Insostenibile moda: le fibre sintetiche che fanno male all’ambiente

L’industria della moda ha un impatto pesantissimo sull’ambiente e le fibre sintetiche sono tra i maggiori responsabili. Riescono a passare attraverso gli impianti di trattamento delle acque reflue e si diffondono nell’ambiente.

In una scena del film “Quel che resta del giorno”, diretto da James Ivory, interpretato da Antony Hopkins e ambientato in una grande residenza di campagna inglese negli anni ’30 del Novecento, due distinti (ma evidentemente poco aggiornati) signori inglesi si interrogano incuriositi su un personaggio che di lì a poco li avrebbe raggiunti, un giovane milionario americano che ha fatto fortuna nel Nuovo Mondo. Uno dei distinti signori dice all’altro: “Pare che abbia un’industria di sintetici” e aggiunge incuriosito: “Ma cosa saranno, poi, questi sintetici”?

Certo a quell’epoca l’industria dei tessuti sintetici era appena agli inizi, un’avventura della chimica e dell’industria degna del progresso del Nuovo Mondo, ma ancora pressoché sconosciuta in Europa. Oggi, però, a circa un secolo da quei tempi, tutti conosciamo bene i tessuti sintetici e anzi, molto probabilmente, non riusciremmo neanche più a immaginarcelo il mondo (Nuovo o Vecchio che sia) senza queste fibre che ormai ci circondano in tutte le forme, di tutte le consistenze e di tutti i colori. Eppure è proprio quello che forse dovremmo cominciare a fare: pensare a un mondo libero dalle fibre sintetiche. Sempre se abbiamo veramente a cuore l’ambiente e se abbiamo letto una recentissima ricerca pubblicata su Nature Scientific Reports, che ci sorprenderà con i suoi risultati. Perché, a quanto pare, la principale fonte di inquinamento da microplastiche degli oceani è dovuta proprio al lavaggio dei capi d’abbigliamento in fibra sintetica. Già nel 2018 le Nazioni Unite, attraverso l’UNEP, il proprio programma ambientale, avevano lanciato l’allarme sul pericolo rappresentato dal peso che la frenesia dell’industria della moda esercita sull’ambiente a livello globale e non solo per quanto riguarda le risorse utilizzate per produrre i capi d’abbigliamento, ma anche per i rifiuti che questo settore produce. Giusto per capire le dimensioni del problema, basti ricordare che l’industria della moda produce il 20% delle acque reflue di tutto il mondo e il 10% delle emissioni globali di anidride carbonica: più di tutti i voli internazionali e le spedizioni marittime. Le tinture tessili, poi, sono la seconda più grande fonte d’inquinamento delle acque a livello mondiale, dal momento che per creare un solo paio di jeans occorrono circa 7.500 litri d’acqua. Senza contare tutta l’energia necessaria all’industria tessile e l’inquinamento atmosferico derivante dalla sua produzione. E senza dimenticare, poi, i rifiuti prodotti: sempre secondo l’UNEP, ogni secondo (!) l’equivalente di un intero camion della spazzatura di tessuti, finisce in discarica o viene bruciato.

Su questa base, l’UNEP prevede che, se questa situazione non cambierà, entro il 2050 l’industria della moda sarà responsabile di un quarto del bilancio mondiale di emissioni di CO2. Infine, c’è la questione dei lavaggi: gli abiti infatti non inquinano solo quando devono essere prodotti o smaltiti, cioè all’inizio e alla fine della loro esistenza, ma anche durante tutto la loro vita utile, perché il solo fatto di lavarli fa sì che ogni anno venga rilasciata una gran quantità di microfibre negli oceani. È proprio quest’ultima la questione che è stata affrontata da un team di ricercatori dell’Istituto per i polimeri compositi e biomateriali del CNR di Pozzuoli (NA), Francesca De Falco, Emilia Di Pace, Mariacristina Cocca e Maurizio Avella, autori dello studio pubblicato il 29 aprile sulla rivista Nature Scientific Reports intitolato “Il contributo dei processi di lavaggio degli abiti sintetici all’inquinamento da microplastiche”.

Le finalità di questo studio erano tanto semplici quanto importanti. Partendo dal fatto che il lavaggio dei tessuti sintetici è stato ritenuto la principale fonte di inquinamento da microplastiche primarie negli oceani – ovvero le plastiche direttamente rilasciate nell’ambiente sotto forma di piccole particelle di dimensioni inferiori ai 5 mm – i ricercatori hanno voluto quantificare l’effettivo contributo dei processi di lavaggio degli indumenti sintetici a questo problema ambientale. In secondo luogo hanno voluto capire in che modo le caratteristiche dei tessuti influenzavano il rilascio delle microfibre. Per rendere il test quanto più realistico possibile, hanno eseguito le prove di lavaggio su indumenti commerciali, usando una lavatrice per uso domestico. Dopo i lavaggi le acque di scarico sono state raccolte e fatte passare attraverso speciali filtri con diversa porosità. In questo modo sono state determinate con precisione quantità e dimensioni delle microfibre, mentre il rilascio è stato è stato analizzato anche in relazione alla natura e alle caratteristiche degli indumenti lavati.

I risultati hanno mostrato che la quantità di microfibre rilasciate durante il lavaggio varia da 124 a 308 mg/kg di tessuto lavato, in base al tipo di indumento. È una quantità che corrisponde a un numero di microfibre compreso tra 640.000 e 1.500.000. Il team, poi, ha riscontrato che alcune specifiche caratteristiche del tessuto (come il tipo di fibre che costituiscono i fili e la loro torsione) hanno influenzato il rilascio delle microfibre durante il lavaggio e ha anche scoperto che una gran quantità di microfibre di natura cellulosica è stata rilasciata da vestiti realizzati con una miscela di poliestere e cellulosa. Altre importanti indicazioni, infine, sono state ricavate sulle dimensioni delle microfibre, grazie alla scoperta che la frazione più abbondante di esse è risultata essere trattenuta da filtri con dimensioni dei pori di 60 μm, con fibre che presentavano una lunghezza media di 360-660 μm e un diametro medio di 12-16 μm. In altre parole, i ricercatori hanno ottenuto utili indicazioni anche sulle dimensioni delle fibre che riescono a passare attraverso gli impianti di trattamento delle acque reflue, finendo per rappresentare una minaccia per gli organismi marini.
Ma come e perché avviene il rilascio delle microfibre? Essenzialmente il distacco delle microplastiche dagli abiti sintetici è dovuto agli stress chimici e meccanici subiti dai tessuti durante il processo di lavaggio in lavatrice, che porta al rilascio delle microfibre le quali, grazie alle loro ridotte dimensioni, riescono a passare parzialmente indisturbate attraverso gli impianti di trattamento delle acque reflue, finendo direttamente in mare. Al momento la questione se questi impianti siano in grado (e in che misura) di trattenere queste particelle è ancora aperta e dibattuta. Quel che è certo, però, è che una gran quantità di microfibre è stata trovata in uscita da almeno 8 impianti di trattamento nella baia di San Francisco e altri studi hanno individuato la presenza di microplastiche simili allo sbocco di impianti in Svezia, Australia e Finlandia, indipendentemente da quella che era l’efficienza degli impianti o dal grado di avanzamento dei trattamenti.
Il riscontro di questi dati e i risultati dello studio suggeriscono, dunque, che proprio gli impianti di trattamento, grazie alla gran quantità di acque lavorate, potrebbero configurarsi come le porte attraverso le quali le microplastiche raggiungono i mari. D’altra parte la presenza di microplastiche negli ecosistemi marini è già ampiamente documentata, mentre microfibre sono state ritrovate sulle spiagge di tutto il mondo, nelle acque dell’Oceano Pacifico, del Mare del Nord, dell’Oceano Atlantico e persino dell’Artico e nei sedimenti di acque profonde. Sulle conseguenze di questo fenomeno per la catena alimentare gli studi sono ancora insufficienti per trarre conclusioni certe ma, per quanto riguarda i possibili effetti sulla fauna marina, si ipotizza che le microfibre di Polietilene tereftalato (il classico PET delle bottiglie d’acqua minerale) ingerite dalla Daphnia magna, una diffusa specie di crostaceo che compone lo zooplancton, potrebbero causarne un aumento della mortalità con ripercussioni negative sulle specie che se ne cibano. Fibre tessili, poi, sono state individuate già alcuni anni fa anche in pesci e molluschi in vendita per il consumo umano, nei mercati di Makassar, in Indonesia, e della California negli USA. La cosa, in effetti, non dovrebbe stupire dato che recenti stime valutano che gli indumenti sintetici contribuiscano per circa il 35% al rilascio negli oceani delle microplastiche primarie di tutto il mondo, facendone, di fatto, la principale fonte di questo inquinante. Questo dato, a sua volta, è conseguenza del fatto che le fibre sintetiche rappresentano circa il 60% di tutte le fibre consumate ogni anno dall’industria dell’abbigliamento, che ammontano a quasi 70 milioni di tonnellate. Dunque ogni anno l’industria della ‘fast fashion’, cioè della moda rapida e del guardaroba (basato in gran parte sui tessuti sintetici) che deve essere cambiato e rinnovato velocemente, produce indumenti per circa 42 milioni di tonnellate di fibre sintetiche. Questi capi d’abbigliamento, poi, vengono lavati da circa 840 milioni di lavatrici domestiche che, ogni anno, consumano quasi 20 chilometri cubi d’acqua e 100 miliardi di chilowattora di energia. È un ritmo troppo alto, un peso troppo gravoso da sostenere, prima di tutto per l’ambiente, ma anche per molti lavoratori del settore (spesso residenti in Paesi del Terzo Mondo) sottoposti a orari e condizioni di lavoro massacranti e paghe da fame, per mantenere bassi e competitivi i prezzi dei capi d’abbigliamento. È per contrastare questo stato di cose che lo scorso 10 luglio, durante il Forum sullo Sviluppo Sostenibile di New York, le Nazioni Unite hanno lanciato l’Alleanza per la moda sostenibile, cui hanno aderito già 10 organizzazioni. Lo scopo è incoraggiare il settore privato, i governi e le organizzazioni non governative a creare una spinta, a livello di settore, per ridurre l’impatto sociale, economico e ambientale della moda trasformandola, invece, in un driver per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Insomma, forse è arrivato il momento di cambiare abitudini, piuttosto che abiti.

Romualdo Gianoli

Laureato in ingegneria elettronica, master in Comunicazione e Divulgazione Scientifica, si occupo di giornalismo scientifico e comunicazione della scienza. Collabora con la rivista Micron, QUI la biografia completa.

Fonte: ilcambiamento.it

Vestirsi in fibre naturali: una carezza per la pelle e la salute

Mentre le fibre sintetiche sono sì più economiche ma anche più problematiche per la salute, le fibre di origine vegetale e animale sono del tutto sicure e senza rischi per la pelle

Molto spesso si preferisce scegliere un capo in fibre sintetico perché più economico rispetto a un capo in materiale naturale, ma quanto costa realmente in termini di salute un capo che provoca allergie al nostro organismo?

Scegliere un capo d’abbigliamento non è cosa di poco conto: oltre alla sua bellezza, alla vestibilità e al prezzo, dovrebbe essere fondamentale scegliere anche il tipo di fibra usato. Molto spesso si preferisce scegliere un capo in fibre sintetico perché più economico rispetto a un capo in materiale naturale, ma quanto costa realmente in termini di salute un capo che provoca allergie al nostro organismo? Le fibre sintetiche (acrilico, poliammide, poliestere, polipropilene, elastan, clorofibra), largamente usate nel tessile a livello mondiale per il loro basso costo e la robustezza, sono prodotte a partire dal petrolio e derivati e subiscono complesse trasformazioni chimico-fisiche fino a diventare adatte a essere tessute e filate. La fase di lavorazione si conclude con la colorazione e il fissaggio del colore attraverso l’uso di coloranti chimici detti dispersi. L’uso massiccio di materiali non naturali è fonte però di seri danni non solo alla pelle ma anche al nostro organismo e in particolare provoca:

• accumulo di carica elettrostatica positiva (è il fenomeno che si verifica quando il tessuto a contatto con dei metalli provoca le scintille, oppure quando togliendo un indumento sintetico i peli della pelle e i capelli si elettrizzano, o quando togliendo un indumento lo si sente crepitare), che il corpo non riesce a smaltire. A lungo andare quest’accumulo provoca stress, danni al sistema nervoso e persino alterazione della flora batterica intestinale.

• dermatiti e allergie: si calcola che solo in Italia il 7% delle persone allergiche lo è ai coloranti dispersi; fra i bambini la percentuale è del 4%.

• poca sudorazione del corpo: i materiali sintetici sono poco traspiranti, quindi soprattutto d’estate possono provocare dermatiti e la sensazione di appiccicaticcio sulla pelle.

Ricorrere a un tipo di abbigliamento naturale non è solo un modo per vivere più naturalmente, ma  significa soprattutto prenderci cura di noi stessi e della nostra salute. Vediamo di seguito quali sono i tessuti naturali più diffusi.

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ll Cotone

È la fibra naturale più conosciuta e utilizzata, ma è importante che sia certificata biologica. Quella non biologica è inquinata dagli agenti chimici impiegati durante la coltivazione – il 25% dei pesticidi prodotti a livello mondiale è destinato alle coltivazioni di cotone – anche per accelerare la crescita della pianta che è molto lenta. La conseguenza è che tracce di pesticidi rimangono nelle sue fibre entrando a contatto con la pelle, provocando quindi allergie. Inoltre, vista la crescente richiesta di questa fibra naturale, le grandi piantagioni di cotone concorrono alla deforestazione di boschi e foreste, per cui il cotone rischia di non essere più ecologico. Gli indumenti di cotone sono traspiranti con un alto potere di assorbire l’umidità, e sono in grado di disperdere velocemente il calore del corpo.

La Lana

È stato il primo tessuto usato dall’uomo che si ottiene dal vello di pecore, capre, conigli d’angora, cammelli e lama (gli Alpaca delle Ande). La pura lana vergine è nuova di tosa, la lana comune proviene invece dalla lavorazione di stracci o altri scarti industriali. Ha un’ottima capacità di regolazione termica che la rende un perfetto isolante sia contro il caldo che contro il freddo, è altamente traspirabile, impermeabile all’acqua e assorbe l’umidità respingendo le impurità esterne. A contatto con la pelle spesso può indurre prurito, la lanolina presente nelle fibre può dare reazioni allergiche a persone predisposte; per ovviare il problema basta indossare i capi di lana sopra a quelli di cotone.

ll Lino

I capi in lino, ricavati dalla pianta che cresce nelle zone costiere del Nord Europa, si riconoscono per l’effetto stropicciato che li caratterizza, tipico di questa fibra rigida. I tessuti di lino sono più freschi del cotone, hanno un maggiore potere di dispersione del calore del corpo, adattandosi ottimamente al clima estivo. È il tessuto più indicato per chi soffre di malattie della pelle poiché ha un potere curativo e lenitivo.

La Seta

La lavorazione della seta è molto antica, risalente addirittura al 6000 a.C. Di derivazione animale, è una fibra con caratteristiche diverse rispetto alle altre fibre naturali: è impermeabile all’umidità ma a contatto con il sudore si macchia facilmente. Poco resistente all’usura, i colori tendono a sgualcire se troppo esposti al sole. Al momento non esiste seta naturale o biologica: quella in commercio è sottoposta a trattamenti chimici, che la rendono più incline ad allergie e orticaria. La seta grezza si ottiene dalle prime secrezioni del baco prima che formi il bozzolo; questo tipo di seta si ottiene quindi senza dover uccidere il baco ed è per ciò apprezzata da animalisti e vegani.

La Iuta

La pianta da cui si ricava la fibra di iuta, il secondo tessuto più utilizzato dopo il cotone, è imparentata con la pianta della canapa sativa, altra grande pianta dalla quale si ricava un ottimo tessuto per filati. La iuta è un tessuto molto resistente, rigido e ruvido, completamente biodegradabile e riciclabile. Viene usato principalmente per fare sacchi, borse, cinture, cappelli e tappeti.

L’ Ortica

Il tessuto che si ricava da una varietà di ortica, detto ramie, era conosciuto e utilizzato fin dal 5000 a.C. in Egitto (gli abiti delle mummie erano in ramie) e in Cina dov’era usata prima dell’introduzione del cotone. Recentemente si è diffusa anche in Occidente, più che altro in indumenti misti a cotone. Il ramie è un tessuto resistente allo strappo e nella colorazione richiede un terzo del colore che necessita il cotone, poiché lo assorbe molto bene; inoltre è anallergico e in grado di resistere bene all’umidità. Probabilmente è ancora poco diffuso per via dei suoi alti costi di produzione. Le fibre tessili naturali non si esauriscono qui: nelle prossime pagine ne scoprirete altre ottime per confezionare indumenti per adulti e bambini sempre nel rispetto della naturalezza.

Fonte: viviconsapevole

 

La Puglia va a tutta canapa!

Dopo l’esperienza del comune toscano Capannori, è partito un altro progetto, stavolta in Puglia, per rilanciare la coltivazione della canapa. L’associazione CanaPuglia ha già permesso la semina di 120 ettari di canapa, che verrà utilizzata per vari scopi, dai tessuti, ai materiali edili, all’energia, ai carburanti.

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Prima Capannori, poi la Puglia. Adagio, adagio l’Italia torna a piantare e coltivare quella che un tempo era uno dei prodotti più diffusi ed esportati del nostro paese: la canapa. Tempo addietro vi abbiamo parlato dell’esperienza del comune “virtuoso” toscano, che a marzo ha iniziato la semina di quasi cento ettari di terreno; oggi vi raccontiamo di CanaPuglia, un progetto nato due anni fa e che ha portato alla semina, nell’aprile scorso, di circa 120 ettari di terreno sparsi per tutta la regione. E che mira a contagiare tutta Italia. In pochi lo sanno, ma oltre mezzo secolo fa l’Italia era il secondo produttore mondiale di canapa, dietro solamente all’Unione Sovietica. La canapa italiana, di altissima qualità, veniva lavorata ed esportata in tutto il mondo. Da essa si ricavavano tessuti per vestiti, i suoi semi davano un ottimo olio combustibile e in campo farmaceutico le sue applicazioni erano vastissime, dalla cura dell’asma all’utilizzo come antidolorifico. La marina inglese utilizzava la canapa per le vele delle proprie imbarcazioni e anche le vele dell’Amerigo Vespucci, imbarcazione simbolo della marina militare italiana, sono fatte di canapa. Ma l’avvento dell’industrializzazione e il “boom economico” portarono nel nostro paese le fibre sintetiche provenienti dagli Usa e la canapa finì ben presto nel dimenticatoio. In molti smisero di coltivarla perché considerata inutile e superata. Poi venne il proibizionismo, e le dette la spallata finale. Il divieto di consumare la cannabis fu introdotto dal governo italiano nel 1961, con la sottoscrizione della convenzione internazionale chiamata “Convenzione Unica sulle Sostanze Stupefacenti” (cui fecero seguito quella del 1971 e quella del 1988). Nel 1975 la “legge Cossiga” contro gli stupefacenti ne vietò anche la coltivazione cosicché negli anni successivi anche gli ultimi ettari coltivati a canapa scomparvero.

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Oggi però c’è un rinnovato interesse verso la canapa. Tale pianta, come la descriveva il magazine americano Popular Mechanics nel 1938, “’Cresce rapidamente in una stagione […] Può essere coltivata in ogni stato […] Le sue lunghe radici penetrano il terreno e lo rompono, lasciandolo in perfette condizioni per la coltura dell’anno successivo. La densa massa di foglie, che arriva a 8-12 piedi da terra, soffoca le erbacce.” Attualmente, ai suoi classici utilizzi (tessuti, corde, olii e farine, medicinali, carta, materiali per l’edilizia) se ne sono aggiunti altri resi possibili dallo sviluppo delle tecniche di lavorazione (carburanti, energia). In Puglia l’idea di tornare a coltivare canapa è venuta ad un gruppo di ragazze e ragazzi (età media attorno ai 25 anni) che grazie ai fondi del bando Principi Attivi (un progetto della Regione Puglia per incentivare e finanziare le iniziative dei giovani) hanno messo su un’associazione che hanno chiamato Canapuglia con lo scopo di informare, fornire consulenze e assistenza a aziende e canapicoltori, organizzare corsi, progetti per le scuole, eventi di sensibilizzazione, visite guidate nelle piantagioni e giornate di studio, effettuare studi e ricerche scientifiche sulla cannabis terapeutica, creare una rete di aziende, associazioni e sostenitori. “Sappiamo bene che la civiltà della Canapa è stata uccisa dalla civiltà della Plastica” ha detto il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, che si è mostrato soddisfatto dell’iniziativa intrapresa da CanaPuglia. Il progetto ha anche vinto il Premio Ambiente Faraglioni di Puglia 2012 in quanto “progetto di straordinaria innovazione che ha aperto un mondo sconosciuto agli occhi di gran parte dell’opinione pubblica avviando un processo di sensibilizzazione sui concetti di eco-sostenibilità e bio-compatibilità promuovendo la coltivazione e l’impiego in diversi campi della Cannabis Sativa”. Già i primi 120 ettari sono stati seminati. “La cosa più bella” come ha affermato l’Assessore alle Risorse Agroalimentari, Fabrizio Nardoni “è che CanaPuglia è un progetto che parte dalla Puglia ma si è esteso e sta mettendo radici in tutta Italia.”

Fonte: il cambiamento

Un partner strategico al fianco di Nike per “ripulire” la catena di produzione

Silvia Ricci

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Per produrre 1 kg di tessuto di cotone si usano 700 litri di acqua (coltivazione esclusa).
Il consumo annuale di acqua della catena di produzione di una grande marca equivale a prosciugare 2000 laghi di piccole dimensioni. Per produrre 1 kg di tessile si producono un 50% di rifiuti vari. Le acque di lavorazione industriali, che in alcuni paesi non vengono neanche trattate, contengono ancora il 65% delle sostanze chimiche impiegate per il cotone e il 55%per le fibre sintetiche. Le sostanze chimiche impiegate per 1 kg di cotone vanno dai 345 ai 1050 grammi, per le fibre sintetiche si va dai 110 agli 829 grammi. Questi dati, che si trovano insieme ad altri, in un video sul sito di Bluesign Technologies inducono a considerare il mondo della produzione tessile come un “buco nero” insondabile. Da qui la necessità, soprattutto per i grandi marchi della moda che producono globalmente, di aderire ad un parternariato tecnico come quello offerto da Bluesign Technologies, società svizzera che mette a disposizione delle aziende che operano nel comparto tessile strumenti e soluzioni costantemente aggiornati ed innovativi. Tali supporti resi accessibili online permettono di individuare una vasta gamma di materiali completamente sostenibili e di sviluppare processi produttivi drasticamente meno impattanti a livello di inquinamento, emissioni e consumo di acqua ed energia. Nike il più grande produttore di abbigliamento sportivo ha annunciato lo scorso marzo di aver siglato un accordo di partnership strategica con BT per eliminare tutte le sostanze chimiche dannose dalla propria produzione e introdurre nuovi materiali innovativi più sostenibili.

Nike si mette in così in condizione di poter rispettare gli impegni assunti nel 2011, soprattutto a seguito delle accuse contenute nel rapporto ‘Detox‘ di Greenpeace rivolte a diversi marchi del mondo della moda anche prima della data del 2020 annunciata come termine massimo.

Fonte: eco dalle città