Batterie elettriche: in UK nascerà il più grande storage al mondo

Drax Group ha chiesto le autorizzazioni per convertire da carbone a gas parte della sua Drax Power Station nel North Yorkshire. E vuole aggiungere una batteria da 200 MWh.http _media.ecoblog.it_8_8f7_batterie-elettriche-in-uk-nascera-il-piu-grande-storage-al-mondo

Con un comunicato stampa rilasciato sul proprio sito istituzionale il produttore di energia elettrica inglese Dax ha annunciato l’intenzione di convertire due gruppi produttivi a carbone della sua Dax Power Station del North Yorkshire in gruppi a gas. E, contemporaneamente, di voler aggiungere alla centrale un sistema di batterie per lo storage dell’energia elettrica per una capacità totale fino a 200 MWh. Il tutto è soggetto all’ottenimento delle autorizzazioni da parte del Planning Inspectorate inglese, competente in materia. Il piano, lanciato a giugno, prevede la possibilità di abbinare le batterie ai due nuovi gruppi produttivi a gas naturale, che avranno una potenza complessiva di 3,66 GW. Si tratta, quindi, di un progetto molto grande e impegnativo, sia dal punto di vista tecnico che ingegneristico. Questo progetto di riconversione da carbone a gas per la Dax Power Station fa seguito a quello, già annunciato, di convertire una quarta unità della centrale a biomassa. I primi tre gruppi sono già stati convertiti con successo e, oggi, la Dax Power Station produce sufficiente elettricità per alimentare i consumi delle città di Leeds, Manchester, Sheffield e Liverpool. Il 16% del totale dell’energia rinnovabile prodotta in UK deriva dall’impianto Dax.

Andy Koss, CEO di Drax Power, precisa: “Siamo all’inizio del processo di pianificazione, ma se queste opzioni per il gas con storage verranno sviluppate, mostreranno che Dax può aggiornare l’infrastruttura esistente per offrire capacità produttiva, stabilità e servizi essenziali, come già facciamo con la biomassa“.

Con i suoi 200 MWh di capacità la futura batteria della Dax Power Station dovrebbe superare di gran lunga quella da 129 MWh, targata Tesla, attualmente in costruzione nel South Australia. Di fatto sarebbe la batteria più grande al mondo mai connessa ad un impianto di produzione di energia elettrica.

Fonte: ecoblog.it

Barack Obama chiede che l’Alaska sia protetto come riserva naturale

Obama promette che l’Alaska diventerà riserva naturale.

La questione è poco ambientalista e molto economica: rendere l’Alaska riserva naturale impedirà ai russi di prendere il prezioso petrolio. L’Alaska è una terra ricca di risorse naturali contese da Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna e Russia. D’altronde il presidente Obama è impegnalo a lasciare dietro di sé il miglior ricordo possibile e rivendicando la scelta di intervenire con rigore nella lotta ai cambiamenti climatici (salvo poi investire nel fracking) Ogni anno, con l’arrivo della primavera e e lo sciogliersi della neve, decine di migliaia di caribù iniziano la loro grande migrazione – viaggiano per circa 1.500 chilometri attraverso l’Artico fino all’Alaska National Wildlife Refuge dove le femmine partoriranno. Questa regione è conosciuta dalle comunità native dell’Alaska come: “Il luogo Sacro dove la vita comincia”. Al Rifugio, che copre un’area di 12 milioni di acri, giungono le più diverse varietà di fauna selvatica da tutta la regione artica, come orsi polari, lupi grigi, buoi muschiati e tutte le specie uccelli che migrano alla pianura costiera dai 50 stati del Paese.alaska-refuge-611x350

La maggior parte del Rifugio non è protetto. Per più di tre decenni è stato chiesto a gran voce di stabilire una protezione che allontani le trivellazioni per il petrolio dalla pianura costiera che rientra nella Riserva. Oggi, il Dipartimento degli Interni ha pubblicato la revisione finale del Comprehensive Conservation Plan progetto per sostenere e gestire meglio l’intero Arctic National Wildlife Refuge e il presidente Obama ha intrapreso un ulteriore passo avanti annunciando che intende chiedere al Congresso di chiedere che la pianura costiera e altri settori chiave del rifugio siano lasciati allo stato naturale. Gli Stati Uniti oggi sono il primo produttore di petrolio e gas naturale al mondo e importano meno greggio rispetto a 30 anni fa. L’amministrazione Obama ritiene che le risorse di petrolio e gas naturale possono essere sviluppate in modo sicuro, anche se purtroppo, incidenti e sversamenti possono ancora accadere e gli impatti ambientali a volte possono perdurare per anni. Il Coastal Plain of the Arctic Refuge è a oggi uno dei pochi posti rimasti incontaminati nel Paese, così come lo era quando le più antiche comunità dei nativi dell’Alaska lo hanno abitato. Scrivono sul sito della Casa Bianca:

E’ una zona troppo preziosa per essere messa a rischio e riconoscere l’area come selvatica significa preservare questo posto selvaggio, libero e bello e far si che sia custodito non solo per i nativi ma per tutti gli americani.

E’ curioso immaginarsi il Congresso essere ispirato come gli attivisti di Greenpeace.

Fonte: White House
Foto | Alaska Federal Subsistence Management Program@facebook

Accordi TTIP, in un documento segreto tra Usa e UE l’apertura a fracking e shale gas in Europa

L’HP ha pubblicato ieri un documento segreto che rientra nel Patto TTIP in cui USA e UE si accordano per liberalizzare lo shale gas e il fracking

Gli accordi TTIP che piacciono tanto all’Italia portano anche shale gas e fracking. Questo è infatti il contenuto del documento riservato e pubblicato ieri da HP dove si evince la pressione a cui è sottoposta l’Unione Europea da parte dell’amministrazione Obama affinché possano essere effettuate nuove trivellazioni alla ricerca di petrolio e gas naturale così. Il documento è in sostanza una prima bozza che prospetta la politica energetica che i negoziatori europei sperano di vedere adottata nell’ambito del TTIP- Transatlantic Trade and Investment Partnership in fase di negoziazione a Arligton in Virginia. Il testo è stato condiviso con funzionari americani nel mese di settembre e l’Ufficio del US Trade Representative ha rifiutato di commentare il documento. Gli Usa vogliono esportare il loro shale gas in Europa e anche petrolio. D’altronde Assoeletterica puntuale lo scorzo mese di marzo dopo il vertice sull’Energia presidente Obama così commentava:

In sostanza, il meta-messaggio di Obama agli europei è togliete la moratoria sullo shale gas. Altro che mulini a vento e raggi del sole, la questione energetica europea si riassume a prendere una posizione netta sul fracking, l’estrazione di gas attraverso la frantumazione delle rocce. Perché come riassume più liricamente, Paolo Scaroni, amministratore dell’Eni, “o siamo disposti come gli americani ad abbracciare lo shale gas, oppure saremo costretti ad abbracciare Putin”. Secondo le stime dell’ente statunitense Energy Information Administration, l’Europa avrebbe riserve per 450 trilioni di piedi cubi pari a circa 80% delle risorse disponibili nel sottosuolo americano. L’Europa però è spaccata e alla guidare di ciascun schieramento ci sono proprio i due paesi che concentrano il massimo delle risorse stimate. La Francia con 137 trilioni di piedi cubi ne ha vietato l’estrazione e la Polonia con 148 trilioni di piedi cubi che conta oltre 50 pozzi. Chi ha colto al balzo l’ammonimento di Obama per rilanciare sulla necessità di guadagnare l’indipendenza energetica per poter manovrare liberamente le leve della politica estera è David Cameron, che incontra notevoli resistenze a casa sua contro lo sviluppo estrattivo di shale gas anche dopo aver tolto la moratoria sul fracking nel dicembre 2012.

La questione non è prosaicamente ambientalisti contro petrolieri, ma essere sicuri che l’estrazione di shale gas non produca più danni che benefici non solo al suo ma anche al clima e le conoscenze che abbiamo ci portano a valutare che l’impatto ambientale è troppo pesante sia per il Pianeta sia per noi che lo abitiamo. Francia e Polonia hanno una struttura del suolo certamente diversa da quella statunitense e in più non sono altrettanto estese. Nel vecchio continente dovremmo affrontare molti più problemi. Ma in sostanza il succo del TTIP è tutto concentrato sulle politiche energetiche anche se poi analizza questioni che riguardano il comparto agroalimentare (l’oro italiano) ad esempio se i caseifici americani possono chiamare alcuni dei loro prodotti “Feta” o “Parmigiano”. Commentano così i francesi di France attac:BELGIUM-EU-US-TRADE

Questo documento non menziona le questioni climatiche o sfide in merito alla scarsità di risorse. Incoraggiare l’espansione del commercio dei combustibili fossili non fa altro che aumentare lo sfruttamento e il consumo sostenibile di idrocarburi e rafforza la nostra dipendenza. Tutto a spese del clima e di una vera transizione energetica e solo per un obsoleto fondamentalismo del libero mercato.

Insomma, leggendo il documento, il punto di vista americano è questo: se si incoraggiano le esportazioni dagli Usa all’Europa di greggio e shale gas allora si stimola anche la trivellazione in casa europea il che però scoraggerebbe lo sviluppo dell’Energia rinnovabile. Gli Stati Uniti hanno vietato le esportazioni di petrolio greggio nel 1975 e sono in atto una serie di restrizioni all’esportazione di gas scisto sia per ragioni di sicurezza economica e nazionale. Ma il presidente può rilasciare licenze speciali per esentare alcune esportazioni di greggio e il ministro dell’Energia Ernest Moniz ha detto questo mese che è intenzionato a valutarne la possibilità. A innescare la spinta a allentare i vincoli sulle esportazioni di gas naturale dagli Stati Uniti verso l’Europa il conflitto tra Russia e Ucraina ma le proposte non sembrano essere in linea con e norme ambientali europee che limitano lo sviluppo nel settore dei combustibili fossili .

Fonte: HuffingtonPost

© Foto Getty Images

Il Canada rivendica il polo Nord nella corsa al petrolio artico

Le riserve di petrolio e gas naturale sono meno rilevanti di quello che si vorrebbe fare credere, ma il loro sfruttamento creerebbe comunque enormi rischi ambientaliOrso-polare-Canada

Cercando di giocare d’anticipo, qualche giorno fa il Canada ha rivendicato il possesso del polo Nord presso le Nazioni Unite, nell’intento di assicurarsi la più ampia fetta possibile delle riserve di petrolio e gas della zona artica. E’ improbabile che questa mossa dal vecchio sapore imperialista possa portare a qualche risultato, dal momento che l’area è rivendicata anche da Russia, Stati Uniti e Danimarca, che mantiene ancora la sovranità sostanziale sulla Groenlandia. La Russia sta attuando una politica imperialista ben più aggressiva, come dimostra la vicenda della repressione della protesta di Greenpeace. Molti sostengono che la zona artica possa contenere una quota considerevole delle riserve non ancora scoperte: 15% per il petrolio e 30% per il gas naturale. Dal momento che il concetto di “riserva non ancora scoperta” è piuttosto discutibile dal punto di vita scientifico, sarebbe opportuno confrontare le stime sui giacimenti artici con le riserve provate e tecnicamente estraibili. Secondo l’USGS, a nord del circolo polare potrebbero esserci 12 Gt di petrolio e 6 Gtep di gas naturale, che rappresentano rispettivamente il 5% delle riserve stimate di greggio (235 Gt) e il4% di quelle di gas (187 Gtep). I numeri sono quindi assai più bassi di quanto si vorrebbe fare credere. L’ errore compiuto anni fa da qualche giornalista si riproduce imperturbabile di sito in sito, ma è anche perfettamente funzionale a chi vorrebbe attrarre investimenti per una nuova bolla speculativa. L’estrazione del petrolio nella regione artica si scontra con enormi difficoltà tecniche, come dimostra la sospensione delle trivellazioni nel mare di Beaufort da parte di Shell in seguito agli incidenti accaduti alle sue piattaforme off shore. Come da tempo chiedono i Verdi europei, occorre un trattato internazionale che dichiari l’artico bene comune, sottraendolo alle mire di petrolieri e militari.

Fonte: ecoblog

Da ottobre bollette gas in forte calo -3%, luce -0,8%

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Dal 1° ottobre bollette del gas e dell’energia elettrica in significativa discesa per i consumatori serviti in tutela. L’Autorità per l’Energia ha infatti deciso di ridurre del 3% i prezzi di tutela del gas naturale e dello 0,8% quelli dell’energia elettrica nel prossimo trimestre ottobre-dicembre. Ancor più significativo il calo cumulato della bolletta del gas che da aprile (-4,2%), a luglio (-0,6%) e ora -3% porta ad una riduzione complessiva del 7,8%, pari ad un risparmio totale medio di circa 100 euro a famiglia-tipo nel periodo dei maggiori consumi invernali. Di fatto, quindi, per il gas, il calendario torna indietro di due anni, azzerando tutti gli aumenti della materia prima dal 2011 ad oggi. Nello specifico, con questo aggiornamento, l’ulteriore riduzione della spesa su base annua sarà di circa 37 euro per il gas e, per l’energia elettrica, di circa 4 euro. La netta diminuzione del prezzo del gas è l’effetto concreto della riforma avviata dall’Autorità nel 2011, in un contesto di profondi mutamenti a livello nazionale e internazionale, per trasferire ai consumatori i benefici derivanti dal progressivo azzeramento dello spread di prezzo tra il mercato all’ingrosso italiano e quello dei principali hub europei; azzeramento oggi ancora valido, ad eccezione dei costi di trasporto internazionali. Con la riforma sono state introdotte nuove regole per promuovere un mercato all’ingrosso del gas liquido e flessibile per rivedere il metodo di calcolo dei prezzi del gas dei clienti in tutela, attraverso una revisione complessiva, organica e strutturale, tale da garantire al consumatore finale un adeguato livello di tutela e prezzi aderenti ai costi e, quindi, il più efficienti possibili. La novità sostanziale del metodo di calcolo della bolletta dal 1° ottobre è l’utilizzo al 100% dei prezzi spot del gas che si formano sui mercati nel trimestre dell’aggiornamento (in questo caso ottobre-dicembre) e non più dei contratti di fornitura di lungo periodo indicizzati alle quotazioni dei prodotti petroliferi dei nove mesi precedenti: in questo modo, il consumatore finale paga il gas al valore effettivo del momento in cui lo consuma. Per il primo anno termico, il 2013-2014, saranno utilizzate le quotazioni a termine rilevate presso l’hub olandese TTF (Title Transfer Facility) e, in seguito, quelle che si formeranno nel nuovo mercato a termine recentemente avviato dal GME. Una svolta che può essere definita epocale, in quanto viene definitivamente archiviato un meccanismo obsoleto che non riflette più i costi di approvvigionamento dei venditori nel mercato e fa sì che i prezzi del gas vengano definitivamente svincolati da quelli del petrolio. Per tutelare le famiglie dal rischio di futuri rialzi delle quotazioni spot – per loro natura più soggette alla volatilità dei mercati – l’Autorità ha introdotto anche un meccanismo regolatorio che introduce uno ‘scudo’ pro-consumatori rispetto ai picchi di prezzo. Il meccanismo, inoltre, garantisce alle imprese di vendita la necessaria gradualità nell’attuazione della riforma e contribuisce a promuovere la rinegoziazione dei contratti pluriennali, ma anche a sviluppare la liquidità del mercato. Altre innovazioni nel metodo di aggiornamento della bolletta gas riguardano le voci a copertura di costi per servizi quali la commercializzazione all’ingrosso, al dettaglio e il trasporto mentre sono state cancellate alcune componenti (in particolare, quella a copertura del servizio di stoccaggio inclusa nel prezzo della materia prima). Per informare i consumatori sulle principali novità della riforma, l’Autorità ha previsto che in tutte le bollette dei clienti serviti in tutela sia inserito un apposito messaggio, con l’invito a rivolgersi anche al numero verde 800.166.654 per ogni ulteriore chiarimento. Per l’energia elettrica, la diminuzione della bolletta è stata possibile per effetto del calo dell’1,2% della componente relativa al dispacciamento, il servizio che serve soprattutto per garantire il costante equilibrio fra immissioni e prelievi nella rete e, quindi, la sicurezza del sistema. Questa diminuzione è l’effetto, in particolare, dell’applicazione dei recenti provvedimenti dell’Autorità (deliberazioni 239/2013/R/eel e 285/2013/R/eel) che hanno introdotto misure specifiche per il contenimento degli oneri di dispacciamento anche con interventi per bloccare i comportamenti speculativi dello scorso anno in alcune zone del Paese, in attesa della riforma strutturale del bilanciamento elettrico. Il complesso degli oneri generali risulta in leggero aumento (+0,36%) per la necessità di gettito a copertura della componente A3 che incentiva le fonti rinnovabili e assimilate e della componente A5 per il sostegno della ricerca. Nel dettaglio, dal 1° ottobre, il prezzo di riferimento dell’energia elettrica sarà di 19.049 centesimi di euro per kilowattora, in calo rispetto al trimestre precedente, di 0,147 centesimi di euro, tasse incluse.

Fonte: AEEG

Caro bolletta energetica: è colpa delle fonti fossili e dei costi non detti

Secondo uno studio presentato dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, gli italiani spendono per l’energia (elettricità, gas e carburanti) il 18% in più rispetto alla media europea. La colpa non è degli incentivi alle rinnovabili, ma dei sussidi alle fonti fossili e dei costi occulti per nucleare e carbone375603

La “bolletta energetica” pagata da famiglie e imprese in Italia è del 18% più alta rispetto alla media europea e allineare i prezzi dei prodotti energetici italiani (energia elettrica, gas e carburanti) a quelli medi europei permetterebbe di risparmiare 25 miliardi di euro ogni anno. A incidere così tanto sui costi, non solo le tasse elevate, ma anche una dipendenza dai combustibili fossili tra le più alte in Europa. Queste sono solo alcune delle valutazioni che emergono dal dossier presentato dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile nel corso del convegno “I costi dell’energia in Italia”, organizzato in preparazione degli Stati Generali della Green Economy 2013. Il documento trae ispirazione dall’analisi comparativa dei prezzi dei prodotti energetici, arrivando a stimare una bolletta di gas, elettricità e carburanti pagata dagli italiani nel 2012 di oltre 160 miliardi di euro. Si tratta di un valore in crescita, a causa dell’aumento dei prezzi petroliferi, del 10% rispetto all’anno precedente, nonostante la contrazione dei consumi. L’analisi, in particolare, evidenzia come le famiglie siano particolarmente penalizzate nei consumi di gas naturale, che pagano dal 24 al 35% in più della media europea (circa 300 euro/anno per famiglia). Le imprese, specie quelle medio-piccole, risentono invece degli alti costi dell’elettricità, dovendo fare i conti con un kWh dal 30% fino all’86% più della media europea. A questo si aggiunge che i prezzi di benzina e diesel, che rappresentano la voce principale di spesa della bolletta energetica, sono mediamente più alti del resto d’Europa e questo differenziale è aumentato in modo sensibile negli ultimi anni. “Quello energetico – ha detto Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile – è uno dei settori produttivi più importanti a livello nazionale, con un giro d’affari, in crescita, attorno al 20% del PIL e quasi mezzo milione di posti di lavoro creati. Renderlo più efficiente dal punto di vista economico riducendo i costi dell’energia per il Paese richiederà, ad esempio, di intervenire sul mix energetico riducendo la dipendenza dai fossili che, negli ultimi vent’anni, è già costata al Paese 45 miliardi di euro in più, tutti soldi dati all’estero, e che se non affrontata potrebbe portare a un ulteriore aumento della fattura nazionale dell’import nei prossimi vent’anni da 3 a 12 Mld€.”
Il peso dei fossili

L’alta dipendenza dell’Italia dai combustibili fossili, che soddisfano l’82% della domanda interna, uno dei valori più alti in Europa, ha rappresentato il primo driver dell’aumento dei prezzi energetici negli ultimi anni: tra il 2000 e il 2012 i prezzi del petrolio sono aumentati di oltre il 200% (triplicati), quelli del carbone del 160% e del gas sul mercato europeo di circa il 300%. A parità di consumi e al netto dell’inflazione la fattura pagata dall’Italia per l’import dei fossili è passata da metà degli anni ’90 a oggi da 20 a 65 Mld€. Gli scenari mondiali più accreditati prevedono che per i prossimi vent’anni i prezzi dei fossili, a meno che non si riduca drasticamente la domanda, rimarranno alti o addirittura continueranno a crescere, sancendo la fine dell’epoca dei combustibili fossili a basso costo. Il dossier rivela come negli scenari internazionali l’effetto dello shale gas americano si vada ridimensionando rispetto alle aspettative iniziali, con prezzi del mercato americano che riprenderanno a crescere, benché ancora molto più bassi di quelli europei; ma anche come secondo il Dipartimento dell’Energia statunitense la generazione elettrica da carbone e nucleare sia più costosa del gas o del vento.
I costi non detti

Ma i prezzi dei prodotti energetici non dicono tutto circa i costi che i cittadini e le imprese devono pagare per soddisfare il proprio fabbisogno energetico. La Fondazione propone per questo di passare da una analisi dei prezzi a una dei veri costi dell’energia, includendo ad esempio i sussidi che in Italia vengono pagati ai combustibili fossili, attraverso agevolazioni fiscali o quant’altro, e che, a differenze di quelli per le rinnovabili, non rientrano in bolletta e non contribuiscono a formare i prezzi dell’energia (ma vengono comunque pagati dai cittadini e dalle imprese ad esempio attraverso la fiscalità generale). Eppure questi sussidi non vengono monitorati dal Governo, nonostante siano ingenti: secondo l’OCSE sono 2,1 miliardi di euro l’anno su alcuni settore chiave, che salgono secondo il Fondo Monetario Internazionale a 5,3 Mld€/anno includendo altre voci tra cui alcune esternalità. E sono proprio le esternalità l’altra voce importante dei costi nascosti dell’energia. Anche in questo caso non esistono studi ufficiali sull’argomento, ma una ricerca condotta sulla Germania stima che l’inclusione dei costi esterni, a carico principalmente di nucleare e carbone, farebbe aumentare la bolletta energetica di 40 miliardi di euro, con un +40% per una famiglia tipo.
Il peso delle rinnovabili

Il dossier prende anche in esame l’incidenza degli incentivi alle rinnovabili sui prezzi e sui costi dell’energia in Italia analizzando i costi diretti, i costi e i benefici indiretti e le implicazioni sul piano strategico. Per quanto riguarda i costi diretti, gli incentivi alle rinnovabili del settore elettrico (che rappresentano la maggior parte degli incentivi) hanno raggiunto nel 2012 circa 10 milardi di euro, il 16-17% della bolletta elettrica nazionale. Ma questi hanno inciso sull’aumento del prezzo del kWh degli ultimi anni solo per il 33%, mentre per il 57% questo è stato causato dall’aumento dei prezzi dei fossili. Sul piano dei costi e dei benefici indiretti il saldo economico è senz’altro positivo. Tra i benefici da ascrivere alle rinnovabili c’è infatti la riduzione del prezzo medio orario dell’energia elettrica (a maggio si è quasi dimezzato tra il 2006 e il 2012) e la creazione di ricchezza e occupazione nazionale (su 1000 euro spesi sulle rinnovabili ne rimangono in Italia 500-900, mentre su 1000 euro investiti sulla produzione elettrica da gas ne restano sul territorio nazionale 200, il resto va alle economie straniere). Per non parlare poi del lato ambientale: 70Mt di CO2 risparmiate ogni anno e un minore inquinamento atmosferico.

“Il settore energetico è nel pieno di una trasformazione epocale, e se come Paese non saremo in grado di comprenderne a pieno tutte le implicazioni e operare le scelte più giuste, rischieremo alla fine di pagare un conto molto alto. – afferma Andrea Barbabella, responsabile Energia per la Fondazione – Quello dei costi dell’energia è un tema strategico che va affrontato seriamente, anche perché tali costi sono molto probabilmente destinati a crescere e a incidere sempre di più sulla nostra economia. Guardare solo ai prezzi dei prodotti energetici è fuorviante, e i risultati di una analisi esaustiva sui veri costi dell’energia potrebbe fornire una rappresentazione molto diversa da quella usuale, con una situazione per l’Italia molto migliore di quanto generalmente si pensi.”

 

Scarica il dossier della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile [3,30 MB]

I Costi dell’energia in Italia – Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile

 

Fonte: eco dalle città

 

Globalizzazione e carbone: a che servono le politiche ambientali?

 

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Il carbone è stato il motore dell’economia mondiale dalla rivoluzione industriale fino alla metà del secolo scorso. Tuttora il suo consumo in termini assoluti è in continuo aumento: si è passati da 3400 milioni di tonnellate nel 1988 a 6200 nel 2005. Tuttavia, il suo contributo alla produzione di energia mondiale è progressivamente calato per l’espandersi dell’uso del petrolio e del gas naturale: era il 50% nel 1962, si è ridotto al 23% nel 2000. Resta comunque il combustibile più utilizzato per la produzione dell’energia elettrica: 2\5 della produzione mondiale è affidata a impianti a carbone. La sua utilizzazione a questo scopo è in aumento: negli ultimi dieci anni, la produzione mondiale di energia elettrica è raddoppiata (soprattutto per effetto dello sviluppo industriale di Cina e India), e ben 2\3 dell’incremento è dovuto a centrali alimentate a carbone. Così il carbone, il combustibile più antico e quello che sembrava destinato a scomparire per primo, anche perché è il principale responsabile del cambiamento climatico tra i combustibili fossili (produce emissioni di gas serra circa doppie di quelle prodotte dal petrolio), sembra destinato a nuovi inaspettati trionfi, sia perché costa poco sia perché le riserve sono considerate pressoché inesauribili: il rapporto tra riserve accertate e produzione indica che ci sarà ancora carbone per i prossimi duecento anni. Non bisogna sorprendersi quindi se nei paesi in via di sviluppo i vantaggi del carbone in termini di disponibilità e economicità, superino gli svantaggi, in termini di inquinamento delle aree ove sono dislocate le miniere e danni globali per l’aumento del cambiamento climatico: così tra il 2001 e il 2011 il consumo di carbone è triplicato in Cina (l’energia così prodotta in Cina è maggiore di tutta l’energia prodotta dal petrolio estratto nel Medio-oriente!). Eppure, non è così. Il consumo di carbone è effettivamente in calo negli Stati Uniti, ma per ragioni che ben poco hanno a che vedere – come diremo fra breve – con un impegno ambientale per evitare l’aggravarsi del cambiamento climatico. Viceversa, il consumo è in consistente aumento nell’Unione europea, cioè nei paesi che da anni sono in prima fila per contenere il cambiamento del clima. Ciò che, se non altro offre un ulteriore dimostrazione del fatto che nel settore del clima ben poco avviene per effetto diretto di politiche ambientali: i maggiori vantaggi per contenere il cambiamento climatico sono infatti offerti per il verificarsi di crisi economiche (con contestuale riduzione della produzione industriale e del consumo di energia: è ciò che è accaduto nei paesi del blocco sovietico allorché esso si è dissolto) o per il vantaggio economico offerto dall’utilizzo di fonti di energia alternative (così, è stata la scoperta del petrolio nel Mare del Nord che ha provocato l’abbandono del carbone in Inghilterra negli anni Ottanta). E quest’ultimo è il caso anche degli Stati Uniti.
L’irruzione sul mercato del gas proveniente da fracking in quantità enormi ha fatto sì che attualmente questo combustibile costi addirittura meno del carbone. Siccome le riserve di gas da fracking attualmente note ne garantiscono la disponibilità per vari decenni (e molti giacimenti sono ancora da individuare), molti gestori di impianti per la produzione di energia elettrica hanno abbandonato il carbone: le previsioni sono che entro il 2017 in almeno il 15% delle esistenti centrali il carbone verrà sostituito dal gas. Per i nuovi impianti il gas è poi preferito non solo per ragioni puramente economiche, ma anche perché gli impianti richiedono tempi nettamente inferiori per essere messi in funzione, i permessi sono più rapidi da ottenere e minori le regole da rispettare; soprattutto, dovrebbero entrare in vigore nuove e più restrittive regole nel quadro della politica, già da tempo promessa dall’Amministrazione Obama, per contenere il cambiamento climatico. In base a queste regole, favorite dal via libera all’estrazione del gas da fracking, gli impianti a carbone dovranno adottare tecnologie (quali la c.d. carbon capture and storage, CCS) che renderanno l’energia prodotta assai più costosa di quella ottenuta con il gas, ma più compatibile con una politica di contenimento del cambiamento climatico.
Si sa, però, che viviamo in tempi di globalizzazione. E allora, dove va il surplus di carbone prodotto negli Stati Uniti? Semplice, va verso mercati dove il combustibile necessario deve essere importato e dove ancora il carbone costa meno di altre fonti di energia: verso la Cina e verso l’Europa. Così, le esportazioni di carbone statunitense verso questi due mercati sono in rapido aumento. In Europa l’acquisto di carbone dagli Stati Uniti è così aumentato di oltre il 30% nei soli primi sei mesi del 2012 e si parla addirittura di un ritorno all’età dell’oro per questo combustibile. Certo, l‘energia prodotta costa ben di più che quella prodotta dal gas di fracking negli Stati Uniti. Ma  è assai più a buon mercato  del gas che arriva in Europa dalla Russia o dall’Algeria (che costa il triplo del gas americano). Né ci sono concrete speranze che la situazione muti a breve termine, anche perché l’estrazione del gas da fracking è qui ancora sui blocchi di partenza sia da un punto di vista dell’arretratezza delle tecnologie disponibili sia – e soprattutto- per l’opposizione di molti gruppi ambientalisti (ma anche, ovviamente, di coloro che hanno interesse a mantenere alto il prezzo del gas). Così il paradossale risultato dell’opposizione alla ricerca e all’estrazione del gas da fracking produce il risultato di incrementare non l’uso di energie rinnovabile ma quello del peggior nemico del clima, il carbone.
Il risultato è che uno dei maggiori vanti dell’Unione europea, e cioè la politica ambientale, e specificatamente la politica di contenimento del cambiamento climatico che dovrebbe essere un  modello per il mondo, sta scomparendo sotto cumuli di carbone.
Non certo la politica ambientale, ma solo la recessione e la crisi economica hanno permesso infatti all’Europa nel 2009 di rispettare il proprio progetto di ridurre le emissioni di CO2 all’80% del livello del 1990 (che è la base di riferimento della Convenzione quadro per il contenimento del cambiamento climatico). Ma nel 2011 le emissioni hanno ricominciato a salire e indubbiamente l’incremento dell’uso del carbone renderà sempre più difficilmente raggiungibile il progetto.

Fonte: QuotidianoLegale