidi azoto sono ben conosciuti. Si sa da sempre che sono prodotte direttamente dai motori e dalle caldaie in loco, cioè nella stessa area urbana di Torino e ristagnano con le alte pressioni e con le inversioni termiche invernali.

Senza l’agricoltura l’area urbana torinese non avrebbe il grande contributo verde di sequestro della CO2 e delle stesse polveri sottili determinato dalle colture: le coltivazioni e il verde urbano forniscono, infatti, un efficiente contributo per disinquinare l’aria nelle città e nelle periferie.

Fonte: ecodallecitta.it

È necessario cambiare e dipende solo da noi

Durante l’estate che sta ormai per terminare, gli eventi estremi che hanno lacerato molte parti del nostro pianeta, compresi quelli in paesi quali l’Europa, la Cina e l’area del Pacifico nord-occidentale, hanno lasciato i governi locali, in particolare le città, con un chiaro richiamo all’azione: agire adesso o soffrire domani.

Durante l’estate che sta ormai per terminare, gli eventi estremi che hanno lacerato molte parti del nostro pianeta, compresi quelli in paesi quali l’Europa, la Cina e l’area del Pacifico nord-occidentale, hanno lasciato i governi locali, in particolare le città, con un chiaro richiamo all’azione: agire adesso o soffrire domani. Anche se siamo ben consapevoli che a soffrire lo facciamo già adesso e non da poco tempo, anche se la poca attenzione ai temi ambientali ci ha sempre distratto e portato ad occuparci di cose in alcuni casi assolutamente inutili, se non dannose.

Le città costruite per resistere al caldo sempre più torrido e ai nubifragi del XX secolo hanno ricevuto un “bel” segnale, o meglio, un brusco monito per adattarsi rapidamente. Nonostante la continua esposizione, le città continuano a essere le principali responsabili delle emissioni sia di gas climalteranti che inquinanti, emettendo più del 60% dei gas serra a livello mondiale, sebbene occupino meno del 2% della superficie terrestre. Entro il 2030, sei persone su dieci vivranno in aree urbane e la richiesta di nuove abitazioni aumenterà ancor più velocemente rispetto ad oggi. Visto che gli edifici rappresentano almeno il 40% del consumo globale di energia, l’enorme potenziale di efficienza non sfruttato si presenta mettendo a prova di futuro le nostre città. Gli obiettivi di riduzione delle emissioni inquinanti, così come in generale quelli climatici, spesso si evidenziano e sviluppano a livello nazionale. La pianificazione delle azioni, e la loro attuazione, sembra essere più efficace e veloce quando guidata dalle città.  Sarebbe quindi opportuno dedicare spazio ed attenzione, oltre che risorse, per indirizzare misure urbane che trasferiscano le proprie esperienze attraverso i confini delle diverse città. Da qui è nata l’idea di una partnership globale ove i pianificatori, gli innovatori e i governi locali si confrontino partendo dalla condivisione delle conoscenze e mettendo a fattor comune obiettivi ed ambizioni: questo è l’obiettivo di Access Cities – l’alleanza globale per lo sviluppo urbano sostenibile. Attraverso questa rete, innovatori e pianificatori di città come Monaco, Singapore, New York, Aarhus e Copenaghen hanno collaborato per sviluppare risposte innovative e, soprattutto, fattibili e scalabili alle sempre maggiori esigenze di città che evolvono rapidamente. La fondazione che ne è nata (The Foundation),  sebbene sostenuta dall’industria, si pone l’obiettivo di spingere sui confini dell’eccellenza urbana. Dopo aver condiviso conoscenze in tre diversi continenti sin dal 2018, attualmente la collaborazione spazia su varie aree della sostenibilità ove l’efficienza degli edifici riveste un ruolo primario. Sebbene il programma sia entrato nella fase finale, l’impegno non diminuisce visto che sempre più innovatori risultano esposti alle diverse opportunità offerte dalle città che hanno capito l’importanza di un vivere sempre più sostenibile. Un esempio che seguiremo con attenzione (il green-washing è sempre dietro l’angolo) riguarda la collaborazione tra la Confederazione industriale danese (Danish Cleantech Hub, cleantech-hub.dk),  l’Ente di ricerca energetica dello Stato di New York e l’Autority per lo sviluppo che hanno lanciato un progetto con l’obiettivo, tra gli altri, di decarbonizzare i grattacieli della Grande Mela. Il fatto che ormai sia scontato, almeno nel nord Europa, che ci siano paesi che spingono più di altri sui temi della sostenibilità non ci deve illudere che tutto sarà sempre facile, soprattutto perché, non dimentichiamolo mai, sono sempre aziende che devono far profitto e se riescono a farlo senza peggiorare le cose sarebbe ideale. Il ruolo del cittadino, di noi tutti, è e rimarrà sempre fondamentale, sia come attori protagonisti del cambiamento che come stimolatori verso le altre diverse realtà della nostra società moderna.

Fonte: ilcambiamento.it

Per l’inquinamento globale da combustibili fossili muoiono 8,7 milioni di persone l’anno, il doppio delle stime precedenti

Lo afferma uno studio coordinato dalla Harvard University. A essere più colpite sono le aree con la maggior concentrazione di inquinanti, compresi gli Stati Uniti orientali, l’Europa e il Sud-est dell’Asia. La stima è stata fatta con un modello matematico in cui sono stati inseriti i dati 2018 sulle emissioni di diversi settori, dall’energia ai trasporti

L’inquinamento dovuto alle emissioni da combustibili fossili è la causa di 8,7 milioni di morti nel mondo ogni anno, quasi un quinto del totale dei decessi e il doppio di quanto stimato in precedenza. Lo afferma uno studio coordinato dalla Harvard University pubblicato da Environmental Research. Secondo gli autori dello studio, a essere più colpite sono le aree con la maggior concentrazione di inquinanti, compresi gli Stati Uniti orientali, l’Europa e il Sud-est dell’Asia. La stima è stata fatta utilizzando un modello matematico in cui sono stati inseriti i dati, riferiti al 2018, sulle emissioni di diversi settori, dall’energia ai trasporti, per determinare la quantità di sostanze inquinanti presente nelle singole aree. A questa è stato applicato un altro algoritmo che stima gli effetti sulla salute al variare dei tassi di inquinamento.

Ricerche precedenti si basavano su osservazioni satellitari e di superficie per stimare le concentrazioni annuali medie globali di particolato fine PM2,5. Il problema è che le osservazioni satellitari e di superficie non sono in grado di distinguere tra le particelle delle emissioni di combustibili fossili e quelle della polvere, del fumo di incendi o di altre fonti.

“Con i dati satellitari, vedi solo i pezzi del puzzle”, ha affermato Loretta J. Mickley, Senior Research Fellow in Chemistry-Climate Interactions presso la Harvard John A. Paulson School of Engineering and Applied Sciences (SEAS) e coautrice dello studio. “È difficile per i satelliti distinguere tra i tipi di particelle e possono esserci delle lacune nei dati”.

Per superare questa sfida, i ricercatori di Harvard si sono rivolti a GEOS-Chem, un modello 3-D globale di chimica atmosferica condotto al SEAS da Daniel Jacob, professore di chimica atmosferica e ingegneria ambientale. “Piuttosto che fare affidamento su medie diffuse in grandi regioni, volevamo mappare dove si trova l’inquinamento e dove vivono le persone, in modo da poter sapere più esattamente cosa respirano”, ha detto Karn Vohra, studente dell’Università di Birmingham e primo autore dello studio. Per modellare il PM2,5 generato dalla combustione di combustibili fossili, i ricercatori hanno inserito le stime GEOS-Chem delle emissioni di più settori, tra cui energia, industria, navi, aerei e trasporti terrestri e la chimica dettagliata simulata di ossidanti-aerosol, guidata dalla meteorologia dalla NASA Global Ufficio Modellazione e Assimilazione. I ricercatori hanno utilizzato i dati sulle emissioni e sulla meteorologia principalmente dal 2012 perché è stato un anno non influenzato da El Niño, che può peggiorare o migliorare l’inquinamento atmosferico, a seconda della regione. I ricercatori hanno aggiornato i dati per riflettere il cambiamento significativo nelle emissioni di combustibili fossili dalla Cina, che sono diminuite di circa la metà tra il 2012 e il 2018.

“Mentre i tassi di emissione sono dinamici, aumentano con lo sviluppo industriale o diminuiscono con politiche di qualità dell’aria di successo, i cambiamenti della qualità dell’aria in Cina dal 2012 al 2018 sono i più drammatici perché la popolazione e l’inquinamento atmosferico sono entrambi grandi”, ha affermato Marais. “Tagli simili in altri paesi durante quel periodo di tempo non avrebbero avuto un impatto così grande sul numero di mortalità globale”.

La combinazione dei dati del 2012 e del 2018 dalla Cina ha fornito ai ricercatori un quadro più chiaro dei tassi di emissioni globali di combustibili fossili nel 2018. Una volta ottenuta la concentrazione di PM2,5 di combustibile fossile all’aperto, i ricercatori dovevano capire in che modo quei livelli influivano sulla salute umana. Sebbene sia noto da decenni che le particelle sospese nell’aria sono un pericolo per la salute pubblica, sono stati effettuati pochi studi epidemiologici per quantificare gli impatti sulla salute a livelli di esposizione molto elevati come quelli riscontrati in Cina o in India. I coautori Alina Vodonos e Joel Schwartz, professore di epidemiologia ambientale presso l’Harvard T.H. Chan School of Public Health (HSPH), hanno sviluppato un nuovo modello di valutazione del rischio che collegava i livelli di concentrazione di particolato dalle emissioni di combustibili fossili ai risultati sulla salute. Questo nuovo modello ha rilevato un tasso di mortalità più elevato per l’esposizione a lungo termine alle emissioni di combustibili fossili, anche a concentrazioni inferiori. Spesso, quando discutiamo dei pericoli della combustione di combustibili fossili, è nel contesto della CO2 e del cambiamento climatico e trascuriamo il potenziale impatto sulla salute degli inquinanti co-emessi con i gas serra”, ha detto Schwartz. “Ci auguriamo che quantificando le conseguenze sulla salute della combustione di combustibili fossili, possiamo inviare un messaggio chiaro ai responsabili politici e alle parti interessate sui vantaggi di una transizione verso fonti energetiche alternative”.

La ricerca sottolinea l’importanza delle decisioni politiche, ha affermato Vohra. I ricercatori hanno stimato che la decisione della Cina di ridurre quasi della metà le emissioni di combustibili fossili ha salvato 2,4 milioni di vite in tutto il mondo, di cui 1,5 milioni in Cina, nel 2018.

“Il nostro studio si aggiunge alla crescente evidenza che l’inquinamento atmosferico derivante dalla continua dipendenza dai combustibili fossili è dannoso per la salute globale”, ha affermato Marais. “Non possiamo in buona coscienza continuare a fare affidamento sui combustibili fossili, quando sappiamo che ci sono effetti così gravi sulla salute e alternative praticabili e più pulite”.

Fonte: ecodallecitta.it

Ronchi: “Ministero per la Transizione ecologica grande sfida per il futuro del Paese”

Così il presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, Edo Ronchi, ministro dell’Ambiente dal ’96 al 2000, in merito al nuovo annunciato dicastero. “Un pilastro”, afferma Ronchi, per il quale “ci sarà da affrontare la riforma delle competenze” anche se “non c’è bisogno di inventare molto” se si segue l’impostazione europea

Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, durante il meeting internazionale Giustizia ambientale e cambiamenti climatici, Roma, 11 Settembre 2015. ANSA / LUIGI MISTRULLI

 “Un ministero di riferimento serve. Quello per la Transizione ecologica è una grande sfida per il futuro del nostro Paese in termini di potenzialità sul lavoro e sull’innovazione”. Così il presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibileEdo Ronchi, ministro dell’Ambiente dal ’96 al 2000, in merito al nuovo annunciato dicastero. “Un pilastro”, afferma Ronchi, per il quale “ci sarà da affrontare la riforma delle competenze” anche se “non c’è bisogno di inventare molto” se si segue l’impostazione europea.

La transizione ecologica, ricorda Ronchi, “è il primo punto del Recovery plan europeo”. All’orizzonte “la crisi climatica non è così lontana” e l’Italia non si può presentare alla Conferenza mondiale del clima di Glasgow il prossimo novembre, la Cop26, dice Edo Ronchi, “non in regola con il piano di adeguamento all’obiettivo dell’Ue per aumentare l’impegno di taglio dei gas serra dal 40 al 55 per cento”. L’impegno, sottolinea il già ministro dell’Ambiente, “sarà importante perchè dal ’90 al 2019 abbiamo tagliato il 19%, ora si tratta di fare un salto dal 19 al 55 per cento”.

Oltre all’impegno sulla riduzione dei gas climalteranti occorre, dice Ronchi, raddoppiare la crescita delle rinnovabili, fare molto di più sul settore dei trasporti dove, a parte questo anno di pandemia, “abbiamo aumentato le emissioni anziché diminuirle”.

La transizione green non è solo neutralità climatica “ma anche – sottolinea Ronchi – economia circolare che per un Paese manifatturiero come il nostro è centrale e che è pre-condizione per gli impegni sul clima, con la riduzione del consumo di materiali che va a incidere sul comparto energetico”. Senza dimenticare il tema della biodiversità: “Non si può parlare di transizione ecologica – dice Ronchi – senza interessarsi al capitale naturale che in Italia significa bonifiche, recuperi, risanamenti, falde”. Nel mirino anche la qualità green delle città che apre tutto il capitolo della mobiltà sostenibile. “Ecco perchè un ministero della Transizione ecologica è fontamentale. Ora occorre ridisegnarlo”.

Il ministero dell’Ambiente ha un suo Dipartimento della Transizione ecologica creato nel gennaio del 2020: è stato voluto dal ministro uscente, il Cinquestelle Sergio Costa, nell’ambito di una riorganizzazione interna. In quell’occasione, nella sede di via Cristoforo Colombo erano stati creati due dipartimenti, per seguire i due grandi filoni delle politiche ambientali: da un lato Protezione della natura, dall’altro Transizione ecologica. Quest’ultima è il passaggio da un’economia basata sulle fonti fossili di energia a una basata su fonti rinnovabili, riciclo (la cosiddetta economia circolare) e risparmio energetico. In materia di transizione ecologica, una parte delle competenze, quelle sulle energie pulite, restano in capo al ministero dello Sviluppo economico. Lo scopo del Dipartimento presso il ministero dell’Ambiente era proprio quello di coordinarsi col Mise su questi temi, che vanno al di là delle sue tradizionali competenze di tutela ambientale.

Fonte: ecodallecitta.it

Unione Europea: “La crescita economica distrugge la salute dell’uomo e dell’ambiente”

L’Agenzia Europea per l’Ambiente ha pubblicato un documento in cui sostiene che lo sviluppo economico non è possibile se non pagando un caro prezzo in termini di sostenibilità ambientale. Vediamo i dettagli di questo documento davvero fondamentale, poiché per la prima volta un organo istituzionale si è ufficialmente schierato contro il dogma della crescita.

 “La crescita economica è strettamente legata all’aumento della produzione, dei consumi e dello sfruttamento delle risorse e ha effetti deleteri sull’ambiente e sulla salute umana”. Comincia così, senza mezze misure, il documento recentemente pubblicato dalla EEA – Agenzia Europea per l’Ambiente, dal titolo “Crescita senza crescita economica”.

Questo ente è un’agenzia creata dell’Unione Europea allo scopo di fornire informazioni indipendenti e qualificate sull’ambiente. Si tratta dunque di un organo ufficiale ed è estremamente significativo che, per la prima volta nella storia recente, un’istituzione di questo tipo si sia apertamente schierata contro il paradigma della crescita economica a tutti i costi, dettagliando la propria posizione rispetto a un ampio spettro di tematiche e prospettive che riguardano il mito delle sviluppo sostenibile.

“È improbabile che un duraturo e deciso disaccoppiamento della crescita economica dalle pressioni e dagli impatti ambientali possa essere raggiunto su scala globale; pertanto le società devono ridefinire cosa si intende per crescita e progresso e aggiornare la loro idea di sostenibilità globale”, prosegue l’EEA nell’introduzione del documento. Oggi l’antropizzazione è del tutto insostenibile e questo non è possibile. Urge un cambiamento. A questo scopo, l’Agenzia chiama in causa per prime le organizzazioni non governative – termine utilizzato in senso lato e inclusivo, che comprende dunque anche movimenti più informali –, alle quali attribuisce il merito di aver già delineato policies e progetti capaci di trasformare la società rendendola più sostenibile. Queste idee sono raccolte nella pubblicazione “Narrativa per il cambiamento”, sempre a cura dell’EEA. Questo documento è solo uno dei tasselli impiegati negli anni per costruire “Crescita senza crescita economica”, risultato di un lavoro di raccolta di dati e di contributi iniziato nel 2017 che ha tempestivamente visto la luce in questi giorni, al culmine di un’epoca in cui, giunta a un incrocio, l’umanità si appresta a fare scelte che con tutta probabilità determineranno il suo futuro. Analizziamo dunque uno per uno quelli che sono stati definiti i cinque “messaggi chiave” che costituiscono la struttura portante della pubblicazione.

La sede dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, a Copenaghen

La Grande Accelerazione

Con questo termine si intende il periodo che, a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, ha registrato una crescita senza precedenti accelerando su scala globale il cambiamento ambientale – ma anche socio-economico – generato dall’uomo. Questa crescita esponenziale non si è affatto esaurita ma è in atto ancora adesso. Secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente, la Grande Accelerazione si è verificata, si sta verificando e continuerà a verificarsi anche in termini di perdita di biodiversità, cambiamenti climatici, inquinamento e consumo del capitale naturale ed è strettamente legata alle attività e alla crescita economiche.

Disaccoppiamento

Come già rilevato da diversi studi, non è mai successo in passato che la crescita economica sia stata disaccoppiata dallo sfruttamento delle risorse naturali e dall’aumento della pressione sugli ecosistemi ed è improbabile che ciò avvenga in futuro. Infatti è stato rilevato che, nonostante le principali politiche europee si siano sempre basate sul disaccoppiamento come soluzione per continuare a crescere economicamente limitando l’impatto ambientale, mancano totalmente le evidenze che tale disaccoppiamento sia stato efficacemente attuato. Le statistiche mostrano in modo inequivocabile che le curve di crescita di emissioni globali, impronta ecologica e prodotto interno lordo hanno un andamento quasi identico, eccetto forse le emissioni che dagli anni novanta, pur continuando a crescere, hanno leggermente rallentato il ritmo. A questo proposito, è interessante osservare che, se fino agli duemila il consumo delle risorse naturali era dovuto principalmente al boom demografico, con il nuovo millennio la responsabilità si è spostata sull’innalzamento del livello dello stile di vita della classe media.

La crescita di gas serra, impronta ecologica e PIL globale nel periodo 1970-2018

Decrescita, post-crescita, crescita verde ed economia della ciambella

Come detto in apertura, “Crescita senza Crescita economica” attinge a piene mani da teorie e movimenti che già da anni propongono modelli alternativi a quello attuale. Nello specifico nel ne vengono individuati quattro che, a parere dell’EEA, meglio assolvono il compito di indicare nuove strade per ripensare la crescita e il progresso. Vediamole brevemente grazie alle definizioni proposte da alcuni autori.

  • Decrescita: un termine generico per movimenti più radicali di natura accademica, politica e sociale che enfatizzano la necessità di ridurre la produzione e il consumo e individuare obiettivi differenti dalla crescita economica (Demaria et al., 2013).
  • Post-crescita: agnostica rispetto alla crescita, questa scuola di pensiero di concentra sul bisogno di disaccoppiare il benessere dalla crescita economica (Wiedmann et al., 2020).
  • Crescita verde: è basata sul pensiero ecomodernista che ripone le proprie speranze nel progresso scientifico e tecnologico diretto verso la sostenibilità. In altre parole, “crescita verde vuol dire favorire la crescita e lo sviluppo economici assicurandosi al tempo stesso che il capitale naturale continui a fornire le risorse e i servizi ambientali su cui si fonda il nostro benessere” (OECD, 2011).
  • Economia della ciambella: combina l’attenzione dei legittimi bisogni dell’attuale popolazione umana con la necessità di una trasformazione per un futuro sostenibile (Raworth, 2017).

Il Green Deal europeo

Dimostrando coraggio politico e determinazione, l’ Agenzia Europea per l’Ambiente si schiera apertamente contro la sua cugina Commissione Europea e il suo Green Deal, accusandolo – come abbiamo visto – di puntare tutto su un disaccoppiamento mai effettivamente realizzato e, probabilmente, irrealizzabile.

“Cosa potremmo mai ottenere in termini di progresso umano – si domandano gli autori di “Crescita senza crescita economica” – se il Green Deal europeo è stato implementato con l’obiettivo specifico di spingere cittadini, comunità e imprese a creare pratiche sociali innovative con un impatto ambientale modesto o nullo e finalizzate invece alla crescita sociale e personale?”.

Un cambiamento culturale

La crescita è culturalmente, politicamente e istituzionalmente radicata. Per questo è necessario che un cambiamento reale e duraturo abbatta – in maniera democratica – tutta una serie di barriere innalzate dalla cultura della crescita. Questa dichiarazione, pur assolutamente condivisibile, è abbastanza generica, ma rafforzata da suggestioni assai significative. L’EEA chiama infatti in causa le comunità di diversa natura che popolano l’Europa e il mondo, che vivono secondo principi di sostenibilità e responsabilità ambientale e che possono rappresentare fonti d’ispirazione cruciali. Comunità meno materialiste, meno consumiste, in cerca di uno stile di vita sobrio e differente rispetto a quello imposto dalla cultura di massa. Vengono citati movimenti di ispirazione religiosa – gli Amish e i Quaccheri –, ma anche il mondo degli ecovillaggi, tutte esperienze che hanno messo realmente in pratica ciò che la decrescita e le altre correnti di pensiero teorizzano.

“Crescita senza crescita economica” è dunque un lavoro molto prezioso. Non solo perché è un collage di soluzioni di grande valore intrinseco, suggerimenti utili e linee guida su cui costruire un nuovo modello su scala globale, ma anche perché ci dice che anche ai piani alti qualcuno si sta realmente chiedendo, senza secondi fini e obiettivi non dichiarati, “cosa possiamo fare per ridurre il nostro impatto e salvare il pianete su cui viviamo e che stiamo distruggendo?”.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/01/unione-europea-crescita-economica-distrugge-salute-uomo-ambiente/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Dieci consigli per una spesa amica del clima e del pianeta

Il sistema alimentare è responsabile di circa un quarto delle emissioni di gas serra ed è sempre più chiaro che modificare le nostre abitudini alimentari diviene necessario per contenere anche i cambiamenti climatici e impattare in misura minore sul pianeta. Come fare? Greenpeace fornisce alcuni suggerimenti.

Dieci consigli per una spesa amica del clima e del pianeta

«Il sistema alimentare è responsabile di circa un quarto delle emissioni di gas serra, e questo “peso” è in particolare da attribuire alle diete più diffuse nei paesi ricchi, in cui è presente un elevato consumo di prodotti di origine animale e cibi ultra-processati»: Greenpeace è attiva su questo fronte e ha formulato un elenco di suggerimenti per mitigare l’impatto sull’ambiente della nostra alimentazione.

«Le scelte alimentari che compiamo possono avere degli effetti a volte insostenibili. La fettina di carne comprata al supermercato sotto casa ha spesso una storia lunghissima da “raccontare”: ad esempio è molto probabile che il mangime usato nell’allevamento intensivo da cui proviene contenga soia coltivata su un terreno deforestato dall’altro lato del mondo – spiega l’associazione – Un bicchiere di latte o una braciola potrebbero raccontare quanto gas serra o quanto inquinamento atmosferico sono legati alla loro produzione. Non tutti sanno che, ad esempio, gli allevamenti intensivi sono la seconda causa di formazione di polveri sottili in Italia, più del trasporto leggero e dell’industria, e che il settore zootecnico contribuisce alla produzione di gas climalteranti quanto l’intero settore dei trasporti».  

Buone pratiche possono certamente essere aumentare verdure e proteine vegetali, ridurre i prodotti di origine animale (ma quei pochi, buoni e genuini), contenere al minimo gli imballaggi e la “strada” percorsa dal nostro cibo, scegliere sempre stagionale e locale, e preferire sempre il biologico.

«Un impegno quotidiano per combattere i cambiamenti climatici, ma anche per mandare un messaggio all’intero sistema agroalimentare, nel quale pochi grandi attori fanno profitti sempre più grandi, mentre le piccole aziende spariscono».

«Come consumatori possiamo fare molto per invertire questa tendenza attraverso le nostre scelte quotidiane” dichiara Federica Ferrario, responsabile campagna agricoltura di Greenpeace Italia.  “Anche la politica deve fare la sua parte. Servono scelte chiare ed efficaci: utilizzare i fondi pubblici della Politica agricola comune (PAC) per il sostegno delle produzioni ecologiche e non per quelle intensive, approvare una normativa europea per fermare il commercio di materie prime prodotte distruggendo le foreste, e impegnarsi ad istituire una rete di santuari marini per proteggere almeno il 30 per cento dei nostri mari».

ECO-MENU’

Fonte: ilcambiamento.it

Paesi sostenibili a zero emissioni: sarà mai possibile?/2

L’obiettivo fattibile della decarbonizzazione di interi Paesi entro la metà del secolo è la tesi centrale del rapporto appena pubblicato dalla Rete per le soluzioni sullo sviluppo sostenibile. Prosegue qui l’articolo di cui ieri abbiamo pubblicato la prima parte.

Cosa si può e deve fare?

Le raccomandazioni che scaturiscono dal rapporto vengono qui di seguito sintetizzate, relativamente ai quattro settori indagati: elettrico, industriale, trasporti ed edifici.

SETTORE ELETTRICO

Il settore elettrico sta già subendo un processo di decarbonizzazione in diversi Paesi del mondo. La tradizionale organizzazione centralizzata sta affrontando un passaggio di paradigma verso la generazione distribuita e rinnovabile. Questo nuovo modello è strettamente legato all’attuazione di reti intelligenti, in cui gli utenti finali agiscono come prosumers (produttori e al contempo consumatori di energia), fornendo alla rete l’eccesso di energia prodotta dai propri impianti distribuiti. Le tecnologie digitali saranno al centro di questa rivoluzione, sviluppando il potenziale dei diversi modelli di business come gli aggregatori virtuali e il trading energetico. Le tecnologie di oggi a supporto di questa transizione possono essere classificate in quattro gruppi principali:

(1) le fonti di energia a basse emissioni di carbonio (eolico on e offshore, solare fotovoltaico e a concentrazione, energia idroelettrica, biomassa, nucleare e geotermica);

(2) le soluzioni di accumulo di elettricità a breve e lungo termine;

(3) altre opzioni flessibili come le interconnessioni di rete, le sinergie di settore, le risposte all’offerta (bacini idro, bioenergia) e la gestione della domanda;

(4) la cattura, utilizzo e stoccaggio del carbonio con le varianti di carbonio da bio-energia e sua cattura diretta dall’aria (ma valgono qui più o meno gli stessi ragionamenti fatti per l’energia nucleare).

Per il nucleare menzionato nel primo gruppo è necessario ricordare che non vi sono esempi positivi da cui prendere spunto. La sacrosanta inaccettabilità sociale e gli alti costi ne limitano, e continueranno a farlo in futuro, per fortuna, la diffusione. La gestione delle scorie radioattive è un problema enorme che ci ricordiamo soltanto in occasione di incidenti o di trasferimenti da un sito all’altro. Immaginiamo se al posto degli attuali circa 500 reattori nucleari (tra quelli attivi e in costruzione) ne avessimo centinaia di migliaia in tutto il mondo: scorie ma anche “disponibilità” di uranio saranno la scintilla per nuove guerre, esattamente come quelle che stiamo vivendo oggi per le fonti fossili. Anche i “potenziali” miglioramenti ipotizzati nella generazione nucleare (sia della fissione di quarta generazione o della fusione) sono delle pie illusioni. Perché continuare quindi a pensare di investire miliardi di soldi pubblici quando, a non voler ostinatamente prendere in considerazione gli alti impatti ambientali e sociali dell’attuazione di questa tecnologia, anche la convenienza economica non c’é. Queste tecnologie si troverebbero poi a competere contro il calo dei costi delle opzioni rinnovabili che si basano, principalmente, sulle soluzioni fotovoltaiche ed eoliche unite ai sistemi di stoccaggio. E quindi, torniamo al punto principale: conviene imbarcarci su tale strada o non sarebbe meglio indirizzare fin da subito tutte le risorse (poche) disponibili verso quei settori che già adesso risultano competitivi, quali l’eolico e il solare? La risposta apparirebbe scontata.

Analogamente, tra le tecnologie al momento non ancora competitive, come lo stoccaggio di elettricità e la cattura del carbonio, si dovrebbe puntare esclusivamente su quelle che ci potranno sostenere dall’affrancamento dalla rete elettrica nazionale. Lo sviluppo delle comunità energetiche passa proprio dalla possibilità che avremo di immagazzinare e scambiare localmente l’energia prodotta da impianti rinnovabili in loco. Per quanto riguarda la cattura del carbonio, lascerei fare a chi è più esperto di noi: la natura, da sempre gli ecosistemi agro-forestali svolgono questa funzione e non c’è ragione di intromettersi. Ritengo poi un controsenso pensare di investire risorse su tecnologie che “catturino” la CO2 dall’aria invece che risolvere il problema all’origine e cioè fare in modo che tutti i processi diventino ad emissioni zero.

In definitiva, con le criticità sopra evidenziate, si concorda che l’obiettivo di decarbonizzazione totale richiederà una combinazione di più tecnologie. A seconda delle condizioni locali, il mix di opzioni disponibili varierà da paese a paese e quindi non ci sarà una soluzione unica per tutti. Tra le fonti fossili, giusto il gas può svolgere un ruolo cruciale durante il periodo di transizione verso una totale decarbonizzazione. Quanto questo periodo di transizione debba durare, e quindi il ruolo che deve assumere tale fonte fossile è una scelta che i decisori politici devono prendere, magari mostrando coraggio ad anticiparne i tempi di riduzione, puntando fortemente sullo sviluppo industriale basato sulle fonti rinnovabili.

SETTORE INDUSTRIALE

L’industria pesante emette gran parte delle emissioni globali di gas serra e a livello mondiale ha consumato più della metà (55%) di tutta l’energia erogata nel 2018. Nel settore industriale, l’industria chimica è uno dei maggiori utenti (12% del consumo globale di energia industriale). I tre settori ad alta intensità energetica considerati nel rapporto sono: il cemento, il ferro e l’acciaio e i prodotti petrolchimici (materie plastiche, solventi, prodotti chimici industriali) che contribuiscono ciascuno ad emissioni di diverso tipo (diretto, termico; diretto, chimico e indiretto). Le emissioni da questi settori industriali richiedono soluzioni che vanno al di là dell’elettrificazione degli input energetici. Per ridurre tali emissioni, si dovranno sostituire gli input energetici basati sui combustibili fossili con elettricità a basse o zero emissioni, unitamente ad una migliore integrazione con l’energia termica e l’efficienza energetica. La decarbonizzazione completa di interi settori industriali richiede un approccio multidimensionale e sono tre le aree d’azione identificate:

· ridurre la domanda di prodotti e servizi ad alta intensità di carbonio;

· migliorare l’efficienza energetica negli attuali processi produttivi;

· attuare tecnologie di decarbonizzazione in tutti i settori, che a loro volta possono essere suddivise nei quattro percorsi di decarbonizzazione dal lato dell’offerta (elettrificazione; utilizzo della biomassa; utilizzo dell’idrogeno e combustibili sintetici; utilizzo della tecnologia della cattura del carbonio).

Come già messo in evidenza, chi scrive sostiene pienamente i primi due punti e solo in parte il terzo. Nei settori più energivori, lo stesso rapporto indica alcune opzioni già praticabili. Per il cemento: ottimizzazione del progetto edilizio, riutilizzo del calcestruzzo, sostituzione dei materiali; per il ferro e l’acciaio: ottimizzazione del riciclaggio dei rottami, progettazione del prodotto, uso più intenso dei prodotti; per il petrolchimico: riciclaggio chimico e meccanico, cambiamento del comportamento sulla domanda/utilizzo di plastica, utilizzo di materie prime rinnovabili, progettazione ecocompatibile dei prodotti per consentire un migliore riciclaggio. Per questi settori, i miglioramenti dell’efficienza energetica dovrebbero andare di pari passo con l’efficienza dei materiali stessi e la riduzione della domanda. Azioni queste che dovrebbero essere sostenute attraverso adeguati incentivi.

SETTORE TRASPORTI

Il settore dei trasporti è la spina dorsale di qualsiasi sistema produttivo. Consentire la mobilità di persone e merci significa collegare persone e nazioni favorendo scambi economici e culturali con conseguente sviluppo sociale. La complessità del settore richiede l’attuazione di un mix diversificato di soluzioni di decarbonizzazione all’interno di ciascuno dei suoi quattro segmenti principali: strade, ferrovie, aviazione e navigazione. I percorsi di decarbonizzazione efficaci nei trasporti dovrebbero basarsi principalmente su alcune soluzioni tecnologiche e, soprattutto, su strategie di riduzione della domanda e di trasferimento modale. Inoltre, diversi vettori energetici avranno un ruolo strategico nella decarbonizzazione del settore: l’utilizzo diretto dell’elettricità (tramite batterie o ferrovie elettrificate e sistemi stradali elettrici), più che, come già messo in evidenza, dell’idrogeno e dei carburanti sintetici o della biomassa (concorrenza con la produzione alimentare; deforestazione o perdita di biodiversità, e anche concorrenza con le industrie che attualmente usano la biomassa per prodotti o utilizzi di maggior valore).

SETTORE EDIFICI

Gli edifici rappresentano circa il 36% del consumo finale globale di energia e il 39% delle emissioni globali di gas serra. L’obiettivo della decarbonizzazione totale nel settore degli edifici include la costruzione di nuovi edifici e distretti con zero o quasi zero consumo di energia da combustibili fossili e il rinnovamento totale di edifici esistenti con gli stessi standard di zero emissioni nette di carbonio. Gli attuali tassi di rinnovamento degli edifici si attestano sull’1% annuo circa del patrimonio edilizio esistente, ma per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni di carbonio entro il 2050 sarà necessario innalzare tale tasso di rinnovo portandolo al di sopra del 3%. Importante ricordare che le emissioni di CO2 risultanti dall’uso di materiali negli edifici rappresentano quasi un terzo delle emissioni connesse all’edilizia: l’industria delle costruzioni deve cambiare radicalmente la propria struttura produttiva per ridurre la propria intensità energetica.

In generale, utilizzando una combinazione di tecnologie e processi già disponibili, edifici e distretti a zero emissioni nette di carbonio possono essere realizzati già oggi (e in effetti ci sono già degli esempi in tutto il mondo), secondo la seguente strategia suggerita dal rapporto:

· massimizzare innanzitutto l’efficienza energetica degli edifici, principalmente attraverso soluzioni passive e a basse emissioni di carbonio;

· adottare sistemi ad alta efficienza e strategie avanzate di controllo e gestione che eliminino le soluzioni inefficienti ed incoraggino sistemi a basse emissioni di carbonio quali le pompe di calore e il teleriscaldamento;

· massimizzare la produzione e l’autoconsumo di energia rinnovabile in loco o nelle vicinanze elettrificando al contempo il settore degli edifici per coprire completamente, o anche superare, la domanda totale di energia di ciascun edificio con il minimo scambio di energia con la rete, stimolando così la gestione, lo stoccaggio e lo scambio di energia a livello distrettuale e promuovendo il concetto di comunità energetica.

Le aree in cui intervenire in questo settore includono, tra le altre, le politiche e i sussidi per favorire, in via prioritaria, il retrofit di edifici esistenti; la realizzazione, con il coinvolgimento attivo del settore industriale, di involucri edilizi ad alta efficienza a costi negativi per il ciclo di vita; una strategia che sposti la domanda verso soluzioni ad alta efficienza integrate con l’obiettivo zero emissioni nette; la promozione di tecnologie per il raffreddamento e riscaldamento distrettuale da rinnovabile; la rimozione degli ostacoli per consentire un pieno autoconsumo e, infine, la promozione di idonei strumenti per la formazione e l’informazione.

E in Italia …

Anche qui, stimolato dalla lettura del rapporto Roadmap to 2050: a Manual for Nations to Decarbonize by Mid-Century della Rete per le soluzioni sullo sviluppo sostenibile e della Fondazione Eni Enrico Mattei, mi pongo alcune domande. Cosa aspettiamo a mettere in pratica queste indicazioni nel nostro Paese? C’è l’ENI, una delle aziende più grandi con oltre 30.000 dipendenti e 77 miliardi di euro di fatturato nel 2018 (ottavo gruppo petrolifero mondiale) di cui lo Stato italiano possiede una quota azionaria superiore al 30%, detenendo quindi un controllo effettivo della società (normato anche attraverso la cosiddetta golden share), che potrebbe giocare un ruolo strategico nella transizione verso un’Italia a zero emissioni. Utopia? Non credo, si tratta di lungimiranza. Questa azienda, come tutte quelle che lavorano nel mondo delle fossili, devono porsi il problema, ben prima che l’ultima goccia di petrolio verrà estratta e non cercare di abbindolare i consumatori con pubblicità distorte al limite del ridicolo. Visto che uno dei due soggetti autori del rapporto è la Fondazione Eni Enrico Mattei, non credo sia difficile che le indicazioni che ne scaturiscono, magari con una rivisitazione su alcune criticità che abbiamo cercato di mettere in evidenza in questo articolo, arrivino a chi di dovere. Ovviamente, deve essere il Governo nazionale ad indicare la strada all’ENI (in attesa di un management lungimirante e con meno scandali sulle spalle), così come a tutte quelle aziende il cui utilizzo dell’energia è una componente essenziale del proprio sviluppo. Gli annunci ascoltati in questi giorni sulla “svolta verde” della prossima Legge di Bilancio ci lasciano ben sperare. Per decidere che le principali aziende energetiche italiane entro il 2050 diventino leader nel mondo sulle energie rinnovabili e non più sulle fonti fossili ci vuole coraggio, ci vuole un Governo coraggioso ma consapevole che si possa fare. Non in tre anni, in trenta. Se l’Italia vuole veramente diventare un paese a zero emissioni entro il 2050 deve iniziare subito con indicazioni precise verso il settore industriale. Indicazioni che si possono dare con politiche chiare e una “visione” lungimirante che possa accelerare il processo di transizione verso una società a zero emissioni. Questa visione al momento ancora non c’è e come già detto più volte: quanto indicato all’interno del redigendo Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) non è compatibile con l’obiettivo della decarbonizzazione del nostro Paese al 2050.

Fonte: .ilcambiamento.it

Deindustrializzare e rallentare: che sia questa la strada?

Un terzo delle emissioni di gas serra è “incomprimibile”, dice uno studio pubblicato sulla rivista Science. Quindi, ci vogliono dire che ce lo dobbiamo tenere? Nemmeno per sogno, messaggio inaccettabile. Sia una spinta in più per cambiare paradigma.9864-10651

La conclusione alla quale sono giunti gli esperti nell’articolo pubblicato dalla rivista Science suona un po’ come un’ovvietà per chi è ormai convinto che non si andrà da nessuna parte se ci si ostina a non voler mettere in discussione un’economia basata sulla produzione industriale, sul “libero inquinamento” e sulla tendenza a favorire i grandi gruppi e la grande industria. Come scrive l’Agenzia Ansa, secondo quanto riportato sullo studio di Science, «per diversi settori produttivi, che insieme producono il 27% delle emissioni di gas serra, non ci sono soluzioni praticabili per diminuire l’impatto ambientale». L’articolo è firmato da oltre 30 esperti pubblicato da Science, che cita tra gli altri i trasporti aerei e la produzione di acciaio e cemento. Il 6% delle emissioni globali, ricorda l’articolo, è dovuto al trasporto aereo e a quello terrestre a lungo raggio, il 9% alla produzione di cemento e acciaio e il 12% alle centrali elettriche ‘accoppiate’ a quelle ad energia rinnovabile che aumentano o diminuiscono la propria attività per compensare cali di vento o nelle ore notturne. Per tutti questi settori, notano gli esperti, le soluzioni per ridurre le emissioni proposte finora, come i biocarburanti per gli aerei o i dispositivi di stoccaggio della CO2, sono troppo costosi per diventare competitivi.

“Se vogliamo essere ambiziosi nel rispettare gli obiettivi sul clima – spiega Steven Davis dell’Università della California, uno degli autori – dobbiamo occuparci di questi settori subito. Abbiamo bisogno di molta più innovazione, ricerca e di un maggiore coordinamento per rendere queste fonti più pulite”.

Ma può essere questa la strada? Mantenere il tasso di industrializzazione e frenesia attuale riconvertendo questo mondo energivoro che oggi “inghiotte” fonti fossili in un mondo altrettanto energivoro che consuma altrettanta energia ma da fonti rinnovabili a costi altissimi. Può mai essere sostenibile o plausibile un tale paradigma?

Non è forse invece utile, forse addirittura indispensabile, oggi pensare a un radicale cambio di paradigma, a una deindustrializzazione e a un rallentamento dei ritmi frenetici della società e quindi a un ridimensionamento drastico dei consumi di energia e materie prime, quali che siano le fonti? In un mondo ipoteticamente a basso consumo e meno ossessionatamente industrializzato, rimarrebbe forse ben poco di “emissioni incomprimibili”. La resistenza al cambiamento può essere dettata dalla classica obiezione: ma così si perdono i posti di lavoro, come ci si guadagnerà lo stipendio? All’industrializzazione selvaggia si può sostituire un modello comunque che valorizzi il lavoro dei singoli, ma inserito in un “ecosistema sociale” più sostenibile e meno inquinante.

 

Fonte: ilcambiamento.it

Spreco di cibo, Fondazione Barilla: ‘in Italia buttiamo 145kg di cibo pro-capite anno, come 1.500 piatti di pasta o 1.000 mele’

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A livello globale, il cibo sprecato ogni anno vale 750 miliardi euro, quasi due volte il PIL italiano. Secondo il Food Sustainability Index, Francia, Germania e Spagna sono i Paesi in cui si spreca meno cibo.

750 miliardi di euro l’anno, ovvero la metà del PIL italiano nel 2017. A tanto ammonta il valore economico del cibo buttato e sprecato ogni anno nel mondo. Parliamo di circa 1,3 miliardi di tonnellate di alimenti che vengono gettate prima di arrivare sulla nostra tavola. Eppure, basterebbe un quarto di quello stesso cibo per sfamare gli oltre 815 milioni di persone che soffrono la fame. Ma lo spreco di cibo non è solo un problema sociale: non tutti sanno che il gas metano prodotto dal cibo che finisce in discarica è 21 volte più dannoso della CO2. Tuttavia, riducendo lo spreco di cibo nei soli Stati Uniti del 20% in 10 anni si otterrebbe una riduzione delle emissioni di gas serra annuali di 18 milioni di tonnellate. Nella battaglia globale contro lo spreco alimentare, Francia, Germania e Spagna sono i Paesi che, con le loro politiche responsabili, rappresentano delle best practice. Indonesia, Libano ed Emirati Arabi sono quelli che, invece, devono compiere i passi più importanti. Questa la fotografia scattata, in occasione della Giornata Nazionale di Prevenzione allo Spreco Alimentare, che ricorre il prossimo 5 febbraio, dal Food Sustainability Index, indice creato da Fondazione Barilla e The Economist Intelligence Unit, che analizza 34 Paesi in base alla sostenibilità del loro sistema alimentare.

Fsi, Italia quarta nella lotta allo spreco. ogni anno gettiamo 145kg di cibo pro-capite

Secondo il Food Sustainability Index, l’Italia – col suo 4° posto – sta ottenendo importanti riscontri nella lotta allo spreco alimentare. Il merito è delle politiche messe in campo per ridurre gli sprechi a livello industriale, come avvenuto con la Legge Gadda che, semplificando le procedure per le donazioni degli alimenti invenduti e puntando al recupero di cibo da donare alle persone più povere del nostro Paese, ha fatto da volano per il miglioramento generale del nostro Paese. I dati dell’Index evidenziano che in Italia è stata la filiera alimentare a compiere i maggiori passi in avanti in questa battaglia: confrontando l’indice del 2016 con quello del 2017, infatti, alla voce “Cibo sprecato (% della produzione alimentare totale del Paese)” – riferito alla filiera alimentare e non al consumo domestico – si è passati dal 3,58% del cibo gettato rispetto a quello prodotto, al 2,3% del 2017. Performance che ha permesso di superare Paesi come Germania e Giappone sul fronte dello spreco. Eppure, molto c’è ancora da fare nella lotta allo “spreco domestico”: sono circa 145 i kg di cibo pro capite che gli italiani gettano ogni anno nella spazzatura. Una vera e propria enormità, un po’ come dire 1.000 mele piccole (da 150g ognuna) o 1.500 piatti di pasta (da 1hg circa) o poco meno di 750 confezioni di legumi in barattolo (considerando quelli da 200g), molto più di quanto potrebbe consumare in media in 1 anno una famiglia di 3 persone. “Il Food Sustainability Index si conferma strumento utile per stimolare il dibattito e aiutare studiosi e decisori politici a capire dove intervenire per risolvere i paradossi del sistema alimentare”, ha dichiarato Luca Virginio, Vice Presidente di BCFN. “Pensando all’Italia, se gli interventi messi in atto hanno permesso a industria e grande distribuzione di compiere passi importanti per migliorare la situazione dello spreco alimentare, a noi cittadini resta ancora un ruolo cruciale. Se pensiamo che oggi in Europa circa il 42% di quello che compriamo finisce nella spazzatura perché andato a male o scaduto prima di essere consumato, è facile capire che serva un cambiamento culturale. La Fondazione BCFN mette in campo molteplici iniziative che vanno in questa direzione, non ultima una dedicata ai più piccoli: con Gunter Pauli, padre della blue economy, abbiamo creato un libro didattico di fiabe4 che possa far capire come per fare del bene al Pianeta sia necessario partire dalle nostre scelte quotidiane”, ha concluso Virginio.

I consigli di Bcfn per una spesa a “zero spreco”

Secondo la FAO, nel mondo, il 45% di frutta e verdura viene sprecato. Lo spreco avviene sia a livello industriale, a causa di fattori climatici e ambientali non favorevoli e di surplus produttivi; sia a livello domestico, perché – spesso – compriamo troppo o non conserviamo bene i cibi. In Italia la frutta e gli ortaggi gettati via nei punti vendita comportano lo spreco di più di 73 milioni di metri cubi d’acqua (quella usata per produrli), ovvero 36,5 miliardi di bottiglie da 2 litri. Ecco quindi che per ridurre gli sprechi domestici, la Fondazione BCFN lancia una serie di suggerimenti utili:

  1. Fai una spesa ragionata: prima di comprare, controlla cosa serve davvero, fai una lista – e attieniti ad essa – e ricorda che sprecare cibo vuol dire buttare via dei soldi
  2. Quando cucini, fai attenzione alle quantità e cucina solo ciò che puoi consumare
  3. Fai attenzione all’etichetta: guarda sempre quando scadono i cibi
  4. Quando riponi i prodotti in frigorifero, metti i cibi a breve scadenza davanti e riponi in freezer i cibi che non puoi mangiare a breve
  5. Ricette contro lo spreco: non buttare via avanzi e scarti alimentari, possono dare vita a nuovi piatti creativi
  6. Prodotti freschi e di stagione: privilegia l’acquisto dal produttore
  7. Hai comprato troppo cibo? Condividilo con i tuoi vicini di casa o invita degli amici per mangiare insieme
  8. Al ristorante: se ti avanza del cibo chiedi di portare a casa gli avanzi in un pacchetto
  9. “Da consumare preferibilmente entro il…” vuol dire che gli alimenti risultano ancora idonei al consumo anche successivamente al giorno indicato. Verifica bene prima di buttarli
  10. Fidati del tuo naso: prima di buttare un alimento annusa, guarda e, se l’aspetto è buono, assaggia

Bcfn yes!: il concorso che premia i giovani ricercatori

Il 5 febbraio è anche la data scelta da Fondazione BCFN per lanciare “BCFN YES!” (Young Earth Solutions) la competizione internazionale per ricercatori under 35, lanciata con l’obiettivo di premiare i migliori progetti su “cibo e sostenibilità”. Giovani dottorandi e ricercatori post-doc potranno presentare i loro progetti di ricerca che trovano soluzioni per rendere maggiormente sostenibile uno o più temi del sistema agro-alimentare, in termini di aspetti ambientali, sociali, sanitari e/o economici. In palio fino a tre borse di ricerca del valore di 20.000 euro per i migliori progetti. BCFN vuole sostenere studi che sono innovativi, hanno una promessa di grande impatto, e sono in grado di soddisfare le esigenze di ricerca globali. Le aree di particolare interesse sono: sistemi alimentari sostenibili e salutari, agricoltura sostenibile e sicurezza alimentare. Può partecipare chi ha concluso o ha un dottorato in corso, con una età massima di 35 anni al 28 novembre 2018. Le proposte devono essere presentate online attraverso il sito web BCFN entro il 14 giugno 2018 alle 11:59 CEST.

Food Sustainability Media Award: un premio per raccontare i paradossi del cibo

Ma la sfida ai paradossi del sistema alimentare (fame vs obesitàcibo vs carburantespreco vs fame) si gioca su più livelli. Al FSI si affianca il Food Sustainability Media Award, iniziativa di BCFN e Fondazione Thomson Reuters che premia chi propone soluzioni concrete per rendere più sostenibili le nostre scelte in fatto di cibo. Il premio, rivolto a giornalisti, blogger, freelance e talenti emergenti, si divide in due categorie: giornalismo scritto e multimedia (video – corti e animazioni – audio e foto). Per ogni categoria, verranno premiati un lavoro inedito e uno già pubblicato che vinceranno rispettivamente 10.000 euro un corso di media training sulla sostenibilità alimentare organizzato dalla Fondazione Thomson Reuters. I lavori inediti vincitori verranno anche pubblicati sui siti della TRF e di BCFN, oltre a essere distribuiti attraverso l’agenzia di stampa Reuters che conta circa 1 miliardo di lettori. Tutti i lavori finalisti saranno candidati al “Best of the web” e scelti direttamente dal pubblico. Si possono presentare i lavori dal 15 gennaio al 31 maggio 2018 iscrivendosi al contest sul sito del Food Sustainability Media Award.

Foto via The Gleaners

Fonte: Barilla Center for Food & Nutrition

 

Gas serra, il Parlamento Ue approva per ogni stato membro gli impegni di riduzione emissioni fino al 2030

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Il testo, approvato con 534 sì, 88 no e 56 astensioni, impegna l’Italia a ridurre del 33% per il 2030, rispetto ai valori del 2005, le sue emissioni nei settori non coperti dal sistema ETS, ossia agricoltura, trasporti, edilizia e rifiuti

Il Parlamento Ue ha approvato oggi il rapporto che fissa in maniera obbligatoria gli obiettivi di riduzione di gas effetto serra per ogni Stato Membro da qui al 2030. Il testo declina per Paese e per i settori economici non inclusi nel sistema di quote di CO2 gli impegni presi dalla Ue con la firma dell’accordo di Parigi. Prima del voto si è tenuto nella plenaria e con la presenza di Hila Heine, presidente delle Isole Marshall, un dibattito sulla decisione del presidente Usa Donald Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’intesa sul clima. Il testo, approvato con 534 sì, 88 no e 56 astensioni, impegna l’Italia a ridurre del 33% per il 2030, rispetto ai valori del 2005, le sue emissioni nei settori non coperti dal sistema ETS, ossia agricoltura, trasporti, edilizia e rifiuti. Questi settori coprono circa il 60% delle emissioni totali della Ue. La Ue è complessivamente chiamata a tagliare le sue emissioni del 40% rispetto ai livelli del 1990. Secondo il testo approvato a Strasburgo, ogni Stato membro dovrà seguire un percorso di riduzione delle emissioni calcolato a partire dal 2018, anziché dal 2020, come proposto dalla Commissione Ue. L’obiettivo della modifica è quello di evitare un aumento delle emissioni nei primi anni o un rinvio delle riduzioni. Inoltre, per garantire un impegno a lungo termine, gli eurodeputati hanno fissato per il 2050 un obiettivo di taglio dell’80%, rispetto ai livelli del 2005. Per aiutare i 28 a raggiungere i loro obiettivi, il regolamento consente loro di “prendere in prestito” fino al 10% dell’indennità dell’anno successivo, riducendo così quella dell’anno in corso. Gli Stati che hanno un Pil inferiore alla media Ue e che attueranno le misure necessarie prima del 2020 potranno inoltre godere di una maggiore flessibilità nell’implementazione della parte successiva del programma di riduzione. Non appena il Consiglio Ue avrà espresso la propria posizione (è prevista una discussione tra i ministri dell’ambiente il 19 giugno a Lussemburgo), inizieranno i negoziati informali con il Parlamento per la definizione della posizione finale Ue.

Fonte: ecodallecitta.it