Il Perù mette sotto tutela 1,3 milioni di ettari di foresta amazzonica

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Il Perù ha deciso, nelle scorse settimane, di istituire il Divisor National Park, una nuova area protetta con una superficie di 1,3 milioni di ettari, un’area grande quanto la Regione Campania e, se vogliamo fare un paragone con altri parchi nazionali, quanto Yellowstone e Yosemite messi insieme. Si tratta di un passo molto importante su scala globale perché segna un’inversione di tendenza in un’area – quella amazzonica – dove la deforestazione ha ripreso a “correre” dopo anni di rallentamento. L’area nella quale sorgerà il nuovo parco è una vera e propria oasi della biodiversità con 3000 specie tra flora e fauna, molte delle quali non si trovano in nessun altro luogo del mondo. È stato lo stesso presidente peruviano Ollanta Humala a dare il proprio imprimatur alla nascita di questo parco che ha unito due aree protette, la Sierra del Divisor e la White Sands National Reserve. Questo nuovo “corridoio” – denominato Ande-Amazon Conservation Corridor – favorirà le popolazioni indigene come la tribù Iskonowa che continua a vivere in isolamento nelle aree più selvagge della foresta amazzonica peruviana.

Fonte:  Renovables Verdes

 

Amazzonia, deforestazione da record

Il disboscamento torna ai ritmi da record del passato: ogni ora si perde una superficie pari a 210 campi da calcio.

La Foresta amazzonica continua a essere in pericolo. Le numerose campagne ambientaliste e i piani di conservazione messi in campo dalla politica non riescono a evitare che questo patrimonio mondiale di biodiversità sia progressivamente rosicchiato, albero dopo albero, kmq dopo kmq. Sia in Brasile che in Perù sono tante le storie di attivisti uccisi per essersi opposti ai mercanti di legname. E dopo qualche anno di “tregua” relativa, il disboscamento è tornato a essere selvaggio. Le ultime brutte notizie arrivano dal Brasile, dove si trova il 60% della foresta amazzonica. Qui a settembre la deforestazione è cresciuta del 290% su base annua, distruggendo un’area boschiva di 402 km quadrati, vale a dire una superficie come quella di Milano, Firenze e Napoli messe insieme. L’ennesimo allarme arriva da Imazon, un’organizzazione no profit brasiliana che, dati satellitari alla mano, ha quantificato le perdite di area boschiva. I 402 km quadrati sono stati interamente disboscati per destinare il terreno ad altro uso. A questi si aggiungono le aree degradate, quelle cioè molto colpite dal disboscamento oppure arse. La superficie interessata nel mese scorso è stata di 624 km quadrati, con una crescita esponenziale rispetto ai 16 km quadrati del settembre 2013. Le norme che tutelano la foresta pluviale non mancano, ma farle rispettare non sembra facile: contadini e boscaioli sono andati avanti abbattendo aree inferiori ai 25 ettari, rimanendo al di sotto della soglia che riusciva a monitorare il sistema satellitare usato dal governo brasiliano fino a poco tempo fa. La settimana scorsa gli attivisti di Greenpeace hanno scoperto un traffico illecito di legname usando i localizzatori gps, installati su camion sospettati di usare rotte proibite per far uscire dal Brasile gli alberi abbattuti e venderli in altri mercati, anche europei. Monitorare l’area verde considerata il “polmone della Terra”, del resto, è un’impresa ardua. L’Amazzonia si estende su una superficie di oltre 7 milioni di km quadrati, di cui 5,5 milioni di zona boschiva. Negli ultimi 50 anni, come più volte denunciato dal Wwf e dalle altre associazioni ambientaliste, la foresta ha perso quasi un quinto della sua superficie. Nonostante 53 milioni di ettari nel solo Brasile siano protetti, ogni minuto viene bruciata o tagliata una superficie grande quanto tre campi e mezzo di calcio. In un’ora sono 210 campi da calcio. Il 60% della Foresta amazzonica si trova in Brasile, dove per otto anni consecutivi, fino al 2012, la deforestazione aveva mostrato un decremento grazie a politiche più stringenti. Nel 2013, tuttavia, il tasso di disboscamento è tornato a crescere, con un +29% su base annua. Un’inversione del trend che, molto probabilmente, verrà confermata anche quest’anno.52222601-586x390

Fonte:  Ansa

© Foto Getty Images

Amazzonia: ucciso Edwin Chota, il più popolare attivista peruviano

Da anni l’avvocato indio della comunità Ashaninka si batteva per la protezione delle foreste e contro il narcotraffico.

Edwin Chota, 54 anni, il più popolare attivista peruviano, impegnato da anni nella lotta contro il disboscamento della Foresta Amazzonica e contro il traffico di droga, è stato ucciso a colpi di fucile lo scorso 1° settembre, insieme a altri tre uomini. L’indigeno era un avvocato e combatteva legalmente contro la corruzione che favorisce i taglialegna fornendo i permessi che permettono loro di abbattere gli alberi e sostituirli con i terreni agricoli. Appartenente alla comunità degli Ashaninka che vive nella zona dell’Alto Tamaya, Chota aveva intrapreso un viaggio insieme ad altri tre attivisti per unirsi a altri gruppi e comunità che lottano contro il disboscamento dell’area. Dopo avere incontrato gli altri attivisti, sulla strada del ritorno Chota, Jorge Rìos PerezLeoncio Quinticima Mendez e Francisco Pinedo si sono imbattuti in un gruppo di taglialegna o trafficanti di droga che li hanno uccisi a colpi di fucile. Le moglie dei quattro uomini uccisi hanno iniziato un viaggio all’interno della foresta per raggiungere Pucallapa e chiedere giustizia. Patricia Balbuena, viceministro per gli Affari Culturali ha assicurato che verrà aperta un’indagine per individuare i responsabili del duplice omicidio. Il leader aveva ricevuto numerose minacce per il suo impegno ecologista, ma le sue istanze non hanno mai ottenuto appoggio dalle istituzioni, anche a causa dei legami fra politici corrotti e trafficanti di legname e droga. A partire dal 2012, il taglio illegale della legna ha avuto un nuovo e potente impulso e per le sue lotte Chota era spesso stato paragonato a Chico Mendes, l’attivista che si batteva per la difesa delle foreste e che nel 1988, all’età di 44 anni, fu assassinato da un gruppo armato al soldo dei trafficanti di legname. Una storia che, purtroppo, si è ripetuta e si ripete troppo spesso.

Brazil's Controversial Belo Monte Dam Project To Displace Thousands in Amazon

 

Fonte:  La Republica

© Foto Getty Images

Ecuador: scoperto accordo segreto con banche cinesi per trivellare l’Amazzonia

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Secondo un documento segreto scoperto dal Guardian, il governo dell’Ecuador sarebbe pronto a negoziare un accordo del valore di un miliardo di dollari con una banca cinese, per estrarre petrolio in un parco nazionale situato all’interno della foresta amazzonica. L’accordo manderebbe a monte anni di raccolte fondi e di lotte portate avanti dagli ambientalisti per la tutela della zona e i diritti degli indigeni. L’area interessata, il parco Yasuni, è infatti uno dei posti a maggiore biodiversità del mondo.

Trivellare la foresta amazzonica in cambio di un miliardo di dollari. È questo il presunto accordo che ha lasciato sgomenti tutti i gruppi che in questi anni si sono battuti per i diritti umani e della natura. Una proposta, fatta in totale segreto dalla Cina al governo ecuadoriano, che sarebbe stata smascherata dal Guardian. L’accordo riguarda una particolare area, chiamata Yasuni, che nell’ultimo periodo è stata oggetto di una pionieristica iniziativa, la Yasuni-ITT, pensata proprio per proteggere la foresta. La zona, infatti, è uno dei luoghi più ricchi di biodiversità che ci sono al mondo e sede di popolazioni indigene, alcune delle quali, i Tagaeri e i Taromeane, vivono ancora in quello che viene chiamato “isolamento volontario”.

L’area si trova di preciso all’estremità orientare dell’Ecuador, a 250 km dalla capitale e si estende per poco meno di 10mila kmq nella foresta pluviale in Amazzonia. Nel 1989 è stata nominata dall’Unesco riserva della biosfera.foresta-amazzonica

Purtroppo, in quella stessa area, nel 2007, furono individuati dei giacimenti petroliferi stimati in 800 milioni di barili. In quell’occasione, il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, lanciò l’iniziativa Yasuni-ITT, incentrata nel tentativo di salvare quel pezzo di foresta fluviale. Correa pretendeva in pratica che i paesi ricchi pagassero almeno la metà di quello che avrebbe generato la vendita del petrolio in dieci anni, cioè 3,6 miliardi di dollari, al fine di preservare quella parte del “polmone verde della terra”.

Ma, ad agosto dell’anno scorso, i fondi raccolti ammontavano solo a 13 milioni di dollari. Così, Correa decise di abbandonare il progetto, promettendo però di trivellare solo l’un per cento del parco. Il documento che il Guardian ha reso pubblico è arrivato quindi come un fulmine a ciel sereno per gli ambientalisti, perché sarebbe la dimostrazione che il governo ecuadoriano, invece, stava già contrattando in segreto con la China Development Bank. Secondo quanto si apprende anche da Il Fatto Quotidiano, che ha riportato la notizia, “l’accordo prevede un primo investimento di quest’ultima (della banca cinese ndr) di “almeno un miliardo di dollari” che andranno direttamente al “ministero delle finanze o a altra entità decisa dal governo ecuadoriano”.

Le ong coinvolte nell’iniziativa Yasuni sembra siano furibonde per la questione, visto che l’accordo sarebbe iniziato mentre ancora il governo cercava di recuperare fondi per salvare la foresta. Il presunto documento (attualmente non disponibile sul Guardian perché “temporaneamente rimosso dal sito in attesa di un’inchiesta”) porterebbe infatti il nome del ministro ecuadoriano in ogni pagina, nominando un accordo preliminare datato 2009. Purtroppo, ad oggi non si hanno altre notizie certe, anche perché il documento non è più visionabile. Ma se ciò si rivelasse corrispondere a verità, sarebbe una notizia terribile. Innanzitutto per la tutela della biodiversità e delle popolazioni locali e in secondo luogo perché, secondo un sondaggio, una grossa fetta (78-90%) degli ecuadoriani è contraria al trivellamento della regione. Sembra comunque che gli attivisti stiano provvedendo alla raccolta di 600mila firme entro il 12 aprile, per promuovere un referendum che blocchi tutto.

Fonte: ambientebio.it

Ecuador, foresta amazzonica in vendita. È per il debito con la Cina?

L’Ecuador vuole cedere 3 milioni di ettari di foresta pluviale – circa un decimo del territorio nazionale – alle compagnie petrolifere. Le più interessate sembrano quelle cinesi, e in molti ricollegano l’affare al debito contratto dal governo di Quito con Pechino. Ma nell’area in questione abitano sette diverse popolazioni indigene che potrebbero vedere distrutto il loro ambiente.proteste_ecuador

Brutta mano per Rafael Correa. Il presidente-eroe che nel 2008 annullò il debito estero illegittimo dell’Ecuador verso le banche statunitensi sembra aver scordato di colpo i rischi che si corrono nel finanziarsi con i prestiti delle nazioni straniere. Così ora si trova a dover svendere una enorme fetta della propria nazione alla Cina, mettendo a rischio la sopravvivenza di varie popolazioni indigene. Almeno questo è ciò che sta avvenendo secondo una delle ipotesi più accreditate. Di certo c’è che il governo di Quito ha messo all’asta 3 milioni di ettari di foresta amazzonica per favorire gli investimenti delle compagnie petrolifere straniere e che tra i clienti più interessati ci sono la China Petrochemical e la China National Offshore Oil. Il 25 marzo un gruppo di politici ecuadoriani ha incontrato alcuni rappresentanti delle compagnie cinesi in un hotel Hilton nel centro di Pechino, per offrire contratti di usufrutto dell’area. In precedenza si erano tenuti altri incontri a Quito, Houston e Parigi. Tre milioni di ettari sono oltre un decimo del territorio dell’intero paese. In essi vivono sette diverse popolazioni indigene che potrebbero vedere la propria terra venduta al miglior offerente, per essere in seguito spianata, trivellata, inquinata, devastata dall’estrazione del petrolio. Per loro il “buen vivir” è a rischio. Il diritto a vivere in un ambiente sano, gli sforzi per utilizzare energie pulite, il diritto alla salute, all’acqua, alla natura sono concetti ampiamente riconosciuti dalla costituzione ecuadoriana approvata nel 2008 – su forte pressione dello stesso Correa – compresi sotto al concetto-cappello del “ben vivere” (“buen vivir”, o “sumak kawsay” in Quechua) ma rischiano di passare in secondo piano di fronte agli interessi economici nazionali. Il buon vivere, vero e proprio pilastro della costituzione – concetto della tradizione sudamericana che consiste nel promuove la vita ed il bilanciamento fra esseri umani ed altri esseri viventi, al fine di una coesistenza armoniosa con la natura – non esisterà più. Le proteste non si sono fatte attendere. “Chiediamo che le compagnie petrolifere pubbliche e private di tutto il mondo non partecipino al processo di gara che viola sistematicamente i diritti dei sette popolazioni indigene, imponendo progetti petroliferi nei loro territori ancestrali,” hanno scritto in una lettera aperta alcuni rappresentanti delle popolazioni indigene ecuadoriane. Dal canto suo, il governo ecuadoriano ha risposto accusando a sua volta. In un’intervista, il segretario agli idrocarburi, Andrés Donoso Fabara, ha accusato i leader indigeni di rappresentare scorrettamente le proprie comunità per raggiungere obiettivi politici. “Questi ragazzi hanno un programma politico, non stanno pensando allo sviluppo o alla lotta contro la povertà”, ha detto, aggiungendo che il governo aveva deciso di non aprire determinate aree del territorio perché mancava il sostegno delle comunità locali. “Siamo autorizzati dalla legge, se volessimo, ad entrare con la forza e fare le nostre attività, anche se sono contro di loro”, ha detto. “Ma non è la nostra politica.” Nel parlare di “programma politico” Fabara allude forse all’appoggio che le popolazioni indigene hanno ottenuto da alcune associazioni umanitarie con base in Usa. In effetti è possibile che gli Stati Uniti cerchino di utilizzare il classico stratagemma della lotta per i diritti umani al fine di ostacolare una serie di accordi fra Ecuador e Cina che potrebbero contribuire a cambiare gli equilibri geopolitici del Sud America. Recentemente la Cina ha dimostrato più di un semplice interesse. Proprio ieri, 2 maggio, il nuovo ambasciatore cinese a Quito ha affermato che si aspetta che la collaborazione fra i due paesi verrà ampliata all’ambito culturale, militare, educativo e scientifico. Geopolitica a parte, resta gravissima l’iniziativa del governo ecuadoriano. Fra gli accusatori dell’esecutivo c’è poi chi è sicuro che l’intera operazione sia legata al debito contratto dall’Ecuador con la Cina. Un debito che ammonta a 7,2 miliardi di dollari, circa il 13 per cento del pil del paese. Adam Zuckerman, attivista ambientale e per i diritti umani di Amazon watch ha dichiarato al Guardian: “La mia percezione è che questo sia essenzialmente un problema di debito; gli ecuadoriani sono così dipendenti dai cinese per finanziare il loro sviluppo che sono disposti a compromessi in altri settori, come quelli sociale e ambientale”. Così, barattata in cambio di qualche miliardo di dollari, un’altra ampia zona del polmone verde del mondo rischia di essere compromessa per sempre, sottraendo ricchezza all’ecosistema e alla biodiversità del pianeta.

Fonte: il cambiamento

Ecuador, il governo mette all’asta la foresta amazzonica

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L’Ecuador sta per mettere all’asta circa tre milioni di ettari di foresta amazzonica, polmone verde della Terra. L’intenzione delle autorità sarebbe quella di venderli alle compagnie petrolifere internazionali, in particolare a quelle cinesi. Il governo di Quito ha infatti organizzato un tour nelle capitali straniere che potrebbero essere maggiormente interessate all’affare. Lunedì a Pechino i rappresentanti dell’Ecuador hanno quindi illustrato le potenzialità energetiche dei terreni in vendita ai manager delle principali aziende petrolifere cinesi, tra cui la China Petrochemical e la China National Offshore Oil. L’intenzione delle autorità dell’Ecuador ha provocato la dura protesta di organizzazioni non governative e leader delle tribù locali, che denunciano una “sistematica violazione dei diritti sulle terre ancestrali”. La vendita della foresta amazzonica aprirebbe infatti la strada a nuove esplorazioni petrolifere e a nuove deportazioni di popolazioni indigene. In particolare, secondo l’organizzazione Amazon Watch, sono sette le popolazioni che rischiano di essere espropriate della loro terra. “Chiediamo che le compagnie petrolifere pubbliche e private di tutto il mondo non partecipino al processo di gara che viola sistematicamente i diritti di sette nazionalità indigene, imponendo progetti petroliferi nei loro territori ancestrali”, ha scritto un gruppo di associazioni indigene dell’Ecuador in una lettera aperta dello scorso autunno. Il ministro ecuadoregno per gli Idrocarburi, Andrés Donoso Fabara, ha replicato all’appello duramente accusando i leader della protesta di non fare gli interessi delle loro popolazioni, ma di inseguire di inseguire degli obiettivi politici. Eppure secondo Amazon Watch, un eventuale acquisto violerebbe anche le linee guida fissate congiuntamente dai ministri cinesi per l’Ambiente e per il Commercio estero. In base al documento approvato il mese scorso, infatti, gli investimenti all’estero dovrebbero avvenire “promuovendo uno sviluppo armonioso dell’economia locale, dell’ambiente e delle comunità”. Nel luglio scorso la Corte interamericana dei diritti umani ha stabilito di vietare sviluppi petroliferi nel Sarayaku, un territorio della foresta pluviale tropicale nel sud dell’Ecuador raggiungibile solo in aereo e in canoa, al fine di preservare il suo ricco patrimonio culturale e della biodiversità. La corte ha inoltre ordinato che i governi ottengono “previo consenso libero e informato” da gruppi indigeni prima di approvare le attività petrolifere sulle loro terre indigene. La foresta amazzonica, ecosistema più ricco al mondo di specie animali e vegetali, è già fortemente minacciata dalla deforestazione che tra l’agosto del 2012 e il febbraio del 2013 è aumentata del 26,6%. Secondo i dati raccolti dal sistema di rilevamento satellitare Deter, del National Space Research Institute (Inpe), soltanto in quell’arco di tempo sono andati distrutti 1.695 kmq di foresta, una superficie più grande di quella di San Paolo, la città più grande del Sud America. Nello stesso periodo dell’anno precedente erano andati distrutti, invece, 1.339 kmq di foresta.

Fonte: il cambiamento

L'uomo che Piantava gli Alberi

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Ecuador: foresta pluviale a rischio per gli appetiti energetici della Cina

Dopo aver rinunciato all’estrazione di petrolio nella zona di Yasuni in cambio di aiuti internazionali, l’Ecuador sta ora cercando di vendere altre concessioni petrolifere alla Cina, mettendo a rishio 30000 km² di foresta ricchi di biodiversità e di popoli indigeni

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La foresta amazzonica rappresenta circa la metà del territorio dell’Ecuador (ciò che i locali chiamano El Oriente), circa 130000 km². E’ una zona straordinaria per la sua biodiversità, testimoniata dal parco di Yasuni, mostrato nella foto in alto e nella gallery.

Nel 2007 il governo di Rafael Correa lanciò l’idea rivoluzionaria di rinunciare allo sfruttamento del petrolio (riserve stimate in 800 Mb) nella zona di Yasuni in cambio di un adeguato aiuto economico da parte della comunità internazionale.

Il progetto, noto come ITT, ha preso l’avvio nel 2010 dopo aver raccolto oltre 100 milioni di $ dai donatori. Nella mappa in fondo al post la regione di Yasuni è quella marcata come “zona intangible”.

Le cose però purtroppo stano cambiando. Avendo accumulato un debito di oltre 7 miliardi di $ con la Cina, l’Ecuador le sta ora offrendo concessioni petrolifere su un’area vasta quasi 30 000 km².

La Confederation de nacionalidades indigenas de la amazonia ecuatoriana   (CONFENIAE), si oppone fermamente al progetto di concessione petrolifera in quanto violazione dei diritti collettivi delle sette nazioni indigeni che risiedono su questi territori da migliaia di anni.

Afferma il leader indigeno Humberto Cholango: «Il petrolio è stato estratto per 40 anni ed ha solo portato povertà, devastazione ambientale, malattie e genocidio». Come dargli torto? Potremmo aggiungere che non ne vale nemmeno la pena, visto che l’Ecuador possiede solo lo 04% delle riserve mondiali.

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fonte: ecoblog

Gucci: le borse in cuoio certificate Rainforest Alliance a deforestazione zero.


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Gucci torna sul progetto della moda sostenibile e lancia una nuova linea di borse in cuoio certificato Rainforest Alliance, ovvero a deforestazione zero. I vegani certamente non saranno d’accordo perché l’etica animalista impone che non siano usati animali e derivati per la produzione di oggetti e cibi. Ma per la maison italiana dell’alta moda e per i clienti è un compromesso di elevato interesse. Ma vediamo esattamente in cosa consiste. La nuova linea di borse è stata messa a punto con la collaborazione di Livia Firth fondatrice del Green Carpet Challenge e il cuoio usato proviene da fattorie di allevamento del Mato Grosso che occupano una superficie di 32 mila ettari inclusa una riserva di 13 mila ettari di Foresta Amazzonica e per cui hanno ricevuto la certificazione Rainforest Alliance. Ogni borsa sarà dotata di un passaporto che attesta la filiera di produzione e la sua tranciabilità totale. Spiega Sabrina Vigilante direttore delle iniziative strategiche di La certificazione Rainforest Alliance:

La conversione agricola per la produzione di bestiame è la principale causa della deforestazione in Amazzonia. La nuova linea Gucci imposta un fulgido esempio nel settore della moda, dimostrando che la pelle può essere prodotta tenendo in conto i benefici per l’ambiente e l’agricoltura delle comunità, promuovendo nel contempo il trattamento umano degli animali.

E’ un piccolo passo: sia chiaro, perché Gucci comunque produce borse approvvigionandosi dei pellami attraverso i canali tradizionali e usando anche pelli di animali come il pitone. Rossella Ravagli Sustainability Manager per Gucci spiega che la maison fiorentina non è nuova a queste iniziative:

Abbiamo aderito alle campagne Greenpeace per l’Amazzonia, abbiamo appoggiato la lotta alla sabbiatura dei jeans, abbiamo varato un nuovo packaging realizzato esclusivamente con carta certificata Fsc (Forest Stewardship Council) e riciclabile al 100% e, nel 2012, lanciato i primi prodotti eco-friendly, tra i quali una linea di occhiali realizzati con materiali naturali o a minor impatto ambientale, e un sandalo biodegradabile.

In merito a questa nuova collezione Ravagli precisa:

Questa nuova linea di borse eco responsabili risponde alla domanda ecologica dei consumatori e corrisponde perfettamente allo stile esigente di Gucci e prova che l’industria della moda può rappresentare una forza positiva se affronta direttamente la questione ambientale.

Fonte: Eco Age, Bioaddict