Siamo tutti figli della pubblicità

La pubblicità fa a tutti il lavaggio del cervello, fin da piccoli, nessuno riesce a sfuggire. Siamo bombardati, ci uniformiamo, cresciamo già condizionati. Ma è ora di dire basta e recuperare relazioni sincere; soprattutto bisogna ricostruire la società secondo valori diversi da quelli per cui vali se compri, se appari.

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La pubblicità sembrerebbe essere ormai qualcosa che fa parte di noi e forse non si considera abbastanza quanto la nostra formazione come persone sia influenzata dai suoi parametri, veicolati soprattutto dalla televisione e negli ultimi anni anche attraverso internet. Un bombardamento costante e continuo fin dalla primissima infanzia ha sulle persone un effetto profondo e duraturo. L’imprinting è così forte che poi le nostre scelte saranno per forza condizionate dal lavaggio del cervello a cui siamo sottoposti. Prodotti, musichette, slogan, immagini che entrano nella mente e rimangono imprigionati lì per tutta la vita. Si dicono frasi che si associano a pubblicità, si fanno acquisti in base a parametri emotivi e di ricordo dei prodotti che ci hanno fortemente influenzato nel tempo. Ultimamente poi il bombardamento è ancora più pressante, considerato che internet è strapieno di pubblicità che sbuca da ogni dove, continuamente, ossessivamente, senza tregua e sosta.

Chi siamo noi veramente depurati da tutta questa roba che si accumula nel cervello? Si è mai pensato, se non avessimo avuto alcuna influenza della pubblicità, cosa saremmo? Come saremmo?

L’influenza pervade ogni singola cellula, ogni interstizio celebrale è pieno di merci da comprare, di mode, di atteggiamenti, di “stili”, di elementi esterni a quello che noi siamo o potremmo essere se non subissimo questi condizionamenti. Il risultato principale di tutto ciò è l’omologazione di massa per cui anche i comportamenti più assurdi e le scelte più estreme sono normali e chi non le segue viene considerato anormale, strano, a volte pure integralista. Una persona che non ha la televisione e cerca di salvaguardarsi per non essere influenzato troppo da politici e pubblicità, è considerato uno fuori dal mondo, un radical chic, quando invece è vero esattamente il contrario; casomai ci vuole proprio entrare nel mondo, ma il suo, depurato il più possibile dai condizionamenti determinati dalla vendita di consenso e prodotti, i due elementi per i quali esiste la televisione. La pubblicità propone i modelli a cui dobbiamo adeguarci per essere accettati dalla società, i programmi televisivi non sono altro che contorni per gli spot pubblicitari e ripropongono gli stessi modelli pubblicitari. Attraverso la pubblicità si veicola il pensiero unico del consumo che fa sembrare un idiota chiunque non si adegui a questa legge non scritta. I modelli consumistici che vengono veicolati parlano di famiglie felici che mangiano frollini, di persone perfette, bellissime ragazze sempre più ammiccanti e sexy, uomini raffigurati come modelli e persone di successo, figli impeccabili, in una sorta di mistico mondo ariano dove il diverso, lo strano, è accettato solo se propedeutico al lancio di una nuova tendenza o un prodotto su cui fare soldi. Basti pensare alla moda che punta sullo stile personale, che ovviamente non sarà mai il nostro stile perché quegli stessi capi di abbigliamento, quegli orologi, profumi, borse, accessori, ecc., saranno comprati da migliaia di altre persone convinte di avere il proprio stile unico. Fanno poi decisamente ridere tutte le pubblicità che puntano sulla libertà e che ci spiegano come un profumo o una automobile nuova ci daranno quella libertà da sempre desiderata. Ovviamente la libertà di cui parlano è solo quella di scegliere fra la loro automobile rispetto a quella della ditta concorrente. Il bombardamento nei confronti dei bambini è ancora più grave perchè non hanno nemmeno le armi per difendersi; i genitori troppo spesso non controllano né limitano questo bombardamento, pensando che sia una specie di punizione a cui è necessario sottoporsi pur di acquietarli. Come fa un bambino a discernere esattamente fra la valanga di prodotti e input che gli arrivano addosso? I programmi per bambini o adolescenti, che sono anche loro di contorno e supporto degli spot pubblicitari, esaltano sempre dei non valori per i quali se non ti omologhi, se non ti vesti in un determinato modo sei uno sfigato, uno da emarginare. La distruzione dell’autostima del bambino, che magari ha difficoltà a seguire questi parametri, è sistematica.

Per la pubblicità abbiamo importanza se appariamo, se primeggiamo, se in qualche modo scavalchiamo gli altri in qualcosa e per fare questo dobbiamo appunto comprare. Chissà come saremmo senza questo condizionamento; probabilmente avremmo meno cose e soprattutto cose utili intorno a noi, non avremmo bisogno di lavorare così tanto perché ci basterebbe poco, i nostri figli crescerebbero con meno stress, incubi e pretese di oggetti. E siamo anche noi diventati oggetti che comprano oggetti e i sentimenti non possono che diventare anch’essi oggetti proposti al miglior offerente. Infatti è un proliferare di siti in cui le persone, in base a parametri simil pubblicitari, si incontrano, si usano e poi si gettano; e avanti un altro, esattamente come i prodotti usa e getta. Per sottrarsi da questa situazione bisogna iniziare a cambiare la propria vita. Bisogna ricostruire la società secondo valori diversi da quelli per cui vali se compri, se appari. Scuola, società, lavoro, ovunque devono essere proposti valori di aiuto, solidarietà, cooperazione, attenzione agli altri, all’ambiente, cura della propria crescita spirituale, considerazione di ogni ricchezza personale interiore a prescindere dai jeans nuovi o dal look. Le persone non sono oggetti da addobbare, le persone hanno sentimenti, capacità, sensibilità che non possono essere piallate ed omologate da chi non ha altro interesse che di venderci qualcosa e poi si finisce per stare assieme o considerare qualcuno per quello che non è ma per come appare. Tutto ciò non può che generare nelle relazioni conseguenti delusioni, drammi, litigi e odi. Spesso si fa fatica a capire perché i rapporti in genere sono così conflittuali quando non si è fatto altro che aderire a modelli che con il nostro io profondo non avevano nulla a che vedere. Ma per conoscere il proprio io profondo e quindi capire bene cosa si vuole e cosa si è, bisogna fare pulizia e spazio all’interno di noi. Per quanto il sistema della crescita economica si sforzi di farci diventare tutti automi dediti solo all’acquisto, le persone possono sentire e vivere ancora secondo la propria natura e non secondo moneta. Ricercando quell’io naturale depurato dalle merci inutili si può ritrovare se stessi e gli altri in una nuova concezione dell’esistenza.

 

Fonte: ilcambiamento.it

Come educare emotivamente i figli con successo

Una corretta educazione emotiva permetterà ai vostri figli di diventare dei cittadini giusti, oltre ad aumentare la loro felicità futura.Figli-500x355

Potete insegnare ai vostri figli ad attraversare la strada quando il semaforo è verde, a prendersi cura degli animali, a leggere e a fare i conti e anche a riciclare la spazzatura che producete in casa. Ma insegnate ai vostri figli anche ad esprimere i loro sentimenti? A dire a voce alta quello che provano prima di chiudersi nella loro stanza sbattendo la porta?

Educare i figli non significa solo riempire la loro mente di conoscenze e dati. Educare è dare loro delle strategie per farsi valere nel mondo, per essere felici e far felici gli altri. È importante valorizzare l’educazione emotiva dei figli, è un proposito che dovreste seguire tutti i giorni. Dato che nelle scuole e nei centri educativi non viene ancora considerata quest’area, è fondamentale che teniate presenti alcuni aspetti della vita dei vostri figli fin da piccoli.

Come sviluppare l’educazione emotiva dei vostri figliFigli2-500x333

L’educazione dei vostri figli inizia fin dal primo giorno in cui vengono al mondo. Educare è dare amore, carezze, parole e routine. L’ora di mangiare, l’ora di dormire, il sorriso in cui i bambini si vedono riflessi e che cercano di imitare. La voce che dà loro sostegno e appoggio, che offre loro sicurezza ad ogni passo che fanno, la forza che li spinge ad essere coraggiosi anche dopo una caduta… Tutto questo è educazione emotiva. La vera avventura arriva a partire dagli 8 anni di età. I bambini iniziano a farsi degli schemi sul mondo e su loro stessi. Hanno già un senso della giustizia e tengono ben in considerazione ciò che è bene e ciò che è male. A partire dagli 8 anni, i bambini mostrano la loro personalità, i loro interessi. Si avvicinano al mondo con curiosità ed è a quel punto che voi genitori rappresentate per loro la chiave per avere appoggio, autonomia e affetto quotidiano. Tenete in considerazione quali dimensioni far sviluppare ai vostri figli per la loro educazione emotiva:

  1. AutoconoscenzaFigli3-500x348

I bambini devono crescere essendo sempre la migliore versione di se stessi. Questo cosa vuol dire? Che devono essere consapevoli del loro potenziale e dei loro limiti. Insegnate ai vostri figli il valore di fare le cose per se stessi, di essere autonomi per poter capire, giorno dopo giorno, ciò che sono in grado di fare, cosa è adatto o non è adatto a loro.

Assicuratevi di non essere iperprotettivi, altrimenti i vostri figli faticheranno ad essere responsabili un domani ed avranno problemi di autostima. Permettete loro di crescere sostenendoli in ogni momento della loro vita, senza dimenticare che ogni volta che sbagliano, non dovete punirli, ma insegnare loro a fare meglio.

  1. Date loro responsabilitàFigli4-500x332

Una persona responsabile di se è una persona matura dal punto di vista emotivo. È una persona che non dipende dagli altri per fare le cose e che ha fiducia in se stessa. A mano a mano che diventano più grandi, date ai vostri figli più responsabilità. Devono imparare che la vita non è fatta solo di diritti e libertà, ma che tutti dobbiamo essere responsabili delle nostre cose per essere autonomi.

  1. Insegnate ai vostri figli ad essere felici, ma anche ad accettare la frustrazioneFigli5-500x333

Fin da piccoli i bambini devono capire che non possono avere tutto. Ogni volta che ricevono un vostro rifiuto, non devono reagire in maniera disperata come se cascasse il mondo. Facciamo un esempio:

Vostro figlio di 8 anni vuole che gli compriate un cellulare. Ovviamente è troppo giovane per questo, quindi dovete spiegarglielo e farglielo capire. Se si arrabbia, se colpisce i mobili e vi urla contro, è un bambino che non ha imparato ad accettare la frustrazione. Questo, a lungo andare, gli causerà grande infelicità. Imparate a gestire correttamente queste situazioni, ragionate, stabilite dei limiti, date delle spiegazioni in modo che vostro figlio capisca le vostre decisioni.

  1. L’importanza del “bene comune” e che “tutti vincono”Figli6-500x375

La vita non è un’isola in cui stare in completa solitudine. Tutti viviamo all’interno di una società con altre persone che fanno parte della nostra quotidianità, stabiliamo dei vincoli e cresciamo come persone e dal punto di vista emotivo gli uni con gli altri.

Questo cosa vuol dire? Che per educare i figli con successo, bisogna lavorare anche su queste dimensioni:

  • Fomentare l’empatia, cioè fare in modo che i bambini riconoscano le emozioni negli altri, nei nonni, nei fratelli, negli amici.
  • Far capire ai bambini che se fanno qualcosa di sbagliato, la loro azione può ripercuotersi sugli altri. Se si sforzano di portare rispetto, di capire e rendere felici gli altri, “tutti vincono”. Se regalano un sorriso, è probabile che otterranno un sorriso di risposta. L’emozioni positive sono sempre le più potenti.
  • È importante anche fare in modo che i bambini imparino a rendersi felici, cioè devono valorizzare le loro passioni, il fatto di imparare cose nuove che aumentano il loro sapere e la loro soddisfazione e devono anche sapere che volersi bene è un’arma molto potente. Con una buona autostima, una buona accettazione fisica ed emotiva, i vostri figli saranno capaci di amare meglio gli altri.

Non abbiate dubbi e mettete in pratica i nostri consigli e di sicuro riuscirete ad educare emotivamente i vostri figli nel modo più giusto!

Fonte: viverepiusani.com

I figli sono un aiuto o un freno al cambiamento?

Cambiare, cioè lasciare ciò che si conosce per raccogliere la sfida e affrontare, spesso, ciò che non si conosce, può essere difficile. L’associazione Paea da tempo, grazie alla costituzione dell’Ufficio di Scollocamento, organizza momenti di confronto per guidare in questo cambiamento. E quasi sempre emerge che a fare riflettere, forse più di ogni altra cosa, è la presenza dei figli.cambiamento_prendereilvolo

Nei nostri incontri, conferenze, corsi sullo scollocamento, in merito alle persone che hanno figli ancora in età non adulta, rileviamo due diversi approcci quando si parla di cambiamento o scollocamento. Il primo è quello per il quale i figli sono visti con un approccio problematico, perché si pensa che il cambiamento possa apportare rischi o mutamenti di condizioni che i figli faranno fatica ad accettare, supportare, vedere di buon grado. C’è anche la grande paura che il cambiamento possa significare minori entrate, soprattutto se presuppone un licenziamento per passare ad un lavoro che piace di più ma che fa guadagnare meno, un part time o simili. Il secondo atteggiamento è quello per il quale si cambia, ci si scolloca anche perchè si hanno a cuore i propri figli, per dar loro una speranza di futuro, un futuro diverso da quello cupo e vuoto che questa società prospetta. Inoltre lo si fa anche perché si intuisce che la libertà loro e nostra è un aspetto fondamentale da cui non si può prescindere e la libertà non nasce dalla paura ma dalla voglia di vivere, che può essere trasmessa da genitore a figlio. A questo proposito voglio segnalare un intervento di Marìca Spagnesi, collaboratrice di Llht, Low Living High Thinking, il think net del nostro amico Andrea Strozzi; quell’intervento trovò spazio sul blog di Simone Perotti. Madre di due bambini, Marìca spiega in maniera chiara ed eccezionale quale meravigliosa fonte di libertà, forza e cambiamento siano i suoi figli per lei. Simili interventi possono essere di aiuto per chi ha timore che ai figli serva chissà cosa e che possano subire negativamente il “cambiamento”. Ai figli, ai quali non è difficile garantire una esistenza dignitosa e sobria dal punto di vista materiale, quello che serve prioritariamente è avere genitori felici e liberi o che fanno di tutto per esserlo.

Ecco l’intervento.

«Non mi sono mai sentita così libera come da quando ho partorito i miei figli. Mai così me stessa, così grande, così naturale, così spontanea. Se i figli avessero ridotto la mia libertà non li avrei mai fatti, considerando questa una cosa per me essenziale. Non ho mai ridotto la mia libertà nonostante fosse per me prioritaria, eccome. I miei figli mi hanno insegnato a essere più libera di com’ero aprendo la mia testa, il mio cuore e le mie braccia senza chiuderle mai. I miei figli non sono mai stati “rinuncia” ma un viaggio nuovo attraverso il quale ho scoperto e trovato, scambiato, condiviso, conosciuto cose straordinarie e ignote. Loro, di me stessa, della vita in generale, dell’essere umano senza condizionamenti, libero, ingenuo, vero, essenziale e nella sua “purezza”. Le responsabilità verso di loro mi piacciono, mi piace vederli crescere e vedere come si differenziano, come pensano, come costruiscono i loro pensieri e le loro relazioni. Mi piace insegnargli quel poco che ho capito e imparare da loro nella loro infinita sapienza ciò che sanno d’istinto e che io , invece, avevo dimenticato. Mi è piaciuto sentirli dentro, nutrirli, essere un tutt’uno con loro, mi è piaciuto “fornir loro materia” attraverso la quale potessero esprimere la loro anima. Mi è piaciuto come il mio corpo li ha cullati e amati fin dal primo momento. Mi è piaciuta ogni doglia, ogni nausea, ogni contrazione, ogni avvertimento del corpo necessario a farli nascere. Mi è piaciuto come un regalo straordinario della natura. La mia libertà non si ferma dove appaiono loro. La mia libertà li include, li avvolge, li forma, li educa e li accetta. La mia libertà è così grande da farci entrare dentro anche le loro libertà, i loro bisogni e i loro desideri. La natura non può togliere libertà ma solo esprimerla in uno dei suoi tantissimi modi. Se poi parliamo di strade verso il cambiamento, allora ancora di più è così. La mia strada è iniziata insieme a loro, con loro sempre, anche nelle difficoltà. Quanti scenari inaspettati! Quanti cambiamenti anche in loro! Quanti sconvolgimenti belli, positivi, nuovi! E siamo solo all’inizio».

Il 18 e 19 aprile in Umbria “Cambiare vita e lavoro: istruzioni per l’uso”

Fonte: ilcambiamento.it

Gli sradicati

“Oggi, a furia di allontanarci dalla natura, ci siamo separati dalla nostra stessa natura. Abbiamo prodotto una novità assoluta: le prime generazioni nella storia dell’umanità di ‘senza radici’. Abbiamo prodotto degli esseri umani da allevamento intensivo, privi dei punti di riferimento di un bagaglio di cultura ed esperienze tramandate e privi anche del bagaglio di esperienze proprie, dirette e concrete”.

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Quando ero bambina, negli anni cinquanta e sessanta, nei cortili di Milano senza un albero risuonavano le voci dei bambini che giocavano. “Vado giù a giocare”, “vai fuori a giocare” erano frasi scambiate quotidianamente tra madri e figli. Nessuno con un grano di sale in zucca si sarebbe sognato di poter tenere dei bambini chiusi tutto il giorno tra quattro mura, come in galera. Negli anni sessanta cominciò il boom edilizio e le case nuove di periferia, o almeno quelle da un certo prezzo in su, venivano costruite mantenendo un’area di terreno a verde: il giardino. Ci sembrò una meravigliosa novità finché non scoprimmo, adulti e bambini, che in quei giardini non si poteva giocare. Né si poteva usufruirne in alcun modo: erano giardini “per bellezza”. Una cosa che ci apparve del tutto insensata e ci lasciò, adulti e bambini, esterrefatti. Fino a che, anno dopo anno, giardino dopo giardino “per bellezza”, ci convincemmo che era la cosa giusta: niente schiamazzi (solo quelli del traffico, delle televisioni a tutto volume, delle liti in famiglia), nessuno che sciupasse il tappeto erboso condito di pesticidi e concimi chimici. E già lì fu evidente che l’uomo moderno può essere convinto di qualsiasi cosa, avendo il cervello imbottito dei precetti dei media-vocedelpadrone in ogni loro forma, cominciando dalla pubblicità, ed essendo di conseguenza sotto ipnosi ventiquattro ore su ventiquattro. Ma per essere ipnotizzati ci vuole una certa predisposizione. Per creare questa predisposizione bisogna, prima di tutto, distruggere la comunità umana e la sua istintiva solidarietà, e secondariamente interrompere il flusso delle esperienze tramandate di generazione in generazione. Alla fine degli anni sessanta e durante gli anni settanta, anni di lotte di classe, di forti ed estesi movimenti anticapitalisti, di contestazione di tutta l’organizzazione economica e sociale, di cultura antiautoritaria, pedagoghi, psicologi e pediatri erano concordi nell’affermare e spiegare che il gioco era una delle prime necessità del bambino, assieme al cibo e all’affetto. Il gioco libero e autonomo, quello in solitudine e quello in compagnia, era una necessità imprescindibile per lo sviluppo fisico e mentale dei bambini. Bisognava lasciarli giocare liberamente. L’occhio degli adulti doveva essere discreto, limitarsi a sventare eventuali pericoli.

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Quanto al bullismo, ai tormenti che oggi quotidianamente bambini infliggono ad altri bambini, erano praticamente impossibili, dato che in ogni gruppo di gioco convivevano età diverse, sessi diversi, fratelli e cugini e amici di questo e di quello. E dato che le madri si affacciavano alle finestre, le portinaie (figure scomparse con l’apparire dei citofoni e del metro quadro abitabile pagato a peso d’oro) ci tenevano d’occhio, gli artigiani che lavoravano nei cortili (in quei tempi selvaggi non esistevano le ASL benché ci fosse un ambulatorio in ogni quartiere) erano pronti a redarguire i prepotenti. Il gioco spontaneo, non inquadrato, non competitivo, non finalizzato a diventare campioni sportivi ricchi e famosi, era più importante della scuola. Non sarebbe stato necessario, allora, affannarsi a ripeterlo: che gli adulti lo ritenessero necessario o no, riuscivano comunque a capire che era naturale e inevitabile. Ma facevano bene a ripeterlo pediatri, psicologi e pedagoghi: a quei tempi in Italia esisteva il lavoro dei bambini, nel nostro sud c’erano ancora bambini muratori, braccianti, sguatteri. Era per loro che si ribadiva il diritto e la necessità del gioco, della libertà e spensieratezza dell’infanzia.

Quando sono a casa solo
e mi annoio, mi consolo;
chiudo gli occhi e sto salpando
verso i cieli, navigando,
navigando verso il mare
del Paese del Giocare,
là, nei luoghi assai lontani
dove vivon solo nani,
dove i fiori sono peri
e le pozze oceani veri
e le foglie son velieri
pieni di filibustieri,
dove passano volando

calabroni che ronzando
fan tremar le cime ardite
delle immense margherite…

Robert Louis Stevenson

Oggi in Italia lo sfruttamento del lavoro minorile non esiste più, e non esiste più nemmeno il gioco, la libertà e la spensieratezza dell’infanzia. I bambini sono chiusi tra quattro mura quasi ventiquattrore su ventiquattro, tra scuola a tempo pieno, compiti affibbiati dalla scuola a tempo pieno, sport, canto/musica/danza e lingue varie, più televisione videogiochi e computer. Totalmente avulsi dalla realtà e dalla complessità della vita concreta, alienati e incapaci. Molto progrediti… Infatti sanno le lingue straniere, sono dei maghi del computer, degli atletini e/o dei musicisti in erba. Li vogliamo scalpitanti e allenati alle gabbie di partenza, come veri purosangue assetati di vittorie.

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Il gioco collettivo insegnava ad organizzarsi, a collaborare, a prendersi cura dei più piccoli, ad essere leali e anche ad essere astuti, svelti, previdenti. Isolava i litigiosi, gli egocentrici e i prepotenti, che a quel punto erano fortemente incentivati a mitigare i propri difetti. Il gioco individuale insegnava a immaginare, fantasticare, riflettere. Tutti i giochi insegnavano la pazienza, la consapevolezza dei propri limiti e delle proprie qualità, la deduzione e l’immaginazione. Tutto ciò è stato spazzato via dal “progresso”: da una società sempre più rigida, competitiva, individualista e autoritaria. Si è dato per scontato che più scuola si affibbiava ai bambini e meglio era, ma la scuola è un’istituzione, non è neutra: rappresenta ed esprime l’organizzazione sociale di cui fa parte, ne persegue gli scopi. In una società di dominio e competizione qual è quella in cui viviamo, la scuola è strutturata in modo da formare individui privi di spirito critico, competitivi, specializzati, conformisti: ricettivi alle direttive e indicazioni che vengono dall’alto, alle “versioni ufficiali”, alle mode, al senso comune, e diffidenti e sprezzanti verso tutto ciò che se ne discosti. Per ottenere questo occorre che lottino con le unghie e coi denti per riuscire a svolgere una mole di lavoro sempre più imponente, non importa quanto utile, che li occupi davvero a tempo pieno, senza lasciare ai loro cervelli una via di fuga. Non più tempo per l’ozio, la noia, la riflessione, la fantasticheria, il coalizzarsi e organizzarsi con altri bambini. E dopo la scuola i nostri minimanager hanno già pronte le attività imposte dalle famiglie. Indispensabili per farsi strada nella mischia. Non abbiamo più il lavoro minorile ma i nostri “minori” non sono meno occupati e oberati, almeno a livello psicologico, dei piccoli braccianti e muratori degli anni cinquanta. Sicuramente più dei pastorelli e camerierini di quel tempo, che lavoravano con la propria famiglia e potevano sdraiarsi su un prato o giocare a carte in cucina. Cosa rimane di libero? Il tempo passato davanti al televisore, al computer, al cellulare. Ho sentito genitori vantarsi di non chiedere alcun aiuto in casa ai propri figli, perché il loro primo compito deve essere studiare. È sottinteso che quello “studiare” significa “vincere”. Devono essere i primi. Imparare, cioè crescere, maturare, acquistare conoscenza non ha importanza, evidentemente. Perché imparerebbero molto di più se sapessero farsi il letto, lavare i piatti, fare la spesa e cucinare, aggiustare una presa o un rubinetto che perde. Far compagnia ai nonni, salutare i vicini, portare a spasso il cane.

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Se poi sapessero coltivare qualche pianta, cucirsi un orlo, riparare la gamba di un tavolo, le loro probabilità di sopravvivenza aumenterebbero del cento per cento: vorrebbe dire che sanno ingegnarsi e adattarsi, che hanno sviluppato un’intelligenza pronta e duttile, uno spirito d’osservazione a tutto campo. Ma per questo è necessario trasmettere le proprie conoscenze. Invece, nel progredito occidente, stiamo crescendo le prime generazioni di “senza radici”. Da quando gli esseri umani esistono, ogni generazione ha trasmesso le proprie conoscenze ed esperienze a quelle che la seguivano. È una delle condizioni imprescindibili per la sopravvivenza di una specie; tanto più imprescindibile per una specie, quella umana, dalla cultura vasta e complessa e dallo scarso istinto. È altrettanto importante, questa trasmissione di saperi, della trasmissione del patrimonio genetico. I genitori, i nonni, gli zii, i vicini di casa, l’intera comunità degli adulti raccontava ai bambini: la propria vita e le vite che aveva conosciuto, le idee che aveva maturato, le cognizioni apprese. Era una necessità primaria, né più né meno del gioco. E infatti ciò che più i bambini amavano, oltre al gioco, erano i racconti. Fino a qualche decennio fa, attraverso quei racconti si è tramandato a spizzichi e bocconi tutto il patrimonio culturale accumulato dagli uomini, tutte le esperienze che ci precedevano, i miti e la storia. C’erano racconti sulla guerra e sulla fame, sulla bontà e la malvagità, sullo sfruttamento e sul riscatto, sulla resistenza e la dignità, sulla sacralità del cibo e sul rispetto dei più deboli, sulla fatica e sulla festa. Tra ricordi e principi, parabole e aneddoti, concetti e idee, si trasmetteva una cultura ancestrale e attuale; i bambini crescevano legati a tutti coloro che li avevano preceduti, come da un reticolo di radici nascono i nuovi polloni: nutriti da tutte le sostanze che possiede il terreno dove spuntano. Ma oggi, a furia di allontanarci dalla natura, ci siamo separati dalla nostra stessa natura. Abbiamo prodotto una novità assoluta: le prime generazioni nella storia dell’umanità di “senza radici”. Abbiamo prodotto degli esseri umani da allevamento intensivo, privi dei punti di riferimento di un bagaglio di cultura ed esperienze tramandate e privi anche del bagaglio di esperienze proprie, dirette e concrete. Abituati ad obbedire senza chiedersi perché: tutta la loro vita è organizzata e indirizzata dagli adulti: insegnanti di scuola, istruttori sportivi, insegnanti di musica, animatori e chi più ne ha più ne metta.

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Abituati a competere: a scuola bisogna essere tra i primi, a calcio bisogna vincere la partita, in ogni attività bisogna puntare ad essere più e meglio degli altri e poi magari i genitori li portano a scalare il Monte Bianco, tanto perché gli rimanga chiaro che l’uomo non ha limiti e la natura è qualcosa da conquistare e sottomettere. Obbedienza e competizione preparano il servo perfetto per una società di dominio senza più limiti. Televisione e strumenti digitali fanno il resto. L’immaginazione è una dote indispensabile per la sopravvivenza umana. Non serve a un batterio, probabilmente, e neanche a un lombrico, che hanno il loro corrispondente dell’immaginazione in dote già dalla nascita. Ma serve a qualsiasi animale abbia necessità di apprendere dopo la nascita una parte delle proprie cognizioni. Bene, “immaginazione” ha la stessa radice di “immagine” perché è la capacità di creare immagini mentali. Il neonato, sentendo la voce o l’odore della madre, immagina probabilmente il suo volto, il suo abbraccio o il sapore del suo latte. Poi ci saranno le parole da decifrare e trasformare in immagini e idee: un continuo allenamento mentale, come muoversi e camminare è un allenamento per i muscoli. Ma, se a un bambino piccolo dessimo una seggiolina a rotelle che lo porta ovunque, che ne sarebbe delle sue gambe? Atrofizzate proprio nell’età in cui dovrebbero svilupparsi. Potrebbe più camminare, correre, saltare? E, se a un bambino piccolo scodelliamo continuamente immagini televisive e cartoni animati e poi, quando riesce a usare le dita, gli forniamo strumenti che schiacciando dei tasti gli permettono una fittizia e astratta comunicazione con gli altri esseri umani e un fittizio e mutilato rapporto con la realtà e con la vita, cosa succederà alle sue capacità mentali? Proprio nell’età in cui la sua esperienza e la sua immaginazione dovrebbero svilupparsi; e immaginazione significa sapersi immedesimare negli altri, saper prevedere i pericoli, saper valutare le conseguenze. Significa responsabilità, compassione, accortezza. Cosa succederà alla sua capacità di esprimersi con parole, gesti, espressioni del viso, toni di voce? Tutto quello che serve per “incontrarsi” con gli altri umani e non solo. Cosa succederà ai suoi sensi, al tatto, alla vista, all’olfatto, all’udito? Tutto quello che serve a percepire e comprendere il mondo. Noi non lo sappiamo. Nessuno delle generazioni precedenti lo sa. Perché non si può sapere, e nemmeno immaginare, ciò di cui nessuno ha mai avuto esperienza prima. Possiamo però vederne le conseguenze. Nei ragazzi incapaci di vivere, che non riescono a studiare né a lavorare, terrorizzati dalla continua già sperimentata competizione della nostra società, convinti fino in fondo all’anima della propria incapacità, rinchiusi nella “comoda” irrealtà di rapporti mediati da internet. Sono ormai un’epidemia, che trova le famiglie del tutto impotenti e sole.

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Nelle inaudite e inspiegabili violenze di gruppi di adolescenti “normali”, che in maniera evidente non hanno né la capacità di immedesimarsi nelle sofferenze altrui, né tanto meno quella di immaginare le conseguenze che i loro atti faranno ricadere sulle proprie stesse vite. E poi ci sono i comportamenti di massa. Le caratteristiche ormai di una nuova specie umana: la paura o l’indifferenza nei confronti della natura. Quando io ero bambina, il più grande divertimento di qualsiasi bambino era poter scorrazzare in un vasto spazio libero e selvaggio: un prato, un bosco, il mare. Di fronte a qualsiasi ambiente del genere, nessun adulto con un grano di sale in zucca avrebbe tentato di trattenerci. Lo stesso valeva per fonti e ruscelli. Un surrogato erano i giardini pubblici. Meglio che niente, anche se non si poteva correre nell’erba, far capriole, rotolarcisi, arrampicarsi sugli alberi. Questo rapporto dei cuccioli d’uomo con la natura è continuato, pur diluendosi via via, fino a una ventina d’anni fa. Oggi nei parchi cittadini ci sono prevalentemente i cani, dato che non si può piazzarli davanti a un televisore o appassionarli a un videogioco, né si accontenterebbero di rapporti “virtuali” coi loro simili. Del resto, i bambini attuali guardano un prato, un bosco, un fiume come qualcosa di estraneo e incomprensibile. Come i canarini nati in gabbia (non) guardano il cielo e rifiutano di uscire dalla gabbia anche se la porta è aperta. Forse come i polli d’allevamento intensivo guardano il mondo oltre la porta del capannone. Eppure basterebbe poco, prima che sia troppo tardi. La maggior parte dei bambini è cento volte più disponibile a far qualcosa in compagnia che a ottundersi davanti a uno schermo. La maggior parte dei bambini possiede ancora curiosità e senso del mistero. Basterebbe ricordare. Siamo stati tutti bambini, anche se ci sembra impossibile. Non si tratta, in effetti, di alieni: si tratta di comuni esseri umani in uno stadio della loro esistenza. Basterebbe ricordassimo le decine di giochi di gruppo che nessun grande organizzava; ricordare i duelli, gli agguati, le galoppate a rotta di collo delle nostre immaginarie avventure; ricordare come rompevamo le scatole ai genitori per comperare il granturco in sacchettini che vendevano nella piazza e come ci emozionavano i piccioni posati sulle nostre braccia per mangiarlo. Ricordare il fascino indescrivibile del soldino al posto del dente che ci era caduto, dei doni magicamente portati dalla Befana o da Babbo Natale o da Gesù Bambino. Sarebbe sufficiente dedicarci a loro quel tanto che basta per ridargli tutto questo, per aiutarli a scoprire la vita. E forse richiederebbe meno tempo che scarrozzarli in auto da piscine a palestre ad effimere scuole di discipline nate da effimere mode. I figli di una mia amica hanno in casa un folletto che ruba le cose lasciate in disordine. I folletti possono esserci in tutte le case, anche in un appartamento di due stanze. E anche dalla finestra di un appartamento di due stanze si possono soffiare nel cielo le bolle di sapone fatte con una “cannuccia” di cartoncino arrotolato e un po’ di acqua e sapone. E poi, con i nostri bambini, potremmo anche riprenderci i marciapiedi e le piazze e i cortili, e prima di tutto i “giardini per bellezza”. Proviamoci almeno, a ritrovare quegli spiritelli incapaci di camminare ma solo di correre e saltellare, ridenti, vocianti e canterini che sono sempre stati i bambini dagli albori dell’umanità fino a due, tre decenni fa. Ci guadagneremmo tutti: potremmo tornare a goderci lo spettacolo dei loro giochi dalle finestre e dai balconi. Gratis. Potremmo ravvivare le nostre speranze e la nostra fantasia per rispondere alle loro domande. Potremmo sentirci immortali guardandoli crescere.

… È questa una mattina
che non c’è scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d’albaspina.

Le siepi erano brulle, irte; ma c’era
d’autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera
bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.
Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino

ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.

Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza.

S’inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo, esile
e vada a rifiorir lontano.

S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo
petto del bimbo e l’avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo…

Giovanni Pascoli

Fonte: il cambiamento

L’agricoltura piace agli italiani e per il 40% è il lavoro per i propri figli

Al 40% degli italiani l’agricoltura piace, tanto che la consiglierebbe come lavoro ai propri figli116257579-594x350

Il 40% degli italiani, oggi, consiglierebbe ai propri figli un lavoro in agricoltura. Il dato è particolarmente rilevante se si pensa che lo scorso anno era il 27% degli italiani a avere questa opinione. La mentalità contadina torna in auge e la conferma arriva da un sondaggio effettuato da IPR marketing per UniVerde presentato ieri a Roma al convegno con Coldiretti Agricoltura e occupazione: antichi e nuovi mestieri. Durante il convegno è stato anche presentato il terzo Rapporto “Gli italiani e l’agricoltura” con il focus su “Agricoltura multifunzionale e Green Economy” a cui hanno preso parte Alfonso Pecoraro Scanio Presidente Fondazione UniVerde, Sergio Marini Presidente Nazionale Coldiretti, Antonio Noto Direttore IPR Marketing, Domenico De Masi Sociologo e Patrizia Marini Presidente Rete Nazionale degli Istituti Agrari. A presentarlo Corrado Abbate Dirigente Ricerca dell’ISTAT che ha piegato come mai oltre il 70% degli intervistati per la scarsa attenzione rivolta proprio al settore primario confermando però di credere nella genuinità (61%) e nel sapore (64%) dei prodotti italiani.

Spiega Alfonso Pecoraro Scanio:

Si rafforza la già stragrande maggioranza di chi ritiene positivo per l’ambiente il ruolo degli agricoltori (dal 79% del 2012 all’85% degli intervistati nel 2013) soprattutto per il grande lavoro, da essi svolto, per la tutela della tradizione (per il 32% degli intervistati), nel contrastare la mal manutenzione e promuovere il recupero dei territori (28%), per il contrasto alla cementificazione (11%) e per la capacità di creare nuova occupazione (10%).

D’altronde Sergio Marini, Presidente di Coldiretti ha sottolineato quanto il settore agricolo sia l’unico in tempo di crisi a assorbire la maggior parte dei disoccupati e fa segnare un +9% nelle assunzioni di giovani under 35 già nel primo trimestre 2013:

Nonostante gli effetti negativi sulle coltivazioni provocati dal maltempo e i segnali depressivi sui consumi che hanno interessato anche l’agroalimentare. La crescita di opportunità nel settore agricolo è resa evidente dal boom del 29% delle iscrizioni negli istituti professionali agricoli e del 13 % negli istituti tecnici di agraria, agroalimentare ed agroindustria.

Dunque il consenso per l’agricoltura è unanime nonostante sia il settore meno esaltato nel panorama politico italiano: crescono gli acquisti nei Farmers’market (dal 34% al 49%); vi è consenso plebiscitario per le fattorie didattiche (94% degli
intervistati) e rifiuto all’utilizzo di Ogm in agricoltura (dal 62 % del 2012 al 76 % del 2013). Altri dati particolarmente succosi sono emersi da Agricoltura multifunzionale e Green Economy che ha analizzato i settori agricoltura e turismo:il 36% degli intervistati non andrà in vacanza mentre il 64% ci andrà solo per qualche giorno, il 32 % sceglierà località più vicine mentre il 25% accorcerà la durata dei soggiorni vacanza. Vincono nella scelta del soggiorno: agriturismi e i bed&breakfas 14% e 17% mentre l’albergo sarà scelto dal 27 % degli intervistati. Infatti in vacanza agli italiani come souvenir piace acquistare prodotti tipici (26% contro il 7% di cartoline e magliette mentre proprio gli agriturismo sono la struttura preferita per le vacanze(46%) preferendo passeggiate e trekking con la ricerca dei prodotti tipici (69%).

Fonte: Comunicato stampa

 

I bambini vanno a scuola in auto e non a piedi: fa male alla salute e cala l’autonomia

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Gli studiosi la chiamano mobilità infantile e quella dei bambini italiani non è sufficiente considerato che accompagniamo i nostri figli a scuola molto spesso in automobile. Il tragitto da scuola a casa e viceversa è per i bambini italiani motorizzato, sin dalla primissima infanzia, il che oltre a non fare bene alla salute li porta a essere anche meno autonomi. La ricerca è stata effettuata attraverso un questionario a cui hanno risposto bambini e ragazzi dai 7 ai 14 anni e i loro genitori per un totale di circa 800 residenti tra Roma, Bari, Guidonia Montecelio (Roma), Desio e Misinto (Monza-Brianza). Si è occupato della mobilità dei bambini italiani l’Istc–Cnr ovvero l’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma che è l’unico partner italiano per la ricerca Children’s Independent Mobility, indagine voluta da Policy Studies Institute (Psi) di Londra e che ha visto un primo confronto tra Italia, Germania e Regno Unito ma che si è svolta anche in altri 15 Paesi. I dati italiani sono online su La città dei bambini e lasciano interdetti nel leggerli poiché tracciano uno scenario di bambini e ragazzi trasportati in autovetture e non assecondati nella necessità di muoversi liberamente sia per la propria salute sia per l’autonomia che ne consegue.

Spiega Antonella Prisco, ricercatrice dell’Istc-Cnr:

La mobilità infantile è uno degli aspetti che ha maggiormente risentito della grande trasformazione dell’ambiente urbano, con ricadute negative sul benessere e sullo sviluppo psico-fisico. L’autonomia di spostamento dei bambini italiani nell’andare a scuola si è ridotta, passando dall’11% nel 2002 al 7% nel 2010, mentre l’autonomia dei bambini inglesi è al 41% e quella dei tedeschi al 40. Per il tragitto di ritorno, soltanto l’8% dei bambini italiani lo compie da solo, a fronte del 25% dei coetanei inglesi e del 76% dei tedeschi. Il divario di autonomia con gli altri paesi sul percorso casa-scuola permane ampio anche per i ragazzi delle medie inferiori: il 34% degli italiani, contro il 68% dei tedeschi e il 78% degli inglesi.

Ai nostri figli non insegniamo a prendere i mezzi pubblici, evidentemente considerati poco affidabili dai genitori. Ma sottolinea la ricercatrice Prisco:

La possibilità di muoversi in autonomia da parte dei bambini permette l’esperienza fondamentale del gioco, aiuta a prevenire sovrappeso e obesità, ad acquisire maggiore sicurezza, autostima e capacità di interagire, rafforza i legami con le persone che abitano nel proprio quartiere e a sviluppare un senso di identità e responsabilità, riducendo i sentimenti di solitudine durante l’adolescenza.

Perché privarli di queste importanti esperienze?

Fonte: ecoblog

 

Fiducia a un governo ambientalista: tanti buoni motivi per firmare

Ecco cosa dicono alcuni dei proponenti: “Ho firmato perché fino ad ora nessun governo in Italia ha fatto cose veramente concrete per l’ambiente”. “Perchè bisogna essere in grado d’immaginare un futuro al di là delle agende dettate dalla finanza”. “Perché non ereditiamo il mondo dai nostri padri, ma lo prendiamo in prestito dai nostri figli”

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“Non ereditiamo il mondo dai nostri padri, ma lo prendiamo in prestito dai nostri figli”. Allo stesso modo i Governanti hanno l’obbligo morale di agire pensando al futuro ed al presente della Terra e dei suoi abitanti. Ritengo che non si possa pensare di ripartire senza imboccare la giusta direzione che, per essere tale, deve essere (o quantomeno tendere) in armonia con il Pianeta e le sue risorse che vanno valorizzate, rispettate e non saccheggiate. Sono solo si può, ma si deve iniziare sin d’ora a invertire la rotta per la salute nostra, della nostra società e della Terra. I punti indicati sono LE priorità e non certo il superfluo di questo Paese, come evidentemente dimostrano di credere coloro che neanche trattano questi argomenti.

Letizia Palmisano, giornalista, vicepresidente di Econnection

Ho partecipato a quest’appello perchè bisogna essere in grado d’immaginare un futuro al di là delle agende dettate dalla finanza e quindi deve essere creata una strategia comune e condivisa in fatto di lavoro, welfare e ambiente che è urgente e non può essere differita. La politica, tutta, oggi deve dare risposte, creare soluzioni e lavorare solo ed esclusivamente per il benessere dei cittadini, messo in dubbio dalla crisi. E senza l’ambiente non ci sono soluzioni.
Sergio Ferraris, giornalista scientifico

Ho firmato perché fino ad ora nessun governo in Italia ha fatto cose veramente concrete per l’ambiente. Ho firmato nella speranza che il nuovo governo che si formerà intraprenda la strada delle Green Economy con la convinzione che l’ambiente è una risorsa e che è possibile percorrere una strada di ecosostenibilità che garantisca crescita sostenibile e allo stesso tempo rispetto della Natura.

Davide Mercati, Greenmind

Ho firmato l’appello, e chiedo a tutti di fare altrettanto, perché penso che i sette punti siano cardini fondamentali di una società che aspira ad avere un futuro; sette punti che vanno oltre ogni convinzione e divisione politica e rispondono, tutti quanti, anche alle altre emergenze, oltre a quella strettamente ambientale. Credo che in questo momento particolare, sia da folli non cogliere l’occasione per dare risposte concrete alle istanze espresse dagli elettori.
Paola Bolaffio, giornalista ambientale

Fonte: eco dalle città

 

Un uomo per un albero: da sabato è legge


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E’ entrata in vigore sabato scorso la nuova legge che obbliga i Comuni sopra i 15mila abitanti a piantare un albero per ogni bambino registrato all’anagrafe o adottato: la norma, specificatamente la legge n.10 del 14 gennaio 2013, riprende in realtà un vecchio “obbligo” introdotto in Italia con la legge Cossiga-Andreotti n.113 del 29 gennaio 1992. Quella legge, in verità molto poco applicata fatto salvo per qualche ente locale “sperimentatore” (come se piantare un albero fosse un esperimento, quando il vero esperimento per l’essere umano è vivere in megalopoli dall’aria irrespirabile) punta ad incentivare gli spazi verdi urbani: la vera novità della nuova normativa rispetto alla precedente sono alcune modifiche sostanziali per assicurarne l’effettiva applicazione e rispetto. La storia, per quanto mi riguarda, affonda le radici nel lontano 1953: in quell’anno mio nonno piantò una prima palma in seguito alla nascita della figlia primogenita, mia zia, per poi piantarne nel terreno altre due, alla nascita degli altri due suoi figli, tra cui mia madre. Quelle palme sono rimaste piantate nello stesso terreno per più di 50 anni, fino a quando il maledetto punteruolo rosso non ha deciso di devastarne l’interno, mortificando il ricordo che si era oramai radicato in una terra che è anche il mio sangue. L’obbligo introdotto dalla nuova legge non riguarderà tutti i comuni d’Italia ma solo i comuni superiori ai 15mila abitanti, e non interesserà solo le nascite ma anche le adozioni: per ogni nuovo uomo ci dovrà essere un albero nuovo, che dovrà essere piantato (a norma di legge) entro sei mesi e non più entro l’anno. Secondo l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) questo dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, contrastare la perdita di quegli 8mq al secondo di aree verdi in Italia, nonostante il tasso di natalità in Italia non sia esattamente altissimo. A vigilare sul rispetto della normativa sarà il nuovo Comitato per lo sviluppo del verde pubblico istituito presso il Ministero dell’Ambiente: saranno i Comuni a dover comunicare i dati sulle piantumazioni, fornendo anche informazioni relative al tipo di albero scelto e il luogo in cui questo è stato piantato, provvedendo anche ad un censimento annuale delle piantumazioni ed informando il Comitato al Ministero, che dal canto suo monitorerà l’intera attività. In base alla nuova normativa inoltre il 21 novembre prossimo, e via via ogni 21 novembre, si festeggerà la Giornata nazionale dell’albero:

per perseguire, attraverso la valorizzazione dell’ambiente e del patrimonio arboreo e boschivo, l’attuazione del protocollo di Kyoto.

La legge 10/2013 introduce nuove disposizioni sulla tutela degli alberi monumentali: i Comuni italiani dovranno censire e monitorare gli alberi presenti nei loro confini, istituendo un vero e proprio catasto e sanzionando chiunque danneggi tali piante monumentali con ammende da 5.000 a 100.000 euro.

La legge si propone di realizzare due operazioni: da un lato, una mappatura completa del patrimonio arboreo italiano, in particolare degli alberi monumentali, per capire qual è la situazione del verde dentro i centri urbani di tutto il Paese e realizzare un’efficace azione di manutenzione; dall’altro di realizzare una grande operazione salva-verde in città che coinvolga le scuole, le istituzioni e le imprese.

ha spiegato ad Unomattina Massimiliano Atelli, capufficio legislativo del Ministero dell’Ambiente.

Fonte:ecoblog