I Medici per l’Ambiente: “Basta allevamenti intensivi, senza biologico non c’è futuro”

È necessaria una rivoluzione del sistema di produzione alimentare che preveda l’abbandono dei modelli intensivi di allevamento e che ricorra al biologico non come tentativo di greenwashing ma come reale pratica per un’alimentazione sana e sostenibile. Sono queste le conclusioni a cui giunge un position paper pubblicato dall’ISDE – Associazione Medici per l’Ambiente. Gli allevamenti intensivi inquinano terra, acqua e aria e generano innumerevoli altri danni: deforestazione, promozione dello sviluppo di prodotti OGM in agricoltura, perdita di biodiversità, sviluppo di zoonosi, concorso all’antibiotico resistenza. Oggi una nuova consapevolezza globale pone alla coscienza del consumatore anche la “questione animale”, in merito al benessere di tutti esseri viventi e alla copertura dei fabbisogni alimentari nel mondo.

La nostra dieta deve cambiare per diventare più sana, per mettere fine alla fame nel mondo, per salvare il Pianeta e per dare dignità e benessere al mondo animale. In questo panorama, la scelta produttiva del biologico anche in zootecnia, è un grande progetto sostenuto e voluto dalla maggioranza dei cittadini europei, che vogliono un futuro sostenibile e più giusto.

ISDE – l’associazione dei medici per l’ambiente – ha voluto dare il suo contributo al dibattito sul Green Deal Europeo con una ricerca che, nel confrontare l’allevamento intensivo con quello biologico, interroga il mondo produttivo, quello dei consumatori e quello politico\istituzionale e chiede, documentandone l’urgenza, che il progetto europeo di trasformazione del modello di sviluppo agricolo sia effettivamente realizzato. Il biologico non deve essere greenwashing, ma deve diventare un cambio di paradigma affinché niente sia più come prima.

Foto di Essere Animali

Gli allevamenti intensivi

Il lavoro dell’ISDE si concentra sull’analisi delle conseguenze di un sistema alimentare fondato sugli allevamenti intensivi, che hanno rappresentato un radicale cambiamento anche in termini culturali. “L’allevamento intensivo – scrive l’associazione definendo il concetto – si caratterizza nel non essere più produzione agricola, perché non più legato alla terra. Questo significa che chi alleva animali, non necessariamente deve disporre della terra per alimentarli, con la conseguenza che meno è lo spazio utilizzato maggiore è la massimizzazione delle operazioni di nutrimento e cura con conseguente maggiore rendimento e profitto”.

In questo modo si pone l’accento a su diverse tipologie di effetti negativi generati: la perdita del legame con la terra, l’isolamento delle piccole economie di sussistenza, l’assenza quasi totale di tutela per il benessere animale, i danni all’ambiente e quelli all’organismo di chi consuma prodotti di origine animale. Nel tempo infatti gli allevamenti intensivi hanno visto affermarsi pratiche allevatoriali dannose non solo per il benessere animale, ma anche per la salute dell’uomo e per la tutela ambientale. L’ISDE riporta alcuni esempi: macinazione carne di pecore morte per scrapie (morbo analogo a quello della “mucca pazza”); allevamento di polli, tacchini, faraone, in capannoni industriali con concentrazioni a rotazione anche di mezzo milione di capi; costrizione delle scrofe in gabbia al fine di non avere mortalità tra i suinetti, costringendole a potersi solo alzare e coricare e senza mai poter camminare o girarsi; allontanamento dei vitelli dalle madri dal primo giorno per metterli in gabbia e mungere la madre sfruttandone tutta la duratura della montata lattea.

Queste sono solo alcune delle modalità messe in atto negli allevamenti intensivi italiani. Il report ne descrive molte altre, fornendo riferimenti documentali in merito e riportando i testi di legge che disciplinano il settore. Vengono riprese anche alcune dichiarazioni e prese di posizione ufficiali da parte di organi istituzionali anche di primaria importanza – come la FAO, la Corte dei Conti Europea e l’ISPRA – che si esprimono contro queste pratiche.

Foto di Animal Equality

I falsi miti

Nel suo position paper, l’ISDE smentisce anche il fabbisogno alimentare globale come giustificazione al sistema degli allevamenti intensivi e lo fa citando alcuni autorevoli fonti, come la stessa FAO: “Le diete sostenibili sono diete a basso impatto ambientale che contribuiscono alla sicurezza alimentare e nutrizionale nonché a una vita sana per le generazioni presenti e future. Le diete sostenibili concorrono alla protezione e al rispetto della biodiversità e degli ecosistemi, sono accettabili culturalmente, economicamente eque e accessibili, adeguate, sicure e sane sotto il profilo nutrizionale e, contemporaneamente, ottimizzano le risorse naturali e umane”.

Per rafforzare la testi, vengono citate anche ricerche compiute da National Center for Scientific Research e The Lancet Commission. Il primo studio conclude che nel 2050 il biologico potrebbe riuscire a sfamare tutta la popolazione europea, mentre il secondo sostiene che “l’attuale produzione di cibo rappresenta un rischio globale per le persone e il pianeta ed è la più grande pressione causata dagli esseri umani sulla Terra, minaccia gli ecosistemi e la stabilità del sistema terrestre. Le attuali diete, combinate alla crescita della popolazione (10 miliardi entro il 2050), esacerberanno rischi per le persone e il pianeta. Il peso globale delle malattie non trasmissibili peggiorerà e gli effetti della produzione di cibo sulle emissioni di gas serra, sull’inquinamento da azoto e fosforo, sulla perdita di biodiversità e sull’uso di acqua e terra ridurranno la stabilità del Pianeta. S’impone la riduzione di oltre il 50% del consumo di cibi come carne rossa e zucchero e, viceversa, l’aumento di oltre il 100% di consumo di cibi sani, come noci, frutta, verdura e legumi. Con diete sane sarebbero evitabili dai 10,8 agli 11,6 milioni di morti all’anno”.

I danni ad ambiente e organismo

Inevitabile sottolineare ancora una volta, punto per punto, i danni che i prodotti e i metodi produttivi degli allevamenti intensivi provocano all’ecosistema e alla salute di chi li consuma. Dall’aumento dei rischi di zoonosi – e la situazione sanitaria globale dovrebbe avercelo insegnato – alla perdita della biodiversità, dall’impatto sulle risorse alimentari alla deforestazione. La necessità dell’esistenza degli allevamenti intensivi è legata alla richiesta di proteine animali per il consumo umano, che però l’ISDE ritiene un fabbisogno indotto e non aderente agli apporti necessari a una sana alimentazione. Al contrario, vengono citati diversi di studi che hanno dimostrato la dannosità delle carni rosse e di quelle processate per l’essere umano, tanto che nel 2015 la IARC, dopo aver passato in rassegna 800 studi epidemiologici condotti in ogni continente, ha inserito le carni processate tra i cancerogeni certi e le carni rosse tra le sostanze probabilmente cancerogene per l’uomo.

Foto di IAPL Italia

Il biologico

In questo fosco scenario assume una vitale importanza la valorizzazione dei metodi biologici. L’ISDE ritiene però opportuno chiarire un equivoco ricorrente: “La confusione, creata dal proliferare di terminologie coniate per smarcarsi dall’identità dell’intensivo quali ‘biologico’, ‘etico’, ‘naturale’, ‘biodinamico’ e altre, denota che siamo in presenza, con l’allevamento intensivo, di una violazione non solo dei parametri ambientali, ma anche di quelli morali e non solo per la questione del benessere animale. Il fine è il conseguimento di un profitto di scala, al quale si vuole porre un limite in quanto ormai questo rappresenta un mondo svelato e conosciuto, tenuto all’oscuro per oltre 50 anni dai media”.

Dopo una puntuale analisi dei dati del biologico in Italia e della legislazione, il report prende le distanze dalle etichette istituzionali, sottolineando che “il primo passaggio necessario sarebbe dunque quello di eliminare le terminologie di intensivo e biologico e legiferare in merito all’allevamento in senso lato, che dovrebbe rispondere a dei requisiti massimi e rigorosi, in base alle caratteristiche oggi definite per il biologico e legiferate dalla UE, escludendo tutti gli altri appellativi e realtà in essere. Solo in questo modo si elimineranno terminologie commerciali più o meno attrattive e si eviterebbe di legalizzare la sofferenza animale, il rischio ambientale e di salute, adducendo l’appartenenza
all’intensivo piuttosto che al biologico”.

Al termine dell’analisi appare dunque chiaro che il settore abbisogna di una profonda ristrutturazione, accompagnata da una rivoluzione verde senza precedenti che metta al centro il benessere degli animali e includa negli obiettivi del biologico non solo la tutela ambientale, ma anche la salute umana. “Senza questa rivoluzione dell’Europa – conclude il report – che elimini le sofferenze degli animali, che riduca la trasformazione cerealicola in proteine della carne, che produca ciò che è il vero fabbisogno proteico della Nazione o dell’Europa, che si faccia carico di eliminare gli sprechi alimentari e l’utilizzo di pesticidi, senza tutto questo, appare difficile intravedere un futuro”.

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Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/10/basta-allevamenti-intensivi/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Post-pandemia: c’è la green economy nel futuro dell’Italia?

Numerose indagini e statistiche sembrano confermare che, in particolare durante e dopo la pandemia, il nostro Paese si è orientato verso un’economia più sostenibile, sia dal punto di vista delle imprese che da quello delle scelte d’acquisto dei singoli. Agnese Inverni della Cooperativa agricola sociale O.R.T.O. analizza i dati e prova a trarre alcune conclusioni in merito. Le imprese italiane sono sempre più green: questo è quanto emerge dall’undicesimo rapporto GreenItaly della Fondazione Symbola e di Unioncamere che analizza lo sviluppo delle attività produttive ecosostenibili sul territorio nazionale. Dal rapporto risulta che nel periodo 2015-2019 più di 432.000 imprese italiane dell’industria e dei servizi, ovvero il 31,2% del totale, hanno investito in prodotti e tecnologie per la sostenibilità ambientale. Il picco massimo è stato raggiunto nel 2019 con quasi 300.000 aziende che hanno puntato soprattutto su efficienza energetica, utilizzo di fonti di energia rinnovabile, minore consumo di acqua e riduzione dei rifiuti. La pandemia da Covid-19 ha contribuito alla momentanea riduzione degli eco-investimenti da parte delle imprese che tuttavia li ritengono un’ottima strategia da adottare sempre più spesso negli anni a venire. È ormai evidente la necessità di un cambio di paradigma nell’organizzazione del sistema produttivo che dovrà essere orientato in direzione della sostenibilità economica, sociale e ambientale. La vecchia concezione secondo cui non sia possibile conciliare il profitto e la tutela della natura ha rivelato la sua infondatezza: ad oggi è sempre più chiaro agli occhi di produttori e consumatori che la green economy è la migliore strategia di sviluppo per il futuro. Il 2020 è stato un anno indubbiamente difficile in Italia e nel resto del mondo. Tante delle nostre certezze sono crollate e ci siamo ritrovati a riflettere sulla stile di vita delle nostre società e sulle azioni e le scelte individuali che compiamo ogni giorno. La percezione comune è che la propagazione della pandemia sia stata favorita, in una certa misura, dallo sviluppo di un modello economico improntato su consumismo sfrenato e globalizzazione. Questa presa di coscienza, seppur destabilizzante, è stata la scintilla che ha innescato il cambiamento di mentalità i cui effetti saranno dirompenti nel prossimo futuro.

Già da alcuni anni gli italiani dimostrano una crescente sensibilità nei confronti delle tematiche ambientali e stanno modificando le proprie abitudini in funzione dell’ecosostenibilità. Per capire l’entità del fenomeno possiamo fare riferimento al 6° Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile, un’indagine realizzata da Lifegate in collaborazione con Eumetra MR. Il documento (elaborato a gennaio 2020 prima dell’emergenza sanitaria) mostra che per il 62% degli italiani quello della sostenibilità è un tema sentito e non solo una moda passeggera; il 72% si sente coinvolto nelle questioni ambientali e il 32% si dichiara addirittura “appassionato” al tema. Sul fronte degli acquisti gli italiani sono disposti a spendere di più principalmente per prodotti a km0 (nel 44% dei casi), per prodotti bio (36%) e per giocattoli per bambini realizzati con materiali sostenibili (36%). I giovani della Z-generation sono disposti a spendere di più anche per energia rinnovabile (40%) e per sistemi di domotica per il risparmio energetico (35%). La tendenza dei consumatori italiani è quella di ridurre la propria impronta ecologica anche attraverso le nuove tecnologie che si rivelano una buona soluzione per tagliare gli sprechi, ridurre il consumo di energia e conservare le risorse naturali. Un’idea diffusa è che non sia necessario sacrificare la qualità della propria vita per essere più green e che, al contrario, modificare alcune abitudini possa migliorare notevolmente la salute e il benessere personale. Proprio in virtù di questa convinzione, negli ultimi anni si sta verificando un cambiamento significativo delle tendenze alimentari degli italiani che si mostrano sempre più attenti al cibo sano, biologico ed ecofriendly. Il rapporto “Bio in cifre 2020” realizzato da Sineb-ISMEA attesta che nella prima metà dell’anno il consumo di prodotti agroalimentari biologici è cresciuto del 4,4% rispetto al 2019 raggiungendo la cifra record di 3,3 miliardi di euro. L’emergenza sanitaria ha contribuito all’aumento delle vendite di prodotti biologici dato che, durante il lockdown nazionale, molti italiani hanno trascorso più tempo in cucina e sono stati più attenti nella scelta delle materie prime alimentari, preferendo quelle di alta qualità e a ridotto impatto ambientale. I consumatori, ora più che mai, sono influenzati nelle loro scelte di acquisto anche da alcuni parametri legati alla sostenibilità del prodotto quali il materiale del packaging, le emissioni di CO2 nelle fasi di trasporto e distribuzione, il consumo di acqua e la gestione dei rifiuti. Alla luce di tutte queste considerazioni, è facile immaginare che il modello di consumo della società post-pandemica sarà orientato in direzione della sostenibilità; è necessario infatti realizzare più prodotti e servizi innovativi che sappiano rispondere al bisogno dei clienti di vivere in armonia con la natura. Molte imprese italiane stanno attuando un percorso di transizione ecologica delle proprie attività e già da alcuni anni investono in tecnologie green e nell’assunzione di personale specializzato nella sostenibilità ambientale.

Gli eco-investimenti si sono rivelati una strategia vincente anche di fronte alla crisi innescata dalla pandemia da Covid-19: nell’ultimo anno il 16% delle imprese votate al green è riuscito ad aumentare il proprio fatturato e il 9% di esse ha assunto nuovo personale (contro rispettivamente il 9% e il 7% delle aziende meno attente all’ambiente). La riconversione ecologica del sistema produttivo potrebbe dunque favorire non solo la ripresa economica ma anche l’aumento dell’occupazione lavorativa; in particolare i più giovani potrebbero usufruire di nuove opportunità e specializzarsi in settori professionali del tutto inesistenti fino a qualche anno fa.

Le competenze relative all’ecosostenibilità e anche una certa sensibilità nei confronti delle tematiche ambientali sono considerate delle capacità molto importanti in ambito aziendale: per alcune imprese sono ormai essenziali tanto quanto la conoscenza lingua inglese o delle principali applicazioni software di produttività personale.

Il rapporto “Green Jobs: Towards decent work in a sustainable, low-carbon world” realizzato dall’UNEP (United Nations Environment Programme) nel 2009 definisce i green jobs come quelle occupazioni nei settori dell’agricoltura, del manifatturiero, nell’ambito della ricerca e dello sviluppo, dell’amministrazione e dei servizi che contribuiscono in maniera rilevante a preservare o restaurare la qualità ambientale. Sono incluse tutte le professioni che aiutano a mantenere la biodiversità e gli equilibri ecosistemici, a ridurre il consumo di materiali e di energia, a decarbonizzare le attività economiche e a diminuire o eliminare l’inquinamento e la produzione di rifiuti. È una definizione di ampio respiro che prende in considerazione diverse specializzazioni nei più svariati settori economici, dall’agricoltura ai servizi informatici, dall’industria alla ricerca scientifica, dal commercio all’arte e alla cultura. Le possibilità lavorative che si presentano sono molteplici e in continua evoluzione; da ogni attività riconvertita in chiave green è possibile generare nuove idee e nuove occupazioni innescando così un circolo virtuoso di sostenibilità. I settori che più necessitano di personale specializzato in tal senso sono l’edilizia e l’industria che richiedono sempre più spesso l’intervento di ingegneri e chimici ambientali. Anche l’energy manager è diventato una figura irrinunciabile all’interno delle aziende dato che si occupa dell’uso razionale dell’energia. Stessa importanza assume l’informatico ambientale che progetta software per il monitoraggio dei consumi e dei sistemi di riscaldamento e raffreddamento in ambito domestico. Se da una parte i consumatori italiani richiedono l’applicazione di tecnologie sempre più green, dall’altra avvertono il bisogno di ritornare alla natura, alla semplicità, a uno stile di vita più genuino e autentico. E quale modo migliore di farlo se non attraverso l’alimentazione? Come diceva il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach “siamo ciò che mangiamo” e ad oggi molti italiani sono interessati a conoscere sempre meglio il cibo di cui si nutrono. Nel 2019 le imprese agro-alimentari biologiche in Italia hanno superato le 80.000 unità e hanno generato una filiera di produzione e distribuzione che necessita continuamente di nuovi biocontadini con competenze specifiche di agroecologia.

Sta prendendo sempre più piede anche la figura del culinary gardener, ovvero il produttore-consulente che collabora con chef e ristoratori per rifornirli delle migliori materie prime alimentari. È un esperto che sa come valorizzare le varietà ortofrutticole tipiche del territorio per creare menù originali e allo stesso tempo vicini alla tradizione culinaria italiana; spesso pratica il foraging, cioè la raccolta e la preparazione in cucina di erbe spontanee, garantendo al cliente ingredienti 100% naturali e a km0.

Sono molti altri i green jobs che saranno sempre più richiesti nei prossimi anni: il mobility manager per la gestione di sistemi di trasporto a basso impatto ambientale, il bioarchitetto per la progettazione di design sostenibile, l’operatore di ecoturismo, l’esperto di moda vegan ecc.. Non c’è settore produttivo che non possa reinventarsi in chiave green e quindi le possibilità occupazionali sono pressoché illimitate. Quel che è certo è che siamo di fronte a una grandiosa opportunità che consentirà di assumere circa 480.000 nuovi professionisti “verdi” in Italia e di creare ben 24 milioni di posti di lavoro in tutto il mondo entro il 2030. D’altronde la parola crisi deriva dal greco krisis, che significa “scelta”, proprio ad indicare come ogni problema, se analizzato attentamente, riveli da sé la soluzione per risolverlo.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/09/green-economy-italia/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Clima e futuro: ci riguarda tutti

Un po’ ci avevamo creduto, dopo la vistosa diminuzione delle emissioni globali di anidride carbonica (CO2) durante i duri lockdown, giunte fino a un -6,4% nel 2020 rispetto all’anno precedente. Ma, con la ripresa di gran parte delle attività economiche, le emissioni sono già tornate ai livelli pre-pandemia. Anzi, a livelli anche superiori.

Un po’ ci avevamo creduto, dopo la vistosa diminuzione delle emissioni globali di anidride carbonica (CO2) durante i duri lockdown della prima ondata Covid, giunte fino ad un -6,4% nell’insieme del 2020 rispetto all’anno precedente. Ma, con la ripresa di gran parte delle attività economiche, le emissioni sono già tornate ai livelli pre-pandemia. Anzi, a livelli anche superiori: secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), si registra un +2% nel dicembre 2020 rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. La ripartenza sembra quindi avvenire sotto il segno del “business as usual”, come ci ricorda anche il climatologo Luca Mercalli (link al sito) e ciò dimostra quanta strada resti ancora da fare per trasformare la nostra economia e la nostra intera società a bassa intensità fossile. Il prossimo novembre si svolgerà la COP26 a Glasgow, in Scozia (Regno Unito), un paese uscito dall’Unione Europea che certamente vorrà dimostrare di aver fatto la scelta giusta. Non ci interessa, in questo momento, valutare la scelta politica di quel Paese, ma capire meglio se ci sono veramente le condizioni per una drastica correzione della rotta. Ricordiamo subito che COP26 indica la 26esima sessione della Conferenza delle Parti, cioè dei paesi aderenti alla Convenzione ONU sui cambiamenti climatici (UNFCCC); sono quindi 26 anni (dal 1995) che delegati di tutti i Paesi si incontrano per affrontare il tema dei cambiamenti climatici e, nello specifico, la riduzione delle emissioni di gas climalteranti. Uno specifico Protocollo (di Kyoto) avrebbe dovuto indirizzare e gestire gli impegni di riduzione delle emissioni dei paesi, ma la realtà è stata diversa: di fatto, a parte la parentesi lockdown, la ripresa delle attività sta portando le economie mondiali ad una consistente emissione di CO2 oltre che finanziare l’industria dei combustibili fossili. I dati dell’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) sono chiarissimi ed evidenziano l’inarrestabile intensificazione del cambiamento climatico, l’aumento nella frequenza e nell’intensità degli eventi climatici estremi e le gravissime conseguenze che ricadono sulle persone, sulle società e sulle economie mondiali.

Secondo i dati pubblicati, le emissioni di gas serra hanno continuato la loro crescita nel 2019 e nel 2020, e le temperature sono salite ai livelli più alti mai registrati dal 1850. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, insieme al Segretario Generale del WMO, Petteri Taalas, hanno esortato i leader mondiali all’azione, chiedendo impegni radicali per la riduzione delle emissioni di CO2 al fine di impedire un ulteriore aumento delle temperature. Non c’è più molto tempo per agire e prima della COP26 i Paesi dovranno presentare i propri piani per ridurre le emissioni globali di almeno il 45% entro il 2030. Per molti, l’appuntamento a Glasgow è l’ultima possibilità per trovare un accordo che porti alla realizzazione degli obiettivi posti negli accordi di Parigi sul clima del 2015. Osservato speciale saranno gli Stati Uniti, dopo la ritirata di Donald Trump e il ritorno in campo con Joe Biden. E il tempo per agire è sempre più ristretto: secondo le previsioni dell’IEA, le emissioni di gas serra sono in crescita dall’inizio del 2021 e saliranno a livelli ancora più alti del record raggiunto nel 2010, quando le emissioni aumentarono del 6% a causa della corsa alla ripresa della crisi finanziaria del 2008. Secondo l’IEA, la situazione attuale è simile a quella di allora. Le economie globali stanno premendo l’acceleratore sulla ripresa, ma per farlo continuano a basarsi sull’utilizzo di combustibili fossili per produrre energia e questo non aiuterà. Al contrario, potrebbe sancire la fine di ogni speranza di ripresa sostenibile. Bisogna agire, in fretta e nella giusta direzione.  Secondo una prima valutazione condotta dall’ONU sugli aggiornamenti dei Piani nazionali di decarbonizzazione finora pervenuti nel quadro degli Accordi di Parigi, le ambizioni sono nel complesso ampiamente insufficienti a centrare l’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale entro 1,5°C a fine secolo: applicandoli – e già questa è una scommessa! – si arriverebbe ad una riduzione di appena lo 0,5% delle emissioni nel 2030 rispetto al 2010, a fronte di quel -45% richiesto dall’emergenza in corso e invocato dalle organizzazioni internazionali. Quindi, al momento, siamo proprio fuori strada, come messo in evidenza da diversi studi ed analisi sulla situazione climatica del nostro pianeta e urge sempre più una ferma presa di posizione per evitare quel collasso che ad oggi sembra inevitabile.

Fonte: ilcambiamento.it

Carlo Petrini: il futuro del pianeta nelle mani dei giovani

Terra Futura è il titolo del suo ultimo lavoro, ma è anche un concetto chiave per costruire a partire da oggi il mondo di domani. Durante il 69° Trento Film Festival, Agenzia di Stampa Giovanile ha intervistato Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, sui temi dell’educazione e quindi sui giovani, sull’attivismo e soprattutto sulla responsabilità che le nostre azioni quotidiane hanno nei confronti della natura, dell’ambiente e del futuro.

Carlo Petrini – fondatore dell’associazione Slow Food, ideatore della rete internazionale di Terra Madre e autore di “Terra Futura. Dialoghi con Papa Francesco sull’ecologia integrale” – ha trascorso gran parte della sua vita cercando di promuovere attenzione e cura verso il nostro Pianeta. Lo ha fatto attraverso le armi della scrittura e dell’attivismo, ma soprattutto attraverso il duro lavoro nella ricerca di un dialogo tra società, istituzioni, culture, generazioni. Durante il secondo tempo del 69° Trento Film Festival lo abbiamo intervistato, cercando di concentrare la nostra chiacchierata sul grande obiettivo di Slow Food, sull’educazione e quindi sui giovani, sull’attivismo e soprattutto sulla responsabilità che le nostre azioni quotidiane hanno nei confronti della natura, dell’ambiente e del futuro.

Nel ciclo di incontri con Papa Francesco – dai quali poi è nata la pubblicazione “Terra futura. Dialoghi con Papa Francesco sull’ecologia integrale” – scaturisce la forza delle azioni umane quotidiane e comunitarie. Azioni che possono influenzare in positivo e in negativo il benessere del nostro Pianeta. Che ruolo hanno le scelte alimentari e le azioni a esse connesse nel mantenimento e nella cura ambientale?

Da oltre 30 anni il movimento Slow Food rivendica l’idea del cibo come centro della nostra esistenza. Se oggi la multidisciplinarietà legata al cibo (parlare di alimentazione vuol dire richiamare l’antropologia, la storia, l’economia, la genetica, la biologia etc.) è un’asserzione che cerca di permeare sempre più all’interno la nostra cultura, posso assicurare che sul finire del secolo scorso così non era; anzi, il cibo era addirittura totalmente estraneo al dibattito politico. Questo mi è sempre sembrato irragionevole, soprattutto perché la nostra stessa vita ci è data in quanto noi quotidianamente mangiamo; e dunque, più di qualsiasi altro argomento, il cibo merita di essere trattato con molta attenzione. Ecco che, insieme all’associazione che ho fondato, siamo arrivati a sostenere che mangiare è un atto politico. Ogni singolo individuo attraverso le sue scelte alimentari non influenza solo il sistema produttivo, ma anche le società, le economie e i territori a esso connesso. Proprio per questo viene da sé che i nostri comportamenti quotidiani, per quanto ci possano sembrare abitudini di poca rilevanza, possono avere un impatto determinante per il nostro benessere, per la salute di tutti gli esseri viventi e per la prosperità della nostra Terra Madre. Stiamo perdendo la capacità di sognare eppure l’Italia è costellata di straordinarie esperienze di cambiamento! Mentre gran parte dei mass media sceglie di non mostrare i cambiamenti in atto, noi scegliamo un’informazione diversa, vera, che aiuti davvero le persone nella propria vita quotidiana. 

In che modo l’associazione Slow Food si impegna per promuovere un’alimentazione “buona, pulita e giusta per tutti”?

La principale caratteristica del nostro movimento è che ogni azione e ogni pensiero vengono promulgati nel pieno rispetto dei territori, delle società e delle culture in cui operiamo. Mi spiego meglio: Slow Food è un’associazione che dalla seconda metà degli anni Ottanta ha accettato la sfida di diffondere a livello internazionale la lotta all’omologazione e alla standardizzazione, ovvero a tutti quei processi sterili basati esclusivamente sul profitto economico che il modello capitalistico stava cercando di propagare ad un mondo sempre più globalizzato. Il nostro impegno quindi, che mira primariamente a difendere la biodiversità in tutte le sue forme (naturale, agroalimentare, sociale, culturale), è altamente diversificato a seconda dei territori. Sarebbe da stolti concentrarsi su di un unico modello adattabile in ogni area del pianeta: questo modo di ragionare, oltre a essere una logica altamente invasiva e ai limiti del colonialismo, porterebbe esclusivamente a una perdita di biodiversità e quindi a conseguenze catastrofiche per comunità ed ecosistemi. Ecco che le iniziative e i progetti delle nostre condotte italiane non possono essere riportate nelle comunità dell’Africa subsahariana; è necessario che i promotori delle iniziative siano donne e uomini che vivono da vicino il territorio, che conoscono le esigenze delle comunità e che sappiano valorizzare al meglio le peculiarità di ogni regione. L’educazione è il pilastro fondamentale su cui si deve basare questa rigenerazione ecologica. Una rivoluzione che non riguarda solo i sistemi produttivi e i sistemi economici, ma che deve senza ombra di dubbio rigenerare radicalmente anche il nostro modo di pensare. Allora a chi se non ai giovani, forti della loro fresca e rapida capacità di apprendimento, dobbiamo lasciare il messaggio che tutto è fortemente correlato e che la nostra salute dipende da quella del Pianeta in cui viviamo? Chi dobbiamo esortare, consci degli errori commessi finora, a sovvertire un paradigma che vede il profitto come una variabile di benessere e che non riconosce alcun valore ai beni relazionali e ai beni comuni, se non i futuri cittadini?

C’è però da fare molta attenzione, in quanto il processo educativo passa primariamente dal buon esempio. Se le generazioni più mature non sono disposte a segnare la strada a quelle che verranno, queste ultime si troveranno disorientate in un mondo che non sarà più in grado di generare salubrità e benessere per tutti. Anche in questo caso la soluzione è il dialogo. Un dialogo intergenerazionale in grado di confrontare la forza impulsiva, l’energia e la creatività dei giovani con l’esperienza, la saggezza e le suggestioni dei più “anziani”.

Inoltre sono fortemente convinto che, affinché si voglia diffondere un’educazione efficiente e strumentale all’elaborazione autonoma di pensieri critici e più consapevoli, il dialogo deve anche instaurarsi tra saperi scientifici, accademici e saperi tradizionali, popolari. Questo è il modello educativo che necessitiamo: un approccio che mi piace definire olistico, in grado di coniugare discipline umanistiche a materie scientifiche e che dal 2004, con la fondazione dell’Università di Scienze Gastronomiche, a Pollenzo cerchiamo di applicare.

Ritiene che il movimento ambientalista giovanile Fridays For Future possa portare dei risultati concreti? In che modo la voce dei giovani può essere ascoltata dalle istituzioni?

Voglio partire da una semplice riflessione: il futuro non è di certo di Carlo Petrini. Il futuro è dei giovani e se le cose non cambiano in maniera sostanziale, quando i diciottenni di oggi avranno la mia età vivranno in un mondo più che mai inquinato, poco salubre e con la fertilità dei terreni estremamente compromessa. Per non parlare degli ecosistemi marini, i quali già oggi si trovano a un punto di non ritorno. Ecco che i movimenti dei giovani sono di primaria importanza per il tessuto sociale di oggi e per il futuro di domani. Necessitiamo di questi gruppi che non si fermano solo alla propaganda o all’attivismo sterile, ma data l’energia e l’imperturbabilità propria delle giovani generazioni sono disposti a mettersi in prima linea nel concretizzare buone opere e azioni virtuose sia in campo sociale, sia in campo ambientale. Io credo che arrivati a questo punto le istituzioni non possano far altro che ascoltare la voce dei giovani e appoggiarli nelle loro lotte. Vorrei dire a questi nuovi rappresentanti della società civile che il tempo è dalla loro parte e che tra qualche anno saranno loro a occupare ruoli istituzionali. Ma non per questo devono accomodarsi e aspettare il loro turno, anzi. Condivisione e cooperazione saranno i valori di cui avvalersi per portare avanti le loro sfide e proprio per questo tengo a dare loro due suggestioni. Le comunità del futuro dovranno per forza di cose essere basate sull’austera anarchia e sull’intelligenza affettiva. Con austera anarchia intendo la capacità di prendere decisioni autonome, consapevoli e volte al bene comune. A differenza del rigido modello organizzativo che ha caratterizzato la nostra società da più di un secolo a questa parte, nelle comunità l’impegno e le progettualità nascono dalla cooperazione e dal confronto; sto parlando di una nuova organizzazione fluida che si modifica a seconda delle esigenze e dell’apporto che i singoli possono offrire in un dato momento. Il tutto regge solo ed esclusivamente se alla base delle comunità c’è l’intelligenza affettiva, cioè quel sentimento che lega ogni singolo individuo a una comunità di destino con cui condivide un percorso comune e che per questo è in grado di garantire il rispetto di ogni individualità. In altre parole, l’identificazione in un progetto comune genera una spontanea rete di relazioni e di vicinanze, che non può essere scalfita dall’esterno. Un collante molto più efficace di qualsiasi adesione formale o regola imposta dall’alto.

I disastri climatici, la mancanza di risorse, la distruzione degli ecosistemi, lo sfruttamento del terreno e il watergrabbing stanno causando molte problematiche soprattutto alle persone più svantaggiate, costrette a migrare e abbandonare le proprie abitazioni. A livello globale, perché secondo lei il grido d’aiuto delle persone è poco ascoltato e messo in secondo piano? Pensa che la logica del profitto stia sovrastando la giustizia sociale?

Come dicevo, un paradigma basato solo su consumo e profitto e che non lascia spazio al valore dei beni relazionali e dei beni comuni, oltre a essere disastroso e pericoloso è anche perdente. Questo è più che mai evidente, lo stanno dimostrando gli effetti sugli ecosistemi ma anche quelli sulla nostra stessa salute: a mio modo di vedere hanno ragione quegli scienziati che sostengono che anche questa terribile pandemia è una risposta della natura al depauperamento e alla sofferenza che le stiamo causando da decenni. Se noi non riusciamo a ricucire al più presto i forti legami con gli ecosistemi in cui viviamo, è ormai sotto gli occhi di tutti che anche a livello sociale vivremo dei grandi disagi. Risulta necessario quindi saper cogliere quanti più insegnamenti possibili da questo ultimo anno e mezzo. Proprio come l’epidemia, usciremo dalla crisi sociale – e quindi anche da quella economica – solo quando tutti saremo immunizzati da un modello che ha fatto di consumi bulimici e competitività la sua essenza. Per far sì che questo avvenga cooperazione e condivisione giocano ancora una volta un ruolo fondamentale: non possiamo più permetterci che nessuno venga lasciato indietro. A questo proposito, concludo riprendendo dalla Laudato Si’ uno dei concetti fondamentali e allo stesso tempo più rivoluzionari dell’enciclica di Papa Francesco: “Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”. Ecco che in tema di esempi, in tema di educazione all’ecologia e in tema di trovare un faro da seguire in questo particolare momento storico, Bergoglio risulta essere la figura più attenta, sensibile, propositiva e influente a livello globale. Consiglio a tutti dunque di leggere le sue encicliche e di far propri gli insegnamenti rigenerativi che questo straordinario Pontefice vuole infondere per curare la nostra società.

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Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/06/carlo-petrini-pianeta-giovani/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

‘Ghiacciai – Il futuro dei ghiacci perenni nelle nostre mani’. Al Muse di Trento la mostra sui termometri del riscaldamento globale

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Novamont sostiene “Ghiacciai”, la mostra del Museo delle Scienze di Trento che racconta natura, ricerca, avventura e mito degli ambienti glaciali. Il Museo delle Scienze (MUSE) di Trento, innovativo e modernissimo progetto museale voluto dalla provincia di Trento e realizzato dall’architetto Renzo Piano, inaugura una mostra di grande fascino – “Ghiacciai – Il futuro dei ghiacci perenni nelle nostre mani.

Masse di ghiaccio, riserve d’acqua dolce, attrazione turistica, laboratori scientifici a cielo aperto, termometri del riscaldamento medio globale, testimoni dell’impronta dell’uomo sull’ambiente. I ghiacciai sono tutto questo e molto di più. La mostra, visitabile fino al 23 marzo 2019, offre una fotografia dei ghiacciai che ricoprono il nostro pianeta da quattro prospettive: l’ambiente naturale glaciale e le dinamiche che lo mantengono in equilibrio; le attività scientifiche e i rilievi che permettono di quantificare lo stato di salute dei ghiacciai e di studiare i cambiamenti climatici degli ultimi secoli; le avventurose esplorazioni sui sentieri glaciologici; le vicende storiche e i miti legati ai luoghi più inospitali dell’ambiente montano. Il visitatore ha la possibilità di scoprire diverse realtà dell’attività glaciologica grazie a contenuti multimediali inseriti in strutture lignee, dalle linee essenziali e curiose. La desertificazioni dei suoli e le emissioni di CO2 sono tra le cause principali del riscaldamento globale. Utilizzare prodotti in bioplastica compostabile come il Mater-Bi di Novamont, smaltibili con la raccolta del rifiuto organico, anziché manufatti in plastica tradizionale, significa aumentare la produzione di compost, il miglior alleato per combattere il fenomeno della desertificazione. Commenta Andrea Di Stefano, responsabile comunicazione di business e eventi speciali di Novamont: “Sosteniamo la mostra “Ghiacciai” perché raccontare e documentare la realtà attuale dell’habitat glaciale significa sensibilizzare le coscienze e promuovere il cambiamento per combattere il degrado in cui versa madre Terra e l’impoverimento complessivo, non solo economico, in cui vivono le persone”. La sponsorizzazione al MUSE, che prevede una collaborazione triennale, si inserisce nell’ambito delle iniziative che da anni vedono Novamont impegnata nella divulgazione scientifica e nella promozione di modelli di produzione e di consumo sostenibili.

Fonte: ecodallecitta.it

 

 

Con Helbiz un assaggio della mobilità del futuro

Helbiz è un nuovo sistema di car sharing tra privati basato su blockchain, per garantire sicurezza e semplicità.

Il futuro dell’automobile sembra sempre più simile a quello di un servizio digitale, piuttosto che la proprietà di un bene fisico. Se da anni esistono servizi come EnJoy, DriveNow e Car2Go che permettono agli utenti di sfruttare la flotta auto di un fornitore privato (rispettivamente ENI, BMW e Mercedes, negli esempi), nuove opportunità tecnologiche stanno aprendo la porta a piattaforme innovative che potrebbero influenzare positivamente il mercato. Helbiz è una piattaforma di car sharing  peer-to-peer che consente il noleggio d’auto fra privati. La soluzione si basa su un sofisticato hardware che viene installato (gratuitamente) a bordo auto, permettendo così ai noleggiatori di localizzare la vettura, sbloccarla e utilizzarla con le dovute garanzie (assicurazione compresa) senza bisogno di prenotazioni, scambi chiave e ulteriori interazioni.

Automatizziamo l’intero processo di noleggio, compresa la verifica, i contratti, le condizioni e i termini di servizio, i pagamenti, l’assicurazione personalizzata e la consegna delle chiavi“. A parlare a Ecoblog.it è Salvatore Palella, imprenditore e fondatore di Helbiz.

Helbiz sfrutta la forza della blockchain come sistema di tracciabilità per assicurare un pagamento granulare del servizio e soprattutto la sicurezza sia per l’utente che per il fornitore di auto. Helbiz si divide tra i servizi di Car Sharing (noleggio auto fra privati), Transportation Platform (piattaforma inclusa delle varie forme di trasporto pubblico) e Pay, un sistema di pagamento con portafoglio digitale. I servizi Pay e Transportation Transportation Platform verranno lanciati negli Stati Uniti a partire dalla prossima estate. Non è stata annunciata una data per la piattaforma di Car Sharing.

Fonte: ecoblog.it

Festa dell’Altra Velocità: per il futuro che è già presente

Dal 29 giugno al 1 luglio ad Avigliana, in Piemonte, un nuovo appuntamento per supportare le connessioni fra i soggetti che operano nel cambiamento e fra essi e il grande pubblico delle persone in transizione. Un programma in via di definizione attraverso la progettazione partecipata e tuttavia già ricco di temi. Si chiama Altra Velocità ed è una festa completamente nuova, dedicata a persone e gruppi portatori di esperienze di cambiamento, di alternative possibili, di un futuro che – sebbene ignorato dai media tradizionali – è già presente. Ideato e organizzato da un gruppo di associazioni operanti nel consumo critico, nella comunicazione, nell’agricoltura contadina e nell’accoglienza ai migranti, l’evento si svolgerà dal 29 giugno al 1 luglio prossimi ad Avigliana, in Val di Susa (TO). Altra Velocità (e la sua versione francese Autre Vitesse) nasce dalle numerose esperienze che, in Italia e in Europa, stanno da tempo lavorando per costruire una società orientata al bene comune e al rispetto dell’ambiente piuttosto che all’incremento delle ricchezze materiali di pochi. Alcune di queste esperienze hanno semplicemente scelto di ritrovarsi e di invitare le altre a raggiungerle.

Ci saranno laboratori, incontri tematici ed escursioni divisi in tre filoni: il benvivere, ossia dove vogliamo andare; le alleanze, ossia insieme a chi; e gli strumenti, ossia come vogliamo muoverci. Saranno presentati i progetti attivati negli ultimi anni orientati alla promozione di stili di vita sostenibili e al bene comune. Oltre ai progetti italiani, tuttavia, vi sarà una nutrita partecipazione di esperienze analoghe francesi (non a caso la festa ha un titolo bilingue).festa-altra-velocita-futuro-presente-1528278749

Una 3 giorni che si pone l’obiettivo, da un lato, di celebrare il lavoro svolto dalle diverse reti ed organizzazioni, e dall’altro di mostrare a tutti, operatori e curiosi, la strada da seguire per i prossimi passi. Si parlerà di patti di filiera, co-produzioni, sistemi comunitari di scambio, Piccola Distribuzione Organizzata (PDO), agricoltura sostenuta dalla comunità (CSA), comunicazione partecipata, facilitazione, rapporto tra salute e alimentazione, integrazione. Sarà inoltre presentata la campagna per una legge che riconosca l’Agricoltura Contadina. E, come sempre accade in questo tipo di eventi, ci sarà spazio anche per l’intrattenimento: musica, danza, teatro, cinema e anche attività per bambini.

Molto interessante il metodo adottato per la definizione dei contenuti. Il programma è pensato come un grande laboratorio di progettazione partecipata: viene costruito insieme, con il contributo costante di chi, semplicemente, sceglie di esserci. Una lavagna interattiva in evoluzione segnala gli argomenti proposti, i gruppi attivi, le attività e i collegamenti ai progetti comuni in partenza. Insomma, un work in progress in cui il processo è interessante quanto il risultato, almeno a giudicare dai temi confermati fin qui e dai loro curatori:

1) Co-produzioni e CSA > A cura di Le Galline Felici
2) Strumenti per sistemi di credito > A cura di RETICS
3) PDO > A cura di RES.TO. Partecipano: produttori Locali, DISOTTO, OLTREfoodCOOP, RES Italia
4) Aspetti fiscali per associazionismo dei produttori > A cura di RES.TO
5) Incontro con realtà del territorio > A cura di Scenari di futuro
6) Il valore del cibo > A cura di LoFaccioBene
7) Laboratorio reti contadine> A cura di REES Marche. Partecipano: Rete dei Semi Rurali, Mais, ASCI ed ARI.
8) Laboratorio sui sistemi di credito > A cura di RETICS
9) Gas e salute > A cura di RES.TO
10) Ingredienti per il futuro > A cura di Rete di Reti
11) Comunicazione integrata (compresa quella nelle scuole) > A cura di Le Galline Felici – IRIS
12) Laboratorio su comunicare senza marketing > A cura di Smarketing
13) Laboratorio sulla facilitazione (da confermare) > A cura di Alekoslab
14) Integrazione migranti > A cura di REES Marche. Partecipa Refugees Welcome
15) Intelligenza collettiva > A cura di Usines a gas
16) Laboratorio di autoformazione sul Bilancio del Bene Comune > A cura di IRIS
17) Viaggiare > A cura di Compagnia dei Cammini
18) Attività con bambini e adolescenti > A cura di Praticare il futuro

Le organizzazioni che partecipano e promuovono la festa sono indicate qui di seguito (altre si stanno man mano aggiungendo): Worcup!, Etinomia, Galline Felici, Usine-a-gas (Cortocircuiti francesi), GAStorino, RES.TO (Rete Gas Torino Ovest che comprende i Gas Almese, Alpignano-Pianezza, dal Bass, Arcoiris, Buttigliera, Cavagnetta, Valmessa e Trana), REES Marche, Gas Chiomonte, Gas Pinerolo Stranamore, Praticare il futuro, Gas Avigliana, Solidarius Italia, Iris, Fairwatch, Social Business World, comune-info, LoFaccioBene, Scenari di Futuro, Smarketing, Alekoslab, Genuino Valsusino, Rete di Reti (Associazione Decrescita, Bilanci di Giustizia, Federazione per l’Economia del Bene Comune, Italia che Cambia, Movimento Decrescita Felice, RES Italia, RIVE e Terra Nuova insieme ad altre reti e organizzazioni), Giovani in Vita, Compagnia dei Cammini e Rete Gas Varese.

Le informazioni sulla festa e il programma saranno a breve online sul sito (al momento in costruzione) www.altravelocita.info. Per il momento è attiva la pagina Facebook dell’evento, al quale si può già iniziare a registrarsi, e la mail altravelocita@socialbusinessworld.org.

Fonte: http://piemonte.checambia.org/articolo/festa-altra-velocita-futuro-presente/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Eolico con vento a bassa velocità: il futuro delle energie rinnovabili?

Per produrre più energia rinnovabile verde dalle torri eoliche i produttori stanno puntando su siti con vento fino a 7,5 metri al secondo. E le pale cambiano design.http _media.ecoblog.it_2_2c1_eolico-a-bassa-velocita-il-futuro-delle-energie-rinnovabili

Abbassare i costi dell’energia rinnovabile producendone di più con lo stesso numero di impianti installati. E’ questa la sfida per i signori del vento, che studiano nuove tecnologie per aumentare la produzione delle torri eoliche.

Le strade per farlo sono, al momento, due: la prima è puntare sull’eolico offshore galleggiante che sfrutta enormi quantità di vento ad alta velocità per produrre, in mezzo al mare, l’energia rinnovabile che noi consumiamo a terra. La seconda strada è esattamente opposta: restare a terra e sfruttare i venti deboli, a bassa velocità.

Sfruttare i venti deboli ha un vantaggio e uno svantaggio: il vantaggio è che i siti con poco vento sono abbondanti, quindi si possono installare le pale eoliche anche dove prima non si poteva; lo svantaggio è che, a parità di dimensioni dell’impianto, la produzione di energia rinnovabile è inferiore. O forse sarebbe meglio dire “era inferiore”.

Nordex, produttore tedesco di impianti eolici inglobato l’anno scorso dalla spagnola Acciona, ha infatti rilasciato i dati relativi ai primi dodici mesi di attività delle sue torri N131/3300, che funzionano con vento a bassa velocità: 9 GWh di energia prodotta in un anno, da ogni torre eolica da 3,3 MWh.

Le torri Nordex N131 sono tra le più alte al mondo: la navicella arriva ad una altezza di 164 metri, aggiungendo il raggio delle pale si arriva a circa 230 metri. Le pale, per sfruttare i venti lenti fino a 7,5 metri al secondo di media annua, sono più grandi e ruotano più lentamente. Grazie ai risultati in termini di produzione dimostrati in questi ultimi 12 mesi presso il sito di Hausbay-Bickenbach, in Germania, questa tecnologia può essere considerata concorrenziale rispetto alle “tradizionali” pale eoliche che sfruttano i venti più forti.

Altri produttori stanno seguendo la stessa strada: Enercon, produttore tedesco terzo al mondo per volumi nel settore degli impianti eolici, sta lavorando al prototipo E-126 EP4, una torre da 4,2 MW di potenza che promette una produzione annua di 13 GWh con venti a 6,5 metri al secondo di media. Ha una altezza di 129 metri, e un diametro del rotore di 141 metri. L’altezza massima dell’impianti, quindi, si aggira sui 200 metri.

Vestas, altro storico produttore di turbine eoliche, propone invece il modello V150-4.2 che promette, a detta del costruttore, una produzione annua di quasi 17 GWh con velocità comprese tra i sette e gli otto metri al secondo, con un rotore ampio 150 metri posizionato ad un’altezza variabile in base al sito di installazione.

Il tempo dimostrerà se l’eolico a bassa velocità è realmente il futuro del settore. Nel frattempo, record produttivi a parte, le installazioni globali di torri eoliche continuano a crescere.

Credi foto: Nordex

Fonte: ecoblog.it

Aquarius Engines: il motore delle auto del futuro

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Il motore per auto sviluppato da Aquarius Engines, un’azienda israeliana, potrebbe rappresentare il futuro per la mobilità su gomma (almeno fino a quando le auto non fluttueranno nel vuoto alimentate dalla luce solare): l’azienda assicura che il prodotto, una volta immesso sul mercato, non costerà più di cento dollari e permetterà di percorrere 1.600 km con un pieno. La metà dei consumi medi dei motori attuali. Il motore si presenta come un prodotto ultra-performante che non ha nulla da invidiare ai motori benzina o diesel ma che avrebbe quindi il vantaggio di una riduzione dei consumi, e dei costi di gestione, decisamente notevole:

“Eccolo il nostro nuovo motore lineare. Questo è tutto, le dimensioni sono minime. Nel futuro potrà sostituire tutti i motori”

spiega Shaul Yaakoby, direttore della tecnologia di Aquarius Engines, nel video diffuso da Askanews. Gal Fridman, cofondatore dell’azienda, è entrato più nello specifico per descrivere le qualità di questo prodotto innovativo:

“Questo motore è composto da meno di quindici pezzi e uno solo di questi è in movimento. La sua efficacia è del 45 per cento e sarà utilizzato per generare elettricità. È un piccolo motore, leggero, e grazie a questo è destinato a soppiantare una tecnologia datata, che ha 150 anni di vita.”

E se la storia dovesse dar loro ragione? Attualmente l’azienda di Tel Aviv è alla ricerca di nuovi finanziamenti da 50 milioni di dollari per perfezionare il motore e per convincere i più scettici.  Continueranno invece ad essere esentate le vetture elettriche e quelle ibride.Il motore Acquarius Engines promette di essere ecologico e pulito in termini di emissioni di gas di scarico, oltre che economico in termini di acquisto. Per sviluppare il motore Aquarius Engines ha eliminato i pistoni multipli a spinta verticale, sostituendoli con un unico pistone a movimento laterale: alcuni test della tedesca Fev hanno mostrato che il motore ha una efficacia due volte superiore alle macchine tradizionali, performance talmente positive che alcuni costruttori di auto – rigorosamente anonimi per il momento – sarebbero interessati a questo motore.

“Oggi un generatore di 45 kw è enorme. Il nostro è leggero, potrà essere utilizzato in Africa, Cina e in India” dice l’azienda. I cambiamenti che implicherebbe questo motore nella catena di montaggio potrebbero tuttavia far esitare i grandi costruttori in un settore che non ama certo i rischi.

Fonte: ecoblog.it