“La FAO smetta di collaborare con l’industria dei pesticidi”

Centinaia di migliaia di cittadini, rappresentati da diverse associazioni internazionali, si sono espressi contro la partnership fra la FAO e CropLife, una sigla che unisce le più grandi multinazionali della chimica applicata all’agricoltura. Sul fronte dei gruppi di lobbying positiva sono schierati anche molti rappresentanti dei popoli indigeni e del mondo scientifico e accademico. Pochi giorni fa la società civile e le organizzazioni dei popoli indigeni hanno consegnato più di 187.300 firme al Direttore Generale della FAO Qu Dongyu, chiedendo che la FAO ponga fine alla sua partnership con CropLife International, un’associazione che rappresenta le maggiori compagnie agrochimiche del mondo. La petizione globale è stata promossa da Pesticide Action Network (PAN), Friends of the EarthSumOfUs e il Center for International Environmental Law (CIEL).

Nella loro petizione, i firmatari hanno sostenuto che è “profondamente inappropriato” per l’agenzia delle Nazioni Unite collaborare con CropLife, le cui aziende associate (Bayer, Syngenta, Corteva Agriscience, FMC e Sumitomo) ottengono circa un terzo delle loro vendite da pesticidi altamente pericolosi (HHP), o pesticidi che pongono i massimi livelli di rischio per la salute e l’ambiente. Stime recenti mostrano 385 milioni di casi di avvelenamento acuto non intenzionale da pesticidi ogni anno, rispetto ai 25 milioni di casi stimati nel 1990. “Questo significa che circa il 44% degli agricoltori e dei lavoratori agricoli di tutto il mondo è avvelenato ogni anno dall’ industria dominata dai membri di CropLife”, si legge nella petizione.

PAN Europe, insieme ad altre organizzazioni, ha tenuto una mobilitazione davanti alla sede della FAO a Roma per accompagnare la consegna della petizione e per ricordare l’anniversario della tragedia di Bhopal, commemorata anche come Giornata mondiale senza uso di pesticidi. I sostenitori di tutto il mondo hanno anche partecipato a un Global Day of Action, manifestando dal vivo e sui social media, per sollecitare la FAO a fermare la #ToxicAlliance.

«I pesticidi hanno conseguenze disastrose sulla salute delle persone e sulla biodiversità, mentre la scienza dimostra che l’agroecologia può nutrire il mondo senza pesticidi. Non c’è alcuna giustificazione per la FAO in merito alla sua collaborazione con CropLife. Ci assicureremo che l’Unione Europea reagisca a questa situazione intollerabile», ha detto Martin Dermine, Policy officer di PAN Europe, presente a Roma per sollecitare la leadership della FAO ad abbandonare la sua controversa partnership con l’industria dei pesticidi.

«Più di 187.000 persone pensano che andare a letto con l’industria dei pesticidi sia una mossa sbagliata per la FAO. Questa partnership trasformerebbe la FAO in una leva di marketing per queste aziende, i cui prodotti avvelenano milioni di agricoltori ogni anno», ha detto Keith Tyrell, direttore di PAN Regno Unito.

«La partnership tra la FAO e CropLife minerà tutti gli sforzi fatti in Africa per vietare i pesticidi pericolosi, e lascerà la porta aperta all’esportazione di pesticidi vietati in Europa, come l’atrazina e il paraquat. Denunciamo e respingiamo con forza questa “alleanza tossica”, in quanto è infestata da conflitti d’interesse non noti al pubblico, a scapito della protezione della salute e della conservazione dell’ambiente», ha detto Maimouna Diene, coordinatore di PAN Africa.

«L’alleanza tra la FAO e CropLife implica una maggiore influenza sulle politiche pubbliche da parte delle aziende che producono e vendono pesticidi, soprattutto nei paesi più vulnerabili, dove viene favorita l’espansione delle monocolture e l’uso di pesticidi altamente pericolosi, che hanno un impatto dannoso sulla salute socio-ambientale. Al contrario, la FAO e i governi dovrebbero favorire la produzione agro-ecologica come base di un legame globale con l’ambiente per raggiungere la sovranità alimentare», ha detto Javier Souza, coordinatore regionale di PAN America Latina (RAPAL).

«La FAO non può mettere a repentaglio la sua integrità e le sue conquiste in agroecologia collaborando con l’industria responsabile della produzione di HHPs noti per causare danni gravi o irreversibili alla salute dei popoli o all’ambiente in tutto il mondo. Abbiamo bisogno di una FAO forte, indipendente dagli interessi di mercato delle corporazioni internazionali e che sostenga la creazione di sistemi alimentari e agricoli sicuri, sani e sostenibili», ha detto Susan Haffmans, responsabile dei pesticidi di PAN Germania.

«Non possiamo aspettarci che collaborare con un’associazione di centinaia di filiali di giganti multinazionali come Bayer e Syngenta – che hanno interessi personali ad aumentare le vendite dei loro prodotti – sia compatibile con gli obiettivi della FAO di ridurre la dipendenza dai pesticidi. Questa partnership infatti è incompatibile con il mandato della FAO come istituzione dell’ONU di proteggere i diritti umani, incluso il diritto ad un ambiente pulito, sano e sostenibile, che il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU ha recentemente riconosciuto», ha detto Simone Adler, co-direttore organizzativo di PAN Nord America. La consegna della petizione segue le lettere di appello presentate da oltre 350 organizzazioni internazionali della società civile, dei popoli indigeni e di 250 scienziati e accademici lo scorso anno, dopo la firma dell’accordo di partenariato tra la FAO e CropLife nell’ottobre 2020. Una coalizione di 11 organizzazioni globali, tra cui PAN, ha dato seguito a una richiesta formale per incontrare il direttore generale Qu, ma ad oggi non ha ancora ricevuto risposta.

«È allarmante il modo in cui il grande business domina i processi decisionali. Questa partnership di CropLife con la FAO rischia concretamente di espandere e consolidare il controllo corporativo su cibo e agricoltura. Non possiamo accettarlo», ha detto Sarojeni Rengam, direttore esecutivo di PAN Asia Pacific.

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/12/fao-industria-pesticidi/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Olio di palma sostenibile, il convegno mondiale a Kuala Lampur

La 12 esima Tavola rotonda sull’olio di palma sostenibile si terrà a Kuala Lampur dal 17 al 20 novembre.

L’olio di palma è un alimento, un grasso vegetale, che provoca la deforestazione. Lo usiamo tantissimo perché rende i prodotti da forno leggeri e friabili e avendo un gusto delicato non interferisce con gli altri sapori. Pensate che le attuali proiezioni di crescita della popolazione ci dicono che il consumo di olio di palma crescerà del 35 per cento entro il 2050 e questo incremento sarà concentrato in Asia, Africa e Sud America. Si ipotizza che qui l’urbanizzazione sarà sempre più elevata e che anche i redditi cresceranno e che dunque sarà possibile un maggiore consumo di cibo. Prendendo in considerazione questi fattori, la FAO (Food and Agriculture Organization delle Nazioni Unite) stima che la domanda alimentare globale aumenterà del 60 per cento mettendo sotto pressione i sistemi agricoli esistenti, ovvero si verrà a creare una maggiore competizione sull’uso della terra coltivabile e dell’acqua. In più dobbiamo considerare che risorse come azoto, fosfati, carburanti, pesticidi e lo stesso suolo graveranno sulla produzione agricola. A peggiorare le previsione il panel di esperti intergovernativi delle nazioni Unite sui cambiamenti climatici (IPCC) che hanno affermato in modo inequivocabile che i cambiamenti climatici saranno inevitabili. Dunque è questo lo scenario che sarà discusso alla 12 esima Tavola rotonda sull’olio di palma sostenibile, perché proprio la RSPO ha l’ambizione di portare in commercio solo olio di palma che per essere ottenuto tenga conto del rispetto del suolo e delle risorse e che non provenga da suoli che hanno subito la deforestazione. E’ un’ambizione appunto, perché la realtà è ben diversa e nel Borneo sopratutto intere aree sono state sacrificate alla palma da olio.Indonesia's Deforestation Rate Becomes Highest In The World

La RSPO Roundtable on Sustainable Palm Oil nasce nel 2003 come piattaforma per riunire governi, investitori, produttori, commercianti e la società civile nell’ elaborare criteri per la
produzione sostenibile dell’olio da palma. Da allora il primo carico di olio di palma sostenibile e certificato CSPO si è avuto nel 2008 e nel 2010 erano già 25 mila i piccoli agricoltori certificati. Nel 2011 nasce il marchio di certificazione RSPO e nel 2013 si è completata la certificazione per tutta la filiera di approvvigionamento. Attualmente l’olio di palma certificato RSPO è pari al 15 per cento della fornitura globale facendo registrare un punto percentuale di aumento dal 2012. Nonostante questo aumento dell’offerta di olio CSPO resta ancora molto lavoro da fare. E la strada scelta è appunto quella del dialogo.

Fonte:  RT12

© Foto Getty Images

“Meeting urban food needs”, il progetto della FAO in collaborazione con l’Università di Torino

Il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino e la FAO siglano una partnership per lo studio delle dinamiche dei sistemi complessi. Il progetto si chiama “Meeting urban food needs” e si propone di fornire ai governi locali strumenti per migliorare la sostenibilità del sistema alimentare379625

Che la distribuzione delle risorse alimentari sia un problematica che interessa la popolazione su larga scala è un dato ben noto. Una constatazione che ha portato allo sviluppo del progetto “Meeting urban food needs” da parte della FAO. Un studio che si propone di ricercare il modo in cui i sistemi che producono e distribuiscono le risorse alimentari possono soddisfare i bisogni della popolazione. Lo studio di queste dinamiche vuole portare i governi locali, infatti, ad intraprendere azioni e strumenti per migliorare la sostenibilità del sistema alimentare.
Ad accompagnare la FAO nel suo progetto anche il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino, che ha deciso di offrire le proprie competenze e conoscenze in campo sociale al fine di raggiungere il benessere della popolazione proprio grazie all’integrazione di due ambiti strettamente connessi.
Si tratta di unire la necessità di migliorare i sistemi di approvvigionamento e di distribuzione alimentare con la consapevolezza del fondamentale ruolo sociale di attività rivolte alla collettività.

Fonte: ecodallecittà.it

Slow Food e Fao unite per il 2014, anno dell’agricoltura familiare

Patto di ferro fra i due organismi internazionali a sostegno della biodiversità104523432-586x367

Si consolida la collaborazione fra Slow Food e la Fao. Lo scorso maggio Carlo Petrini e José Graziano Da Silva hanno siglato un protocollo di intesa per dedicare il 2014 all’agricoltura familiare. In una conferenza tenutasi di recente a Bruxelles, Da Silva ha affermato che l’agricoltura familiare deve essere considerata un’opportunità da valorizzare e non un elemento marginale dell’economia. Il direttore generale della Fao ha inoltre aggiunto come si debba passare dal modello fast food di produzione massiva e commercio su larga scala, al paradigma Slow Food basato sui circuiti locali e la varietà dei prodotti tradizionali. La produzione locale e la dimensione familiare della produzione sono uno dei principi cardine sui quali Slow Food ha costruito la sua storia e uno dei primi passi della collaborazione fra Fao e Slow Food è la pubblicazione de La Quinoa in cucina, un libro presentato ieri a Roma che è un’esempio degli sforzi che Slow Food opera in tutti e cinque i continenti per la preservazione delle coltivazioni tradizionali e dimenticate. Il libro è scaricabile in formato Pdf.

La quinoa è solo l’inizio. Secondo Da Silva,

Durante il 2014 FAO e Slow Food lavoreranno nel recuperare la ricchezza delle ricette locali custodite dalle comunità e soprattutto dalle madri che nelle case utilizzano i cibi locali per sfamare le proprie famiglie.

Carlo Petrini, presidente di Slow Food, ha ribadito quello che sarà il contributo di Slow Food all’agricoltura familiare: verranno organizzati mercati locali, orti scolastici e di comunità, verrà favorito l’accesso al mercato per i piccoli produttori e verrà catalogata la biodiversità agroalimentare a rischio scomparsa. E in autunno si rinnoverà l’appuntamento con il Salone del Gusto e Terra Madre l’appuntamento con cadenza biennale che farà convergere nei padiglioni del Lingotto di Torino contadini e produttori da tutti e cinque i continenti.

Fonte: Slow Food

Nelson Mandela morto: la FAO ricorda Madiba:”Un uomo affamato non è mai libero”

Nelson Mandela è morto ieri all’età di 95 anni. La FAO ricorda Madiba per le sue lotte legate anche al diritto al cibomandela-594x350

La morte di Nelson Mandela scuote il mondo. Aveva 95 anni è stato Premio Nobel per la Pace e primo presidente del Sud Africa post apartheid, eletto nel 1994 e ha trascorso un terzo della sua vita in carcere per aver lottato contro l’apartheid e per i diritti umani. La FAO, Food and Agriculture Organization of the United Nations ricorda Madiba anche per il suo continuo sostegno al diritto al cibo. Infatti ha appena dichiarato il Direttore Generale José Graziano da Silva:

Abbiamo perso uno dei difensori del diritto al cibo più appassionati nel mondo. Mandela capì che un uomo affamato, donna o bambino, non poteva essere veramente libero. Ha capito che per eliminare la fame non si doveva produrre più cibo ma garantire l’impegno politico alle persone per avere accesso alle risorse e ai servizi di cui avevano bisogno per comprare o produrre abbastanza cibo sicuro e nutriente. Era un vero campione dei diritti umani: Nelson Mandela capì che la fame di milioni di persone è ingiusta e insostenibile. In FAO, ci siamo ispirati nel corso degli anni ai ripetuti appelli di Mandela per affrontare la fame e le numerose crisi sociali ed economiche che o hanno portato alla fame o alla difficoltà di accesso al cibo in un mondo di abbondanza.

Dal 2009 le Nazioni Unite hanno istituito il 18 luglio il Nelson Mandela International Day e Graziano da Silva ha detto che è giusto che il governo Sudafricano abbia scelto per evidenziare i problemi di sicurezza alimentare e della nutrizione il 95° compleanno di Mandela quest’anno, anche se il presidente e attivista anti-apartheid ex era troppo malato per partecipare. Ha concluso Graziano da Silva:

Mandela è stato fonte di ispirazione per me in 30 anni di lavoro per migliorare la sicurezza alimentare nel mondo e continuerà ad ispirare il nostro lavoro presso la FAO: lo dobbiamo ai 842 milioni di persone nel mondo che soffrono la fame cronica a per raddoppiare i nostri sforzi per eliminare la fame nel corso della nostra vita.

Fonte: ecoblog.it

Spreco di cibo e impatto ambientale, presentato Rapporto FAO

È stato appena presentato a Roma un nuovo Rapporto FAO sullo sperpero di cibo a livello globale che, per la prima volta, si focalizza sulle conseguenze ambientali del problema. In particolare lo studio si sofferma sull’impatto ambientale dello spreco alimentare su clima, risorse idriche, utilizzo del suolo e biodiversità.perdita_alimentare

È stato presentato qualche giorno fa a Roma un nuovo ed importante Rapporto FAO sullo sperpero di cibo a livello globale che, per la prima volta, si focalizza sulle conseguenze ambientali del problema. Lo studio, dal titolo “The Food Wastage Footprint-Impacts on Natural Resources”(“L’impronta ecologica dello sperpero alimentare: impatto sulle risorse naturali”, n.d.a.), mette in evidenza l’impatto devastante che le perdite alimentari hanno sull’ambiente e, in modo particolare, sul clima, sulle risorse idriche, sull’utilizzo del territorio e sulla biodiversità. Prima di entrare nei dettagli è importante fare un po’ di chiarezza e precisare il significato dei termini “perdita”, “spreco” e “sperpero”. Per perdita alimentare s’intende la riduzione non intenzionale del cibo destinato al consumo umano. Tale riduzione non intenzionale deriva da una serie di inefficienze presenti nella catena di approvvigionamento alimentare, quali ad esempio la carenza di infrastrutture e logistica e la mancanza di tecnologia, competenze o capacità gestionali. La perdita di cibo avviene principalmente nelle fasi di produzione e di lavorazione post-raccolto, cioè quando i prodotti rimangono sul campo o quando vengono scartati durante le fasi di lavorazione, immagazzinamento e trasporto. Il termine spreco alimentare, invece, si riferisce allo scarto intenzionale del cibo (destinato al consumo umano e) ancora perfettamente commestibile. Lo scarto, in questo caso, è dovuto al comportamento tenuto dalle aziende e dai singoli individui, soprattutto da parte di esercenti e consumatori finali. L’espressione sperpero alimentare, infine, indica l’insieme di perdite e sprechi. Il Rapporto FAO sottolinea come lo sperpero di 1,3 miliardi di tonnellate di cibo all’anno (che corrispondono ad un terzo del cibo prodotto in tutto il mondo) genera non solo enormi costi economici, ma anche ambientali. I costi economici dello sperpero – che includono solo i costi diretti ed escludono dal conteggio pesci e frutti di mare – vengono quantificati in 750 miliardi di dollari all’anno. A questi elevati costi economici si aggiunge l’impatto devastante dello sperpero sulle risorse naturali del pianeta, quelle stesse risorse da cui dipende la sopravvivenza degli esseri umani. Si calcola che ogni anno, sempre a livello globale, il cibo prodotto ma non consumato sperpera un volume d’acqua pari alla portata del fiume Volga; consuma 1,4 miliardi di ettari di terreno (il 30% circa della superficie agricola mondiale) ed immette in atmosfera 3,3 miliardi di tonnellate di gas effetto serra.

Dallo studio FAO emerge che il 54% dello sperpero totale si verifica ‘a monte’, cioè durante le fasi di produzione, raccolto e primo immagazzinamento e, quindi, è ‘perdita’ alimentare, mentre il 46% dello sperpero avviene ‘a valle’, nelle fasi di trasformazione, distribuzione e consumo e, quindi, ed è ‘spreco’. Le perdite alimentari, in generale, si concentrano nei paesi a basso reddito e in via di sviluppo, mentre gli sprechi alimentari sono una caratteristica dei paesi ad alto e medio reddito. Un interessante capitolo, inoltre, rende noto che più un prodotto ‘va avanti’ lungo la catena produttiva, maggiore è la sua impronta ambientale, poiché i costi ambientali che vengono sostenuti ‘a valle’ – durante la lavorazione, il trasporto, lo stoccaggio ed il consumo – vanno a sommarsi ai costi ambientali iniziali, quelli già avvenuti ‘a monte’ – durante la produzione e il raccolto. Detto in parole povere: prima un alimento viene consumato rispetto alla catena produttiva, meglio è per tutto il pianeta.spreco__alimentare

I dati sono impressionanti: mentre il volume dello sperpero di carne è, tutto sommato, relativamente basso, il settore genera un impatto ambientale elevato in termini di occupazione del suolo ed emissioni di carbonio, in particolare nei paesi ad alto reddito che, da soli, sono responsabili dell’67% di tutto lo sperpero di carne – e se a questi aggiungiamo l’America Latina si arriva all’80%. Lo sperpero di cereali ha notevoli ripercussioni sulle emissioni di carbonio, sull’uso delle risorse idriche e del suolo del continente asiatico. Ma è la produzione di riso, in modo particolare, a causare elevate emissioni di metano e sperpero alimentare nella regione. Lo sperpero di frutta contribuisce in modo significativo al consumo di acqua in Asia, America Latina ed Europa, mentre quello di verdura in Europa, Asia e Sud-est asiatico. Si tratta di sperperi inammissibili, se teniamo presente che oltre 800 milioni di persone sul pianeta soffrono la fame. “Oltre all’imperativo ambientale, ve n’è anche uno di natura etica: non possiamo permettere che un terzo di tutto il cibo che viene prodotto nel mondo vada perduto o sprecato a causa di abitudini inappropriate-inopportune, quando vi sono 870 milioni di persone che soffrono la fame”, ha sottolineato José Graziano da Silva, Direttore Generale FAO, durante la presentazione del Rapporto. “Tutti noi”, ha continuato, “agricoltori e pescatori, lavoratori del settore alimentare e supermercati, governi locali e nazionali, singoli consumatori – dobbiamo apportare dei cambiamenti ad ogni anello della catena di approvvigionamento alimentare al fine di evitare, in primo luogo, lo sperpero di cibo e dobbiamo riutilizzare o riciclare il cibo, laddove è possibile”. Per questo, insieme al nuovo studio, la FAO ha pubblicato anche un interessante manuale che spiega come ridurre le perdite e gli sprechi alimentari durante ogni singola fase della catena produttiva. Il manuale, che si intitola “Toolkit: Reducing the Food Wastage Footprint” (“Guida pratica: come ridurre l’impronta ecologica dello sperpero alimentare”, n.d.a.), rende note anche molte esperienze positive che documentano come governi nazionali, enti locali, agricoltori, aziende e singoli consumatori abbiano adottato misure efficaci per fronteggiare il problema.

Fonte: il cambiamento

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L’allevamento potrebbe ridurre del 30% le emissioni di gas serra

Il 15% delle emissioni antropiche di Co2 è dovuto agli allevamenti di bestiame. Il rapporto della Fao pubblicato ieri non si limita a fotografare la situazione ma fornisce soluzioni per il futuro161753696-586x381

L’impatto degli allevamenti sull’ambiente resta altissimo: da solo rappresenta un sesto delle emissioni globali di gas serra, fra le principali responsabili dei cambiamenti climatici. Il bestiame emette nell’aria 7,1 gigatonnellate di Co2 l’anno, ovverosia il 15% di tutte le emissioni antropiche ed è per questa ragione che molte istituzioni internazionali e Ong chiedono che venga ridotto il consumo di carne che, invece, è in crescita costante. Secondo un rapporto pubblicato ieri dalla Fao è possibile ridurre tali emissioni del 30% con l’implementazione delle buone pratiche e delle tecnologie attualmente esistenti. Lo studio – il più completo mai effettuato dall’agenzia fino a ora – ha preso in esame la produzione e il trasporto di alimenti per animali, l’utilizzazione delle biomasse per produrre energia, la fermentazione del letame, ma anche il trasporto, la refrigerazione e il confezionamento di prodotti animali dopo la macellazione. Le principali fonti di emissione causate dall’allevamento sono risultate essere: la produzione e la trasformazione degli alimenti (45%), la digestione dei bovini (39%) e la decomposizione del letame (10%). Il rapporto della Fao prende in esame anche le tipologie di allevamento: due terzi delle emissioni sono legati agli allevamenti bovini (65%), seguiti da gli allevamenti di suini (9%), la produzione di pollame e uova (8%) e bisonte (8%). Questi animali emettono nell’aria per il 44% metano, per il 29% ossido di azoto e per il 27% anidride carbonica. Come si può ridurre le emissioni? Secondo la Fao, un decremento dal 18 al 30% si potrebbe ottenere semplicemente adottando pratiche già esistenti ma adottate, finora, solamente dal 10% dei produttori. Si tratta di buone pratiche che riguardano l’alimentazione animale (fieno che viene digerito meglio, con più fibre), la genetica (le specie potrebbero essere incrociate in modo da emettere meno gas) e l’allevamento (la gestione dei pascoli). La Fao raccomanda, inoltre, una migliore gestione del letame e lo sviluppo di tecnologie attualmente poco utilizzate come i generatori di biogas grazie alla digestione anaerobica e i dispositivi di risparmio energetico.

Questi vantaggi si possono ottenere migliorando le pratiche esistenti , e non è necessario interrompere i sistemi di produzione . Ma abbiamo bisogno di migliori politiche e, soprattutto, di un’azione comune. Con la crescente domanda di prodotti del settore alimentare, in particolare nei paesi in via di sviluppo è imperativo che l’industria inizi a lavorare da subito sulla riduzione delle emissioni gas, al fine di contribuire a compensare l’aumento delle emissioni globali che comporterà la futura crescita della produzione di bestiame

ha detto Ren Wang, Vice Direttore generale della Fao responsabile per l’Agricoltura e la tutela dei consumatori.

Fonte:  Le Monde

 

E’ lo spreco di cibo il vero disastro ecologico mondiale avverte la FAO

La FAO avverte che lo spreco alimentare è pari a un disastro ecologico, perché i Paesi ricchi producono più cibo di quel consumano175628202-594x350

Il rapporto FAO Foodwastage footprint Impacts on naturalresources pubblicato oggi rivela che lo spreco alimentare e agricolo costa ogni anno al Pianeta 750 miliardi di dollari ossia 565 miliardi di euro. Si spreca così non solo cibo ma acqua, pari a tre volte quella contenuta nel Lago di Ginevra, ma anche suolo agricolo impegnato per colture che saranno poi gettate via con emissioni sono pari a quelle di Cina o Stati Uniti in 6 mesi. Gettiamo via ogni anno 1,6 miliardi di tonnellate di prodotti alimentari che vanno a costituire così una montagna di spreco appunto definita dalla Fao come disastro ecologico.  Nel rapporto si legge:

A livello globale, l’acqua potabile sprecata rappresenta quasi tre volte il volume del lago di Ginevra o al volume di flusso annuale del Volga.

Ma sopratutto la FAO afferma che la riduzione delle perdite in agricoltura e di cibo potrebbe contribuire in modo significativo al raggiungimento dell’obiettivo di aumento del 60% in cibo disponibile per soddisfare le esigenze della popolazione globale nel 2050. Secondo la FAO, il 54% delle perdite sono registrate nelle fasi di produzione, raccolta e stoccaggio. Il resto è spreco alimentare in senso proprio, in fase di preparazione, distribuzione o consumo. Nei paesi ricchi, è il secondo tipo di spreco a dominare. Gli esperti hanno cercato di determinare quali sono le regioni e prodotti agricoli che causano gli impatti ambientali In Asia si sprecano più cereali e ciò a causa degli alti volumi di produzione nel Sud-Est asiatico e l’Oriente e del peso del riso, che emette grandi quantità di metano. I ricchi paesi dell’America Latina sono responsabili dell’80% dello spreco di carne, che:

hanno un forte impatto in termini di uso del suolo e di emissioni di anidride carbonica.

Mentre lo spreco di frutta in Asia, America Latina ed Europa sono tra le principali cause di spreco di acqua. Per rimediare a questa situazione, la FAO raccomanda di migliorare le pratiche agricole e gli impianti di stoccaggio e di trasporto nei paesi in via di sviluppo e sottolinea che i paesi ricchi hanno: una grande responsabilità per i rifiuti alimentari a causa del loro modo di produzione e di consumo non durevoli.

Fonte:  Le Monde

La FAO apre la caccia alle meduse

La pesca eccessiva riduce la varietà ittica del Mediterraneo e lascia spazio alla proliferazione delle meduse. E’ l’allarme lanciato oggi dalla FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, in un nuovo rapporto sulle condizioni del Mare Nostrum e del Mar Nero.

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Questi animali planctonici dal corpo gelatinoso si stanno infatti rapidamente diffondendo complici la penuria di specie ittiche predatorie, condannate a morte da pratiche di pesca che stanno letteralmente distruggendo il Mediterraneo e dall’innalzamento delle temperature. Inoltre, secondo lo studio dell’Agenzia ONU, il processo in atto è un vero e proprio circolo vizioso in cui, se da una parte le urticanti meduse trovano campo libero per la proliferazione, dall’altra – alimentandosi delle larve dei pesci – impediscono alle specie marine di potersi riprendere il loro spazio. Il risultato è un mare sempre più “deserto” e sormontato, complici le correnti, da jellyfish sempre più diffuse e agguerrite. Per questo motivo, la FAO auspica che la pesca possa “ridimensionarsi”, assumere una forma “artigianale” e di piccola scala e che possa cominciare a dare tregua alle specie predatorie e di maggiori dimensioni, quali pesci spada, tonni, ecc. per concentrarsi proprio sulle meduse. L’organizzazione delle Nazioni Unite, infine, sottolinea che la fauna marina mediterranea ancora risente dall’incredibile impennata delle meduse Pelagia che si verificò nel mare Adriatico circa 30 anni fa.

Fonte:  FAO

Torino, storia voci e bilancio del pranzone gratis di Piazza Vittorio

Secondo gli organizzatori sono stati distribuiti 2.800 pasti. Un record in Italia, nonostante non si sia registrato il tutto esaurito. Presente il Ministro dell’Ambiente, interventi di Don Ciotti e altre personalità coordinati da Patrizio Roversi. Da dove venivano e dove sono finiti i materiali “edibili”375142

video di Michele Dicanosa e Giuseppe Iasparra

articolo di Silvia Caprioglio:

Eating City, non c’è stato il caos che qualcuno paventava….non tutta la città si fa attirare dal pasto gratuito: e quindi “Eating City – La città che mangia”, grande pranzo collettivo gratuito in piazza Vittorio, realizzato con prodotti di scarto recuperati dalla grande distribuzione e destinato a 3000 persone, per sensibilizzare sulla lotta agli sprechi alimentari si è svolto senza concitazione. I pasti serviti, secondo gli organizzatori, sono stati 2800, solo 200 in meno di quelli preparati

 

 

Complice il tempo estivo, che a dispetto della crisi deve aver spinto più d’uno alla gita fuori porta, o una comunicazione meno capillare del necessario, o…chissà… abbiamo un sondaggio in proposito… alla fine si è persino avanzato qualcosa. La lusinga del pasto gratis ha attirato 2800 persone, a fronte dei 3000 pasti preparati, sufficienti, in caso di maxi affluenza, anche per 3700 persone. Sotto un solleone che ha sfiorato i 30 gradi, si è tenuto in piazza Vittorio “Eating City – La città che mangia”, un grande pranzo collettivo gratuito preparato con cibo di recupero dalle eccedenze della grande distribuzione della provincia di Torino. Un’iniziativa nell’ambito del programma degli Smart City Days organizzata da Risteco, azienda impegnata nella logistica della ristorazione, con il patrocinio di Fao Onu, per sensibilizzare sul tema della lotta agli sprechi alimentari. Una missione non così facile da conseguire. “Pur se con fatica – spiega Andrea Segrè, animatore dell’evento, professore ordinario di Politica agraria e presidente di Last Minute Market –, sta aumentando la sensibilità contro lo spreco, anche “grazie” alla crisi, che rende sempre più difficoltoso per le famiglie riuscire ad arrivare alla fine del mese”. Missione compiuta per Gaetano Capizzi, direttore artistico di Smart City Days. “È stato il più grande evento di questo tipo in Italia. L’obiettivo era proporre un’azione politica contro gli sprechi per mettere in evidenza un problema reale. La campagna di informazione mirava ad attirare circa 3000 persone, e la risposta della gente non si è fatta attendere. Era importante anche solo supportare l’idea alla base del progetto con la propria presenza, decidendo poi di pranzare altrove come molti hanno fatto”. Ecco dunque i numeri della manifestazione: il menù – caponata, tortino di verdure e una pesca – è stato realizzato con l’impiego di 2 tonnellate di materia prima, 1,5 tonnellate di verdure e mezza tonnellata di frutta. Sono stati 2800, secondo Maurizio Mariani, presidente di Risteco, i pasti serviti; 200 dunque quelli avanzati, destinati, secondo l’impegno dichiarato, alle associazioni di volontariato del territorio, contattate una volta che si è verificato che i pasti preparati non sono stati tutti distribuiti. La materia prima di recupero per più della metà era di “quarta gamma”, recuperata dalla produzione industriale, e per la restante parte – le verdure per la caponata – recuperando l’invenduto dei mercati generali, quindi dal circuito all’ingrosso. I rifiuti prodotti, compresi vassoi e posate biodegradabili, nelle intenzioni dovevano essere tutti di tipo organico; rifiuti urbani differenziabili, raccolti dall’Amiat. Dunque, a monte c’è stato un recupero iniziale di frutta e verdura destinate a diventare “rifiuti speciali” (i rifiuti dell’industria e della grande distribuzione), per i quali vige un sistema di smaltimento ad hoc, e diventati poi , alla fine, rifiuti urbani (tipicamente quelli domestici e della piccola distribuzione). Raccolti quasi tutti come Organico. “Per grandi eventi come Eating City – sostiene Mariani – è difficile andare a ridurre i rifiuti urbani raccogliendo la materia prima di scarto dai piccoli negozi. Il problema è logistico: si rischia che l’inquinamento prodotto per raccogliere gli scarti tra tanti piccoli commercianti sia maggiore del vantaggio riconducibile alla riduzione degli scarti stessi”. Alcune pecche sono inoltre da segnalare nella raccolta dei rifiuti prodotti in seguito all’evento: un bidone non aveva indicata la tipologia di rifiuti da conferire; cumuli di carta sporca sono stati gettati nel bidone della carta invece che in quello dell’organico; i bicchieri, apparentemente di plastica ma in realtà compostabili, sono stati in un paio di casi gettati nella plastica invece che nell’organico. Ma in generale tutto è filato liscio perché attorno ai tavoli dove si è mangiato c’era un solo tipo di contenitore. Le dichiarazioni del ministro dell’Ambiente Andrea Orlando nel corso di Eating City: “L’articolo 9 della Costituzione parla di tutela del paesaggio – ai tempi non si parlava ancora di “ambiente” –; l’articolo 3 allude a una redistribuzione del reddito. Un evento come Eating City è un modo per raccogliere questi stimoli e sperimentare un modello alternativo di sviluppo. A lungo l’ambiente è stato visto come un vincolo e non come un’opportunità, anche economica, ad esempio di turismo. Occorrerebbe ripensare tutti i ministeri tenendo in considerazione le ripercussioni sull’ambiente. Porterò in Consiglio dei ministri una legge sul consumo del suolo; vorrei riuscire nel corso del mio mandato a far sì che sia introdotto nel Codice penale il reato di delitto ambientale, e che venisse approvata una legge sull’acqua come bene pubblico. Mi piacerebbe lasciare il ministero con meno procedure di infrazione a carico dell’Italia da parte dell’Europa: attualmente, su un centinaio di procedure, oltre 30 sono su questioni ambientali”. Come la sera precedente, anche in occasione del pranzo ci sono state delle proteste dal contenuto ambientalista (riportiamo in allegato il volantino). La sera precedente al Cinema Ambiente era soprattutto una protesta Notav. In questo caso il volantino contestava le aziende della distribuzione alimentare, accusandole di creare in settimana lo spreco che affermano di contrastare in questa estemporanea iniziativa domenicale.

Un aspetto importante: l’organizzazione dei rifiuti al pranzone

Rassegna stampa

Il “menù degli sprechi” è servito Tremila a pranzo in piazza Vittorio – da La Stampa del 03.06.2012

Tutti in coda per il pranzo degli avanzi – da La Repubblica del 03.06.2013

Fonte: ecodallecittà