Quando la permacultura diventa una filosofia di vita…

Sostenibilità, equilibrio, biodiversità, scambio e mutuo aiuto sono i principi fondamentali che muovono il progetto dell’associazione Permacultura La Castellana, nato a Castelfranco Veneto (TV) circa un anno fa.9468-10206

Con 29 persone coinvolte, un ettaro di terra presa in affitto dal Comune e un budget al minimo (3500 euro spesi in un anno) questo progetto di permacultura ha preso il volo iniziando dalla graduale riconversione di un terreno precedentemente sfruttato dall’agricoltura intensiva. L’obiettivo è recuperare risorse e valori fondamentali per il territorio e le persone, promuovere concretamente un’economia di sostentamento e scambio con le realtà virtuose vicine oltre che ridurre progressivamente il ricorso all’economia di mercato. In una società individualistica e basata quasi esclusivamente su valori fittizi dipendenti dal denaro e dal consumo senza limiti, principi fondamentali come la condivisione dei saperi e dei frutti della terra, la solidarietà e il rispetto della natura hanno un significato profondo e dirompente. Molti i progetti futuri dell’associazione: fare rete con altre realtà basate sulla cooperazione e lo scambio, realizzare attività di reciproca conoscenza e collaborazione con le scuole tradizionali di agricoltura, approfondire e allargare le possibilità di coltivazione. Incontriamo Daniele Zanetti, uno degli ideatori del progetto e co-fondatore dell’associazione Permacultura La Castellana.

Che cos’è il Progetto Permacultura La Castellana?

Permacultura La Castellana è un’associazione culturale senza fini di lucro che ha l’obiettivo di creare una comunità aperta di persone con l’intento di fare autoproduzione, avviare un’economia di sostentamento e vendere le eventuali eccedenze. Tuttavia, la cosa per noi più importante è iniziare a praticare un’economia di scambio con altre realtà del territorio come i GAS e gli orti solidali situati nelle vicinanze.castellana

Dove avete preso la terra?

Abbiamo preso in affitto un ettaro di terra dal comune di Castelfranco per 470 euro l’anno. C’è la possibilità in seguito di prendere altri appezzamenti adiacenti, circa 5000 metri quadri. Abbiamo una concessione per i prossimi 5 anni, rinnovabile per altri 5.

Chi è stato l’ideatore del progetto e come avete incontrato gli altri soci?

L’input iniziale è stato mio e di un altro socio, Alessandro Bettati. Sono dieci anni che sono nel campo dell’associazionismo, avevo già un giro di conoscenze in questo settore e quindi non siamo partiti da zero. Attraverso incontri e fiere ci siamo fatti conoscere e sono entrate a far parte del progetto altre persone.

Con quale budget avete iniziato?

La quota associativa costa 50 euro l’anno ma col tempo abbiamo intenzione di ridurla. Abbiamo, al momento, fissato questa cifra perché abbiamo dovuto sostenere le spese per la serra e gli attrezzi necessari per l’orto. C’era bisogno di un budget iniziale ma nel giro di 5 anni la quota associativa si dimezzerà. Ci sono nostri colleghi che sono partiti con terreni di proprietà e con una cooperativa con un budget di 300000 euro. Noi siamo partiti con un budget molto limitato e alla portata di tutti. Naturalmente loro, della cooperativa, sono interessati a vendere all’esterno, noi invece siamo interessati più all’economia di scambio. Con pochissimi soldi siamo riusciti a mettere su un progetto di permacultura.

Avete tutti un altro lavoro? In questo anno che cosa avete fatto? E in che modo hanno partecipato i soci?

Molti di noi hanno il proprio lavoro ma tra i soci ci sono anche disoccupati. Per portare avanti il progetto usiamo il nostro tempo libero. Per realizzarlo pienamente occorrono circa tre anni. Per ora non si sono delineati ruoli precisi perché al momento è bene organizzarci di mese in mese e cercare di fare tutti le stesse cose con una linea guida precisa. Quando il progetto andrà avanti il gruppo diventerà un vero e proprio team all’interno del quale ciascuno avrà un ruolo preciso e quindi ci sarà chi si specializzerà nell’orto, chi avrà più interesse nella trasformazione dei prodotti: essiccati, sottolio e simili. Per specializzarci, però, dobbiamo tutti conoscere profondamente il progetto. Abbiamo un altro anno e mezzo davanti prima di concludere.castellana3

Riuscite ad essere autosufficienti?

Ci sono stati periodi in cui lo siamo stati. Al momento non lo siamo. Nel giro di due o tre anni, però, credo sia possibile arrivare a un buon livello di autosufficienza per la verdura e la frutta. Per arrivare a questo non basta solo produrre ma è necessario chiudere la filiera. Oltre a coltivare è necessario saper raccogliere, cucinare, preparare e conservare. Sembra una sciocchezza ma è una cosa che non è affatto banale o scontata perché siamo abituati ad andare al supermercato dove compriamo già tutto pronto.

Che cosa è necessario fare?

E’ necessario cambiare stile di vita. Dobbiamo considerare che durante l’anno ci sono i periodi di magra. Quindi non è che quando non si produce si debba andare al supermercato. Ci si pensa quando c’è il periodo di larga produzione conservando la verdura e la frutta che sarà poi consumata in inverno. Da dicembre ad aprile, ad esempio, è un periodo in cui non c’è frutta. Con la frutta essiccata per tempo si può arrivare a una buona percentuale di sostentamento anche in inverno. Quello che fa la differenza è l’economia di scambio. Ci sono altri gruppi simili al nostro con i quali scambiare i prodotti.

Quali sono i principi cardine dell’associazione?

Creare una comunità aperta di persone. E’ fondamentale perché recupera valori comunitari che questa società del consumo ha già in buona parte perso.  Pensiamo al valore della condivisione, dell’aiutarsi l’un l’altro, della solidarietà. Concetti che in una società individualistica e basata sul valore del denaro sono quasi inesistenti. In campo prettamente economico, vogliamo promuovere una ripresa dell’economia di sostentamento e di scambio, riducendo progressivamente l’economia di mercato.

La vostra terra si trova vicina ai centri abitati?

Sì ma contemporaneamente non è vicina a una strada trafficata e quindi il terreno è un terreno relativamente pulito. Dico “relativamente” perché si tratta comunque di un terreno in conversione e per recuperarlo, utilizziamo varie tecniche, tipo il sovescio. E’ necessario tener presente che, purtroppo, viviamo in un mondo inquinato. Certamente anche il nostro, in una certa misura lo è, ma è parte integrante del nostro progetto proprio il fatto che attraverso un approccio diverso, sano e collaborativo nei confronti della terra, col tempo, i terreni possano essere recuperati. Ci sono altre realtà simili alla nostra in zona: apicoltori e funghicoltori. C’è un bosco vicino a noi creato da un gruppo di ragazzi che ne avevano bisogno per allevare le api

Qual è l’età media dei soci e qual è il futuro del vostro progetto?

Circa 45 anni. Io ho 33 anni e sono tra i più giovani. Questo mi dispiace molto. E’ anche colpa nostra perché dobbiamo renderci più visibili. Dobbiamo andare nelle scuole e far vedere ai ragazzi che esistiamo. E’ il prossimo step che dobbiamo fare e uno dei nostri obiettivi. Ad esempio, c’è l’istituto agrario di Castelfranco, a pochi chilometri da noi, all’interno del quale il professor Alessandro Leoni è riuscito ad introdurre il biologico. Al momento nelle scuole si parla quasi solo di agricoltura tradizionale quindi è chiaro che la permacultura come concetto e come vera e propria cultura del fare, ancora non c’è. Bisogna iniziare a collaborare. Il futuro del progetto e della nostra associazione è questo.

Che cosa rappresenta il vostro progetto all’interno della realtà in cui siete inseriti?

Noi stiamo creando un ecosistema. Con i vari elementi: l’orto, il frutteto, il pollaio, la food forest, le aromatiche, i cereali stiamo andando a creare un ecosistema sostenibile. Ogni elemento all’interno del progetto è legato in un contesto di economia circolare, aumentando la biodiversità e conseguentemente le interazioni tra le varie specie viventi. Si raggiunge un livello di complessità più alto e soprattutto un equilibrio con la natura. La sostenibilità la raggiungiamo in questo modo.

Coltivate anche i cereali?

Il terreno veniva da un’agricoltura intensiva e abbiamo seminato a spaglio il sovescio di varie piante leguminose e foraggere. Da quest’anno possiamo pensare di iniziare a seminare un cereale. Un gruppo che conosco e che si trova vicino a noi ha recuperato alcuni grani antichi (Saragolla e Senatore cappelli) ed è arrivato poi a produrre le farine. In zona abbiamo, tra l’altro, un vecchio mulino. Quando ci muoveremo noi dovremo pensare attentamente alla filiera e alla gestione di tutto il processo e lo faremo nel modo più sostenibile possibile, avendo una realtà di riferimento come la loro. Vogliamo recuperare un metodo antico che oggi non si usa più. Oggi si usa il mietitrebbia che taglia tutto. Una volta, invece, le trebbie tagliavano a un’altezza maggiore e contemporaneamente si seminava una leguminosa a mano quando il grano era alto. Quando si raccoglieva falciando il grano si aveva già il terreno con le piantine di leguminose che crescevano. Questo si faceva per mantenere il terreno fertile dando la rotazione tra il cereale e le leguminose.

E’ lo stesso sistema di Masanobu Fukuoka?

Sì, ma non solo lui, direi che è una pratica antica. Masanobu Fukuoka ci ha insegnato che il terreno deve essere sempre coperto. Utilizzava il trifoglio bianco come leguminosa seminato nei campi di riso e poi d’inverno copriva con la paglia in modo tale da proteggere il terreno dalle gelate. Le cose importanti per realizzare un progetto in equilibrio con la natura sono tre: la fertilità del suolo, la qualità del seme perché oggi abbiamo semi più produttivi  rispetto alle varietà antiche, ma sono anche più delicate e si ammalano più facilmente. Dobbiamo puntare sulle nostre piante rustiche e chiaramente non ibride, altrimenti il seme non è fertile. Infine, la biodiversità. Se non c’è biodiversità l’ecosistema non è in equilibrio.

Che ruolo hanno gli animali? Li allevate per la carne?

No. Gli animali sono parte integrante del progetto perché sono fondamentali. Sono animali che troveranno il cibo sul campo. Inoltre, hanno la funzione di concimare la terra. La nostra agricoltura non è intensiva ma comunque non siamo in grado di creare da soli un sistema che si tenga in equilibrio. Le galline ci aiutano in questo, ad esempio mangiando i parassiti che danneggiano le piante (nei mesi non produttivi dell’orto). L’ecosistema che abbiamo creato sostiene le galline stesse. Sono, all’interno di un circolo virtuoso, un elemento che serve a mantenere l’equilibrio. Questo è un altro dei nostri obiettivi.

Qual è la differenza rispetto ai progetti di agricoltura tradizionale?

Noi lavoriamo con la natura e non la pieghiamo ai nostri bisogni come fa l’agricoltura tradizionale e tutta la società moderna, in ogni campo). Tuttavia, siamo consapevoli della necessità di una collaborazione nei luoghi in cui l’agricoltura tradizionale viene insegnata. Lavorare in sintonia con queste realtà è il modo che abbiamo scelto per cercare di arrivare a un risultato positivo e virtuoso per tutti: le persone, la terra, la società.

Dove avete imparato la permacultura?

Uno dei soci è permacultore (Alessandro Bettati) e ha fatto il corso con Geoff Lawton. Personalmente non sono permacultore ma mi sono formato leggendo libri e cercando di migliorarmi nella pratica in questa direzione. Il nostro progetto prevede anche che alcuni di noi si formino con corsi specifici.

Perché progetti come il vostro?

La nostra è una società consumistica e individualistica che disintegra valori come la famiglia, il rispetto del prossimo, le varie comunità nel territorio, mantenendo come unico valore il denaro. In questa società, entrano in gioco effetti che nelle economie preindustriali erano molto limitati quali: accumulazione sempre più sfrenata di beni e merci, usura, l’interesse che per sua natura è uno strumento di mera speculazione. Una società fatta in questo modo e un’economia di mercato basata sul denaro come fine e non mezzo non potrà fare molta strada.

Come vedi il futuro?

Nella storia dell’uomo è sempre stato così: c’è sempre stata un’economia di sostentamento in primo luogo, poi di scambio e poi di mercato. Adesso invece l’economia di mercato è diventata primaria e l’unico modo di sostenersi è lavorare per avere il denaro con cui comprare quello che ci serve. Non è assolutamente possibile né realizzabile un mondo che continui a basarsi sull’individualismo puro e su un consumismo senza limiti. In futuro si tornerà alle nostre radici perché una società fondata sullo sfruttamento a oltranza di risorse che non sono infinite non può essere sostenibile e non potrà garantire un benessere economico come quello cui siamo abituati. Prima o poi siamo destinati a cambiare sistema. Non siamo solo noi a pensarlo ma ci sono altri movimenti come il Movimento per la Decrescita Felice, le Transition Town, il Movimento Zero di Massimo Fini, i vari progetti di ecovillaggi.

Qual è il vostro sogno?

Stiamo cercando di fare rete con tutti gli altri movimenti che si basano su valori come la cooperazione e lo scambio attraverso un’economia sana e non basata sullo sfruttamento e sul consumo.  Fare rete significa, di fatto, iniziare a creare i presupposti per una nuova società.

Che consiglio ti sentiresti di dare a chi volesse imitarvi?

Non me la sento ancora di dare consigli. Forse ci sentiremo di farlo tra cinque o sei anni, quando ne sapremo di più. Per il momento posso dire che la prima cosa è non fare il passo più lungo della gamba, fare poche cose ma fatte bene. Altra cosa fondamentale è insistere e non scoraggiarsi alle prime difficoltà.

Fonte: ilcambiamento.it

 

Low Living High Thinking: vivere basso e pensare alto, una filosofia di vita

«Low Living High Thinking: sono convinto che in queste quattro parole siano custoditi i due più importanti precetti che questa difficile congiuntura storica, economica e sociale ci suggerisce di applicare: vivere basso e pensare alto. Vivere cioè più vicino al suolo e lasciare la testa libera di esprimersi ai massimi livelli, decolonizzando l’immaginario dominante e – perché no? – architettandone uno nuovo». Le idee chiare le ha Andrea Strozzi, ideatore e realizzatore di LLHT, un think-net che prova a collegare due mondi. Lui il suo lo sta costruendo, soprattutto dopo avere lasciato un lavoro insensato e avere ristrutturato, con anni di manualissimo lavoro, una casetta in montagna.andrea_strozzi

Innanzi tutto, spiegaci la scelta di questi termini, di questa “formula”. «Credo che Low Living High Thinking sia un’espressione che ha la fortuna di parlare da sola. Al di là delle sue origini (viene ricondotta alla filosofia trascendentalista nientemeno che di Thoreau), sono convinto che in quelle quattro parole siano magicamente custoditi i due più importanti precetti che questa difficile congiuntura storica, economica e sociale ci suggerisce di applicare: vivere basso e pensare alto. Vivere cioè più vicino al suolo e lasciare la testa libera di esprimersi ai massimi livelli, decolonizzando l’immaginario dominante e – perché no? – architettandone uno nuovo».

Cosa significa secondo te “vivere low”? «Innanzitutto, vuol dire emanciparsi volontariamente e consapevolmente dalla perversa logica dell’accumulo incondizionato, di cui è impregnato da quasi tre secoli il tessuto socioeconomico occidentale. Significa cioè fare i conti con i propri bisogni primari, escludendo dalla propria agenda tutto ciò che si rivela accessorio. Chi volesse farsi un’idea più approfondita di questi concetti, non dissimili dai postulati della decrescita, può fare riferimento a un mio precedente intervento, o al mio articolo“Ma quanto low”, in cui spiego meglio cosa io intenda con… vivere basso. Ma non vorrei qui insistere su un aspetto che altri, prima e meglio di me, hanno già raccontato e testimoniato: penso soprattutto, ma non solo, a Simone Perotti, simbolico e grandioso apripista, qui in Italia, del nuovo approccio. Ciò su cui mi preme invece focalizzare l’attenzione è il legame tra il distacco da un preciso assetto valoriale e la scelta di dedicarsi ad uno diverso: perché, quando appunto si tratta di scelta, tale distacco è inevitabilmente il frutto di un processo cognitivo. Decidere oggi di rinunciare a un discreto stipendio fisso e a una serie di garanzie, per scommettere sulle proprie capacità e sulle proprie passioni, credo sia l’esempio più facilmente comprensibile».

E’ il principio del downshifting… «Sì, ma non solo. Le mie finalità, che si esauriscono proprio nell’altra metà del nome (high thinking), sono anche e soprattutto divulgative: vorrei cioè far convergere su un unico terreno di confronto le troppe certezze di cui è impregnato il “mondo” che ho abbandonato, quello competitivo e alienante che ha nel profitto il suo unico dogma, e le troppe titubanze che purtroppo registro nel “mondo” che nel 2004 ho cominciato ad abbracciare, quello cooperativo e rigenerante che ha nelle dinamiche vernacolari il suo principale valore aggiunto».

Puoi spiegarci meglio questo concetto? «Certo. Anche perché esso costituisce la peculiarità di LLHT, che è un think-net nato a fine 2012 con lo scopo di mettere due discipline che conosco assai bene (l’economia per dovere, la sociologia per passione) e la mia testimonianza diretta, a disposizione del dibattito sul cambiamento degli stili di vita. Questo, anche raccogliendo e divulgando i qualificatissimi punti di vista e le provocazioni di persone ed esperienze diversissime fra loro: artigiani, insegnanti, agricoltori, medici, filosofi, ingegneri, studenti. L’obiettivo è infatti quello di mettere fecondamente in contatto due concezioni della realtà destinate e incontrarsi, ma oggi ancora distanti. I due mondi di cui parlavo prima, e che potremmo simbolicamente rappresentare con i nostri due emisferi cerebrali, appaiono infatti animati da obiettivi diversi, ma – a uno sguardo più attento – hanno invece più di un elemento in comune. C’è un mondo razionale e calcolatore che, come tutti sanno, fa dell’accumulo di denaro la sua unica stella polare: un mondo, cioè, che potremmo definire individualmente utilitarista. E, specularmente a questo, c’è un mondo meno spregiudicato e più attrattivo che, invece, considera i beni relazionali e la salvaguardia del proprio habitat come le principali risorse per il benessere collettivo. Un mondo, diciamo, socialmente utilitarista. Ma… sempre di utilità si tratta! Credo che chi ha sperimentato dall’interno entrambe queste dimensioni – magari potendo esibire sulla carne qualche cicatrice – possa raccontare più autorevolmente di altri quanto sia spettacolare e formativo sintetizzarle in qualcosa di nuovo e, per molti aspetti, nobilitante. Ma, per farlo, occorre inventarsi nuovi codici espressivi, un po’ ricchi di contenuti qualificati (per qualcuno, assai noiosi) e un po’ evocativi e onirici (per qualcuno, assai idealistici): in una parola, occorre… creare un nuovo linguaggio».

Interessante la prospettiva di un nuovo linguaggio che avvicini mondi e persone… «Mi riferisco a un nuovo modo di creare connessioni – concettuali e progettuali – fra questi due mondi. Un linguaggio che sia capace di suscitare interesse e di essere ascoltato dai rispettivi abitanti, i quali oggi, non conoscendosi fra loro, nella migliore delle ipotesi si ignorano. Più spesso, si detestano. Perché farlo e perché adesso? Semplice: perché il mondo della trickle-down economy è miseramente franato! Con questo termine inglese, ci si riferisce alla dottrina, poi evolutasi nel neoliberismo di matrice capitalista, che – fin dal verbo del suo profeta Adam Smith, nel 1776 – sostiene che la ricerca dell’interesse individuale si rifletta necessariamente nell’interesse collettivo, tramite le proprietà equilibratrici del libero mercato. Oggi questo postulato è una barzelletta sotto gli occhi di tutti. Che però non fa ridere! Si pensi alla spaventosa iniquità distributiva della ricchezza nelle economie sviluppate, ma si pensi anche all’imminente esaurimento dei combustibili fossili, allo sfruttamento pornografico del territorio e – aggiungo – all’impoverimento culturale del genere umano, frutto di un preciso disegno a tavolino che ipnotizza i cittadini per trasformarli in consumatori. Tuttavia, il paradosso di questo mondo è che, nonostante le condizioni in cui versa, quasi tutti i suoi esponenti negano questa evidenza. Ovvio: due secoli e mezzo di progressi, perlopiù illusori e incastonati fin nelle eliche del nostro DNA, non si cancellano in un paio d’anni».

Un obiettivo ambizioso. «Sì, ma a portata di mano. Dall’altra parte, infatti, già esiste un mondo – in espansione – fondato su presupposti antitetici. Costruito sull’architrave di concetti come “decrescita” e della (abusatissima) espressione “cambio di paradigma”, è il mondo che fa della convivialità il suo obiettivo prioritario. Non a caso, poco fa ho usato l’aggettivo “vernacolare”: il recupero della dimensione vernacolare dell’esistenza è il principale punto fermo dell’intera e vastissima trattazione di Ivan Illich, a mio parere il più grande pensatore del Novecento. Vernacolare è ciò che si ispira ai criteri di mutualità, di scambio e di condivisione su base domestica e comunitaria, con il denominatore comune del piacere della reciprocità. Appuntatevelo questo termine: ho l’impressione che tornerà presto di moda».

Perché proprio tu? «Casomai, perché “anche” io. Nella mia precedente esperienza, durata 14 anni, mi sono nutrito fino alla nausea di studi macroeconomici, diagnosi di scenario, benchmark di mercato, strategie di business, performance management… tutti paroloni altisonanti ma, in fondo, ridicoli esoscheletri di attività essenzialmente prive di senso. Del senso che intendo io, almeno. Contestualmente, oltre ad aver rimesso in sesto (tre anni prima di Lehman Brothers…) una vecchia stalla ai margini di un ettaro di campi e uno di boschi, ho dato vita a questo progetto, testimoniando – anche in termini divulgativi – cosa io intenda con resilienza. Credo che nessuno meglio di chi ha conosciuto entrambi quei mondi sia agevolato nel denunciarne le falle, trattenendone e valorizzandone gli aspetti migliori. Da un anno e mezzo, su LLHT parliamo esattamente di queste cose. Per quel che mi riguarda, lo faccio col preciso intento di provare a realizzare – rappresentandolo io stesso – un “ponte” fra quei due mondi: coniugando cioè uno stile comunicativo dai contenuti assai rigorosi e qualificati (retaggio della realtà da cui provengo), ad una cifra espressiva invece molto calda, evocativa e fortemente ispirata alla mia esperienza personale. Un’esperienza, cioè, che si è progressivamente ispirata ai bisogni primari, smantellando quelli che, appunto, Illich definiva fab-bisogni, e che sono cioè quasi sempre associati a portatori d’interesse e sovrastrutture che, col soggetto, non hanno nulla a che fare. (Si pensi, per esempio, a come il bisogno primario di curarsi sia ignobilmente degenerato nell’industria del farmaco)».

A chi ti rivolgi? «Principalmente cerco di parlare a chi, ancora riconoscendosi appieno nel proprio mondo di appartenenza, non si è mai posto il problema di cosa ci sia di… interessante, nell’altro mondo. Ma mi rivolgo anche a chi – pur non afferrandone in pieno le ragioni – si è già fatto sedurre dalla prospettiva di un cambiamento nella propria vita e, infine, anche a tutti quei “blocchi monolitici” in cui è comunque presente una… fessura, una piccolissima crepa in cui insinuare il dubbio».

Sei soddisfatto, fin qui? «Molto. LLHT si è rapidamente circondato di tantissimi amici e simpatizzanti. E lo dimostra la quantità di persone che mi mandano i loro contributi: dalle foto e dai racconti delle loro realizzazioni (orti sinergici, lavori di bricolage, riparazioni, restauri…) a interessantissime e fondamentali sollecitazioni intellettuali (ricordo, solo qualche giorno fa, la clip di una sensazionale intervista a Erich Fromm): ancora una volta, low living e high thinking insieme… stupendo! Credo che ci sia giustamente in giro un gran bisogno di comunicare e condividere i propri tratti di strada: questo è il più classico dei beni relazionali, oggi reso possibile dal web. Chi si intende di web mi assicura il valore di una tale quantità di visite e interazioni. Ma io rispondo: …valore, nell’ottica di quale di quei due mondi? Valore commerciale o valore umano? Utilizzando una metafora, dico sempre che mi piace “correre bendato”, senza cioè sapere cosa fanno gli altri. Perché, di solito, se vedi che vanno più veloci di te, allunghi il passo; se invece li vedi rallentare, rallenti anche tu. Credo che ognuno debba procedere alla propria velocità: non ci sono regole e non deve soprattutto esserci competizione. Siamo ormai in tanti a dire queste cose, lo so bene. Ma, come ricordo sempre, tanti strumenti formano un’orchestra: e io, prima o poi, quella sinfonia vorrei sentirla».

Domanda classica: i prossimi passi? «Innanzitutto, correndo bendato, vorrei evitare di… prendere un palo in fronte! Scherzi a parte, considerando che lo stesso LLHT non è diventato quello che è oggi, grazie a un vero e proprio progetto, quanto piuttosto a una serie di fortunate intuizioni – non ultima, la reciproca collaborazione con l’Ufficio di Scollocamento e, più recentemente, con PAEA – credo che la cosa migliore da fare sia… seguire l’istinto. Mantenendo l’occhio sempre ben puntato sulla… bussola. Quello che intendo fare, magari tramite qualche soluzione editoriale, è puntellare il ponte che nel prossimo futuro dovrà necessariamente collegare quei due mondi. Già oggi, per esempio, sono in contatto con organismi e associazioni che vogliono applicare questa nuova “grammatica” ai rispettivi orizzonti progettuali. Stanno inoltre sorgendo fondazioni dedite alla filantropia strategica: due vocaboli che, se autentici, fino a pochi anni fa sarebbero sembrati quasi un ossimoro! Oggi c’è un humus ideale a creare sinergie tra chi si spende per gli altri e chi, quasi come un insider, ha conosciuto e assorbito le logiche – basate sull’efficienza e sull’utilitarismo – del mondo che sta definitivamente disgregandosi. Occorre distillare l’essenza di queste due esperienze e usarla come malta per costruire quei ponti, sia concettuali che empirici. Ponti di cui LLHT ha l’ambizione, oggi, di rappresentare una solida arcata».

A questo punto, non ci resta che augurarti… buona costruzione!

Fonte: il cambiamento.it